IX. Mutamenti di scenario

1. Dal maggio francese all’agosto cecoslovacco.

L’anno dell’esplosione internazionale dei movimenti studenteschi era scandito al tempo stesso da alcuni «eventi» destinati a segnarne la cornice. Si apriva con l’«offensiva del Tet», che costringeva il presidente americano Johnson ad annunciare la sospensione dei bombardamenti sul Vietnam e la sua decisione di non candidarsi alle imminenti elezioni presidenziali.

Irrompeva poi il «maggio francese», che proponeva due messaggi sostanzialmente contraddittori. Da un lato vi erano gli slogan dell’«immaginazione al potere», l’appello alla fantasia e a forme nuove di liberazione, l’invito a «non consumare Marx» e a «cominciare dai sogni»:

Corri compagno, il vecchio è dietro di te.

Vietato vietare.

I muri hanno orecchie. Le vostre orecchie hanno muri.

Siate realisti. Chiedete l’impossibile.

Non liberatemi. Lo faccio da solo.

Esagerare vuol dire cominciare a inventare.

Io decreto lo stato di felicità permanente.

Le mozioni uccidono le emozioni.

La poesia è nelle strade1.

D’altro lato però il «maggio» evocava una visione – o un fantasma – di rivoluzione che sembrava inserirsi in una lunga storia e rimandare – insieme – alla Comune del 1871 e all’ottobre del 19172. Era una visione che «aggiornava» ma al tempo stesso riproponeva schemi tradizionali del movimento comunista3: con i richiami insistiti al ruolo della classe operaia e alla necessità di un partito rivoluzionario capace di guidare le agitazioni sino alla presa del potere statale. Anche la novità costituita dal movimento studentesco era inserita a forza in questo quadro: i primi a farlo erano gli stessi studenti francesi, convinti che la bandiera della rivolta passasse dalle loro «fragili mani» a quelle degli operai4. L’«attualità» della rivoluzione sembrava dunque il «messaggio forte» del maggio, con la tumultuosa espansione di occupazioni e scioperi dalle università alle fabbriche, e con la messa in discussione delle organizzazioni storiche del movimento operaio.

Attorno a questi nodi ruotano gli articoli pubblicati allora in un numero di «Problemi del socialismo» (la rivista di Lelio Basso) che ha come tema Francia: una rivoluzione mancata? André Gorz, ad esempio, sottolineava sia la straordinaria spontaneità dei moti, sia il «massimalismo obiettivo» dello sciopero generale di maggio. Esso, scriveva, «si è presentato come un rifiuto totale e indifferenziato del regime e della società capitalistica: bisognava vincere subito e in modo completo, altrimenti non si conquistava nulla; era il tutto o niente». Quello sciopero, aggiungeva Gorz, «è stato condotto nella stessa misura contro il potere e contro gli apparati politico-sindacali della classe operaia. Non è stato previsto, né preparato né analizzato da quegli apparati. Ha rivelato il distacco esistente fra la massa operaia e i suoi dirigenti»5. Queste considerazioni traevano forza anche dalle rigidità e dalle chiusure del Partito comunista francese: protervo, quasi, nell’alimentare l’ostilità operaia verso gli studenti6, e nello spingere poi con decisione per la chiusura dei conflitti.

L’ambivalenza prima evocata ritornava anche in altre analisi: ad esempio in quella di Lucio Magri, allora dirigente comunista e futuro fondatore del «manifesto». La rivoluzione – scriveva Magri – «torna ad assumere come proprio contenuto diretto la libertà e la felicità di ognuno, si libera della sclerosi del linguaggio politico e del gioco di potere, torna a parlare, quasi senza mediazioni, all’uomo comune»7. Concludeva però, liquidando la «polemica libertaria contro il partito»: «le condizioni nuove della lotta rivoluzionaria nel capitalismo avanzato paiono non solo confermare ma rendere più evidente la necessità di una forza politica […] che medi varie spinte spontanee, le ordini in un progetto strategico, le guidi secondo precise scelte tattiche»8. Nel dibattito interno si parla più chiaro e Achille Occhetto sintetizza, in una riunione della direzione del Pci: «in Francia quello che è mancato è stato il partito»9. Dal canto suo il gruppo pisano de Il Potere operaio10 scriveva:

Nonostante che le lotte operaie siano dirette dal basso, dai comitati operai di base, nonostante che sempre più numerosi gli operai scendano in piazza a battersi con gli studenti, manca l’organizzazione rivoluzionaria che diriga i proletari verso la distruzione dello stato borghese, verso il socialismo11.

Ce n’era abbastanza per stritolare le riflessioni sulle nuove forme della trasformazione individuale e collettiva o le molteplici analisi del «potere diffuso» nella società contemporanea: analisi presenti nella stessa Italia, oltre che nei movimenti studenteschi e nell’underground di altri paesi (dagli Stati Uniti alla Germania o all’Olanda). Su questa contraddizione ritornerà vent’anni dopo il leader del ’68 francese, Daniel Cohn Bendit: «bisogna accettare l’ambivalenza del maggio, il suo arcaismo e la sua modernità. Era un misto fra l’ultima rivoluzione del XIX secolo e un movimento nuovo, inedito, che poneva i problemi della fine del XX secolo. Noi siamo stati, allora, prigionieri della mitologia»12.

Anche in Italia negli studenti più impegnati nel movimento si rafforzò allora la convinzione che fosse necessario un rapporto stretto, organico con la classe operaia. Per questa via, ha osservato Vittorio Foa, il movimento studentesco «non si espanse nelle fabbriche, esso vi si chiuse, vi andò per prendere in prestito l’ideologia rivoluzionaria, un’ideologia che però non era più su una pista di lancio per la conquista del mondo ma era ormai su una stanca linea difensiva». In altri termini, «la casa della rivoluzione» sembrava

già pronta per gli studenti, non c’era che da andare ad abitarla portandovi un po’ di freschezza. La visione originaria di un potere diffuso che imponeva mille spazi di confronto e di conflitto si riduceva di nuovo al tradizionale conflitto contro lo stato e contro il capitale. Straordinarie energie giovanili furono disperse nel riscoprire e ripetere la Dottrina; nel ricostruire, spesso come caricatura, quello che si era pensato di mandare al macero13.

Questi giudizi delineano bene l’itinerario futuro della sinistra extraparlamentare, e in questo «recupero del rivoluzionarismo e del classismo più ortodosso»14 il maggio francese ha un ruolo centrale15. Inoltre, la sua «visibilità» contribuiva ad appannare l’ampiezza e lo spessore di quella Francia che a giugno decreterà invece il successo elettorale del generale De Gaulle. Aiutava a non interrogarsi davvero sulle realtà sociali che avevano portato a quell’imprevisto esito.

La forza straordinaria del «maggio» contribuiva al tempo stesso a far retrocedere sullo sfondo, quasi a «cancellare» le grandi e drammatiche questioni aperte dai movimenti studenteschi nei paesi del «socialismo reale» e dal «nuovo corso» di Praga. Già prima, in verità, avevano avuto scarsa eco le richieste di libertà degli studenti polacchi e la durissima repressione che essi subiscono (assieme ai professori solidali con loro), dopo un’offensiva del regime intrisa di accenti antisemiti. Attenzione ancora minore ricevono le manifestazioni degli studenti jugoslavi che chiamano in causa la «borghesia rossa» e la «gerontocrazia» gelosa dei suoi privilegi: eppure vi echeggiano toni non lontani da quelli delle università francesi e italiane (anche qui con la «festa della salute, dell’allegria, del lasciarsi andare»): «Mi sono scritto solo quattro parole», dice in un’assemblea uno studente di Belgrado: «la prima è uguaglianza, la seconda è diversità, la terza è emozione, l’ultima è solidarietà»16.

È la Cecoslovacchia però il vero «banco di prova» della cultura dei partiti comunisti e dei movimenti studenteschi: e rivela i limiti profondi degli uni e degli altri.

I carri armati dell’Urss e dei paesi del Patto di Varsavia che il 21 agosto invadono il paese non stroncano solo il «nuovo corso», i processi di democratizzazione avviati, la mobilitazione di energie intellettuali e speranze17. Il dramma di Praga sancisce in modo definitivo che il «socialismo reale» non è riformabile: né quello sovietico né quello di altri paesi.

Lo mostrano in modo chiaro i giudizi dei partiti e dei leader che avevano alimentato l’illusione di un «socialismo diverso». La Cecoslovacchia – dice Fidel Castro – «marciava verso una situazione controrivoluzionaria, verso il capitalismo e nelle braccia dell’imperialismo […] noi accettiamo l’amara necessità dell’invio di truppe in Cecoslovacchia e non condanniamo i paesi socialisti che hanno preso questa decisione»18. Un primo, sinistro stridore veniva dunque da una rivoluzione che sembrava aver unito rigore etico, ansia libertaria e coerenza intellettuale sino al sacrificio.

Il secondo segnale veniva dal Partito comunista del Vietnam del Nord: in Cecoslovacchia, affermava il suo comunicato ufficiale, era necessario «difendere il regime socialista» dall’attacco delle «forze controrivoluzionarie» (cioè del partito comunista guidato da Dubček!). «È per questo nobile scopo – concludeva – che i combattenti delle forze armate dell’Urss e dei suoi quattro alleati sono penetrati mercoledì mattina in territorio cecoslovacco»19.

Nelle posizioni cinesi, infine, la condanna della «cricca dirigente revisionista sovietica» si accompagnava all’attacco alla «cricca dei rinnegati revisionisti cecoslovacchi» che, «mettendosi al passo con il revisionismo sovietico», aspiravano anch’essi a «mettersi sotto l’ala dell’imperialismo americano»20.

Sono davvero messaggi «di un altro secolo». Resta da spiegare come essi – in particolare quelli «cinesi» – fossero prevalenti anche nelle posizioni dell’estrema sinistra occidentale, che già nei mesi precedenti aveva criticato il «nuovo corso» cecoslovacco per l’introduzione dei meccanismi di mercato (e quindi del capitalismo) e per la rivendicazione delle «libertà borghesi». Ora essa condannava, insieme, l’intervento sovietico e la «via cecoslovacca»: i carri armati e il «buon padrone Dubček», l’«imperialismo sovietico» e il «revisionismo cecoslovacco» («altra faccia della stessa realtà»). Aggiungendo magari, improvvidamente: «i due gruppi burocratici sono legati a doppio cordone, non possono assolutamente permettersi di travolgersi a vicenda»21. Sono frasi tratte da volantini distribuiti in Italia dai gruppi extraparlamentari allora esistenti, la cui influenza era enormemente cresciuta proprio nell’esplosione libertaria del movimento studentesco.

La contraddizione si ripresenta anche in altri paesi. Rudi Dutschke è l’unico leader del movimento studentesco europeo che in primavera va a Praga «per capire»22, e un primo volantino dell’Sds condanna l’intervento sovietico affermando: «l’introduzione delle libertà repubblicane, come del diritto di libertà di stampa e d’espressione, non significa una ricaduta nel liberalismo borghese». Un lungo documento successivo dell’organizzazione critica però «sia la politica della nuova élite tecnocratica in Cecoslovacchia sia l’occupazione militare del paese da parte delle truppe del Patto di Varsavia»23. Esso è dedicato per intero alla «demistificazione» del programma dei «tecnocrati» e del loro obiettivo: l’introduzione e l’affermazione del nefasto «neocapitalismo avanzato». Sono elementi presenti anche in uno dei pochissimi articoli prodotti dalla «nuova sinistra» italiana che sottolinea comunque le potenzialità positive dei processi di democratizzazione. Esso si conclude con parole che resteranno inascoltate: «La giovane sinistra occidentale non dovrebbe lasciarsi sfuggire un’occasione quasi unica per riconsiderare il movimento socialista nel suo insieme»24. A questa «giovane sinistra» – così pronta a farsi contagiare da mali antichissimi – si rivolgeva Leo Huberman dalle pagine della «Monthly Review»:

I cecoslovacchi […] volevano democratizzare il sistema. […] Il bilancio del regime era a questo riguardo veramente terribile: burocratismo e supercentralizzazione portati sino agli eccessi più assurdi; spaventose violazioni delle libertà civili; arresti in massa, torture e confessioni truccate, privazione della libertà e della vita per un numero grandissimo di persone […]. Questa era la realtà. Perché i cechi non avrebbero dovuto voler democratizzare il sistema? […] Essi volevano la libertà di parola e di stampa. Cosa c’è di delittuoso in questo? In tutti questi paesi i portavoce comunisti deridono queste libertà come «borghesi», ma provate a vivere per un po’ di tempo in una società dove si ha paura di stampare ciò in cui si crede e vi convincerete molto rapidamente che la libertà di parola e di stampa è cosa assai preziosa e assolutamente necessaria ad una società sana25.

Posizioni ovvie, sembrerebbe: ma così non era, e non solo nell’estrema sinistra giovanile. Ha ricordato Liliana Cavani, evocando la contestazione della Mostra del Cinema di Venezia di quell’anno: in quelle stesse giornate «i carri armati russi invadevano Praga e gli autori [cinematografici] non mandarono neanche una cartolina di rammarico, si fa per dire: l’Anac, che emetteva quotidianamente comunicati “rivoluzionari”, per Praga non spese neanche una parola»26.

Sordità e ottusità saranno rotte solo in parte pochi mesi dopo, nel gennaio del 1969, dal rogo con cui lo studente Jan Palach si tolse la vita, in piazza Venceslao, in una forma estrema e disperata di protesta. «Come ogni giorno la notte arrivava – per citare la bella canzone di Francesco Guccini – frasi consuete sui muri di Praga,/ ma poi la piazza fermò la sua vita/ e breve ebbe un grido la folla smarrita,/ quando la fiamma violenta ed atroce/ spezzò gridando ogni suono ogni voce». Guccini continuava:

Son come falchi quei carri appostati

corron parole sui visi arrossati

corre il dolore bruciando ogni strada

e lancia grida ogni muro di Praga

quando la piazza fermò la sua vita

sudava sangue la folla ferita […]

dimmi chi era che il corpo portava

la città intera che lo accompagnava

la città intera che muta lanciava

una speranza nel cielo di Praga27.

Neppure il sacrificio estremo di Palach riesce a innescare emozioni e riflessioni reali nel movimento studentesco. Ciò avviene solo in parte e in alcune città28, senza avere però conseguenze significative: questi temi restano «ai margini» e non provocano ripensamenti radicali. Inoltre proprio a partire dal 1969, nonostante il cupo procedere della «normalizzazione» sovietica, il Pci attenuava il «grave dissenso» che pur aveva espresso dopo l’invasione29.

2. Il terremoto nelle «due Chiese»: il Partito comunista

Il dibattito sulla Cecoslovacchia era venuto a interagire con altri scontri politici in un Partito comunista messo in discussione fin dall’inizio del 1968: il movimento studentesco, infatti, aveva incrinato un architrave tradizionale della sua autorevolezza, il «monopolio dell’opposizione sociale»1. Il segretario della Federazione giovanile comunista, Claudio Petruccioli, cercava di farsene una ragione: il Pci, scriveva, è «il partito su cui si discute di più, su cui si sentono più giudizi, su cui si formulano più critiche»2. Hanno meno fair play i giovani dirigenti delle diverse città: i gruppi di estrema sinistra che guidano le occupazioni contano anche sull’«appoggio di masse di studenti qualunquisti», affermava ad esempio uno di essi3, mentre altri se la prendevano con i «sedicenti rivoluzionari»4. Non andava meglio ai vertici del partito: Alessandro Natta prevedeva che i gruppi dirigenti del movimento studentesco lo avrebbero portato verso la «rassegnazione qualunquistica o la protesta velleitaria»5, mentre Cesare Luporini vedeva nel movimento i segni di un «primitivismo politico anche marcatamente piccolo-borghese». Luporini era in realtà meno schematico di altri6 e si attirava i fulmini di Giorgio Amendola per aver richiamato l’attenzione sulla «questione generazionale» (pericolosa eresia, che confliggeva con l’«analisi di classe»)7. Di «radicalismo piccolo borghese» parla Paolo Bufalini nel suo ampio intervento al Comitato centrale del 28 marzo 1968, respingendo con sdegno l’«attenuazione e offuscamento [...] del valore decisivo che nella lotta per la libertà dei popoli e contro l’imperialismo hanno i paesi socialisti»8. Il movimento studentesco, insomma, era troppo piccolo borghese e troppo poco filosovietico…

Il terremoto investe immediatamente la Federazione giovanile. «Le nostre strutture di partito sono praticamente scomparse», rileva Nilde Jotti nella Direzione del 23 febbraio 1968, mentre qualche mese dopo Petruccioli darà ulteriori lumi: «abbiamo esercitato una rigida disciplina in seno alla Fgci, abbiamo cacciato molti che poi sono divenuti dirigenti del movimento studentesco»9.

Il primo scossone al partito lo danno, in un seminario che si tiene a metà febbraio, gli studenti comunisti... non ancora espulsi, che giungono a quella riunione «dal fuoco della lotta, dalle facoltà occupate e sgombrate, dagli scontri con la polizia». Lo scriverà molti mesi dopo Alfredo Reichlin, e aggiungerà: allora si vide quanto forte fosse la critica di quei giovani al loro partito, «al quale forse nessuno si era mai rivolto con tanta irriverenza»10. A marzo è convocato un convegno nazionale degli studenti comunisti, e lo scossone è ancora più forte: non manca qualche tardo attacco al «luddismo antiautoritario» o al «radicalismo piccolo-borghese» del movimento (che naturalmente rende necessaria «l’egemonia comunista»)11, ma esplode soprattutto l’insofferenza degli studenti nei confronti del proprio partito. Si sottolinea in più forme il contrasto «a volte aspro e violento» fra movimento e Pci; si critica una linea del partito «errata, estranea alla logica […] del movimento»; infine – massima eresia – una mozione presentata da due sedi universitarie importanti, Trento e Torino, invita a «mettere in discussione la linea generale del partito comunista». Il segretario della Fgci Claudio Petruccioli può solo concludere con una domanda accorata: «andremo ancora come pecore sparse all’assalto a farci fucilare nelle assemblee? Oppure ad assorbire come spugne quello che le assemblee qua e là dicono?»12.

Da allora l’atteggiamento del partito nei confronti del movimento studentesco oscillerà fra le aperture di Luigi Longo13 e le chiusure di Giorgio Amendola14: più in generale, fra «rincorsa» strumentale e irrigidimenti, accompagnati da qualche infortunio15.

Non è felice neppure il percorso che porterà i dirigenti della Fgci a ipotizzarne lo scioglimento per dar vita a una organizzazione più generale della «gioventù rivoluzionaria»: la proposta è avanzata in un convegno su Movimento operaio e movimento studentesco che si tiene ad Ariccia alla fine del 196816. Essa non muoverà neppure i primi passi, mentre lo scioglimento della Fgci è assai prossimo a realizzarsi nei fatti: nel 1969 e nel 1970 i suoi iscritti scendono decisamente sotto i 70 000 (erano più del triplo pochi anni prima, il doppio ancora nel 1968), concentrati quasi esclusivamente nelle roccaforti dell’Emilia e della Toscana.

Inoltre, le relazioni di Achille Occhetto e dei dirigenti della Fgci ad Ariccia provocano nel partito sbarramenti corposi, fino alla bocciatura preventiva di documenti e posizioni. L’accusa è di propugnare «una strategia di sola lotta extraparlamentare» (Napolitano)17 e di esser in contrasto con la linea del partito su «due punti grossi»: «il giudizio sui fatti francesi [...] e la posizione sui paesi socialisti, da cui emerge la tesi aberrante della necessità della rivoluzione politica in quei paesi» (Amendola)18.

L’«attualità della rivoluzione in Occidente» e il rapporto fra «insurrezione e via democratica»19 sono temi che non compaiono solo nelle posizioni dei dirigenti della Fgci o dei loro giovani «padri», come Occhetto. Suggestioni di questo tipo emergono in questo periodo in varie forme20, e si affacciano anche in un lungo intervento del segretario del partito. «Da dove derivano – si chiedeva Longo – questa rivolta e questa insoddisfazione», questa

situazione di ebollizione (che investe oggi la stessa Chiesa e il nostro movimento)? […] Oggi si contesta tutto, noi compresi, e non è solo una smania di irrequieti ma risponde a qualcosa di più profondo. […] Siamo su un’onda ascendente o soltanto a un livello di insoddisfazioni che mettono in crisi tutti i sistemi, i partiti, i rapporti tra di loro, le ideologie? […] Nel 1848 c’è stato un grande rivolgimento che ha condotto agli stati nazionali. Oggi dove conduce? Al socialismo? È vero che c’è – ma fino a un certo punto – questa spinta. Farei cioè un apprezzamento più drammatico della gravità (Indonesia, Grecia), nel senso che c’è un sistema in crisi (l’imperialismo e il capitalismo) e che travolge tutte le strutture. L’insoddisfazione, la ribellione allo stato di cose esistente, di dove viene? Non c’è solo il problema della libertà. Ci si ribella contro l’impossibilità di ribellarsi contro queste strutture e sovrastrutture oppressive21.

È la Cecoslovacchia, però, il grande nodo con cui il partito si deve misurare: il «nuovo corso» è un banco di prova decisivo per la possibilità di «vie nazionali» autonome da Mosca e per il rapporto fra democrazia e socialismo.

Dopo le prime incertezze22, nei primi mesi del 1968 il sostegno del Pci a Dubček è via via più deciso23 e culmina con il «rapporto» di Longo dopo il suo viaggio a Praga24. Al fondo di questo atteggiamento vi è anche la convinzione che l’Urss non interverrà25, e il primo diktat inviato dal Pcus al partito cecoslovacco, a luglio, provoca un brusco risveglio: reso ancor più brusco, peraltro, da un incontro di Gian Carlo Pajetta con i dirigenti sovietici26. La «drammatizzazione» fa venire allo scoperto i dirigenti filosovietici (Colombi e Scoccimarro), cui Berlinguer risponde con un giudizio di inusuale nettezza: in Cecoslovacchia, afferma, «i pericoli hanno radici lontane, in vent’anni di malgoverno». Il senso del documento che la Direzione approva a luglio è sintetizzato da Longo, che fa trasparire più di un’incrinatura:

Il documento deve proporsi di fare qualcosa di fronte a una prospettiva catastrofica. Cosa sarà? Un intervento militare, pressioni economiche […]? Nessuno lo sa […]. Il documento dovrebbe un po’ invitare i paesi socialisti ad andare adagio, pur se l’influenza può essere scarsa […]. Si può influire anche dicendo a Dubček che vi sono pericoli contro cui lottare. In questo senso indicare i pericoli […]. Togliere la fiducia in bianco. Una posizione di questo genere ci permette di intervenire per evitare una catastrofe. C’è anche un’altra catastrofe. Ed è che questo movimento di rinnovamento attacchi le basi del socialismo, e nemmeno di fronte a questo chiudiamo gli occhi27.

Di fronte all’invasione l’Ufficio politico esprime, come s’è detto, il suo «grave dissenso» e la Direzione lo ribadisce28. Il dirigente più deciso è Umberto Terracini: «ora bisogna evitare – sostiene – lo smussamento degli angoli e dire pane al pane […]. Non possiamo riconoscer fantocci. Dobbiamo chiedere lo sgombero delle truppe, perché tutto quello che avviene con la loro presenza è una menzogna e un inganno». Terracini evoca anche l’imminente Conferenza mondiale dei partiti comunisti voluta dai sovietici sin dal 1964 e afferma: «quello che è avvenuto ha distrutto per ora ogni base». È una posizione che sembra condivisa, in questo clima: «la conferenza con discorsi sull’autonomia a questo punto è impensabile», dice lo stesso Pajetta. E aggiunge: «Abbiamo una grande responsabilità, essenziale, verso i lavoratori italiani, per i quali preservare questo nostro partito […]. Ci sono dei prezzi che non possiamo pagare […]. Non pagare certi prezzi nemmeno se si dovesse rinunciare a una edizione dell’Unità»29. L’emozione e la tensione del momento fanno dimenticare le cautele: e compare così «a verbale» per la prima volta un riferimento – sia pure «ermetico» – ai finanziamenti sovietici. Nella riunione successiva Berlinguer insiste sulla «spinta involutiva» presente in Urss e ipotizza prese di distanza più decise: occorre, dice, «considerare anche l’eventualità di una lotta politica con i compagni sovietici e degli altri partiti e preparare il partito a questa eventualità». Altri invece, inizia quello «smussamento degli angoli» che Terracini aveva paventato. Amendola propone infatti una diversione tradizionale, il «rilancio della lotta per la pace, contro il pericolo atomico, per la coesistenza e per la democrazia. Se no si rischia di porre come motivo centrale la questione della democrazia nei paesi socialisti». Per Pajetta, invece, «il problema è quello delle proporzioni»: e giustifica così la non pubblicazione di un articolo critico su «Rinascita»30.

A ottobre vi è un altro scossone. Cossutta a Mosca deve subire durissime critiche di Ponomarëv (che è anche l’«ufficiale pagatore») per il dibattito sulla Cecoslovacchia che si è svolto nel Comitato centrale del Pci: molti interventi – riferisce Cossutta – «se non la maggioranza, hanno suscitato sorpresa, delusione e indignazione. Ha fatto diversi nomi (Pintor, Natoli ecc.) ma si è soffermato su quello della compagna Rossanda» e ha affermato: «Come si può aiutare una stampa che pubblica simili cose? […] Occorre una svolta radicale, altrimenti saremo costretti a dare adeguate risposte». Per non essere frainteso, Ponomarëv conclude: «Questioni pratiche: i compagni sovietici hanno dato e danno un grande aiuto ai compagni italiani perché 1) costruiscono il comunismo; 2) difendono la pace; 3) operano per l’unità del movimento comunista internazionale», però «le tasche non sono inesauribili. Scrivete una lettera e vedremo cosa si potrà fare»31.

Una posizione così brutale32 provoca sussulti di indignazione destinati a durare poco. «Si pongono questioni essenziali, anche di dignità del nostro partito», dice Amendola; Bufalini rincara, riferendosi alle «questioni pratiche» (cioè ai rubli): «c’è un problema di dignità e quindi di rifiuto del ricatto. Cercheremo di fare in modo di dire al partito: non è dipeso da noi». Altri invitano a maggiori cautele, e Berlinguer conclude: «D’accordo sul massimo sforzo per migliorare i rapporti col Pcus», però «da una parte c’è la nostra linea, dall’altra quella dei sovietici […]. Il nostro rapporto col Pcus non potrà più essere quello di prima. Questo implica certi gesti […]. Dobbiamo avere presente la necessità di preparazione psicologica dei compagni». La «cartina di tornasole» è proprio la partecipazione alla Conferenza di Mosca, qui sostanzialmente confermata: «non accetto che la divergenza debba crescere e portare a una rottura», dice Pajetta. Ci si orienta a «ridurre almeno di un terzo tutte le spese del centro, delle federazioni e della stampa»33, informa Cossutta, e una successiva riunione della direzione ipotizza «alienazioni serie» del patrimonio del partito34. Vi sono altri tesi incontri a Mosca35 ma i nodi vengono davvero al pettine quando Dubček è sostituito con Husák36 e la Conferenza dei partiti comunisti si avvicina (mentre vi è anche il primo grave conflitto armato fra Urss e Cina sul fiume Ussuri).

Il cedimento ai sovietici è preceduto da momenti e «cadute» che rasentano (drammaticamente) il grottesco. Ad aprile, ad esempio, Galluzzi riferisce che a Mosca sono vietate persino «rappresentazioni di classici come Čechov: la giustificazione è che le regìe forzano in senso pessimistico anche queste opere». Pajetta gli risponde, riferendosi inizialmente alla Cecoslovacchia:

Noi non dobbiamo esercitare una funzione che per eufemismo chiamerei di disturbo […]. Non possiamo continuamente richiamare il 21 agosto […]. L’Urss è un grande stato socialista […]. A me dispiace molto se la censura impedisce una certa regia di Čechov […]. Dico che di queste angosce ne abbiamo avute e ne avremo, ma noi oggi dobbiamo scriverlo questo? […]. Bisogna capire quali sono le cose sulle quali non vogliamo fare una pubblicità se non vogliamo aprire una lotta politico-ideologica37.

Il cerchio si chiude a maggio con la sostanziale accettazione della «normalizzazione» di Husák: «oggi i gruppi dirigenti del PCC – dice Longo – anche se hanno dovuto subire l’immissione di altre forze, costituiscono un gruppo che ha una sua autonomia […]. Noi non possiamo ripetere cose dette, che abbiamo fatto bene a dire, ma che oggi sarebbero anacronistiche»38. Altri va oltre, come Cossutta: «Nel discorso di Husák ho trovato un linguaggio e un modo di porre le questioni nelle quali io mi ritrovo […]. Si trovi la maniera di esprimere un incoraggiamento e un augurio a Husák». Vi è qualche dubbio da parte di Ingrao39 e un fermo rifiuto della finzione da parte del solo Terracini: in Cecoslovacchia «è arrivato il ministro della difesa sovietico e ha detto: o si fa così o chiudiamo. Lì c’è un piano attuato fino all’ultima conseguenza. Dieci giorni fa l’Urss ha avuto quel che voleva: via Dubček, c’è un altro». Pajetta insorge: «Il modo con cui Terracini ha parlato di Husák e dei compagni cecoslovacchi è un modo che non dovrebbe adoperare neppure in una riunione come questa […]. Husák è un comunista […]. Io mi rammarico che nel comunicato dell’Ufficio Politico non ci sia la parola “comunisti cecoslovacchi” e che non si è fatto un augurio»40.

Poco dopo, alla vigilia della Conferenza di Mosca, le pressioni sovietiche crescono e «contengono anche alcuni elementi di minaccia», come riferisce Berlinguer. Bufalini osserva: se accettiamo il discorso che ha fatto Ponomarëv a Cossutta dovremo dire al partito che «il Pcus è comunque al centro del nostro movimento e alla fine noi firmiamo quello che ci dicono di firmare». Il partito sceglie, ancora una volta, di evitare la rottura. La partecipazione alla Conferenza è ormai decisa, si discute solo sui margini di dissenso che l’Urss è disposta a concedere. Matura qui la scelta che la delegazione italiana attuerà: una presenza caratterizzata da un discorso critico, pronunciato da Berlinguer, e dall’accettazione di una sola parte del documento conclusivo41. Amendola insiste nel raccomandare cautela: «Voglio augurarmi che ho torto io e che le differenziazioni non provochino rotture. Però c’è un limite. Si dice: ma questa sarebbe una ritirata… Ma ci sono anche questi momenti, e questo ci ha fatto forti. La continuità del nostro movimento è stata anche di incassare, manovrare, non dire tutto». Amendola batte anche su un tasto che gli è abituale – la necessità di non rompere con i comunisti francesi, più vicini all’Urss – e richiama infine un problema che ritornerà negli anni seguenti, quello dell’«autonomia organizzativa» (cioè finanziaria): «è evidente che a una stretta simile non siamo pronti organizzativamente […] si può pensare che il Partito resti lo stesso di prima in caso di rottura? Le spinte antisovietiche in corso che sviluppo avranno?»42.

Appare interamente condivisibile, dunque, il titolo di un articolo che comparirà di lì a poco sul mensile «il manifesto»: Praga è sola43. L’evolversi della situazione cecoslovacca contribuisce inoltre a improntare nel senso della «normalizzazione» il XII Congresso del Pci che si tiene a Bologna nel febbraio del 196944. Di grande piattezza la relazione di Longo45 (Un discorso «conservatore», commenta Forcella)46, sfumato l’intervento di Ingrao, incentrato sulla «disciplina di partito» quello di Amendola: il dissenso è espresso quasi esclusivamente dagli interventi di Luigi Pintor, Rossana Rossanda e Aldo Natoli. Si prefigura così la vicenda successiva, con la decisione di questi e altri dirigenti comunisti (fra cui Lucio Magri e Luciana Castellina) di pubblicare il mensile «il manifesto»47.

Al centro della loro proposta vi sono due nodi. Da un lato l’«attualità della rivoluzione in Occidente» (la «maturità del comunismo»)48 e la necessità di ripensarne la modalità. Dall’altro, la critica al «comunismo realizzato», ai paesi dell’Est: un «appello all’eversione nei paesi socialisti, alla rottura completa», protesta un indignato Cossutta49. Un appello alla «rivoluzione culturale», in realtà, retto da una tesi che ci restituisce il clima del tempo: «dallo stalinismo si esce solo a sinistra»50.

La pubblicazione stessa de «il manifesto», cioè di una rivista comunista non controllata dal partito, suscita scandalo: la vicenda che porta alla radiazione dei suoi redattori – e alla estromissione di chi è loro vicino51 – assume un valore più generale, anche per la durezza con cui è condotta («non ci lasceremo con le lacrime agli occhi», sbotta Gian Carlo Pajetta)52.

I dibattiti nelle federazioni53, le moltissime lettere e prese di posizione che giungono alla direzione nazionale da iscritti e sezioni54 coinvolgono molto di più che una linea politica. In forme diverse, è messo in discussione il tradizionale modo di essere del partito: quell’«identità» rinserrata in se stessa, nelle proprie logiche e nelle proprie gerarchie, che era stata ribadita dopo la morte di Togliatti, all’XI Congresso, nelle forme che abbiamo visto (e proprio il voto di Ingrao, che avalla la radiazione degli «eretici», segnala in qualche modo una sconfitta più generale, un malinconico «finale di partita»)55.

La vicenda si conclude nell’«autunno caldo», quando è in corso la più ampia e radicale ondata di conflitti sociali che l’Italia repubblicana abbia mai visto: essa sembra riproporre quelle stesse esigenze di democrazia autentica e di forme di organizzazione dal basso che erano state il messaggio più alto dell’esplosione studentesca. A quelle esigenze e a quell’inedito protagonismo di soggetti sociali antichi e nuovi il Pci – loro primo interlocutore – rispondeva dunque con una forte chiusura: essa era già «scritta», certo, nella storia precedente del partito ma ora diventava definitiva, e densa di conseguenze.

3. …e il mondo cattolico.

Altre chiusure venivano a interagire bruscamente con differenti fermenti maturati all’interno del mondo cattolico. Del mondo cattolico, non della Democrazia cristiana, che a questi processi era rimasta estranea e poco sensibile: la «strategia dell’attenzione» che Aldo Moro mette a punto è rivolta semmai al Partito comunista, ed è sostanzialmente la risposta al fallimento dell’unificazione socialista1. Non era stata del resto la Dc ma il mondo cattolico il «luogo» in cui inquietudini e ansie di rinnovamento si erano espresse, e qui esse attendevano conferme, verifiche, risposte. Proprio fra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni settanta quelle attese andranno incontro a delusioni crescenti e il 1968 assume anche in questo caso valore di simbolo. In primo luogo per quel che esso rivela: la presenza cattolica nei più generali sommovimenti di quell’anno non ha bisogno di ulteriori illustrazioni ma semmai di qualche considerazione e riflessione. È importante cogliere infatti l’apporto specifico di quella presenza e le sue connotazioni: un magma – ha sottolineato Filippo Gentiloni – in cui vi sono

alti livelli di spirito utopico (la «speranza», la fede nel «regno» che verrà) uniti da una forte carica di egualitarismo, con venature anche di giacobinismo e forse di anarchia. La cultura cattolica non ha mai nutrito grande tenerezza per lo stato moderno. Proprio quello stato moderno che veniva contestato nelle assemblee del ’68 nelle quali, appunto, i cattolici portavano molta utopia, poche mediazioni e una certa dose di ingenuità politica. Vi portavano anche quella inveterata abitudine al soggettivo che invece scarseggiava nella cultura marxista2.

Forte peso dell’elemento soggettivo, dunque, e al tempo stesso «connaturate» diffidenze verso «possibili prevaricazioni del politico»: di qui «istanze personaliste e populiste», per sottolineare insieme «luci e ombre»3. Anche Guido Verucci ha sottolineato l’intreccio di spinte utopiche e di «suggestioni egualitarie, pacifiste, pauperistiche», entrambe di matrice evangelica: con «una carica antistatale che viene da lontano, dall’intransigentismo cattolico di fronte alla rivoluzione francese e allo stato laico»4.

Influenza del movimento studentesco sui giovani cattolici e influenza dei giovani cattolici sul movimento: sta qui uno degli aspetti specifici del ’68 italiano e dei suoi esiti, con la messa in crisi di tradizionali «collateralismi» e subalternità nei confronti della Democrazia cristiana e con nuove forme di radicalismo politico. E talora con il paradosso sottolineato vent’anni dopo da un intervento di Bruno Manghi: Rifuggire dall’integralismo religioso e incappare nel fondamentalismo politico5.

È di grande interesse il fascicolo dedicato al movimento studentesco dal periodico dei giovani di Azione cattolica, «Gioventù». Negli interventi degli assistenti religiosi della Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci) viene fatta propria la critica alla «fatiscenza oppressiva» dell’università italiana, caratterizzata da «un insegnamento nozionistico, frammentario, puramente accademico, autoritario». È sottolineato inoltre l’elemento di fondo della mobilitazione studentesca: «la proposta viva di ideali profondamente umani, quali l’eliminazione di ogni forma di oppressione e di discriminazione classista (di fatto) per la costruzione di una società autenticamente umana»6. L’editoriale della rivista conclude: «nelle grosse trasformazioni e inquietudini di cui ci hanno dato un segno manifesto le agitazioni universitarie, oltre che ricercare un volto nuovo dell’uomo cerchiamo anche un volto nuovo di Dio»7.

Nel «terremoto» confluiscono percorsi precedenti8 ma dalle università viene la radicalizzazione decisiva, che talora provoca veementi proteste di fedeli. Nella cattedrale di Trento alcuni studenti tentano un «controquaresimale»: interrompono cioè l’omelia del quaresimalista e poi – allontanati a forza dai presenti – espongono le loro tesi religiose all’ingresso della chiesa. Sono presto costretti a cercare rifugio nell’università occupata, che sarà assediata per tre giorni da centinaia di fedeli infuriati che incendiano cartelli e manifesti9. Sono solidali con l’occupazione, invece, i nove sacerdoti iscritti a Sociologia10 che – con l’approvazione del vescovo – iniziano un esperimento di dialogo fra chiesa e fedeli cui partecipano molti studenti (fra cui i promotori stessi del «controquaresimale»)11.

Pochi mesi dopo vi è l’occupazione del Duomo di Parma, attuata da un «gruppo spontaneo» in cui confluiscono sia le suggestioni che vengono dall’Università Cattolica sia l’azione di giovani sacerdoti. A Parma, scrive Maurizio Chierici, «si è creata una frattura fra le gerarchie nobili del clero e i parroci giovani e aperti a nuove idee, che operano nelle periferie della città, sull’Appennino ancora tormentato da un’antica miseria»12. È una novità assoluta, per l’Italia (interrotta presto dalla polizia, chiamata dal vescovo): era stata preceduta, un mese prima, dall’occupazione della Cattedrale di Santiago del Cile da parte di sacerdoti e studenti che protestavano contro l’imminente viaggio di Paolo VI in Colombia. Seguono poi nel nostro paese altri episodi, fino a quello che vedrà l’anno dopo, a Torino, centocinquanta operaie di una fabbrica occupare una chiesa. Dirà in quell’occasione l’arcivescovo Pellegrino: «Se hanno scelto la chiesa preferendola a una sede sindacale o di partito perché convinti che la chiesa è dei poveri, il loro gesto ci conforta. Cristo si sente più onorato della presenza di persone che riversano pene e reclamano riconoscimenti di diritti che dal silenzio dovuto all’assenza di gente»13.

È la chiesa di un quartiere fiorentino, l’Isolotto, a diventare simbolo della contestazione ecclesiale, e proprio la solidarietà del suo parroco con gli studenti di Parma innesca lo scontro decisivo con l’arcivescovo di Firenze, Florit. Nella lettera che Mazzi e altri sacerdoti e fedeli scrivono in quell’occasione riaffiora la polemica con «una Chiesa che non ha a fondamento i poveri, gli oppressi, i rifiutati, gli affamati e assetati di giustizia». Anche in questo caso si radicalizzano percorsi precedenti14: «per noi il ’68 è stato un immenso tentativo di unificazione del mondo nel segno della speranza», ha ricordato don Mazzi15. Il prefetto di Firenze riferiva: «è utile riconoscere che il quartiere dell’Isolotto è una comunità composta in gran parte da operai e impiegati, nella quale don Enzo Mazzi […] si è inserito attivamente creando centri di assistenza per orfani, poliomielitici, spastici e disoccupati, interessandosi dei problemi più vari e perfino della guerra nel Vietnam»16. Nel giro di pochi mesi la rottura con monsignor Florit è totale, anche in seguito alla pubblicazione del «Catechismo» dell’Isolotto (Incontro a Cristo), con l’assunzione a simbolo di Martin Luther King e Camilo Torres, Malcolm X e Danilo Dolci, don Zeno e Che Guevara: «un’esperienza catechistica sociologico-politica, non religiosa», commenta la rivista dei gesuiti17. Alla rimozione di don Mazzi da parroco, il 4 dicembre, la comunità risponde con assemblee di preghiera, con l’ostilità aperta nei confronti dei sacerdoti inviati dalla Curia, e infine con una «Messa in piazza» che diventa un appuntamento destinato a perpetuarsi nel tempo18. Il procuratore generale Calamari – immediatamente schierato con monsignor Florit – non manca di farsi sentire: nel gennaio 1969 undici fedeli e cinque sacerdoti sono denunciati per istigazione a delinquere, turpiloquio, turbamento di funzioni religiose del culto cattolico (oltre duemila persone firmeranno un’autodenuncia in segno di solidarietà)19.

La vicenda dell’Isolotto ha grande rilievo sulla stampa e contribuisce all’allargarsi a macchia d’olio delle comunità di base20. Nel gennaio del 1969 il prefetto genovese riferisce che un centinaio di giovani si ritrova nella chiesa di S. Camillo a leggere «brani Vangelo relativi povertà e carità cristiana in adesione noto movimento sorto Isolotto»: nasce così un gruppo che apre un contraddittorio con il cardinale Siri (altro esponente del conservatorismo cattolico)21, e si sposta poi nella parrocchia di Oregina. L’Isolotto è evocato anche in un ciclostilato redatto da nove sacerdoti di Casale Monferrato:

I poveri, sono sempre loro che pagano le velleità dei potenti e dei ricchi, son sempre loro che subiscono la violenza e lo sfruttamento. Violenza specialmente morale, non tanto materiale […]. Non è stata forse violenza l’allontanamento di don Mazzi dall’Isolotto? Non è stata forse violenza il creare per alcuni preti della nostra diocesi un clima impossibile?

Il ciclostilato aggiungeva, rivolto a don Mazzi, «ti auguro di andare in tuta da elettricista nell’Arcivescovado di Firenze, perché là sono rimasti senza luce». Veniva sollevata anche la questione del celibato sacerdotale: Sparano a zero sul prete-scapolo, scrive «Il Giorno» il 25 gennaio 1969. I toni sono dissacranti e inusuali22, così come è inusuale la contestazione dei giovani dell’Assemblea ecclesiale dell’Università Cattolica nei confronti di una messa celebrata dal cardinale Colombo per l’Unione cristiana imprenditori e dirigenti. Esclusi dalla Chiesa, gli studenti leggono brani della Bibbia e dei Vangeli e l’invocazione a Dio che hanno composto:

per chi patisce il freddo nelle baracche d’inverno ed i suoi compagni di gioco sono i topi e gli scarafaggi […]; per chi vive di assistenza pubblica ed è trattato come spazzatura […]; per chi è stato sfrattato la settimana scorsa e non può pagare l’affitto o dar da mangiare ai suoi figli […]; per chi porta un cartello, siede per terra, prende le botte della polizia […]; per chi non ne può più di tutto questo ed è deciso a far qualcosa, e sta organizzando la gente per ottenere il potere e per cambiare il mondo23.

Un altro testo di «anomala» preghiera viene distribuito in chiesa a Cagliari, al termine della processione guidata dal vescovo, in una borgata che sta per essere demolita:

Signore, oggi il Vescovo è con noi per la Quaresima. Nel 1970 non ci troverà più qui. Nel tuo nome ci avranno sfrattati. A S. Elia ci saranno il ricco epulone e i «giusti», che ora ci elargiscono le briciole della loro civiltà. Ipocriti e farisei usano la nostra povertà per demolire le nostre case e costruire le loro ville sontuose. Del nostro quartiere non resterà pietra su pietra […]. Fa che la tua chiesa ritorni ad essere la chiesa dei poveri24.

Sarebbe troppo lungo l’elenco di episodi analoghi o di contestazioni promosse da giovani sacerdoti: da Muro Lucano, in provincia di Potenza25, sino a Sondrio26 e altri centri della provincia; da Ravenna27 a Verona28; dal seminario di Chieti29 a Mestre30. E sino a Roma: uno spaccato unico, scrive Giancarlo Zizola, «di innovazione e conservatorismo, di cristianesimo catacombale e di cristianesimo curiale. Vi coabitano esperimento liturgico d’avanguardia e messe in latino, basiliche e garages trasformati in chiese, parrocchie burocratiche e parrocchie in cui l’omelia dà il diritto di parola in Chiesa alla gente»31.

Il 1968 è anche in questo caso uno spartiacque: anno dell’«esplosione», certo, ma anche di una svolta nel pontificato di Paolo VI che ha i suoi momenti più evidenti e simbolici nell’estate. In primo luogo con l’enciclica Humanae vitae che ribadisce la condanna della contraccezione32 e – come abbiamo visto – accentua la «scissione silenziosa» fra la posizione della Chiesa e i comportamenti dei fedeli: nella gran massa di questi sembra prevalere semplicemente la «modernizzazione conformista» (o una sorta di «laicizzazione senza valori»)33. Viene poi il viaggio del pontefice in Colombia, in occasione della seconda conferenza generale dell’episcopato latinoamericano. «Diecimila soldati in assetto di guerra con fucile mitragliatore svolgono servizio d’ordine a Bogotá», scrive il settimanale cattolico «Settegiorni». «Cosa fanno quei diecimila fucili mitragliatori? Difendono Gesù eucaristico?». I documenti preparati dal clero latinoamericano ruotano in larga misura attorno al tema della «giusta ribellione». Un testo sottoscritto da 800 sacerdoti parla dell’America Latina come «continente di violenza»: violenza della fame, della mancanza di democrazia, dello sfruttamento. E chiede che i vescovi riuniti a Medellín non confondano «la violenza ingiusta degli oppressori […] con la giusta violenza degli oppressi che si vedono obbligati a ricorrervi per ottenere la propria libertà»34. Rispetto alla Populorum Progressio, i discorsi colombiani di Paolo VI insistono invece con forza proprio sulla condanna della violenza rivoluzionaria (che non è «né cristiana né evangelica»), della «ribellione sistematica», delle avanguardie «troppo generose e troppo poco lucide». Sono chiusure che i documenti elaborati a Medellín dall’episcopato tentano di temperare, ma segnano comunque una svolta decisa nel periodo montiniano35: sembra quasi delinearsi, rispetto alla prima parte di esso, un altro pontefice, stretto fra contraddizioni e «solitudini» crescenti. Le sue allocuzioni ci riconsegnano un percorso esplicito: «uno spirito di critica corrosiva è diventato di moda in alcuni settori della vita cattolica», dice ad esempio nel settembre 1968. E aggiunge: «Che cosa diremo poi di certi recenti episodi di occupazioni di chiese cattedrali, di approvazione di film inammissibili, di proteste collettive e concertate contro la nostra recente Enciclica [la Humanae vitae], di propaganda della violenza politica […]?»36. E nel gennaio del 1969: «Perché tante insubordinazioni, tanto decadimento della norma canonica […], tanta voglia di assimilare la vita cattolica a quella profana […]?»37. Non tutti gli impulsi impressi dal Concilio – aggiungerà pochi mesi dopo – «sono stati rivolti verso la buona direzione», e «non pochi sintomi sembrano piuttosto preludere a gravi malanni per la Chiesa stessa». Tre anni dopo userà toni ancora più duri, affermando che il Concilio non aveva prodotto quella giornata di sole per la storia della Chiesa che ci si poteva aspettare, ma al contrario «una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, d’incertezza», a causa dell’intervento del diavolo, il cui fumo «da qualche fessura» era entrato nel «tempio di Dio»38.

Sono giudizi segnati dalle tensioni di quegli anni, ma vanno in una direzione univoca: e contribuiscono per un verso a radicalizzare, per un altro a isolare il dissenso, a creare attorno ad esso steccati rigidi, a delimitarne l’area di espansione.

Si moltiplicano le sanzioni disciplinari: dall’allontanamento di don Giulio Girardi dall’ateneo salesiano di Roma, alla fine del 196939, alle misure che fra 1971 e 1973 colpiscono don Gerard Lutte – impegnato da tempo fra i «baraccati» della capitale40 – o l’abate di S. Paolo fuori le mura, Giovanni Franzoni41, e altri ancora42. Nel novembre 1971 si concludeva in modo deludente il Sinodo dei vescovi sul sacerdozio e sulla sua crisi (esplosa con una serie di abbandoni in tutto il mondo): poco dopo sorgerà il «Movimento 7 novembre 1971», che unisce varie anime del dissenso e giungerà a contare sino a 650 aderenti (di cui 400 sacerdoti)43. Avrà però vita breve, tre anni appena44.

È un passaggio illuminato anche dalla vicenda delle «riviste del dissenso» (con il ripiegare di «Testimonianze» e la chiusura di «Questitalia», nel 1970), e delle stesse Acli, giunte nel 1969 ad affermare l’indipendenza elettorale dalla Dc e a compiere la «scelta di classe» (che diventa nel 1970 «scelta socialista»). Già nel 1971 sono però sconfessate dall’episcopato e costrette al ripiegamento, con divisioni e lacerazioni45: «la bella stagione che sembrava allargare il respiro del mondo cattolico» – scrive alla fine del 1972 «Rocca» – appare per più versi conclusa46. Pochi mesi prima un clamoroso insuccesso elettorale aveva bocciato il Movimento politico dei lavoratori (Mpl), fondato dall’ex presidente delle Acli, Livio Labor, che si proponeva di erodere l’egemonia democristiana e di avviare processi nuovi47.

A questa parabola contribuiscono sia la radicalizzazione sociale e politica di quegli anni sia – soprattutto – i contraccolpi conservatori che la accompagnano. Per queste stesse ragioni i fermenti durano più a lungo e sono più estesi all’interno del sindacato cattolico: subendo anche qui, nei primi anni settanta, colpi di freno robusti.

1 Cfr. Manifesti della rivolta di maggio, a cura di A. Pancaldi, Roma 1968.

2 Cfr. B. Bongiovanni, Società di massa, mondo giovanile e crisi di valori: la contestazione del ’68, in La storia: i grandi problemi dal medioevo all’età contemporanea, a cura di M. Firpo e N. Tranfaglia, VII, L’età contemporanea, 2, La cultura, Milano 1988, pp. 676-81.

3 Essi erano fatti propri anche da chi non faceva parte del movimento comunista: 1905 in Francia era ad esempio il titolo di un intervento di Gilles Martinet in «Problemi del socialismo», luglio-agosto 1968, 32-33; dal canto suo un segretario della Cfdt, ripercorrendo le scelte del proprio sindacato, annotava: «nella catena della storia, le barricate del maggio ’68 formano un anello che si riallaccia a quello delle barricate operaie della Comune di Parigi»: A. Détraz, Cfdt: potere studentesco e potere operaio, ivi, p. 867.

4 Così affermava lo striscione d’apertura di un loro corteo. Cfr. Studenti di Francia, Roma 1968; Documenti della rivolta studentesca francese, Bari 1968; La Comune di maggio, a cura di S. Mazzocchi, Milano 1968.

5 A. Gorz, Maggio e dopo, in «Problemi del socialismo», luglio-agosto 1968, 32-33, pp. 780-1; cfr. inoltre M. Winock, La febbre francese dalla Comune al maggio ’68, Roma-Bari 1988.

6 Il 3 maggio – il giorno in cui la polizia interviene brutalmente alla Sorbona, provocando l’esplosione definitiva del movimento – un editoriale di George Marchais sul quotidiano del Pcf attacca i «gruppetti studenteschi» perché composti da «figli di grandi borghesi che presto porranno fine alla fiammata rivoluzionaria per andare a dirigere l’impresa di papà»: cfr. L. Magri, Considerazioni sui fatti del maggio, Bari 1968, p. 32. Un dirigente del Psu francese, Manuel Bridier, scriveva: «il rifiuto del dialogo da parte del […] Partito comunista francese costituisce il dramma storico del maggio 1968» (M. Bridier, Il Psu di fronte alla crisi, in «Problemi del socialismo», luglio-agosto 1968, 32-33, p. 909).

7 Magri, Considerazioni sui fatti del maggio cit., pp. 19-20 (e cfr. anche pp. 96 sgg.).

8 Ibid., p. 283.

9 Cfr. il verbale della riunione del 21-22 novembre 1968, in APC, IG, 1968, mf 20, pp. 1240-1.

10 L’anno successivo il gruppo sarebbe stato il più attivo promotore della costituzione di Lotta continua.

11 Cfr. il lungo volantino stampato dal titolo Gli insegnamenti della rivolta in Francia, IRSIFAR, GC, b. 1, f. 2.

12 Cfr. Hamon e Rotman, Generation cit., I, p. 575.

13 V. Foa, Questo Novecento, Torino 1996, pp. 316-7 e 307-8 (il corsivo è nel testo). Troviamo toni convergenti in un intervento del 1988 di Adriano Sofri: «Per quanto trascinante fosse il “movimento”, per quanto bollente fosse il crogiuolo in cui fondevano storie personali, abitudini, pregiudizi, resta il fatto che esso, nella sua onda alta e tanto più nelle ricadute, veniva vissuto, ordinato e interpretato secondo schemi ereditati»: cfr. Sofri, La corsa nei sacchi cit., p. 180.

14 A. Mangano, La geografia del movimento del ’68 in Italia, in Il Sessantotto: l’evento e la storia cit., p. 247.

15 Cfr. L. Colletti, Le ideologie, in Aa.Vv., Dal ’68 ad oggi. Come siamo e come eravamo, Bari 1979, pp. 101-65.

16 Traggo le citazioni da N. Janigro, Il ’68 jugoslavo: vent’anni di bisbigli per un movimento di sette giorni, in Il Sessantotto: l’evento e la storia cit., pp. 77-92.

17 Duemila parole dedicate agli operai, agli agricoltori, agl’impiegati, agli scienziati, agli artisti tutti, in «Literárni Listy», 27 giugno 1968 (in Pacini, La svolta di Praga e la Cecoslovacchia invasa cit., p. 280); cfr. inoltre Praga. Materiale per uso interno, Roma 1969; La via cecoslovacca al comunismo, Roma 1968; A. Dubček, Il nuovo corso in Cecoslovacchia, Roma 1968; K. Kosik, La nostra crisi attuale, Roma 1968; E. Goldstüker, Libertà e socialismo, Roma 1968; Il posto della cultura nella svolta cecoslovacca, n. monografico de «Il Contemporaneo», in «Rinascita», 28 giugno 1968.

18 Cfr. Dichiarazione di Fidel Castro sulla Cecoslovacchia, Milano 1968, pp. 13, 50 e 41-2.

19 Cfr. «Rinascita», 30 agosto 1968.

20 Così la dichiarazione del 23 agosto di Chou En-lai e un commento del «Renmin Ribao» dello stesso giorno: cfr. «Rinascita», 30 agosto 1968 e «Quaderni Piacentini», novembre 1968, 36.

21 Una rassegna dei volantini dei movimenti studenteschi e dei gruppi extraparlamentari è in «Lotta continua», 9 e 10-11 settembre 1978; cfr. anche IRSIFAR, GC, b. 1, f. 2 e b. 14. Si veda inoltre l’intervento di Oreste Scalzone, in L. Longo, Rapporto sulla Cecoslovacchia, in «Rinascita», 17 maggio 1968.

22 Cfr. Rudi Dutschke a Praga, Bari 1968; G. D. Neri, L’esperienza cecoslovacca, in «Quaderni Piacentini», novembre 1968, 36, pp. 40 sgg.

23 Presa di posizione provvisoria dell’S.D.S. sull’evoluzione in Cecoslovacchia, ivi.

24 Neri, L’esperienza cecoslovacca cit.

25 Cfr. «Monthly Review», ed. it., novembre 1968.

26 La testimonianza della Cavani è in L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 1960-1969, a cura di F. Faldini e G. Fofi, Milano 1981, p. 432.

27 F. Guccini, Primavera di Praga, 1969. Sulla Praga di quei giorni cfr. B. Valli, Praga nel clima disperato dei roghi, in «Il Giorno», 22 gennaio 1969.

28 Il documento di maggior interesse è prodotto dal movimento studentesco pisano: cfr. La Cecoslovacchia e la nostra lotta per il socialismo, in «Nuovo Impegno», novembre 1968-aprile 1969, 14-15. Un volantino, sempre di Pisa, affermava: Jan Palach ha riproposto «con la forza di un’azione esemplare fino all’estremo, la via della Resistenza all’oppressione, della lotta popolare». Un volantino del movimento studentesco pavese iniziava così: «Jan Palach è un rivoluzionario che chiama il suo popolo e ognuno di noi alla lotta contro il sistema del dominio». Sul movimento studentesco trentino cfr. la testimonianza di Marco Boato in «Lotta continua», 10-11 settembre 1978. Cfr. inoltre i documenti pisani conservati in APC, IG, Fondo Cazzaniga (FC), f. 83.

29 Il comunicato dell’Ufficio politico del Pci è in «Rinascita», 23 agosto 1968. Il comunicato del Psiup era stato molto più filosovietico – nonostante l’opposizione di Vittorio Foa, Lelio Basso e altri – e sarà ricompensato in rubli: cfr. V. Riva, Oro da Mosca, Milano 1999; L. Basso, Una sconfitta del movimento operaio, in «Problemi del socialismo», luglio-agosto 1968, 32-33, pp. 763-74.

1 Flores e Gallerano, Sul Pci cit., p. 187.

2 C. Petruccioli, L’assemblea e la delega, in «Rinascita», 22 marzo 1968.

3 Così Giulietto Chiesa: cfr. O. Cecchi: Le alleanze degli studenti, in «Rinascita», 8 marzo 1968.

4 Cfr. la lettera di Massimo D’Alema pubblicata con il titolo Sedicenti rivoluzionari, ivi, 10 maggio 1968.

5 A. Natta, Università da cambiare, ivi, 15 marzo 1968.

6 Luporini sottolineava, ad esempio, «la profonda inquietudine politica [del movimento studentesco], espressa con una problematica che tende a collocarsi oltre tutte le forze politiche, noi comprese, considerate integrate senza eccezione al sistema»: cfr. il suo intervento al Comitato centrale del Pci del 13-14 febbraio 1968, in APC, IG, 1968, mf 20.

7 Ivi. L’intervento di Amendola è nella riunione della Direzione del partito del 23 febbraio 1968, ivi.

8 Ivi, cfr. la trascrizione integrale dell’intervento di Bufalini.

9 Ivi, riunione della Direzione del 28 luglio, p. 877.

10 Cfr. A. Reichlin, Il dibattito di Ariccia, in «Rinascita», 13 dicembre 1968. Cfr. anche il numero speciale de «Il Contemporaneo» dedicato all’università (ivi, 23 febbraio 1968) e la relazione di Giorgio Napolitano nella riunione della Direzione del 23 febbraio 1968: anche al nostro seminario, diceva Napolitano, sono emerse posizioni inaccettabili: «critica e sfiducia a tutti i partiti [...] dove si arriva? ad assimilare il Pci a tutti i partiti» (APC, IG, 1968, mf 20, pp. 555-7); cfr. inoltre la testimonianza di Rossana Rossanda, in Chinello, Sindacato, Pci, movimenti cit., II, p. 565.

11 Cfr. Fgci, Atti del convegno nazionale degli studenti comunisti, Firenze, Palagio di Parte Guelfa, 17-19 marzo 1968, in «Quaderni di orientamento», 3: cfr. in particolare gli interventi di un dirigente nazionale della Fgci e di un delegato di Bologna, pp. 39 e 12. Questo e altri materiali sono in APC, IG, 1968, mf 548.

12 In Atti del convegno nazionale cit., cfr in particolare gli interventi dei delegati di Torino, Trento, Pavia e altre città; la mozione di Trento e Torino è a p. 72, la frase di Petruccioli a p. 61; cfr. inoltre G. Camboni e D. Sansa, Pci e movimento studentesco 1968-73, Bari, 1975.

13 Longo ha un incontro con i leader del movimento romano e ne parla poi positivamente in un numero apertamente «elettorale» di «Rinascita»: L. Longo, Il movimento studentesco nella lotta anticapitalistica, in «Rinascita», 3 maggio 1968.

14 G. Amendola, Necessità della lotta sui due fronti, ivi, 7 giugno 1968.

15 Così è ad esempio nel marzo 1969 quando – in un momento di grande tensione negli atenei – il partito si astiene al Senato su un ordine del giorno governativo relativo all’università: cfr. le lettere pubblicate da «Rinascita» il 14 e 28 marzo 1969.

16 La relazione di Achille Occhetto (precedente segretario della Fgci) e altro materiale sono in APC, IG, 1968, mf 551.

17 Cfr. l’intervento di Napolitano nella riunione della Direzione del 21-22 novembre 1968, in APC, IG, 1968, mf 20, p. 1237: si riferisce a un documento elaborato dalla segreteria della Fgci di cui viene impedita la pubblicazione.

18 L’intervento di Amendola è nella riunione della Direzione del 4 dicembre 1968, ivi.

19 Cfr. A. Occhetto, Insurrezione e via democratica, in «Rinascita», 21 giugno 1968; Id., Forze rivoluzionarie e lotta per il socialismo nell’Europa capitalistica, ivi, 6 settembre 1968.

20 Cfr. la riunione della Direzione del 6 giugno 1968 dedicata al maggio francese, in APC, IG, 1968, mf 20. In essa Luigi Longo osserva: «Vista la situazione e le possibilità, il problema che si poneva ai francesi, e che si pone a noi, in termini meno acuti, era quello del ricorso alla forza o meno» (p. 726). E il segretario della Fgci Petruccioli afferma: in Francia si è arrivati «alla soglia» di una «situazione rivoluzionaria [...]. Il problema che si pone è: come avviene poi il salto?» (p. 723). Analoghe questioni si affacciano del resto anche nell’intervento di un dirigente non certo «estremista» come Di Giulio (pp. 729-31).

21 L’intervento è svolto nella riunione della Direzione del 4 ottobre 1968, dedicata alla preparazione del XII Congresso (ivi, pp. 1063-5).

22 Cfr. il cap. VI.

23 Cfr. ad esempio i servizi di Franco Bertone da Praga che compaiono su «Rinascita» nella prima parte del 1968: Cecoslovacchia: decisioni sulla via della riforma, 12 gennaio; Scrittori e partito a Praga, 2 febbraio; Praga: il consenso degli intellettuali, 8 marzo; Lotta più tesa per il rinnovamento, 15 marzo. Cfr inoltre E. Fischer, La speranza di Praga e G. Lukács, Tutti i dogmatici sono disfattisti, ivi, 29 marzo; L. Pavolini, Praga: i figli della rivoluzione, ivi, 5 aprile.

24 L. Longo, Rapporto sulla Cecoslovacchia, in «Rinascita», 17 maggio 1968.

25 Cfr. le informazioni che Longo fornisce alla Direzione il 10 maggio, in APC, IG, mf 20, pp. 658-66.

26 Cfr. la riunione della Direzione del 17 luglio 1968, ivi, mf 20: «Quel che più ci ha preoccupato in Suslov» – dice Pajetta – sono le affermazioni sulle «forze sane che possono reagire e che esistono anche nel CC e nella Direzione» del Partito comunista cecoslovacco (pp. 801 sgg.).

27 Ivi, pp. 814 sgg. Il 26 luglio Longo riferirà: «Nell’ultima direzione [19 luglio] mi si era dato il mandato di compiere il passo più opportuno, anche per la forma [nei confronti dei sovietici]; l’intervento fu fatto domenica 21-7, nel modo che voi tutti sapete. Ora, che intervento dobbiamo fare?»: si veda ivi, pp. 879 sgg.

28 Le posizioni filosovietiche che affiorano in alcune aree del partito non sembrano molto significative: ne dà conto Cossutta, nella riunione del 23 agosto: ivi, pp. 909 sgg. Cfr. inoltre i verbali e i rapporti che giungono dalle diverse federazioni, ivi, mf 550-5. Cfr. infine: L. Longo, Risposte a tre domande e P. Ingrao, Il dibattito in corso nel partito, in «Rinascita», 13 settembre 1968; A. Natta, Momento di verità per tutta una politica e L. Weiss, «Non ci sono rospi da ingoiare», in «Rinascita», 20 settembre 1968.

29 APC, IG, 1968, mf 20, pp. 922-3.

30 «L’articolo di Cerroni non l’ho visto male – afferma – mentre ho fatto togliere quello di Vacca»: cfr. il verbale della riunione del 18 settembre 1968, ivi; e cfr. U. Cerroni, Problemi teorici posti dal dramma cecoslovacco. Un nuovo partito per un nuovo Stato, in «Rinascita», 13 settembre 1968.

31 Cfr. la relazione di Cossutta sul suo viaggio a Mosca nella riunione del 31 ottobre 1968, in APC, IG, mf 20, pp. 1102 sgg.

32 Ponomarëv sferra anche un durissimo attacco a Hayek, che ha posto la questione cecoslovacca all’Onu: «un vero tradimento di Stato [...]. Ha fatto peggio di Nagy che era presidente del consiglio mentre lui era solo ministro degli esteri. E Nagy fu giustiziato»: ivi, p. 1104.

33 Ivi, cfr. l’intervento di Cossutta.

34 Le parole sono ancora di Cossutta: cfr. la riunione della Direzione del 21-22 novembre 1968 (ivi) e Riva, Oro da Mosca cit.

35 Il 16 novembre, ad esempio, Berlinguer parla di una «pressione crescente, ossessiva» da parte dei sovietici: APC, IG, 1968, mf 20, pp. 1164 sgg.

36 Cfr. F. Bertone, Le carte di Husák, in «Rinascita», 25 aprile 1969. L’articolo, che pure non manca di elogiare la figura di Husák, afferma che «i segni non consentono ottimismi» e indica le misure repressive attuate. Esso attira le critiche di Pajetta: «mi trova in profondo disaccordo. Si fa un elenco in cui si dice che lì non c’è più nessuno» (cfr. la riunione della Direzione del 7-8 maggio 1969, in APC, IG, 1969, mf 6).

37 Cfr la riunione del 16 aprile 1969, ivi.

38 Cfr. questo intervento e quelli successivi nella riunione della Direzione del 7-8 maggio 1969, ivi.

39 «Comprendo bene la preoccupazione che muove Longo: vediamo come si sta muovendo Husák, non dobbiamo creargli ostacoli [...]. Quello che non è chiaro e convincente è la sorte dell’esperimento [...] sono dubbioso e pessimista», ivi.

40 Ivi, p. 1568 (Cossutta), p. 1573 (Terracini), pp. 1576-7 (Pajetta).

41 Il testo dell’intervento di Berlinguer (11 giugno 1969) e la «dichiarazione conclusiva» da lui letta (16 giugno) sono in E. Berlinguer, La questione comunista, Roma 1975, I, pp. 42-67.

42 Cfr. il verbale della riunione del 29 maggio 1969 e – per i commenti successivi alla Conferenza – di quella del 20 giugno. Cfr. S. Pons, L’Urss e il Pci nel sistema internazionale della guerra fredda e R. Gualtieri, Il Pci, la Dc e il «vincolo esterno», in Il Pci nell’Italia repubblicana cit.

43 Cfr. «il manifesto», settembre 1969, 4.

44 XII Congresso del partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Roma 1969. Una sintesi dell’andamento dei congressi provinciali è in Riunione dei segretari regionali sull’andamento dei Congressi, 8-1-1969, in APC, IG, 1969, mf 305.

45 Essa comprende sin le vecchie bandiere della lotta per la riforma agraria, o contro i «grandi monopoli saccariferi». Sul movimento studentesco Longo afferma: «Gli obiettivi principali sono oggi il riconoscimento pieno della democrazia nella scuola e il diritto allo studio» (XII Congresso cit.).

46 L’editoriale con questo titolo compare su «Il Giorno» del 9 febbraio 1969.

47 Il primo numero esce nel giugno 1969.

48 Cfr. il documento che verrà elaborato dal gruppo nell’autunno del 1970: Per il comunismo, in «il manifesto», II, settembre 1970, 9.

49 Cfr. il dibattito che si svolge il 2 ottobre 1969 nella quinta commissione del Comitato centrale del Pci, Problemi dell’organizzazione e della vita del partito, in APC, IG, 1969, mf 305.

50 Ne «il manifesto», I, giugno 1969, 1, cfr. l’editoriale, Un lavoro collettivo, e – per i paesi dell’Est – R. Rossanda, Le radici della divisione.

51 «Sono per mettere fuori dall’apparato e dai giornali i collaboratori de “il manifesto”. Non credo che questo si debba per forza far sapere», dice Pajetta nella Direzione del 7 luglio 1969: APC, IG, 1969, mf 6.

52 Cfr. il dibattito che si svolge in Direzione il 2 e 7 luglio, il 3 ottobre, il 5, 11 e 24 novembre (qui la frase di Pajetta citata), ivi.

53 Essi sono particolarmente aspri a Napoli, Roma, Bergamo (ove le posizioni de «il manifesto» sono maggioritarie), Venezia, Cagliari e altrove: cfr. il verbale delle riunioni della Direzione del 5 e 11 novembre e il resoconto sommario della riunione dei segretari federali del 21 novembre 1969, ivi, mf 6 e mf 305.

54 Cfr. APC, IG, 1969, mf 305, pp. 533-945.

55 Il dibattito che si svolge nel Comitato centrale del partito dal 15 al 17 ottobre 1969 è pubblicato interamente in La questione del «manifesto». Democrazia e unità nel Pci, Roma 1969. La radiazione di Rossanda, Pintor e Natoli e il deferimento di Magri alla Commissione centrale di controllo sono decisi dal Comitato centrale del 25-27 novembre 1969. Oltre a Rossanda, Pintor e Natoli votano contro Cesare Luporini, Lucio Lombardo Radice e Fabio Mussi. Si astengono Sergio Garavini, Giuseppe Chiarante e Nicola Badaloni: APC, IG, 1969, mf 6. Cfr. inoltre Dopo il C.C. comunista. Sul Manifesto, in «il manifesto» ottobre-novembre 1969, 5-6, e Ancora un lavoro collettivo, ivi, dicembre 1969, 7.

1 Cfr. Baget Bozzo e Tassani, Aldo Moro cit., pp. 339 sgg.

2 Gentiloni, All’ombra del campanile cit., p. 22.

3 Ibid.

4 G. Verucci, Il ’68, il mondo cattolico e la Chiesa, in Agosti, Passerini, Tranfaglia, La cultura e i luoghi del ’68 cit., pp. 385-6.

5 Cfr. «Com-Nuovi Tempi», 28 febbraio 1988.

6 Cfr. l’intervento dell’assistente diocesano della Fuci di Venezia in «Gioventù», aprilemaggio 1968. Ivi cfr. anche l’intervento dell’assistente del centro universitario cattolico di Perugia, e quello di U. Trivellato, Il movimento studentesco: tappe e mutamenti.

7 Ivi, cfr. Cosa ne pensano i giovani cattolici?

8 Cfr. F. Ferraresi e altri, La politica dei gruppi. Aspetti dell’associazionismo politico di base in Italia dal 1967 al 1969, a cura di F. Rositi, Milano 1970; E. Rotelli, I gruppi spontanei del ’68, in AaVv., I cristiani nella sinistra. Dalla Resistenza ad oggi, Roma 1976. Degli oltre 300 «gruppi spontanei» censiti nel 1968, anno della loro massima espansione, quasi la metà sono espressione diretta del mondo cattolico e un altro 30% raccoglie sia cattolici che laici. Cfr. inoltre M. Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia 1965-1980, Milano 1983.

9 Oltre a Leoni, Testimonianza semiseria sul ’68 a Trento cit., cfr. i rapporti prefettizi del 30 e del 31 marzo e del 1° aprile 1968, in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 355, f. 15584-83. Cfr. inoltre M. Boato, Contro la Chiesa di classe. Documenti della contestazione ecclesiale in Italia, Padova 1969.

10 A giugno il prefetto dà notizia di oltre 100 mandati di comparizione inviati agli studenti per l’occupazione dell’ateneo, aggiungendo: il provvedimento «ha suscitato commenti favorevoli nella maggioranza della popolazione, non così negli ambienti della Curia in quanto fra le persone citate a comparire davanti al giudice figurano due sacerdoti iscritti alla facoltà […] molto vicini all’Arcivescovo»: ivi, il rapporto del 9 giugno 1968.

11 Cfr. il rapporto prefettizio del 24 maggio 1968, ivi. Cfr. inoltre Beretta, Il lungo autunno cit., pp. 95-8.

12 Cfr. M. Chierici, A Parma gli studenti «occupano» la cattedrale, in «Il Giorno», 15 settembre 1968, e Id., «Volevamo scuotere i fedeli dormienti», ivi, 16 settembre 1968.

13 Cfr. Torino. Operai in sciopero occupano una chiesa, ivi, 6 marzo 1969; A. Bonato, L’occupazione delle chiese, in «Rocca», 1° marzo 1969.

14 Cfr. Isolotto 1950-1969, Bari 1969.

15 Cfr. Beretta, Il lungo autunno cit., p. 158; P. Baldelli, Isolotto: esperienza di un quartiere popolare di Firenze, in «Nuovo Impegno», maggio-luglio 1969, 16, pp. 141-64.

16 Cfr. il rapporto trimestrale inviato il 1° dicembre 1968, in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 416, f. 16995/31.

17 Cfr. G. De Rosa, Il «catechismo» dell’Isolotto, in «La Civiltà cattolica», 1969, 1, pp. 30-40. Cfr. inoltre D’Avanzo, Tra dissenso e rivoluzione cit., pp. 115-71.

18 Cfr. Comunità dell’Isolotto, Oltre i confini. Trent’anni di ricerca comunitaria, Firenze 1995.

19 Il processo terminerà nel luglio del 1971 con l’assoluzione degli imputati: cfr. A proposito del processo per i fatti dell’Isolotto, in «La Civiltà cattolica», 1971, III.

20 Cfr. Centro di documentazione di Pistoia, Una chiesa povera per un mondo povero, Milano 1969. Sull’estendersi delle comunità di base cfr. Verucci, La Chiesa postconciliare cit., pp. 332 sgg. e Melloni, La complessa ricezione del Concilio cit.

21 Cfr. la Lettera al Cardinale Siri dei cattolici di San Camillo pubblicata da «Il Secolo XIX» il 16 gennaio 1969. In essa si chiede: «È la Chiesa povera come Cristo? È vero che certe parrocchie genovesi hanno più l’apparenza di aziende commerciali e finanziarie che di comunità religiose? Qual è il rapporto libertà-verità? E quello gerarchia-fedeli?»: cfr. i rapporti prefettizi conservati in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 28, f. 11001/35, sf. 2, Manifestazioni di contestazione.

22 Il ciclostilato è firmato dai sacerdoti «Aldo, Francesco, Giuseppe, Guerrino, Paolo, Roberto, Ugo, Vittorio» ed è in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 26, f. 11001/2.

23 Il testo della preghiera è in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 30, f. 11001/48/1; cfr. inoltre I contestatori assediano il cardinale, in «Il Giorno», 5 febbraio 1969 e – per un episodio analogo – Battibecchi dopo la messa celebrata dal Cardinale, ivi, 3 aprile 1969.

24 La preghiera e una lettera aperta al vescovo firmata da sessanta cattolici cagliaritani è in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 27, f. 11001/18, assieme al rapporto prefettizio del 20 marzo 1969.

25 Cfr. il documento diffuso dal parroco dopo gli scontri di Battipaglia, ivi, b. 33, f. 11001/63.

26 Cfr. il rapporto prefettizio del 9 aprile 1969, ivi, b. 422, f. 16995/76.

27 «Sempre attiva è stata l’attività di contestazione ecclesiastica – scrive il prefetto ancora il 20 agosto 1970 – compiuta non tanto da laici quanto da sacerdoti e parroci posti in posizioni avanzatissime»: ivi, b. 16695/65: e ivi, cfr. anche i rapporti precedenti. Cfr. inoltre P. Bruzzichelli, Ravenna. La chiesa è comunione, ma la comunione è difficile, in «Rocca», 15 marzo 1970.

28 Cfr. il rapporto prefettizio del 12 dicembre 1968, in ACS, MI GAB, b. 423, f. 16995/90.

29 Cfr. Contestano a Chieti anche i seminaristi, in «Il Giorno», 24 novembre 1968.

30 Cfr. G. Zizola, Il «collettivo ecclesiale» di Mestre, ivi, 8 aprile 1969; cfr. inoltre Id., Pescara. Fateci sentire preti, ivi, 4 aprile 1969.

31 Cfr. Id., Nella diocesi più ricca di chiese si celebra nei garages, ivi, 23 aprile 1969.

32 Scrive Enzo Forcella: è un documento «drammatico», che esprime nella maniera più palese la crisi della fase post-conciliare (Un no fermo, ivi, 30 luglio 1968).

33 Cfr. il cap. VI.

34 Traggo la citazione da Ceci, La teologia della liberazione cit., p. 112.

35 Ibid., cfr. pp. 109-28; cfr. inoltre Verucci, La Chiesa nella società contemporanea cit., pp. 453-5.

36 Cfr. l’allocuzione tenuta nell’udienza generale del 18 settembre 1968, in Di fronte alla contestazione. Testi di Paolo VI, a cura di V. Levi, Milano 1970.

37 Ibid., pp. 55-6, cfr. l’allocuzione tenuta nell’udienza generale del 29 gennaio 1969.

38 Traggo i giudizi, e le citazioni dei discorsi di Paolo VI del 17 settembre 1969 e del 29 giugno 1972 da Verucci, La Chiesa nella società contemporanea cit., pp. 456-7.

39 Cfr. Il caso Girardi. Perplessità e reazioni, in «Rocca», 1° ottobre 1969.

40 Cfr. Don Lutte dice di no e resta fra i poveri, in «Il Giorno», 24 febbraio 1971. Sul suo impegno precedente cfr. almeno E. Masina, Signori, ecco come si vive nelle baracche, ivi, 1° maggio 1968; V. Messori, Le piaghe di Roma: i baraccati, in «Rocca», 1° giugno 1968.

41 Cfr. in «Rocca» del 15 marzo 1971 una sintesi di questa e altre vicende e due interviste a Lutte e Franzoni. Ivi, 1° luglio 1973, cfr. un’altra intervista a Franzoni, L’abbazia dei poveri; cfr. inoltre G. Zizola, Dimettersi o resistere. A un bivio l’abate di S. Paolo, in «Il Giorno», 7 marzo 1972; Id., «Ho rotto la quiete del chiostro», ivi, 20 giugno 1972.

42 Cfr., ad esempio, Via da Oregina padre Zerbinati, ivi, 28 giugno 1971; C. Arcuri, La comunità di Oregina diserta la Chiesa, ivi, 11 luglio 1971.

43 Cfr. G. Zizola, Dal presidente della Cei cardinal Poma dure critiche ai preti del dissenso, ivi, 30 aprile 1972; Il Movimento «7 novembre» replica al cardinal Poma, ivi, 5 maggio 1972; F. De Santis, Dichiarano guerra i preti contestatori, in «Il Corriere della Sera», 27 aprile 1972.

44 Cfr. C. Crocella, Una singolare espressione del dissenso cattolico negli anni Settanta: il movimento «7 novembre 1971», in C. Brezzi, C. F. Casula, A. Giovagnoli, A. Riccardi, Democrazia e cultura religiosa, Bologna 2002.

45 F. Tortora, Le Acli e la scelta socialista, in Aa.Vv., I cristiani nella sinistra cit., pp. 199-213; C. F. Casula, Pratiche sociali e tentazioni della politica: Acli e Cisl, in «Storia e problemi contemporanei», maggio-agosto 2002, 30.

46 Il giudizio redazionale accompagna la nota, «amara e disillusa», di un esponente della sinistra aclista: G. Della Pergola, L’orientamento futuro delle Acli, in «Rocca», 1° dicembre 1972.

47 Cfr. L. Labor, In campo aperto, Firenze 1969. Nelle elezioni politiche del 1972 l’Mpl conseguì 120 000 voti, pari allo 0,4%.