Abbiamo soffocato
ogni terribile rumore.
Lo sciopero è totale.
Guardo la fabbrica adesso
da fuori.
È la prima volta
che la vedo ubbidire
prostrata
davanti alla vita.
Ferruccio Brugnaro, poeta operaio, La prima volta1.
È arrivata la nostra primavera
tutta la notte arsero i fuochi
intorno alla città
a disgelare i piedi ai nostri bambini
a sciogliere la rabbia invernale [...]
ogni mano stringerà una pietra
ogni strada un fiume di compagni
un mare un solo mare in moto
la piazza del Duomo!
Padre David Maria Turoldo, Canto di operai in sciopero2.
Fra 1966 e 1967 la «congiuntura» è ormai alle spalle, e la ripresa economica fa balzare in luce le deformazioni indotte dallo «sviluppo non governato». Anche l’orizzonte politico-culturale è mutato, con l’abbandono delle «illusioni» della programmazione e il moltiplicarsi di spinte divaricanti: si pensi alla crescente «sensazione di subalternità» del Mezzogiorno, che vede intrecciarsi la ripresa di flussi migratori e un intervento pubblico sempre più ampio e più distorto; si pensi anche al moltiplicarsi di spinte microcorporative e localistiche che esaltano un sottogoverno diffuso3.
A venire alla ribalta però è soprattutto l’estendersi dei conflitti industriali: essi hanno il loro culmine nel 1969 e si protraggono poi con vigore e asprezza – in un clima politico e sociale sempre più teso – nella «conflittualità permanente» degli anni successivi. Sono solo una parte di un’ampia e differenziata mobilitazione collettiva che ha soggetti e segni diversi, non riconducibili a un unico tratto.
L’arco d’anni che corre fra la seconda metà degli anni sessanta e il decennio successivo è stato talora definito «la stagione dei movimenti», e la definizione coglie ma al tempo stesso rischia di deformare un elemento reale. Il protagonismo collettivo che era venuto alla luce con il movimento studentesco, e che le lotte operaie riproposero in forme ancor più robuste e diffuse, sembrò propagarsi a macchia d’olio nella società italiana, invaderla e quasi «plasmarla» in forme nuove. Venivano in realtà alla luce spinte e mobilitazioni di differente origine e natura: convergenti solo nel provocare forti contraccolpi in istituzioni arcaiche e in un sistema politico incapace di offrire prospettive o mediazioni politico-sociali convincenti. Non era facile allora cogliere appieno questa diversità proprio per la forza dirompente dei conflitti industriali: essi sembravano «inverare» le speranze più radicali ed estreme del movimento studentesco, davano corpo a modalità nuove dell’agire politico e – soprattutto – si ponevano come perno di una più generale battaglia per la giustizia sociale.
Anche dati concreti, quantitativi e «qualitativi», contribuivano ad alimentare una visione unilaterale dei processi sociali in corso. La ripresa economica porta nel 1970 l’occupazione industriale al suo massimo storico, attorno al 42% del totale4, con una crescita significativa delle grandi aziende. Gli operai della Fiat, ad esempio, giunti sino alle 102 000 unità del 1963 e diminuiti di alcune migliaia nel biennio successivo, aumentano di nuovo con vigore fino ai 139 000 dell’«autunno caldo»: con l’ingresso di 12 000 giovani nel 1968, di 14 000 nel 19695. Troviamo dati analoghi nelle fabbriche lombarde6 o nei nuovi insediamenti del «miracolo», in Veneto e altrove7.
Come negli anni d’oro del boom, a «tirare» maggiormente sono le fabbriche automobilistiche e di elettrodomestici, basate sulle catene di montaggio e quindi su una larga massa di operai dequalificati, gli «operai comuni»: grazie alla scolarizzazione di massa e all’apporto dei media essi sono dotati però di una cultura superiore a quella dell’operaio altamente specializzato di vent’anni prima. È un aspetto decisivo, allora poco valutato (appannato, semmai, nelle indistinte apologie dell’«operaio massa»), ma presente nelle memorie di dirigenti o di militanti sindacali. «Quello che pesò nella dura esperienza di questa generazione di immigrati – ha osservato ad esempio Bruno Trentin – fu la contraddizione fra una certa emancipazione culturale e la scoperta di un mondo più vasto, e [d’altro lato] l’ingresso brutale in un rapporto di lavoro dequalificante e oppressivo»8. Un militante comunista della Dalmine di Bergamo ha così rievocato il passaggio dal «prima» al «dopo»: «Straordinari obbligatori anche nei giorni di festa. Ambiente di lavoro al massimo della nocività. Lavoratori impauriti. Questo perché gran parte degli operai venivano o dalla campagna o dall’edilizia. Ma a partire dalla metà degli anni sessanta sono entrati i giovani direttamente dalla scuola dell’obbligo»9.
Le potenzialità professionali e culturali e le domande sociali di milioni di giovani entrano dunque in contraddizione esplosiva con lo snervante lavoro alla catena, l’ingiustizia quotidianamente subita, le umiliazioni e le discriminazioni.
Anche la ripresa produttiva avviene secondo moduli antichi. Alla Fiat, già dal 1966, sotto l’apparente «silenzio» della fabbrica iniziano a moltiplicarsi «focolai di conflittualità», innescati da momenti di disagio particolarmente aspri10. Li provoca in primo luogo la pressione dei capi reparto volta ad aumentare continuamente i ritmi di lavoro. Molte testimonianze ci ripropongono realtà concrete, reparti e lavorazioni: la Verniciatura, ad esempio, ove le «scocche» che escono ancora calde dai forni ustionano i polpastrelli11; o la Lastroferratura: «quando sono entrato lì mi sembrava di essere finito all’inferno. Scintille, fumo, fiamma ossidrica»12. Ci riconsegnano, più in generale, la quotidiana brutalità di una fabbrica gigantesca all’inseguimento esasperato del mercato:
chi entrava alla Fiat poteva considerarsi un uomo perduto, perché lavorare alla catena di montaggio toglie ogni possibilità di fare qualunque altra cosa […]. Il 90% di noi si addormentava sul tram, arrivava a casa e si preparava già per il lavoro del giorno dopo […] c’era paura […] c’era il deserto alla Fiat per tutti gli anni 60 e tu eri là, solo, abbandonato. O te ne uscivi o eri un uomo perduto, avevi tutti contro, anche i tuoi compagni di lavoro di cui non ti potevi proprio fidare13.
Differenti testimonianze, e sin di parte aziendale, ci abbozzano però l’immagine di una fabbrica che inizia a presentare anche un altro e opposto volto: quello, «oscuro e ignoto all’esterno, delle officine e dei reparti trasformati nel teatro di una guerriglia spicciola, ove si rinnovava ogni giorno una protesta sorda, ancora costretta a rimanere latente»14.
I segnali non vengono dalla sola Fiat. Già all’inizio del 1968 Giorgio Bocca racconta di uno sciopero che avviene «all’insaputa dei sindacati» in una fabbrica milanese:
gli operai si fermano come per un ordine arcano, nessuno sa bene cosa sta per succedere ma sui visi si legge una voglia comune di violenza, ed ecco passare la voce: «Venga giù il direttore del personale». Per ordini superiori il nostro si rassegna a scendere, preparato al peggio, e gli succede. Questo: gli dicono di star fermo, accanto ad un tornio, e poi, quanti sono, gli sfilano davanti e gli ripetono l’uno dopo l’altro: «Faccia di m…, faccia di m…» […]. L’episodio è l’introduzione adatta ai temi nuovi e poco conosciuti che la fabbrica nevrotica porta nella lotta di classe e, in senso più lato, nella civiltà industriale. Le indagini svolte, specie a Milano, nelle fabbriche più «razionalizzate», dove lo stress, le ansie, le responsabilità e le angosce produttive sono più intense, indicano questi due tempi: si comincia con un disadattamento all’ambiente di lavoro e ai suoi pericoli, c’è come un’accettazione dolce e passiva […] e poi raptus fulminei, sfoghi individuali e di gruppo che portano a nuove repressioni, a frustrazioni e al resto: gli infortuni sul lavoro, le assenze, gli scioperi presindacali, il sabotaggio, a volte la pazzia15.
L’episodio di partenza può apparire anomalo, o invenzione letteraria: di lì a poco preoccupati rapporti di prefetti segnaleranno sempre più spesso realtà analoghe. Nei mesi successivi Bocca continuerà a cogliere con lucidità processi ancora sotterranei: «un secondo carattere dei giovani operai e del loro radicalismo – scrive nel giugno di quello stesso 1968 – è la violenza [...]. Jacqueries contadine trasferite nell’industria e destinate ad effimere vampate? O assistiamo invece a metodi pre-rivoluzionari, trovati per istinto, che vanno oltre la fase della rivendicazione salariale per tentare subito, sotto la spallata violenta, di trasformare il rapporto di lavoro?»16. All’inizio dell’anno successivo, riferendosi agli operai della nuova industrializzazione bresciana, osserverà:
molti hanno fatto la terza media, quasi tutti conoscono detti e ridetti televisivi, la loro riscoperta del sindacato è insieme primitiva e nuova. Il nuovo è la coscienza unitaria: non si muovono le minoranze, gli attivisti, come una volta, ma il collettivo, quando tutti sono decisi; prendono un pezzo di carta, magari carta da zucchero, scrivono al sindacato e firmano tutti, o vanno tutti, in bicicletta o motoretta, alla Camera del Lavoro di Brescia […]. È anche nuovo che il movente delle azioni sia «morale», miri quasi sempre al rispetto della dignità personale, spessissimo a stabilire il libero diritto al cesso, che vale la libertà di pensiero per chi ne è privo17.
A completare il quadro si legga quanto scriveva all’inizio dell’«autunno caldo» un altro osservatore acuto, Enzo Forcella:
abbiamo avuto il boom economico e abbiamo avuto il suo consolidamento, dopo la pesante congiuntura che ha caratterizzato la metà degli anni sessanta. L’uno e l’altro sono stati pagati duramente dalle masse operaie e ora queste «chiedono i conti»: non soltanto in termini di aumenti salariali, e quindi di più equa distribuzione del benessere, ma in termini di «diritti umani», di condizioni di vita generali dentro e fuori la fabbrica: in altri termini, di «potere»18.
Queste brevi citazioni ci avvicinano a un’esplosione dei conflitti che non ha precedenti: le ore di sciopero nell’industria sono 28 milioni nel 1967, poco meno di 50 milioni nel 1968, oltre 230 milioni nel 196919.
L’ondata rivendicativa della fine degli anni sessanta è per certi versi comune ad altri paesi europei. Ovunque, infatti, dopo la stretta deflazionistica di metà decennio, vi era stata una ripresa produttiva rapida ma non accompagnata da adeguati compensi salariali, e questa è la prima causa delle agitazioni. La specificità italiana consiste nella maggiore estensione, durata e intensità dei conflitti, nelle modifiche più profonde che essi provocano nelle organizzazioni sindacali, nel ruolo più duraturo di altri soggetti collettivi (gruppi politici e movimenti)20: alcune ragioni di questa anomalia sono apparse chiare nei capitoli precedenti, altre verranno in luce fra poco.
La ripresa degli scioperi «fotografava», sia pure in modo differenziato, un rapporto spesso difficile fra lavoratori e sindacati. Ciò era più evidente dove la repressione padronale aveva falcidiato a fondo la rete degli attivisti, e anche nelle zone in cui vi erano state corpose immissioni di lavoratori giovani, spesso meridionali, privi o quasi di esperienza sindacale.
La Fiat rappresentava la punta più estrema di questa realtà. Fra i 50 000 dipendenti di Mirafiori vi sono 176 (centosettantasei) iscritti alla Fiom-Cgil nel 1967 (sono circa un migliaio in tutta la Fiat), poco più di 500 nel 1968 (1600 in tutta la Fiat). Aggiungendovi i 600 iscritti alla Fim-Cisl abbiamo sempre una percentuale assolutamente esigua, e ancora all’inizio dell’autunno caldo un dirigente sindacale torinese valuta a circa 1600 circa gli iscritti alle due organizzazioni nello stabilimento di Mirafiori. In esso decine di migliaia di lavoratori eleggono 18 membri di Commissione interna, inevitabilmente incapaci di cogliere e rappresentare una realtà così ampia, complessa e tumultuosa. Inoltre nel 1967 la somma dei voti di Fim e Fiom supera appena il 40% dei voti, e neanche nel dicembre 1968 raggiunge il 45%: gli altri suffragi vanno a due sindacati tradizionalmente «padronali», alla Fiat (Sida e Uilm). Si aggiunga infine che ancora nel 1969 il 54% dei quadri sindacali torinesi ha un’anzianità di iscrizione di oltre vent’anni21.
Questi dati, assieme alla realtà di fabbrica che abbiamo evocato, spiegano molti tratti delle dinamiche successive: sono la punta estrema di un logoramento diffuso nel rapporto fra i lavoratori e le loro organizzazioni che appare già nelle prime agitazioni22. Esso traspare in qualche modo anche nello sciopero generale sulle pensioni del 7 marzo 1968, indetto dalla sola Cgil. Dieci giorni prima infatti anche la Cgil aveva accettato – come la Cisl e la Uil – la proposta governativa23, ma quella decisione fu contestata immediatamente – ha ricordato Bruno Trentin – «dai deliberati di decine di Comitati direttivi provinciali, che erano riuniti in permanenza, e da migliaia di telegrammi che dalla periferia affluirono a Roma in quelle stesse ore»24. La Cgil riconosce l’errore, ritira il proprio consenso e proclama uno sciopero che vede una larghissima partecipazione, e al quale aderiscono anche significativi settori della Cisl.
Dopo molti anni, lo sciopero riesce anche alla Fiat e apre la via a una vertenza aziendale per la riduzione dell’orario. È preparata da un «referendum» cui rispondono migliaia di operai: è come al tempo degli schiavi, scrive uno di essi, «che allora gli uomini portavano le catene e adesso le catene [di montaggio] tirano l’uomo»; o anche: «Siamo come in pista e cioè, preciso, che siamo a Monza, che ogni giorno si aumenta di velocità e le minacce sempre più severe»; «è ora di farla finita con questi bastardi di dirigenti che aumentano la produzione».
Nelle risposte è frequente una critica ai sindacati che oscilla fra una sfiducia venata di qualunquismo, il ribellismo e la tentazione di un «sindacalismo estremo»25. Gli scioperi iniziano il 30 marzo e proseguono per due giorni ad aprile: con picchetti massicci davanti alle porte della Fiat, la partecipazione di numerosi studenti, interventi decisi della polizia, alcuni arresti26. Alla prima proposta di trattative da parte della Fiat lo sciopero è sospeso e viene raggiunto un accordo modesto: l’insoddisfazione nei confronti delle organizzazioni sindacali inevitabilmente cresce.
Pochi giorni dopo a Valdagno – cioè nel Veneto bianco e in una roccaforte del capitalismo arcaico e patriarcale – una violenta carica della polizia trasforma uno sciopero in una rivolta aperta, con la partecipazione di larghi strati della popolazione e con l’abbattimento del simbolo massimo del «paternalismo aziendale», il monumento a Gaetano Marzotto27. Sullo sfondo, una riorganizzazione aziendale basata su licenziamenti e intensificazione del lavoro: «carichi di lavoro e ritmi ossessivi, taglio degli organici», elenca un volantino del Pci. «Non è più l’uomo a determinare la produzione ma la produzione che incalza l’uomo: lo spreme, lo annienta»28. Un’inchiesta in fabbrica dà inoppugnabile concretezza a questa denuncia29, e Tina Merlin – la stessa giornalista che aveva saputo denunciare la Sade e preannunciare il disastro del Vajont – legge gli eventi successivi come «la ribellione ad una condizione di sfruttamento sempre estremizzata […], articolata in salari poverissimi, in ritmi produttivi sovratesi, nella salute sconvolta (nevrosi, asma, ansietà)»30. Per lo sciopero del 19 aprile duemila persone si ammassano davanti alla fabbrica e alle 9,30 vi è la prima carica della polizia. Gli scontri si succedono sino a sera, mentre affluisce anche la gente dei paesi vicini. Verso le 19 vi sono nuove cariche, particolarmente brutali: «tale intervento», scrive il prefetto,
dava inizio at preordinata et orchestrata azione di vandalismo, con abbattimento monumento bronzeo conte Marzotto, saccheggio negozio confezioni Marzotto et Hotel Pasubio […], danneggiamento paratie ponticello sul fiume Agno per procurarsi corpi contundenti. Frattanto forti contingenti manifestanti tenevano impegnata continuamente forza pubblica nei pressi stabilimento mediante nutrita sassaiola da varie direzioni favorita da oscurità e da esistenza in loco di numerose ville con ampi giardini mentre parte dimostranti tentava assalire caserma carabinieri cui personale reagiva prontamente et energicamente sparando in aria alcuni colpi mitra at scopo intimidatorio et disperdendo assalitori che continuavano azione vandalica contro abitazioni alcuni dipendenti ditta Marzotto. Contemporaneamente altri gruppi cercavano da varie parti di penetrare nel recinto dello stabilimento mediante scardinamento infissi, rottura di muri di recinzione, attacchi concentrici con evidente tentativo di frazionare forza pubblica che era costretta fare uso candelotti lacrimogeni consumando tutta dotazione31.
«Il Gazzettino» attribuisce i tumulti a «gente da fuori, estremisti con molta o poca barba […] arrivati da Trento, da Padova, da Verona, da Firenze»: non ve ne è traccia fra gli oltre quaranta arrestati – operai, lavoratori e studenti di Valdagno e delle valli –, e la stessa dinamica descritta dal prefetto fa capire bene che non è così32.
Poco lontano sono iniziate le vertenze alla Zoppas e alla Zanussi: esse proseguono l’anno successivo con scioperi articolati e incisivi, e con la conquista di nuove forme di democrazia. Compaiono i «delegati di linea» (per controllare i ritmi di lavoro) e il diritto di assemblea in fabbrica, e cresce la partecipazione degli operai alla direzione della vertenza. Bisognava confrontarsi con assemblee tumultuose, ha ricordato Bruno Trentin: «si arriva addirittura a delle forme perfino esagerate, alla cinese, con la trattativa in pubblico. Alla Zoppas, ricordo benissimo, tratto con i padroni con la gente fuori che interviene. Questo è l’impatto diretto del movimento degli studenti»33. Luciano Lama, dal canto suo, ammetteva «a caldo» che il sindacato aveva appreso più di altri (in particolare più dei partiti) la lezione della contestazione studentesca proprio perché «la contestazione ce l’aveva in casa, altri invece [i partiti] ce l’avevano intorno»34.
Scioperi spontanei, critiche alla gestione sindacale, nuove forme di organizzazione dal «basso» compaiono anche altrove, alla Rhodiatoce di Pallanza come a quella di Casoria: qui e all’Italsider di Bagnoli il prefetto napoletano segnala «la proclamata sfiducia contro tutte le organizzazioni sindacali e le commissioni interne e la conseguente pretesa di svolgere trattative, in costanza di sciopero, tra la parte datoriale [sic] e tutta la maestranza, o quanto meno una larghissima rappresentanza, ad hoc, della medesima»35.
A luglio Porto Marghera offre altri elementi di novità, con il mescolarsi di studenti e operai nei picchetti e nell’immenso corteo che il 1° agosto blocca per ore i punti nevralgici fra Mestre e Venezia: Dodicimila scioperanti bloccano strade e stazione ferroviaria è il titolo de «La Stampa». Assumono un peso decisivo le assemblee di fabbrica, che impongono – contro la piattaforma sindacale – un obiettivo salariale egualitario36. I sindacati, ha ammesso in questo caso Trentin,
pagarono il prezzo della loro burocratizzazione e furono completamente scavalcati da una lotta di massa che coinvolse lavoratori e studenti e che venne gestita da assemblee comuni fuori dei cancelli della fabbrica. Al punto che le federazioni nazionali dei chimici furono costrette ad esautorare le strutture provinciali per poter riprendere un dialogo con i lavoratori37.
Nello stesso periodo alla Pirelli di Milano – anche qui in polemica con la gestione sindacale e in rapporto con il movimento studentesco – nasce il Comitato unitario di base (Cub), capace di influenzare lotte significative e di proporre un «modello» che verrà seguito anche altrove38. A ottobre inizia in tutto il gruppo Pirelli una serie di agitazioni che vedono nella prima fase – è sempre Trentin a dirlo – «il sindacalismo confederale ai margini del conflitto, sino a essere quasi completamente esautorato dalla direzione degli scioperi»39.
Anche nello stabilimento di Settimo Torinese lo sciopero inizia a ottobre «improvvisamente e contro decisione organizzazioni sindacali»40, ma alla Bicocca gli scioperi creano più che altrove un «clima caldo e intransigente» e portano in luce «determinate modificazioni che si vanno verificando nella coscienza sindacale e nelle componenti del sindacalismo stesso»41. Sono parole del prefetto di Milano, che aggiunge:
comincia a far capolino nelle masse operaie un certo senso di sfiducia verso le organizzazioni sindacali, ritenute troppo accomodanti nei loro rapporti con la classe imprenditoriale, per cui spesso le decisioni dei sindacati sono aspramente criticate, quando addirittura non vengano fischiate e respinte. Non v’è dubbio che anche negli ambienti operai, specie più giovani, affiorano dei fermenti contestativi […]. Detti fermenti, a volte a sfondo anarco-sindacalista negli elementi più politicizzati, hanno spesso aspetti qualunquistici tra gli operai meno preparati, specie fra quelli di provenienza meridionale e di recente immissione nei processi produttivi42.
Alla fine di ottobre lo stesso prefetto riferisce che «da accertamenti svolti» i comitati di base sono presenti anche in altre fabbriche milanesi: «fra gli obiettivi dei suddetti comitati vanno annoverati la proclamazione improvvisa degli scioperi, l’affermazione dell’assemblea di reparto e di stabilimento come unico organo di direzione operaia, la lotta a fondo e senza esclusione di colpi contro i datori di lavoro»43.
Lo sciopero che il 3 ottobre dà il via alla vertenza della Pirelli è effettivamente «improvviso, deciso dai lavoratori», come afferma un volantino del Cub: erano anni, aggiunge, che «alla Pirelli e anche a Milano non si verificava, fuori delle normali scadenze contrattuali, uno sciopero così massiccio, e con una così alta partecipazione cosciente di lavoratori». Il volantino sintetizza gli obiettivi con lo slogan «più soldi, meno fatica» e insiste sulla necessità di «battere il ferro finché è caldo»44. Così sarà, nei mesi successivi: con incisivi scioperi «a scacchiera» e con una forma di lotta che richiede un accordo totale fra gli operai, l’autoriduzione della produzione. Le testimonianze ripropongono un più generale «risveglio», un più largo «riappropriarsi» della libertà e dei diritti: «c’era gente, soprattutto anziana – ha ricordato Mario Mosca, un fondatore del Cub – che quando prima andavo a trovarli nei reparti li vedevo come cadaveri, e invece dopo in ogni reparto trovavo il guizzo del movimento»45.
A far scoccare la prima scintilla era stato un grave incidente sul lavoro provocato dall’assenza di misure di sicurezza, e così avviene anche in una delle classiche «fabbriche del boom», la Candy46. Poco prima di un’assemblea un operaio perde la mano in una trancia e la lotta assume subito ritmi tumultuosi. Ha ricordato un vecchio militante della Fiom-Cgil: «era un periodo disordinato, confuso, delle volte ci si fermava prima ancora di vedere i motivi [...] si stabiliva in assemblea, un gruppo di studio qui, un gruppo di studio là, veniva fuori una confusione che non si capiva niente»47. Lo stesso disorientamento è espresso anche da un altro militante, sempre della Fiom-Cgil: «lo scoppio della lotta del ’68 è stato uno choc, noi non capivamo sino in fondo, anche se si appoggiava istintivamente questa ribellione, perché […] nasceva da una situazione reale, sentita […] è stato un periodo di purificazione delle coscienze»48. Va in pezzi l’ideologia della «grande famiglia» e uno degli obiettivi diventa l’«eliminazione del potere disciplinare dei capi». Altrove, come alla Ercole Marelli e alla Magneti Marelli, la scintilla scocca perché la Direzione non riceve neppure la Commissione interna per discutere la piattaforma aziendale.
Sono sempre i giovani a criticare vivacemente la moderazione sindacale e a imprimere una svolta. La «rottura della deferenza» – ha osservato Emilio Reyneri – dilaga «naturalmente» in un soggetto sociale che non ha conosciuto una socializzazione precedente, né sul terreno industriale né su quello sindacale: è stata quindi succube, al suo primo ingresso in fabbrica, di una struttura produttiva incomprensibile, e ha vissuto come altrettanto incomprensibili le logiche di un sindacato segnato ancora dalle sconfitte e dalle amarezze degli anni cinquanta49. I conflitti hanno dinamiche analoghe: alla Ercole Marelli di fronte al «crumiraggio» degli impiegati «gli operai si sollevano, incominciano a inseguire i capireparto, poi circondano il palazzo degli impiegati e con calci e spinte li costringono a scendere e a passare tra cordoni di scioperanti che urlano, lanciano monetine, fischiano»; in un’altra occasione, il direttore del personale «viene fatto marciare in mezzo a un mare di gente […] con minacce di impiccagione»50.
Nel dilagare delle agitazioni le nuove realtà di fabbrica si intrecciano a settori in difficoltà. A Pisa la situazione diventa esplosiva per il sommarsi delle crisi della Marzotto e della St. Gobain, e a metà ottobre uno sciopero si trasforma anche qui in rivolta aperta: con blocchi stradali che utilizzano «bidoni di catrame, pietre miliari, segnali stradali divelti, nonché oggetti di rifiuto (vecchie cucine)», o mucchi di sabbia fatti scaricare a forza da camion di passaggio. Viene interrotta anche una linea ferroviaria, «con collocamento sui binari di tronchi di legno, mentre le sbarre [del passaggio a livello] venivano bloccate con catene»51.
Un rapporto prefettizio sottolinea che il gruppo di Potere operaio, «inseritosi quasi di prepotenza nelle lotte sindacali, […] ha finito poi con l’avere una influenza talvolta determinante sull’andamento delle stesse specie nei momenti di maggior tensione, allorché la spinta eversiva da esso esercitata ha trovato un terreno particolarmente favorevole al suo sviluppo nello stato di eccitazione e di esasperazione delle masse operaie interessate»52.
Fra la fine del 1968 e i primi mesi del 1969 si succedono altre agitazioni con caratteristiche analoghe53, ma le organizzazioni sindacali stanno riprendendo l’iniziativa: con lo sciopero generale delle pensioni del 14 novembre 1968 – il primo condotto unitariamente, dopo la scissione di vent’anni prima – e soprattutto con gli scioperi per l’abolizione delle «zone salariali»54. Erano in discussione sperequazioni anacronistiche fra le diverse aree del paese, articolate in sette livelli: nella maggior parte delle regioni meridionali il salario raggiungeva appena – a parità di condizioni – l’80% di quello della prima zona (comprendente Milano, Torino, Genova e Roma). «L’Italia a fette» – per dirla con Vittorio Foa – era realmente «un’ingiustizia sociale senza giustificazioni produttive»55: la lotta contro le «gabbie salariali» – che si protrae per mesi – fa assumere alle agitazioni sindacali il più generale senso di «lotte per la giustizia»56.
La novità di quello scorcio di tempo è costituita però dai primi scioperi di impiegati. Il movimento si sviluppa in più di trenta fabbriche: milanesi, soprattutto, ma non solo57. All’Italsider di Taranto, ad esempio, la prima mobilitazione dei «colletti bianchi» è salutata da un volantino sindacale come «l’inizio di una nuova epoca [...] gli impiegati dell’Italsider vogliono essere considerati uomini liberi e responsabili, e come tali rispettati»58.
A Milano lo sciopero è particolarmente significativo alla Snam Progetti, alla Falk, alla Sit Siemens, all’Alfa Romeo, alla Borletti, alla Breda Finanziaria, e in altre aziende ancora59.
Talora è più evidente l’influenza – diretta o indiretta – del movimento studentesco: per il ruolo dell’«assemblea permanente» (alla Snam Progetti)60, dei «gruppi di studio» (alla Sit Siemens, alla Philips ecc.) o di Comitati unitari (all’Olivetti); per l’analisi del ruolo dei tecnici e della loro crescente subalternità nel sistema produttivo; per il comparire, talora, di forme stabili di collegamento61. Più in generale, l’influenza del movimento studentesco si avverte nel clima, nella partecipazione, in alcuni umori di fondo: «non dobbiamo delegare nessuno a rappresentarci senza controllo e verifica della delega», dice un foglio degli impiegati della Olivetti62. C’è da chiedersi però quanto la diffidenza verso le organizzazioni sindacali fosse immune da pregiudizi antichi, e quanto pesassero invece altri elementi.
È un eccellente «documento», da questo punto di vista, il diario di un’impiegata della Borletti che abbiamo già incontrato, Palma Plini, attiva nelle Acli e nella Fim-Cisl: quasi incredula, dopo anni di isolamento e di umiliazioni, di fronte al nuovo clima che si respira negli uffici, ma attenta a cogliere contraddizioni, controtendenze, umori diversi. Seguiamo con lei la cronaca di una parabola, iniziando dalle annotazioni sui primi scioperi: «ciò che aiuta gli impiegati a muoversi verso una mobilitazione per conquiste corporative, se vogliamo, è che gli operai hanno già avuto una discreta riduzione dell’orario con le lotte». Al tempo stesso, «l’aspetto più interessante di questa preparazione sono le assemblee che si susseguono e dove molti prendono la parola per dire ciò che pensano. È un momento eccezionale, questo». E ancora: «Oggi in azienda è accaduto qualcosa di grande. È la prima volta che gli impiegati scioperano: la percentuale è stata del 95% […]. L’assemblea è stata molto partecipata». Si susseguono scioperi a sorpresa e cortei, con «partecipazione totale e convinta: alla testa alcuni impiegati mai visti prima»; «i colletti bianchi hanno dimostrato di avere molta fantasia nelle forme di lotta, gli operai ne sono meravigliati […] per molti di noi è stata una liberazione da una situazione di repressione e di condizionamenti vari che comportava paura»63.
Non è in realtà l’inizio di un lineare generalizzarsi di ragioni egualitarie, né il definitivo superamento di steccati culturali e quadri mentali64. L’inasprirsi stesso del conflitto sindacale porta ai primi distacchi, alle prime inversioni di tendenza: «gli impiegati di prima categoria che nella scorsa primavera hanno scioperato fervorosamente – annota ancora Palma Plini all’inizio dell’“autunno caldo” – oggi non scioperano volentieri […] perché l’aumento è uguale per tutti […] alcuni impiegati e dirigenti hanno il dente avvelenato». Questa tendenza si rafforza sempre più nei primi anni settanta, e non agiscono solo ragioni «economicistiche»: «parecchi impiegati iscritti al sindacato hanno fatto la disdetta. Il motivo è che le organizzazioni sindacali hanno fatto troppa politica e generato troppa violenza durante la lotta»; «gli impiegati non sono usciti (solo 20 su 1020): una vergogna»; «alcuni impiegati di prima categoria hanno usato la forza per entrare […] li riteniamo di marca fascista come i padroni». E infine, nell’aprile del 1972: «mi costa fare il volantinaggio, non perché sia una fatica fisica ma per l’atteggiamento degli impiegati […]: alcuni rifiutano sgarbatamente, come se gli facessi un dispetto»65.
Ritorniamo ora ai primi mesi del 1969. I conflitti raggiungono notevolissima intensità e già il 2 febbraio un corrispondente romano de «Le Monde» scrive:
Gli scioperi parziali si alternano alle manifestazioni e agli scontri fra poliziotti e manifestanti, le agitazioni di Milano si alternano a quelle di Napoli ove l’Università è in fiamme. Un giorno sono i trasporti pubblici, l’altro sono i distributori. Nessuna categoria professionale, neppure i liceali, resta al di fuori dall’agitazione. E questo accumularsi di agitazioni sembra delineare un clima da guerra civile.
Al di là di esagerazioni e forzature, l’articolo «fotografa» il confuso mescolarsi e confondersi di proteste e protagonismi collettivi che hanno radici e orizzonti culturali molto diversi: essi vengono letti però spesso in modo semplificato e ricondotti a un’unica matrice. Il divario fra realtà e immaginario ci è restituito dalla vicenda di Battipaglia, che assunse allora valore di simbolo e che fu spesso accomunata ad Avola.
La cittadina del Salernitano era stata duramente colpita dalla crisi dell’industria conserviera e a ciò si aggiunse la chiusura di uno zuccherificio e di un tabacchificio: Protestano da sole le cifre di Battipaglia, scrive «Il Giorno»1. I tumulti scoppiano il 9 e il 10 aprile 1969, e così il quotidiano descrive quelli del primo giorno:
Una vera rivolta: due morti, centinaia di feriti, il municipio dato alle fiamme, la stazione bloccata, le strade statali interrotte, l’autostrada del Sole sbarrata da tronchi d’albero e travi di ferro, centinaia di poliziotti messi in fuga, disarmati, assediati in caserma, decine di pullman e autobus di traverso nelle strade del centro, quindici automezzi della polizia ribaltati e incendiati2.
Gli scontri sono innescati dall’intervento della polizia, e si accentuano dopo che le pallottole degli agenti hanno ucciso un giovane e un’insegnante che si era affacciata alla finestra di casa. Il giorno dopo, sotto il titolo Il commissariato di P.S. è stato dato alle fiamme, la cronaca del «Giorno» descrive anche l’incendio del palco da cui i sindacati e le forze politiche stavano tenendo un comizio: è interrotto al grido di «Basta le chiacchiere, vogliamo fatti». Termina in questo modo una giornata iniziata con l’abbandono della città da parte della polizia (per evitare nuovi scontri e nuovi morti) e l’invasione del commissariato, dove la folla
per tutta la giornata ha sfogato il suo rancore per i gravissimi fatti di ieri. Solo per un miracolo si sono evitate gravissime conseguenze: nel commissariato erano infatti rimasti fucili, mitra, lanciagranate e cassette di munizioni e bombe […]. La folla è entrata nel commissariato sfasciando tutto, con un odio impressionante […]. Le carcasse delle auto bruciate ieri sono state smantellate. Sul mucchio di rottami raccolti in piazza è stato eretto un simulacro di poliziotto con divise tolte agli agenti, elmetti bruciati e la fascia strappata ieri al commissario De Masi3.
I rapporti prefettizi confermano questo scenario e ricostruiscono anche il «pesante clima di sfiducia», l’«atmosfera di malcontento per l’instabilità del posto di lavoro» che si era creata in precedenza: «dal 1961 ad oggi si sono chiusi ben 15 stabilimenti che assicuravano il lavoro, sia pure stagionale, a circa 2000 operai»4.
Vediamo però ora l’immagine della rivolta che si diffonde nel paese. Per quel che riguarda l’estrema sinistra valga per tutti un volantino del movimento studentesco di Milano, L’ordine regna a Battipaglia (11 aprile 1969), che critica la richiesta del «disarmo della polizia (da comprarsi con il disarmo del proletariato)» avanzata dai sindacati, dal Pci e dal Psi, e continua:
I fatti di Avola, Fondi, Olbia, Orgosolo, Battipaglia, lo sviluppo di azioni sindacali a Milano (Pirelli, Siemens, Snam Progetti), a La Spezia, Genova, segnano il moltiplicarsi dei primi focolai di lotta […]. I proletari di Battipaglia incendiavano il municipio e il commissariato, devastavano gli uffici delle imposte […], occupavano la stazione, si battevano con violenza contro le forze dell’ordine e contestavano con gli atti e non con le parole la realtà storica del sistema sociale5.
Non potrebbe esserci mescolanza più arbitraria. Se Avola aveva riproposto i tratti antichi delle lotte bracciantili, e se le fabbriche milanesi citate pongono in luce – come s’è visto – alcuni tratti nuovi delle agitazioni sindacali di operai e impiegati, gli altri conflitti evocati riguardano cose diversissime: a Fondi, ad esempio, vi è una protesta di agricoltori per la crisi degli agrumi6, mentre a Olbia la protesta ha come bersaglio i passaggi a livello che dividono in due la città paralizzando il traffico (e l’eversiva rivendicazione è la costruzione di un cavalcavia)7.
Il testo che abbiamo citato è dunque esemplare proprio per la riduzione di conflitti differenti a un unico schema, ma non è voce isolata. Inviando alla Direzione del Pci questo e analoghi volantini, la Commissione federale di controllo di Milano annota che nel dibattito congressuale alcune organizzazioni di partito hanno dimostrato una «particolare predisposizione ricettiva» nei confronti di posizioni come queste, ed è necessario anche tener conto «della situazione politica generale e dello stato d’animo delle masse lavoratrici, di rabbia e di dolore, provocato dal ripetersi di eccidi di lavoratori»8. Non sono diversi i giudizi della stampa governativa e conservatrice: il 10 aprile «La voce repubblicana» afferma che la protesta di Battipaglia ha assunto «il volto dello spontaneismo rivoluzionario», e il giorno dopo «Il Corriere della Sera» auspica che i sindacati «riprendano il controllo delle masse, oggi in preda alle suggestioni del sindacalismo rivoluzionario».
Vediamo però le dinamiche concrete della rivolta così come sono tratteggiate – in modo del tutto diverso – in una illuminante relazione di Abdon Alinovi alla Direzione del Pci9. Essa deve spiegare in primo luogo come mai i dirigenti locali del partito e del sindacato non abbiano «minimamente previsto lo scoppio della collera dei lavoratori», e tratteggia una desolante immagine del Pci di quella zona10. È «ben chiaro – aggiunge Alinovi – che il movimento non era stato minimamente nelle nostre mani per tutta la giornata del 9»: è forse una delle primissime volte che un dirigente comunista deve ammetterlo, in una lotta per il lavoro. È altrettanto chiaro, continua, che
ogni distinzione tra dirigenti sindacali facenti capo alle diverse confederazioni, nonché ogni distinzione tra appartenenti ai vari partiti era pressoché saltata agli occhi delle masse sin dalla mattina del giorno dello sciopero, quando tutti i dirigenti sindacali, insieme con gli amministratori comunali, avevano abbandonato la manifestazione per recarsi a Roma per svolgere le trattative. Questo fatto, come risulterà poi, aveva indignato i lavoratori.
Alinovi descrive anche il clima trovato a Battipaglia il 10 mattina:
si erano avute notizie di invettive e di insulti all’indirizzo di qualcuno dei nostri compagni, sia di Battipaglia sia di Salerno, più noti sul posto. Ci si dava consiglio di non recarci in visita alle famiglie dei caduti. Sono riuscito a fare visita alle famiglie solo perché ho incontrato per caso un mio vecchio compagno di scuola che mi ha accompagnato.
Poi vi è il comizio, con l’oratore della Cisl «violentemente interrotto». Alinovi aggiunge: «si è saputo (sempre dopo) che era discreditato e malvisto perché prendeva denaro per far assumere al tabacchificio» (cioè alla fabbrica che ora chiude…). Il clima diventa incandescente:
Mentre discutevamo [nella sezione di partito] con i compagni parlamentari e con pochi compagni di Battipaglia, è giunta una prima notizia di nostri giornalisti che venivano malmenati nella piazza […]. Sopraggiungevano due compagni […] a scongiurarci di lasciare il locale della sezione e Battipaglia perché una massa di un centinaio di fascisti si stavano dirigendo verso di noi per creare un fattaccio con qualcuno dei «pezzi grossi» venuti da Roma […]. È probabile che la presenza troppo numerosa di dirigenti esterni al salernitano abbia favorito una certa frattura psicologica con l’ambiente, già notevolmente influenzato dalle parole d’ordine localistiche diffuse dai fascisti11.
Nel confuso dibattito che si svolge nella direzione del Pci, Berlinguer osserva che a Battipaglia «si sono inseriti studenti ed elementi incontrollati (Msi e malavita, se si vuole)»; Reichlin aggiunge: «situazioni di questo genere ce n’è ovunque […]. In Lucania, in Sardegna, in Calabria, ecc., la situazione è caratterizzata da tensioni e movimenti che spiegano i fatti di ieri». Non manca il piglio populistico del vecchio Longo («c’è l’esasperazione di gente che sta male […]. Dobbiamo spiegare queste esplosioni come fenomeni di una situazione»), ma più di altri sembra cogliere nel segno Paolo Bufalini: «l’esasperazione di intere città meridionali dimostra che il Mezzogiorno sente di andare indietro». Pajetta allarga il discorso ad altre lotte in corso (con blocchi stradali e ferroviari ripetuti, e frequenti scontri con le forze dell’ordine) e ci restituisce un clima:
Se abbiamo varie situazioni esplosive nel Mezzogiorno e fermiamo il treno a Battipaglia, poi tutto il resto ha un senso perché fa parte di un grande movimento. Non possiamo però ammettere che ognuno faccia cose di questo genere per conto suo. A Parma gli operai della Salamini hanno fatto la stessa cosa fermando il Settebello per tre ore. Se ogni fabbrica decide di fermare il treno dobbiamo viaggiare in elicottero. La cosa va bene nel quadro di uno sciopero generale, direi insurrezionale. Battipaglia dimostra la mancanza assoluta di presenza del partito e di sensibilità politica dei compagni12.
Dal canto suo un dirigente di lungo corso come Salvatore Cacciapuoti riferiva che in altre località del Salernitano «si è evitato all’ultimo momento il fattaccio, lo scontro con la polizia». E aggiungeva: «deve far riflettere il fatto che in alcuni comuni della provincia si dice: «dobbiamo fare come Battipaglia»»13.
In alcuni comuni del Casertano si fa davvero così: Incendiano gli uffici comunali, la banca e bloccano le strade, titola «Il Giorno» il 30 maggio 1969. Qualche giorno dopo Franco Roccella descrive la miseria e l’abbandono di Cancello Arnone: la rivolta, annota, è sorta dalla «sbigottita rabbia di confrontarsi con quanto si scorge invece sulla costa, dove ci sono le “ville dei ricchi”, i servizi e le infrastrutture messe in opera dalla speculazione privata, gli esclusivismi dei privilegi confortevoli […]. Certo, un caso limite. Ma […] può servire da modello per ricostruire la realtà, anche se meno disperante, degli altri centri in rivolta»14.
Negli stessi giorni, la partenza del Giro d’Italia da Napoli è bloccata dal confluire di differenti e disparate manifestazioni: vi sono – riferisce il prefetto – gli oltre mille dipendenti della Società Esercizi Bacini Napoletani «in agitazione da alcuni giorni per rivendicazioni di carattere economico», alcune centinaia di studenti degli istituti professionali «da tempo in sciopero per noti motivi», «un centinaio donne con bambini appartenenti nuclei familiari occupanti abusivi alloggi edilizia popolare […] e altro gruppo centinaio postelegrafonici aderenti Cgil»15. Si susseguono «scene vandaliche, atti di teppismo, disordini di eccezionale gravità», scrive «Il Messaggero»16: causate però da ripetute e violente cariche di polizia.
Si potrebbe proseguire a lungo17, ma si veda almeno un episodio che più di altri sembrò simboleggiare il diffondersi di forme di «autogoverno»: l’agitazione che inizia ad Orgosolo nell’autunno del 1968, con l’occupazione del municipio e le dimissioni della giunta nelle mani di un’«assemblea popolare»18. Essa si accende nel giugno del 1969, perché nella zona sono state programmate esercitazioni militari che dovrebbero svolgersi negli edifici già cadenti, e mai entrati in funzione, di un villaggio costruito dieci anni prima con denaro pubblico. Si rende quindi necessario l’allontanamento forzoso di greggi e pastori, e il prefetto ha come unica preoccupazione quella di tenere all’oscuro gli abitanti fino all’ultimo momento, per non far perdere voti ai partiti di governo in elezioni imminenti19. Al termine della vicenda dovrà scrivere: non si poteva immaginare «che la contestazione assumesse proporzioni così vaste e richiamasse la partecipazione di gran parte della popolazione». Vi ha contribuito «la notizia, intuita ed abilmente propagandata, che tali esercitazioni preluderebbero alla istituzione di un poligono permanente: ciò urta la suscettibilità della popolazione», che vi ha partecipato «senza distinzione di partito o di tendenza delle organizzazioni sindacali» (e con l’adesione anche del parroco e del viceparroco). In realtà però – aggiunge sempre il prefetto – è stata determinante la propaganda dei «facinorosi» del Circolo giovanile di Orgosolo (composto da militanti del Psiup e dalla «frangia più estremista del Pci»): essi hanno
stretto connubio con la mentalità e gli interessi più retrivi dell’ambiente locale che non vuol perdere il controllo assoluto di una zona ove tanto spesso hanno trovato ricetto e ospitalità notissimi e pericolosissimi latitanti […] i gruppi più estremisti hanno potuto far leva sull’ancestrale concetto locale della proprietà privata e comune, considerato in senso quasi sacrale, che ne comporta la intangibilità20.
La massiccia – e mal vista – presenza di militari non fa che sottolineare l’assenza dello Stato in altri settori: una nota di pochi mesi prima informa che nelle scuole medie inferiori della provincia su 1283 insegnanti solo 90 sono di ruolo, e 593 non hanno neppure la laurea21.
Ben lungi dall’essere univoca, dunque, la mobilitazione sociale di questo ultimo scorcio degli anni sessanta presenta differenziati versanti e molteplici sussulti. Si intensifica inoltre l’azione della destra estrema, con aggressioni squadristiche e attentati.
È fascista la bomba che esplode il 25 aprile alla Fiera di Milano, come la data stessa, e i concomitanti attentati a lapidi partigiane e a sedi dell’Anpi (come avviene in quell’anno a Brescia), potrebbero suggerire al più tardo dei funzionari di polizia. Per tutto il mese di aprile a Milano vi erano stati attentati a sedi del Pci o a circoli di sinistra, e il 12 aprile vi è un assalto fascista, con il lancio di bombe molotov, all’ex Albergo Commercio di piazza Fontana, trasformato dagli studenti che lo occupano in «Casa dello studente e del lavoratore»: 11 neofascisti vengono fermati, uno arrestato. Vi sono poi aggressioni a Pavia, e a Sondrio1. Ciononostante, dopo l’attentato alla Fiera la polizia – riferisce «Il Giorno» – «sembra escludere […] che le bombe siano collocate da “commandos” neofascisti» e le attribuisce «alla protesta dissennata, irrazionale, di estrema sinistra». Sono bombe anarchiche è dunque il titolo del quotidiano, che pure avanza qualche dubbio2.
Solidissime tracce spingevano in realtà in tutt’altra direzione. Già da alcuni mesi i rapporti di polizia segnalavano che gruppi di estrema destra stavano preparando attentati da attribuire alla sinistra: «la fonte riferisce – si legge in un appunto del ministero dell’Interno del 29 gennaio 1969 – che attentati non gravi e comunque a carattere dimostrativo potrebbero essere portati tra alcune settimane contro uffici pubblici, ministeri compresi. L’azione dovrebbe essere condotta da elementi di estrazione di destra, tra cui si indicano […]»3.
Questa nota si riferisce alla realtà romana ma più probanti indizi venivano proprio da Milano, dal materiale che la polizia sequestra a un neofascista arrestato dopo l’assalto all’ex Albergo Commercio. Vi è un foglio con gli indirizzi di alcune sedi del Pci e di gruppi di sinistra (una delle quali incendiata all’inizio di marzo), e un circostanziato elenco – completo di indirizzi – di esponenti del movimento studentesco, di docenti ad esso vicini e di altri intellettuali ed esponenti della sinistra. Vi sono anche due lettere con cui i dirigenti napoletani dell’organizzazione studentesca del Msi, la Giovane Italia, lo raccomandano ai dirigenti nazionali e milanesi: «il camerata […] – inizia la prima – noto “bombardiere” dell’ambiente giovanile fascista (è un altro “tecnico” che se ne va!) e attivissimo dirigente del Raggruppamento Giovanile, si trasferisce (purtroppo) a Milano». «Il camerata […], che io conosco e stimo – recita invece la seconda lettera – deve essere utilizzato a livello dirigenziale per le nostre organizzazioni giovanili di Milano» (le sottolineature sono nel testo). Val la pena di seguire il percorso futuro di questo «bombardiere» o «tecnico», come i suoi camerati lo definiscono, che percepisce regolare «sussidio» – per dirla col prefetto – dall’organizzazione giovanile del Movimento sociale: di lì a poco diventa segretario di quella stessa organizzazione, viene arrestato a seguito di violenti scontri provocati da diverse centinaia di neofascisti dopo un comizio di Almirante4 ed è denunciato per un assalto alla Camera del Lavoro; coordinatore regionale giovanile del Msi, è poco dopo fra i fondatori della «Maggioranza silenziosa» e si presenta per un po’ come «moderato». È poi coinvolto nelle indagini sul Mar – uno dei gruppi eversivi di destra più pericolosi degli anni settanta – ed è colpito da mandato di cattura dopo la strage di Brescia e la scoperta di un campo di addestramento militare neofascista a Piano di Rascino5.
Nell’aprile del 1969 ha con sé anche un elenco di aderenti al «settore volontari» della Giovane Italia di Milano, e basti qui il curriculum di uno di essi: fra il 1970 e il 1972 viene fermato, denunciato o arrestato dopo diverse aggressioni o incursioni squadristiche. In alcune occasioni è con Nico Azzi (che rimarrà ferito nel 1973 mentre sta innescando una bomba sul direttissimo Torino-Roma) e con Vittorio Loi (arrestato sempre nel 1973 per l’assassinio dell’agente di polizia Antonio Marino)6. Questi erano gli «attori» all’opera nel capoluogo lombardo: eppure la stessa questura che ha le prove della valentia «tecnica» dei giovani dirigenti neofascisti e degli attentati da loro compiuti punta il dito contro un gruppo di giovani anarchici. Per farlo deve accreditare una testimonianza assai dubbia, che crollerà in modo grottesco al processo7. Con sprezzo della logica la sintesi redatta dal capo della polizia in riferimento alla primavera del 1969 proclama l’«indubbia matrice anarcoide nell’ondata di violenza», pur segnalando che le sedi di partito o di organizzazione «fatte maggiormente oggetto di attentati o atti ostili» sono «quelle di estrema sinistra»8.
Per la polizia dunque la bomba alla Fiera è «anarchica», e saranno «anarchiche» anche le bombe che scoppiano su sette treni italiani nell’agosto del 1969. Le motivazioni addotte ci appaiono oggi misteriose e surreali (ma avevano costituito «prova» anche per gli attentati alla Fiera): «per le particolari caratteristiche dei congegni di accensione a resistenza incandescente – afferma il capo della polizia il 28 novembre 1969 – sembra di poter attribuire a gruppi anarchici o contestatori l’azione terroristica in questione»9. Anche le bombe ai treni rimandano invece al neofascismo, in particolare ai gruppi veneti che fanno capo a Freda e Ventura10: in questo modo però sono precostituite le «ragioni» che pochi minuti dopo la strage di piazza Fontana porteranno la questura milanese a mettere sotto accusa ancora gli anarchici. E a «depistare» di nuovo, gravemente, le indagini11.
Sullo sfondo si intrecciano due aspetti più generali, legati al rimescolamento in corso nell’estrema destra e ai processi che attraversano settori non secondari degli apparati dello Stato. Le elezioni del 1968 hanno visto il peggior risultato del Msi dopo il 1948: è un’ulteriore sconfitta della lunga segreteria «moderata» e «legalitaria» di Arturo Michelini. Alla sua morte, nel giugno del 1969, viene eletto segretario Giorgio Almirante, mentre si moltiplicano le iniziative di soggetti diversi, interni ed esterni al partito: da Ordine nuovo (che nel novembre del 1969 rientra ufficialmente nel Msi) sino ai gruppi filogolpisti che agiscono in stretto contatto con militari e servizi segreti; e sino ai «movimenti di contromobilitazione», attenti a coinvolgere in funzione anticomunista anche alcuni settori della società civile12.
Il problema inizia a esser considerato con attenzione nel dibattito interno al Pci fin dalla fine del 196813. Nel maggio del 1969 perfino un dirigente pacato come Enrico Berlinguer osserva: «vi è un accrescersi di elementi che indicano qualcosa di torbido e pericoloso in questa situazione. Da questa attivizzazione di elementi di destra non si può escludere una componente internazionale (forse certi orientamenti nuovi della amministrazione Usa)». Poco dopo aggiunge: «Non escluderei che la risposta ai fascisti debba essere decisa»14. Nel corso dell’estate l’attenzione si sposta su ciò che avviene nelle forze armate, e nella Direzione del 2 luglio Longo drammatizza il quadro: alcuni nostri dirigenti, riferisce, ci dicono che «la situazione è tale per cui può esserci un intervento [dell’esercito]. Notizie segnalano movimenti sulla via Appia. Per adesso vedrei di assumere informazioni da tutte le organizzazioni, specie nel nord, senza escludere le altre zone. Credo che dobbiamo assumere informazioni avvicinando anche… Se queste voci assumessero una certa consistenza anche come voci, allora penso che dovremmo pubblicare per dare una sveglia all’opinione pubblica»15. Il 3 luglio l’ufficio politico decide di «prendere misure pratiche volte ad allargare le nostre informazioni e volte a organizzare seriamente in tutte le organizzazioni i servizi di vigilanza»16, mentre la «sveglia» è data da un articolo di Pajetta sull’«Unità» del 15 luglio. Il giorno dopo l’argomento ritorna nella discussione della direzione e Cossutta ipotizza scenari futuri: possono esservi «grandi lotte che portino a scontri, in cui ci siano ufficiali che perdono la testa e provocano situazioni drammatiche, che ci siano scontri anche con colpi d’armi da fuoco e feriti, insomma si possano determinare situazioni di grande tensione in cui si possono inserire questi tentativi» autoritari; Berlinguer aggiunge: «Bisogna anche sottolineare gli aspetti tecnici della vigilanza, il ripristino del servizio d’ordine: sono fattori anche importanti di galvanizzazione e di orientamento giusto dei compagni»17. Poco dopo Pajetta si chiede «come ci difendiamo dal pericolo di colpo di stato. Abbiamo fatto un’inchiesta sull’Esercito e abbiamo scoperto varie lacune. Ma la cosa più grave è che oggi non riusciamo neppure a redigere una documentata inchiesta giornalistica. Non abbiamo quasi contatti neppure con i soldati di leva». Luciano Lama considera con preoccupazione il radicalizzarsi delle lotte operaie: le piattaforme sindacali, osserva, sono molto avanzate ed «è veramente posta in discussione la compatibilità di tali rivendicazioni con il sistema. Se vi saranno momenti duri, certi gruppi potranno avere gioco»18.
I «momenti duri» in realtà hanno già iniziato ad esserci, e il sindacato ha perso il controllo delle lotte in un luogo-simbolo del movimento operaio quale la Fiat. La riuscita dello sciopero di protesta per le vittime di Battipaglia ha innescato nuovi fermenti in una città in cui «continuano ad arrivare migliaia di emigrati al giorno», come riferisce il dirigente comunista Adalberto Minucci. A fine maggio egli aggiunge, riferendo delle agitazioni in corso: «migliaia di giovani, nuovi assunti, sono gli elementi di punta […]. Tendono a radicalizzare la lotta anche in forme non sempre accettabili». Nonostante l’accordo appena raggiunto con la direzione «resta una fortissima tensione, scontento verso il sindacato perché volevano di più»1. Lo scontento esplode immediatamente: alla Fiat di Mirafiori, annota il prefetto il 29 maggio, «sono stati attuati oggi per iniziativa extrasindacale scioperi settoriali di varia durata […]. Durante tali scioperi gruppo settantina operai maggioranza giovani di nuova assunzione habent improvvisato dimostrazione interno stabilimento portandosi corsie linee montaggio at grido “potere operaio”»2. Il numero delle vetture uscite dalla fabbrica, riferisce due giorni dopo, «è stato di 600 rispetto alle normali 7000». Lo sciopero si estende dagli operai qualificati delle officine ausiliarie agli «operai comuni» delle linee di montaggio e si affermano in modo dirompente richieste «estreme»: forti aumenti salariali uguali per tutti e abolizione delle categorie più basse. Insomma,
la situazione è difficile e densa di incognite. Ormai i c.d. gruppi spontanei: il già cennato «Centro di azione politica degli operai della Fiat», «potere operaio», «operai e studenti», «comitati di lotta», non solo contestano direttamente i sindacati intendendo condurre la lotta direttamente […] ma fanno addirittura temere che intendano perseguire lo stesso intento eversivo dell’ordine costituito manifestatosi nei noti recenti fatti tragici del Meridione3. In tal modo, l’aspetto e l’intento politico delle agitazioni in corso prevarrebbero su quelli economici che pure non mancano, anche se tradotti in espressioni alquanto semplicistiche: «più soldi e meno lavoro»; «la Fiat deve farci degli aumenti salariali uguali per tutti»4.
Il numero degli operai che partecipa ai cortei interni cresce impetuosamente5, anticipando un elemento che sarà costante negli anni successivi. Ha ricordato Luciano Parlanti, uno dei dirigenti di quelle lotte, che il «reclutamento forzato»
avveniva soprattutto nei primi cortei, quando la paura era ancora tanta ed i cortei dovevano riuscire per forza, per evitare che quelli che avevano iniziato fossero identificati e licenziati. Si partiva, si andava verso quelle squadre che eravamo sicuri avrebbero scioperato, battendo ritmicamente sulle latte che usavamo come tamburi, e così il corteo si annunciava, le altre squadre lo sentivano arrivare da lontano e si preparavano fermandosi. Gridavamo slogan: «Ho-Ho-Hochiminh», «Agnelli l’Indocina ce l’hai in officina», slogan che nascevano nelle riunioni con gli esterni, con gli studenti […] si battevano i tamburi e quando incontravamo un caporeparto gli ci si metteva tutti attorno come gli indiani, a battere e a ballarci intorno finché questo non si ubriacava e finiva dentro il corteo […] man mano che li facevi i cortei diventavano sempre più grossi, la gente ci trovava non tanto un mezzo per ottenere più soldi e ferie, quanto la libertà. Si sentivano nuovamente uomini, provavano soddisfazione perché avevano rotto le catene dopo tanto tempo. Questo era anche l’effetto che faceva a me: non mi sono mai sentito tanto uomo come nell’autunno caldo […]. «Era ora, era ora», era quello che ci dicevamo più spesso. Era ora che ci liberassimo dalla dittatura della Fiat, dai capi. L’odio accumulato per i capi era tanto6.
Gli fa eco un altro operaio di Mirafiori, Rino Brunetti, detto Zorro:
Minchia, quando si sentì il corteo arrivare, «bum, bum, bum», proprio le mura tremavano […]. E già un chilometro prima la gente incominciava a scappare. Scappavano i capi. A un bel momento vedo entrare Luciano Parlanti, Roby, Antonio il Prete, Zappalà, tutti questi qui... Quando ho visto così, ti giuro, noi che eravamo lì alle Meccaniche ci siamo messi a piangere. Lì abbiamo capito... forse è incominciata la nostra èra, forse possiamo riscattarci, adesso sì. Abbiamo fatto bene a venire qui al Nord […]. Ci siamo abbracciati, e quello poteva veramente significare di tutto. Poteva voler dire «abbiamo vinto», «ci siamo finalmente tirati fuori dalla merda», «abbiamo riscattato il nostro onore, il nostro orgoglio». Pensavi a tuo padre, alla vita che aveva fatto7.
Ricordi convergenti vengono da un dirigente della Fiat, allora assistente del capo del personale, che vede riaffacciarsi una cultura antica. I riti di quelle lotte di massa, osserva, si riallacciavano alle insurrezioni contadine del Mezzogiorno:
Se guardiamo ai cortei, alle mazzolate, ai passaggi degli espulsi tra le ali di folla, ai trofei che innalzavano durante i cortei – me ne ricordo uno singolarissimo, che era fatto con dei ritagli di lamiera, scarti e sfridi delle presse, montati insieme e saldati […] sembrava proprio un trofeo delle lotte contadine dell’Ottocento – ritroviamo la stessa tipologia. Il fatto, per esempio, che in corteo andassero con le scope: è abbastanza singolare anche questo, come tutto ciò che poteva essere sostitutivo degli strumenti agricoli e che si trasformava in arma di offesa. Usavano gli strumenti di lavoro, palanchini, spranghe, scope appunto, allo stesso modo in cui i contadini, quando andavano in corteo, all’assalto, usavano le falci, i rastrelli e i battigrano8.
Già un anno prima Giorgio Bocca aveva colto con chiarezza perché gli scioperi continuassero anche dopo accordi sindacali: «c’è evidentemente qualcosa che nessun aumento di salario può dargli e che la lotta invece gli ha fatto gustare: un potere, piccolo ed effimero, ma un potere; la eguaglianza delle ore calde, il trattare da pari a pari con i capi, il vedere impaurita l’organizzazione»9.
Alessandro Pizzorno ha osservato giustamente che per capire questi aspetti occorre partire da un dato essenziale: è scesa in campo una massa di persone sino ad allora esclusa dal sistema di rappresentanza. Diventa quindi centrale la formazione e l’affermazione di un’identità collettiva: «il vero fine è il riconoscimento della nuova identità, che non è negoziabile. Così, condotte che possono apparire irrazionali [...] appaiono invece razionali», coerenti con questo fine. Da qui deriva la centralità del «gruppo omogeneo», costituito dagli operai di uno stesso reparto, e anche l’importanza dell’attivismo: «è necessario partecipare perché si sono rotti o non si sono ancora formati i rapporti di fiducia o di routine che permettono la delega» (e sciopero, assemblee e cortei diventano così «strumento di comunicazione»). Da qui l’«estremismo» degli obiettivi e delle forme di lotta, e l’affermarsi prepotente di rivendicazioni egualitarie (in contrasto con la tradizione sindacale): la generalità degli entusiasmi collettivi permette di superare le potenziali divergenze fra gruppi diversi proprio perché «le rivendicazioni immediate appaiono secondarie rispetto all’obiettivo di costituire una nuova identità per tutto il movimento»10.
Questi elementi si propagano con forza a Torino nell’estate-autunno del 1969 travolgendo e «stravolgendo» almeno in parte il sindacato stesso e il suo modo di essere, e trovando momenti di coagulo esterni ad esso. Nel corso delle lotte di primavera prende corpo un’«assemblea operai-studenti» che si riunisce ogni sabato per coordinare le agitazioni. Una puntuale «verbalizzazione» di quelle discussioni, conservata in numerosi quaderni, ci restituisce un clima e un immaginario. Così ad esempio uno dei leader operai, Pino Bonfiglio, introduce l’assemblea del 21 giugno:
I sindacati trattano la condizione operaia, lo sfruttamento, ma non lo vogliono abolire […]. La fabbrica da luogo di divisione degli operai è diventata luogo di unione, di discussione, di organizzazione tra gli operai […]. Siamo tutti delegati di tutti. C’è un altro motivo per cui la lotta dentro la fabbrica è importante: il padrone ci ha organizzati tutti in una immensa catena produttiva. È lo sfruttamento intensificato. Ma oggi basta che un anello si fermi perché tutta la catena si fermi […]. Vogliamo cose uguali per tutti: aumenti salariali uguali per tutti, seconda categoria per tutti11.
Troviamo toni convergenti in altri interventi operai di quella stessa assemblea:
«Se oggi siamo qua in tanti operai, uniti agli studenti, è perché i sindacati sono deboli e ci dividono e non abbiamo più fiducia in loro. Nella mia squadra metà hanno la IIa [categoria] e metà no, eppure facciamo lo stesso lavoro. Oggi gli operai sono autonomi, e non hanno bisogno di intermediari»; «Circa la categoria uguale per tutti, quando mando la moglie a comprare pane non lo compra diverso a seconda della categoria»; «Qui si può dire ciò che si pensa. Ho lavorato molto in giro, Volkswagen, Ford, Renault. Qui è il posto dove fa più schifo […]. C’è chi con 15, 20 anni è sempre di IIIa, IVa categoria. Vanno in pensione a 60 anni, ma con la paralisi […]. È vietato parlare, appoggiarsi. Non è una fabbrica che ci dà il pane il nostro posto di lavoro, è un penitenziario»12.
Nell’«assemblea operai-studenti» matura una proposta ambiziosa: l’organizzazione di una manifestazione operaia il 3 luglio, giorno in cui si svolgerà uno sciopero generale per la casa13. Caricato immediatamente dalla polizia, il corteo – cui partecipano alcune migliaia di operai della Fiat e numerosi studenti – si forma e riforma più volte lungo corso Traiano e nelle immediate vicinanze, in un quartiere che l’immigrazione ha fatto «esplodere»: dai 18 000 abitanti del 1951 ai 119 000 del 196914.
Anche altrove, anche in situazioni meno «estreme», la tradizionale direzione sindacale è messa in discussione, sia pure in forme differenziate: in qualche caso con piattaforme molto avanzate preparate dai quadri sindacali di fabbrica, come alla Chatillon di Marghera15, e talora – soprattutto fra i metalmeccanici – con innovazioni introdotte dalle stesse organizzazioni di categoria in polemica con le confederazioni. Così è a Trento16 o alla Rex di Pordenone, ove compaiono i delegati di reparto. I rapporti prefettizi segnalano sempre più spesso, inoltre, la radicalizzazione delle forme di lotta17, il diffondersi di scioperi di reparto non promossi dal sindacato18 o altri sintomi ancora di un rapporto fra lavoratori e organizzazioni tradizionali che rimane difficile19.
In questo clima la discussione sulla piattaforma dei metalmeccanici vede una partecipazione più larga e vivace che in passato: essa impone la richiesta di aumenti salariali consistenti e – soprattutto – uguali per tutti, cui la Fiom-Cgil inizialmente si era opposta20. Fra le rivendicazioni vi sono poi una forte riduzione d’orario (40 ore pagate 48), la parità normativa fra operai e impiegati per assistenza e previdenza (contro il permanere di sperequazione arcaiche e inique) e il diritto di assemblea all’interno delle fabbriche21. Nello stesso torno di tempo i congressi sindacali della Fim-Cisl e della Uilm accolgono le spinte unitarie della base, mentre quello delle Acli sancisce la «scelta di classe» e la fine del «collateralismo» nei confronti della Dc.
Dopo le ferie estive il quadro si completa: di fronte alla ripresa degli scioperi di reparto in due officine la Fiat sospende 20 000 operai. In risposta i sindacati aprono subito la vertenza contrattuale mentre a Milano il clima si accende per le agitazioni degli operai della Pirelli: aspre all’interno – con l’«autoriduzione della produzione» – e «visibili» all’esterno22. Le zone attorno agli stabilimenti, annota un’efficace cronaca,
sono diventate terreno di esercitazione operaia […]: vi si riversano cortei di tute bianche che occupano le carreggiate, «dirigono» il traffico e distribuiscono, automobilista per automobilista, i loro volantini […] più tardi i metalmeccanici dell’Alfa Romeo e dell’Innocenti invaderanno i mercati e i mercatini rionali per spiegare alle donne che la lotta sindacale […] tocca l’intera città23.
Per sopperire al calo della produzione la Pirelli fa giungere carichi di pneumatici dalle proprie aziende in Grecia, Spagna, Portogallo. La risposta è rabbiosa, con uno sciopero immediato che paralizza la fabbrica e con l’incendio di copertoni e di altro materiale. L’azienda risponde con la serrata e gli operai assediano a più riprese il «Pirellone», in pieno centro24. «In testa, un operaio delle «mescole», la faccia tinta di nero, la tuta incrostata di pece, agita divertito un campanaccio: gli fanno ala un gruppetto di giovani, che battono ritmicamente su dei vecchi lattoni, cavandone un rumore di tamburi sgangherati». Gli operai del reparto più combattivo hanno un cartello: «8691: non siamo cinesi». In quest’occasione – come nella «serrata» della Fiat – il ministro del Lavoro, Carlo Donat-Cattin, prende esplicitamente le distanze dalla Confindustria25. Poco dopo a Milano c’è un nuovo sciopero generale:
il sindacato dice «100 mila in piazza Duomo» e sono davvero 100 mila i metalmeccanici e i chimici che si riversano nella piazza […]. Il muro che divideva la Milano operaia e la Milano terziaria, la Milano della banlieu e la Milano dei colletti bianchi è travolto: la periferia si rovescia in pieno centro, trascinandosi dietro anche chi aveva sempre pronunciato sottovoce la parola sciopero […]. Assieme ai cortei operai si formano anche i cortei degli impiegati, bancari in testa, e poi arrivano anche i «comunali», e anche i vigili urbani che abbandonano il traffico nelle mani della polizia stradale. Soltanto gli impiegati e i tecnici che sono in stretto contatto con gli staff dirigenziali, come quelli della Palazzina Fiat a Torino o quelli della Montedison di Foro Bonaparte o di via Turati a Milano, scalpitano e protestano per i picchettaggi. Arrivano anche ad applaudire quando la polizia si fa largo fra i picchetti26.
In realtà alla lunga distanza la mobilitazione – talora accesa27 – di taluni settori impiegatizi (con la «rincorsa» remunerativa che la caratterizza) sembra più concorrenziale che solidale nei confronti degli operai. Non è marginale, inoltre, la fascia degli impiegati di fabbrica che non partecipa agli scioperi e subisce invasioni ripetute e sempre più rabbiose degli uffici. Così è alla Fiat, con il lancio di «sassi e bulloni» e «la rottura dei vetri della palazzina» da parte di circa cinquemila operai, e con assedi minacciosi: «arrivano con bastoni pali, chiavi inglesi, telai di biciclette», annota il prefetto di Torino28. Si veda, in un bel documentario di Mimmo Calopresti, la testimonianza di un’impiegata della Fiat e il suo intenso ricordo di uno di questi momenti, il «passaggio» attraverso un «assedio operaio» alla palazzina degli impiegati, con insulti e umiliazioni:
Questa folla vociante, questa paura, questa violenza […]. D’accordo, io ero giovane non capivo molto le cose, non capivo gli operai, non sapevo che cosa vivevano loro, questo è vero, ma a me ha lasciato un’angoscia, questo percorso, per tante notti, e tutte le volte che c’era uno sciopero mi veniva in mente questo percorso che avevo fatto29.
Lo stesso documentario propone un efficace «affresco» delle differenti «culture operaie» che si mescolano a Torino, ove la tensione sale a più riprese: con scontri ai picchetti e con gas lacrimogeni lanciati dalla polizia sin dentro alla fabbrica; con un tentativo di occupazione, a metà ottobre, «sventato soltanto a tarda notte – riferisce il prefetto – per l’efficace azione svolta dalle forze dell’ordine […] e per l’intervento di decine di sindacalisti fatti affluire sul posto dalle sollecitazioni della commissione interna che prospettava il pericolo della situazione». Lo stesso prefetto segnala che, sempre a metà ottobre, lo sciopero è attuato nel turno centrale da 33 000 operai su 42 000, e «sono state tenute assemblee e si sono tenuti cortei di circa 23 000 operai nella Fiat e 4000 nella Lancia»30.
Alla fine del mese circola la proposta di andare in corteo all’inaugurazione del Salone dell’automobile, la «vetrina» più prestigiosa dell’azienda torinese: solo l’intervento deciso dei sindacalisti comunisti impedisce l’iniziativa, attuata però da un massiccio corteo di studenti delle superiori31. La delusione dei gruppi più attivi di operai si sfoga nei cortei interni, con distruzioni e danneggiamenti alle linee di montaggio e alle macchine in fabbricazione32.
Il clima diventa teso ovunque, in questa fine di ottobre, soprattutto dove si verificano fenomeni di «crumiraggio». «Anche la provincia bianca sciopera con rabbia», scrive Vittorio Emiliani descrivendo il «quadro largamente imprevedibile e imprevisto di violenze e tensione» di uno sciopero generale a Bergamo: «bersaglio centrale delle dimostrazioni di folla […] sono stati gli uffici del padrone bergamasco con la P maiuscola, l’azienda dove gli impiegati non scioperano mai»33. Pochi giorni dopo, il procuratore generale della Repubblica di Brescia chiedeva un incontro con prefetto, questore e comandante dei carabinieri di Bergamo: in esso – secondo il prefetto – «manifestava alcune sue preoccupazioni di fronte alla commissione di reati […]: in concreto si riferiva alla possibilità di procedere a qualche arresto in flagranza»34. Subito dopo il procuratore bergamasco convoca i dirigenti sindacali, rivolgendo loro «ammonimenti ed avvertenze»35, mentre a Brescia provocano stupore e proteste le denunce a 140 operai dell’OM36.
A Pisa alcune aggressioni compiute da neofascisti greci e italiani innescano scontri violenti: uno studente universitario, Cesare Pardini, è colpito a morte da un candelotto lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo dalla polizia37. Ai primi di novembre si verificano gravi aggressioni guidate da dirigenti del Msi anche a Napoli, con una bomba-carta contro un corteo studentesco.
Ancora a Milano, durante lo sciopero generale del 6 novembre, migliaia di lavoratori si dirigono alla sede della Rai di corso Sempione per esigere un’informazione obiettiva sulle vertenze38: dal corteo partono sassi contro una filiale della Fiat ove si lavora e vi sono cariche violentissime della polizia, scontri e arresti39.
L’agitazione dura ormai da due mesi e ha costi elevati per le imprese e per gli operai40. «Le forniture cominciano a mancare in alcuni settori – rileva Luciano Lama – e che io ricordi questo si verifica per la prima volta nel nostro paese»41. Il comune di Bologna delibera esenzioni e facilitazioni sul prezzo di trasporti e bollette in favore degli scioperanti42, seguito da quelli di Genova e di Torino: e qui a dicembre, riferisce «Il Giorno», «nei negozi e sui banchi dei mercato rionali sono messi cartelli con su scritto “non si fa più credito”»43.
L’«autunno caldo», inoltre, sta letteralmente «invadendo» con cortei e picchettaggi quella vasta realtà di piccole fabbriche in cui gli scioperi, e talora le stesse organizzazioni sindacali, erano da tempo banditi: I padroni delle ferriere sono fermi al Medioevo, scriveva «Il Giorno» in riferimento al Bresciano44. Ciò provoca talora reazioni «estreme», sino ai colpi di fucile sparati da alcuni imprenditori contro gli scioperanti45.
Più in generale, lo stesso modo di essere del sindacato è messo in discussione dalla partecipazione di un numero altissimo di lavoratori, dalla loro volontà di decidere e di contare: vecchi steccati tendono a saltare e inizia a delinearsi una «forma della rappresentanza» che ha il suo centro nel delegato di reparto, eletto o designato direttamente dagli operai a prescindere dalla sua appartenenza sindacale. Non mancano resistenze e rigidità burocratiche ma si affermano nuove, larghe leve di attivisti e militanti. Si consolida quella consapevolezza diffusa di un orizzonte di diritti che lo «Statuto dei lavoratori» sancirà l’anno successivo. Al di là di singole, decisive conquiste (la fine dei licenziamenti arbitrari e delle misure antisindacali, la libertà di organizzazione in fabbrica) era la dignità del lavoratore ad essere affermata e difesa: un vero «mutamento d’epoca», una «lezione di cittadinanza» di grandissimo rilievo46.
L’inasprirsi dei conflitti operai avviene in un contesto segnato da tensioni politiche crescenti e da un quadro istituzionale fragile: con la fine del fallimentare esperimento di unificazione socialista e con la tensione fra i due partiti che riemergono dalla scissione (luglio 1969); con la conseguente crisi del centro-sinistra e la nascita di un monocolore democristiano guidato da Mariano Rumor; con il rapido impallidire dell’ipotesi di una coalizione più aperta a sinistra e con l’avanzare, invece, della proposta di un «quadripartito» che sostanzialmente ridimensioni il Partito socialista. È il progetto perseguito dal presidente della Repubblica Saragat, il quale si inserisce con decisione nel clima segnato dalla morte dell’agente di polizia Antonio Annarumma il 19 novembre, nel giorno dello sciopero generale nazionale. È un clima già «costruito» nei giorni precedenti dalla grande stampa, come segnalano i titoli dedicati a Torino dal «Corriere della Sera» del 12, 13, 14, 15 novembre: Violenze di estremisti alla Fiat; Fiat: operai contro impiegati; Violenze alla Fiat; La Fiat sospende 59 operai. Incidenti e violenze alla Lancia. Questi e altri allarmi trovano rispondenza reale in un «paese» rimasto sino ad allora quasi nascosto: un «paese» in cui si mescolano diffidenze e paure d’antica data.
Lasciamo parlare le relazioni dei prefetti, che già dalla primavera mutano toni e timbri (naturalmente riferendo le opinioni della «parte sana della nazione»). Il prefetto di Asti leva alte grida contro «la propaganda eversiva delle forze politiche di sinistra» e contro «quello spirito dissolutore che in tempi di lassismo e di confusione ha sempre alimentato il risorgere dell’anarchia», mentre quello di Padova enumera «occupazioni, violazioni di patti di lavoro, disordini sconfortanti, denigrazioni avvilenti, violenze contro le forze che hanno il dovere di assicurare il rispetto della legalità, vere e proprie sollecitazioni alla ribellione». Sono fenomeni volti a creare, secondo il prefetto di Teramo, «un clima psicologico inteso a svuotare di ogni contenuto le istituzioni dello Stato». Quello di Belluno aggiunge: «si insinua il dubbio se [...] non sia preferibile l’assunzione di atteggiamenti di forza da parte dei pubblici poteri, per quanto non sfugga che tali atteggiamenti darebbero alle istituzioni democratiche una etichetta di totalitarie»1. I rapporti di prefetti e questori sono un «documento» della cultura di chi li scrive più che della realtà: testimoniano in questo caso dell’arroccarsi a destra di settori significativi degli apparati dello Stato. Gli stessi settori pochi anni prima si erano allarmati per il solo avvento del centrosinistra: ora l’inasprirsi del conflitto sociale – con cortei quotidiani che invadono le città, blocchi stradali, talora scontri – riporta alla luce anche ciò che si celava in profondità ed era sembrato quasi appannarsi negli anni precedenti.
Nelle stesse relazioni prefettizie è insistito l’allarme per i gruppi di estrema sinistra, nati o consolidatisi in quell’anno (da Potere operaio ad Avanguardia operaia, da il manifesto a Lotta continua sino ai gruppi marxisti-leninisti): non mancano però gli attacchi alle forze tradizionali della sinistra e ai sindacati.
I rapporti relativi ai mesi dell’«autunno caldo», scritti perlopiù nei giorni successivi alla morte dell’agente Annarumma, sono ancora più eloquenti. È insistita la deprecazione del «vuoto politico» che ha favorito i «fermenti dell’estremismo e della negazione totale» (secondo il prefetto di Milano); nell’opinione pubblica, scrive il prefetto di Messina, «vi è un comune senso di ribellione alla fredda, calcolata, criminale ferocia di determinati gruppi estremisti che si abbandonano alla violenza fine a se stessa, alla brutalità diventata prassi». Il prefetto di Belluno chiede «una più decisa azione contro chi dietro gli scioperi manovra per attentare alla legalità», quello di Savona teme che «la piazza abbia il sopravvento sulle istituzioni democratiche» e quello di Novara condanna «lo strapotere dei sindacalisti, esaltato talvolta da dichiarazioni poco responsabili di autorevoli esponenti della maggioranza governativa […] la maggioranza silenziosa dei cittadini è sbandata, confusa e impaurita». Lo stesso prefetto, dopo aver segnalato «costernazione e sgomento» per la morte di Annarumma e «commozione per le parole di Saragat», aggiunge: «da tutti si attendeva ormai una più decisa azione degli organi responsabili»2.
Gli «organi responsabili» hanno in realtà colpe specifiche nella dinamica dei fatti che porta al dramma. Giampaolo Pansa ha descritto bene l’accendersi della scintilla in una città che lo sciopero generale ha svuotato e di cui ci consegna in avvio l’immagine di superficie: «silenziose strade vuote, qualche auto agile e tranquilla in corso Italia, non trovo un bar aperto […]. Piazza del Duomo è proprio come la descriverà domani un cronista dell’“Unità” in vena di abbandoni: “un andar pigro di poche persone, e la corsa felice dei bambini che inseguono i colombi sul sagrato”». Nell’avvicinarsi al Teatro Lirico, ove si svolge il comizio organizzato dai sindacati (al chiuso, appunto, per non dare esca a incidenti), appaiono segni meno «idilliaci», con l’infittirsi di volantini e scritte neofasciste. E poi il Lirico, cui si avvicina un corteo dell’Unione marxisti-leninisti che è tallonato da «un reparto di polizia, jeeps e gipponi carichi di agenti con giaccone imbottito, gli elmetti con la celata, gli scudi di plastica». Gli operai che iniziano allora a lasciare il teatro pensano che la polizia sia lì a «controllare il loro comizio, un controllo che sembra ossessivo e assurdo, in quella giornata di festa»3. Partono gli slogan («polizia fascista», «PS SS»): il funzionario che guida il reparto sbaglia tutto, con manovre errate, e poi una jeep «riparte di scatto, col motore imballato» e getta a terra uno o due passanti. La voce dell’incidente si ingigantisce e si diffonde:
in via Larga la pressione degli operai contro gli automezzi aumenta. Molti giovani, ma anche operai anziani, gridano e si fanno sotto i reparti, trattenuti a stento dal servizio d’ordine dei sindacati […] dall’angolo del teatro sento il rumore piatto dei pugni battuti sui cofani e sulle fiancate delle macchine […] poi (ecco il secondo, e più grave errore), qualcuno, non si saprà mai chi, ordina la carica4 […] ecco jeeps e gipponi a fortissima velocità lungo via Larga […]. È una carica paurosa, la folla urla, non serve ripararsi sul marciapiede perché gli autisti ti inseguono anche lì, poi i botti secchi dei lacrimogeni, l’aria ne è grigia […]. Dai marciapiedi cominciano a uscire i primi gruppi, direi tutti di operai o di gente appena uscita dal comizio: lanciano sbarre e tubi al centro della via per frenare le cariche della jeeps5.
In questo quadro vi è il tragico incidente in cui perde la vita l’agente di polizia Antonio Annarumma di Monforte Irpino, figlio di braccianti6. La sua morte, concludeva Pansa, ha «la sua causa immediata in una conduzione dissennata dell’ordine pubblico, e quella più lontana in una “cultura dell’ordine pubblico” che ha radici antichissime, rafforzatesi negli anni cinquanta»7. È la «cultura» cui si rivolge il messaggio del presidente della Repubblica Giuseppe Saragat: un messaggio di rara irresponsabilità, con il suo appello contro il «barbaro assassinio»8 e l’invito a «mettere in condizione di non nuocere i delinquenti, il cui scopo è la distruzione della vita». Fanno contrasto le parole del padre di Annarumma per chi gli ha ucciso il figlio: «ha perdonato Gesù Cristo, perdono anch’io – dice in dialetto stretto, intervistato poco dopo da TV7 – […] nessun sentimento [d’odio], no… a tutti quanti poteva succedere questa disgrazia»9.
Per ventiquattro ore il messaggio presidenziale è ripetuto in tutti i telegiornali e giornali radio10: Pajetta riferisce alla Direzione del Pci che Saragat aveva tentato anche di far sospendere la trasmissione televisiva di un film e di far trasmettere solo musiche, oltre al suo messaggio11 (che è esattamente quanto fece l’Eiar – ovviamente alla radio – nelle ore drammatiche successive all’8 settembre 1943)12. Aggiunge Pajetta: «qui c’è una situazione in cui o la gente si spaventa e capisce che deve andare avanti o si spaventa e va indietro»13.
Nella notte esplode la protesta nella caserma di polizia di piazza S. Ambrogio. In essa confluiscono insoddisfazioni di diversa natura, esasperate da un lunghissimo e sempre più massacrante impegno in servizio di ordine pubblico, ma il segno appare univoco: con il tentativo di uscire e di «marciare sull’università» per «vendicare Annarumma» (viene malmenato anche un generale che si adopera per frenare la rivolta). Dall’oggi al domani, osserva il dirigente comunista Di Giulio, «il governo italiano si è trovato nella condizione di non controllare più dei reparti di polizia». Nelle caserme milanesi le manifestazioni sono cominciate la notte prima dell’incidente – aggiunge Aldo Tortorella: «La parola d’ordine era: domani non usciamo se non ci danno facoltà di sparare». E davanti al Lirico «tra le forze di polizia non veniva più ascoltata nessuna autorità, i commissari venivano cacciati via». Fermenti analoghi, anche se meno tumultuosi, sono segnalati in quei giorni nei reparti di polizia di Torino e di altre città14. «Se il 19 novembre scorso gli ufficiali delle caserme di Milano avessero deciso di occupare la città […] non avrebbero incontrato resistenza e sarebbero stati applauditi» scriverà Mario Tedeschi su «Il Borghese»15, e subito il Msi è in piazza per rendere rovente il clima16. Sino alla «caccia al rosso» (o alla «speculazione politica imbastita dal Msi», per dirla col prefetto milanese) ai funerali di Annarumma, con il pestaggio di numerosi studenti: a partire dal loro leader, Mario Capanna, presente per confermare estraneità ai fatti e partecipazione al dolore17.
È un clima generale quello che sembra imporsi, promosso anche dai settori largamente prevalenti all’interno della magistratura. Non solo della magistratura: in quei giorni, a Palazzo di Giustizia, un’assemblea di avvocati democratici sul processo agli anarchici arrestati per le bombe alla Fiera è aggredita, al grido di «assassini», da un folto gruppo di altri avvocati, guidati da quelli di estrema destra18. Due giorni dopo è arrestato a Padova, trasferito immediatamente nel carcere romano di Regina Coeli e processato per direttissima il direttore responsabile del periodico «Potere operaio», Francesco Tolin: «uno dei rarissimi casi – ha scritto Paolo Murialdi – in cui per un reato di stampa viene applicata la carcerazione preventiva»19. Tolin prestava solo il nome e la sua qualifica di giornalista – necessari in base alle leggi sulla stampa – così come Piergiorgio Bellocchio prestava la sua firma per l’uscita di «Lotta continua»: e finisce anch’egli in Corte d’assise con 14 imputazioni (Tolin e Bellocchio vengono condannati a 17 e 15 mesi). Per non parlare di due tipografi romani, arrestati per aver stampato un manifesto dell’Unione dei comunisti marxisti-leninisti: «oggi – scrive “Il Giorno” – nessuna tipografia romana ha accettato di stampare un manifesto di protesta dell’Unione giuristi democratici. Tutti pretendevano il “nulla osta della polizia”, non previsto dalla legge, “in conseguenza di quanto è successo”»20.
La manifestazione nazionale dei metalmeccanici a Roma il 28 novembre si svolge in un clima teso. Non vi è nessun incidente ma «Il Corriere della Sera» commenta:
una certa componente eversiva o contestataria, una certa propensione alla jacquerie continua a mischiarsi alle vicende sindacali […]. Cos’è questo di più emotivo, questo ingrediente popolaresco che si aggiunge e si sovrappone alla vertenza, quasi che il concorso di folla, le grida, il vociare, il disordine e le arringhe finali dei «triumviri» (Trentin, Macario, Benvenuto) dai rostri valgano a mutare la sostanza delle cose? […] Roma non è il circo di Bisanzio, dove gli affari venivano decisi secondo le urla di approvazione o disapprovazione della plebe21.
Intanto le forme di lotta si inaspriscono ulteriormente: con lo sciopero a oltranza di 20 000 operai delle Carrozzerie di Mirafiori, o con il blocco delle merci nelle grandi fabbriche milanesi. È soprattutto in questa fase che migliaia di denunce colpiscono scioperanti e sindacalisti: alla fine saranno più di 10 00022.
Ai primi di dicembre vi sono la prime, temporanee schiarite, con la firma del contratto dei chimici e delle aziende metalmeccaniche a partecipazione statale23. È una distensione presto interrotta. Poco dopo i giornali italiani riproducono alcuni documenti pubblicati dall’inglese «Guardian» sull’azione in Italia di agenti dei colonnelli greci. E il titolo de «Il Giorno» del 12 dicembre è: L’on. Almirante per una soluzione alla greca. Quello stesso pomeriggio alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana, a Milano, una bomba provoca la morte di 16 persone e il ferimento di altre 88. Erano perlopiù agricoltori, che al venerdì – giorno di mercato – vi avevano abituale luogo di incontri e di contrattazioni. A Roma altre bombe scoppiano alla Banca Nazionale del Lavoro, dove vengono ferite 16 persone, e al monumento al Milite Ignoto. La televisione e i giornali «comunicano» immediatamente l’orrore inaudito di piazza Fontana: i corpi straziati, gli oggetti investiti dall’onda d’urto della bomba e diventati essi stessi strumenti di morte, la disperazione e l’incubo diventati realtà24.
È una strage senza precedenti nella storia d’Italia. «Sono sotto choc – scrive nella notte fra il 13 e il 14 dicembre Pier Paolo Pasolini – è giunto sino a Patmos sentore/ di ciò che annusano i cappellani/ i morti erano tutti dai cinquanta ai settanta/ la mia età fra pochi anni/ […] Ci sono là marcite; e molti pioppi. Venendo da là,/ vestivano di grigio e marrone; la roba pesante,/ che fuma nelle osterie con le latrine all’aperto». Pasolini continua poi, in dolente e prolungata litania, evocando una per una quelle vittime anziane e innocenti25.
1 La poesia è citata in Chinello, Sindacato, Pci, movimenti cit., II, p. 584.
2 Cfr. D. M. Turoldo, O sensi miei… Poesie 1948-1988, Milano 1993, pp. 435-6.
3 Cfr. il cap. III.
4 Istat, Sommario di statistiche storiche cit., p. 134. Il dato complessivo comprende naturalmente anche impiegati e imprese artigianali. La classe operaia vera e propria si attesta attorno al 33%, secondo le stime di P. Sylos Labini: cfr. Saggio sulle classi sociali, Roma-Bari 1974.
5 Archivio Storico Fiat, Fiat: le fasi della crescita, Torino 1996, p. 145.
6 All’Autobianchi, ad esempio, nel 1968-70 gli occupati passano da 2600 a 4200, mentre la Ignis alla fine del 1968 conta 3500 operai in più. I nuovi assunti sono in entrambi i casi giovani, e in larga parte meridionali: il 50% nel primo caso, il 45% nel secondo. Cfr. questi e altri dati nella serie pubblicata da il Mulino e curata da Alessandro Pizzorno su Lotte operaie e sindacato in Italia (1968-1972). Cfr. inoltre, in riferimento ai dati del 1968: Dopo tre anni di sosta. Ricominciato il flusso migratorio, in «Il Giorno», 23 febbraio 1969.
7 Sempre nel 1968, ad esempio, un terzo degli operai della Zoppas di Conegliano è composto da giovanissimi, entrati in fabbrica negli ultimi mesi: cfr. Chinello, Sindacato, Pci, movimenti cit., II, p. 585.
8 Cfr. Trentin, Autunno caldo cit., p. 15; Id., Da sfruttati a produttori cit., pp. XXXI sgg. e 253 sgg.
9 La testimonianza di Franco Petenzi è in M. Cartosio, Quando alla Dalmine scoprimmo che era giusto ribellarsi, in il Bimestrale, suppl. a «il manifesto», 12 dicembre 1989, che ha come tema monografico Autunno caldo.
10 È anche un dirigente della Fiat, Enrico Auteri, a testimoniarlo: cfr. G. Berta, Conflitto industriale e struttura d’impresa alla Fiat (1919-1979), Bologna 1998.
11 Ibid., p. 146.
12 La testimonianza di Luciano Parlanti è in G. Polo, I tamburi di Mirafiori, Torino 1989, p. 57.
13 Ibid., pp. 47-8.
14 Berta, Conflitto industriale cit., pp. 149-50.
15 Cfr. G. Bocca, La fabbrica nevrotica, in «Il Giorno», 29 febbraio 1968.
16 Id., Torino. La rabbia non ha salario, ivi, 1° giugno 1968.
17 Id., La rivolta dei servi fedeli, ivi, 27 marzo 1969. Bocca aggiungeva: «Cinquanta operaie disoccupate di Gambara hanno rifiutato l’assunzione da parte di una ditta in cui “per andare al cesso ci vuole la contromarca del capo”». In questi anni una delle richieste più frequenti alle linee di montaggio è effettivamente la possibilità di essere sostituiti in caso di necessità.
18 E. F., Il primo tempo dell’autunno caldo, ivi, 12 settembre 1969.
19 Cfr. il cap. II e Istat, Sommario di statistiche storiche cit. I soli metalmeccanici passano dai 20 milioni di ore di sciopero del 1968 ai 153 milioni del 1969: cfr. Trentin, Da sfruttati a produttori cit.
20 Cfr, A. Pizzorno, E. Reyneri, M. Regini, I. Regalia, Lotte operaie e sindacato: il ciclo 1968-1972 in Italia, Bologna 1978; I conflitti in Europa, a cura di C. Crouch e A. Pizzorno, Milano 1977; U. Fornari, Gli scioperi «selvaggi» nell’Europa dal 1969 al 1971, in «Quaderni di rassegna sindacale», settembre-ottobre 1972, 38.
21 Traggo i dati da M. Revelli, Lavorare in Fiat, Milano 1969; Pugno e Garavini, Gli anni duri alla Fiat cit.; cfr. inoltre le dichiarazioni di Alberto Tridente, segretario della Fim-Cisl torinese, in V. Emiliani, Sono diventati 20.000 gli operai sospesi, in «Il Giorno», 4 settembre 1969.
22 Così è anche per lavoratori altamente qualificati come gli attrezzisti della Olivetti; cfr. la «cronaca ragionata» delle agitazioni di questo periodo: Il sindacato in Italia 1960-70, in «Quaderni di rassegna sindacale», luglio-ottobre 1971, 31-32; cfr. inoltre M. Spinella, Attrezzisti Olivetti, in «Rinascita», 8 dicembre 1967.
23 La questione era stata discussa anche nella direzione del Pci del 23 febbraio 1968: Lama, Pecchioli e Amendola si pronunciano a favore dell’accordo, mentre Novella, Di Giulio e (più nettamente) Ingrao sono critici e Scheda sottolinea l’importanza di tenersi in costante contatto con gli organi direttivi periferici: APC, IG, 1968, mf 20.
24 Trentin, Autunno caldo cit., pp. 79 sgg.
25 Cfr. F. Ciafaloni, Le lotte operaie alla Fiat e il movimento studentesco, in «Quaderni Piacentini», luglio 1968, 35 (da cui traggo le citazioni) e Fiom-Cgil - Lega Fiat, Risultati della consultazione effettuata alla Fiat sez. SPA sulla regolamentazione dell’orario di lavoro, Torino 1-10 febbraio 1968, in APC, IG, 1968, mf 549: cfr. inoltre Per un movimento politico di massa, a cura dei gruppi di lavoro del Psiup torinese, Torino 1969.
26 Fra gli arrestati vi è anche il leader studentesco Guido Viale: cfr. i rapporti relativi al 30 marzo e al 6 e 11 aprile in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 163, f. 13347/81, sf. I e II.
27 Cfr. Chinello, Sindacato, Pci, movimenti cit., II, pp. 587-95; G. Pupillo, Classe operaia, partiti e sindacati nella lotta alla Marzotto, in «Classe», 1970, 2; L. Guiotto e G. Tempo, Valdagno, la «comunità globale», ivi, 1975, 11.
28 Il volantino è citato in Chinello, Sindacato, Pci, movimenti cit., II, p. 590.
29 Cfr. la sintesi dei risultati nel foglio stampato a cura del Pci di Valdagno nell’aprile 1968, «In fabbrica si muore: ci fanno “s-ciopare”», conservato in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 151, f. 13299/91.
30 T. Merlin, Avanguardia di classe e politica delle alleanze, Roma 1969, p. 48.
31 In ACS, MI GAB, 1967-70, b. 151, f. 13299/91, cfr. il rapporto del 20 aprile 1968.
32 Ivi l’elenco degli arrestati con l’età e la qualifica professionale; cfr. inoltre Chinello, Sindacati, Pci, movimento cit., pp. 586-95.
33 Ibid., p. 586. Sulla vertenza alla Rex cfr. i rapporti prefettizi in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 139, f. 13262N; sulla Zoppas, ivi, b. 141, f. 13284.
34 Cfr. Dieci anni di processo unitario, conversazione con Luciano Lama, in «Quaderni di rassegna sindacale», marzo-aprile 1971, 29.
35 Alla Rhodiatoce di Casoria e all’Italsider di Napoli il prefetto segnala inoltre la prosecuzione degli scioperi «per azione eversiva svolta da gruppi estremisti composti anche da studenti»: cfr. i rapporti del 5 e 20 luglio 1968 in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 135, f. 13250. Per la Rhodiatoce di Pallanza, G. Bimbi, Verso i comitati di iniziativa operaia, in «Nuova Generazione», 23 giugno 1968.
36 A ciò contribuisce anche l’azione di alcuni membri di Commissione interna vicini al Potere operaio veneto: cfr. Ciclo capitalistico e lotte operaie. Montedison Pirelli Fiat 1968, Padova 1969, pp. 83-110; Porto Marghera-Montedison-Estate ’68, Milano 1968; Chinello, Sindacato, Pci, movimenti cit., pp. 616-40.
37 Trentin, Autunno caldo cit., p. 82; V. Parlato, I giovani chimici all’attacco della Montedison, in «Rinascita», 9 agosto 1968; M. Boato, Operai e studenti a Porto Marghera, ivi, 30 agosto 1968.
38 Cfr. Linea di massa. Documenti della lotta di classe, 1, Lotta alla Pirelli. Milano, giugno-dicembre 1968. Documento del Comitato unitario di base della Pirelli, Milano 1969; M. Sclavi, Lotta di classe e organizzazione operaia, Milano 1974, pp. 33-179; sulla fase precedente cfr. P. Bolchini, La Pirelli. Operai e padroni, Roma 1967.
39 A ciò aveva contribuito anche la delusione per il modesto contratto nazionale firmato nel febbraio del 1968; in quella occasione comparve alla Pirelli Bicocca di Milano il primo volantino firmato «un gruppo di operai»: cfr. Sclavi, Lotta di classe cit., p. 46.
40 Cfr. il rapporto prefettizio del 24 ottobre 1968 in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 163, f. 13347/81.
41 Cfr. il rapporto del prefetto di Milano del 15 ottobre 1968, ivi, b. 162, f. 13348/48.
42 Ivi.
43 Il rapporto, del 26 ottobre 1968 è ivi, b. 89, f. 12000/48. Il 6 dicembre, invece, il prefetto inoltra al ministero una nota informativa relativa a otto componenti del Cub della Pirelli, da cui emerge la precedente esperienza sindacale e politica della maggior parte di essi.
44 Cfr. ACS, MI GAB, 1967-70, b. 162, f. 13348/48.
45 Mosca, C’era una volta la classe operaia cit., p. 85. Alla Philips, invece, è la «commissione fabbriche del Pci di Monza» a distribuire un volantino dal titolo «Sì al comitato di base», che fra l’altro afferma: «emerge con chiarezza e drammaticità l’insufficienza della lotta esclusivamente sindacale [...]. Gli operai vogliono contare di più nelle fabbriche. Vogliono essere loro a decidere». E poco dopo il giornale della stessa «commissione fabbriche» si apre con un articolo che echeggia gli slogan del Cub della Pirelli (e di diversi gruppi «operaisti»): Più soldi e meno lavoro, cfr. APC, IG, 1968, mf 549.
46 Cfr. G. Petrillo, La capitale del miracolo, Milano 1992; B. Manghi e G. Montani, Analisi di una lotta operaia: la Candy, in «Problemi del socialismo», marzo-aprile 1969, 39.
47 Cfr. M. Regini, Candy, in M. Regini e E. Santi, Lotte operaie e sindacato in Italia cit., II, Candy e Ignis, Bologna 1974, pp. 49-50.
48 Ivi. All’inizio della lotta viene respinto un accordo già raggiunto fra Commissione interna e Direzione: ACS, MI GAB, 1967-70, b. 132, f. 13248.
49 Cfr. E. Reyneri, Il «maggio strisciante»: l’inizio della mobilitazione operaia, in Pizzorno, Reyneri, Regini, Regalia, Lotte operaie e sindacato in Italia cit.
50 Cfr. L. Dolci, Ercole Marelli, in L. Dolci e E. Reyneri, Lotte operaie e sindacato in Italia cit., III, Magneti Marelli ed Ercole Marelli, Bologna 1972 (le testimonianze citate sono alle pp. 144 e 146).
51 Cfr. Appunto. M.I., Direzione gen. di P.S., Affari generali, Roma, 16 ottobre 1968, in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 156, f. 13317/61. Cfr. inoltre V. Parlato, Pisa: lo scontro è politico, in «Rinascita», 25 ottobre 1968.
52 Cfr. il rapporto prefettizio del 24 ottobre 1968 in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 353, f. 15584/61.
53 Fra ottobre 1968 e primavera 1969 un aspro conflitto vede protagonista, ad esempio la Mira Lanza, in provincia di Venezia. Si uniscono, nella stessa provincia, gli scioperi dell’Italsider di Marghera, della Chatillon e di altre aziende ancora (Chinello, Sindacato, Pci, movimenti cit., II, pp. 698-711). Sulle vertenze in provincia di Milano cfr. ACS, MI GAB, 1967-70, b. 132, f. 13248; sulla Rhodiatoce di Verbania, cfr. ivi, b. 148, f. 13299/51; sulle agitazioni degli operai licenziati dalla Marzotto di Pisa e sul ruolo del «comitato agitazione maestranze Marzotto, sottrattosi ormai at ogni controllo sindacale», cfr. i rapporti prefettizi conservati ivi, b. 150, f. 13299/61; sull’occupazione della Marzotto di Valdagno, diretta invece dalle organizzazioni sindacali, ivi, b. 151, f. 13299/91, e Continua l’occupazione a Valdagno, in «Il Corriere della Sera», 31 gennaio 1969.
54 Cfr. Turone, Storia del sindacato in Italia dal 1943 al crollo del comunismo cit., pp. 357-62.
55 Cfr. le dichiarazioni riportate da «Il Giorno», 12 novembre 1968.
56 L’accordo per l’industria pubblica è raggiunto il 21 dicembre 1968 ma la Confindustria resiste fino al marzo 1969: Turone, Storia del sindacato in Italia dal 1943 al crollo del comunismo cit., pp. 363-5.
57 Cfr. M. Calamai e C. Lombardi, I tecnici: nuovi protagonisti nello scontro di classe, in «Problemi del socialismo», marzo-aprile 1969, 39, pp. 355-68.
58 Il volantino, dell’ottobre 1968, e altre informazioni sono in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 140, f. 13278, sf. 1.
59 Cfr. i rapporti prefettizi ivi, b. 1342, f. 13248. Cfr. inoltre V ertenza conclusa fra gli impiegati dell’Alfa, in «Il Giorno», 10 gennaio 1969.
60 Cfr. Lotte dei tecnici. Documento dell’Assemblea permanente della Snam Progetti, Milano 1969.
61 Operano in tal senso le «commissioni tecnici» del Politecnico e dell’Università Cattolica: cfr. Calamai e Lombardi, I tecnici cit., p. 364.
62 Ibid., p. 363.
63 Cfr. le annotazioni relative al 29 gennaio, 13 febbraio, 5 e 2 marzo, in Plini, Lotte di fabbrica e promozione operaia cit.
64 Secondo gli stessi sindacati gli impiegati coinvolti non furono più di 40 000: cfr. Calamai e Lombardi, I tecnici cit.
65 Cfr. le annotazioni del 19 settembre 1969, 2 febbraio, 13 maggio, 3 e 9 ottobre 1970, 6 e 8 aprile 1972, in Plini, Lotte di fabbrica e promozione operaia cit.
1 L’articolo, di Franco Roccella, appare il 13 aprile 1969.
2 Cfr. P. Longo, Tumulti a Battipaglia, in «Il Giorno», 10 aprile 1969.
3 Cfr. Id., Il commissariato di P.S. è stato dato alle fiamme dalla folla, ivi, 11 aprile 1969.
4 Cfr. in particolare il rapporto del 20 aprile 1969 in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 421, f. 16695/71.
5 Il volantino è conservato in APC, IG, 1969, mf. 307, p. 3161.
6 Secondo la sintesi della Direzione generale della Pubblica Sicurezza, dopo una manifestazione dell’Alleanza Contadini cui partecipano circa 1000 persone vi è un blocco ferroviario, e affluiscono poi altri 4000 contadini «dalle campagne limitrofe». Vengono fermate e condotte in caserma una trentina di persone: «circa mille dimostranti tentano di assaltare la detta caserma allo scopo di conseguire il rilascio dei fermati. Immediatamente affluiscono sul luogo Forze di Polizia con caroselli di auto e mediante impiego di idranti [...] per tenere a bada la folla si rende necessario l’impiego di artifizi lacrimogeni»: cfr. ACS, MI GAB, 1967-70, b. 39, f. 11001/97, 3 febbraio 1969.
7 Sdraiati sui binari e sassate alla Ps, in «Il Giorno», 23 gennaio 1969.
8 Cfr. APC, IG, 1969, mf 307, pp. 3161-71.
9 Alinovi svolge osservazioni molto più criptiche sulla stampa di partito: cfr. Il movimento e l’organizzazione, in «Rinascita», 25 aprile 1969.
10 Dalle relazioni di quegli anni su altre realtà meridionali emergono spesso situazioni non molto diverse.
11 Cfr. Nota del compagno Alinovi sui fatti di Battipaglia, Roma, 22 aprile 1969, in APC, IG, mf 305, pp. 1121-9. Aveva molte ragioni Enzo Forcella nel sottolineare subito che «mai come in questo caso le esemplificazioni manichee […], l’inquadramento fazioso dei fatti in questo o quello schema politico sono fuorvianti»: E. Forcella, Davanti a Battipaglia, in «Il Giorno», 11 aprile 1969.
12 Cfr. il dibattito che si svolge nella Direzione del Pci il 10 aprile 1969, in APC, IG, 1969, mf 6 (per l’intervento di Pajetta, ivi, pp. 1361-2).
13 Cfr. la nota di S. Cacciapuoti alla Direzione del Pci, ivi, mf 305, pp. 1130-3.
14 F. Roccella, Mali antichi, è nuova solo la rabbia, in «Il Giorno», 3 giugno 1969; cfr. inoltre la sintesi ministeriale relativa ai diversi comuni in Incidenti durante manifestazioni politiche o sindacali-Statistica, ACS, MI GAB, 1967-70, b. 39, f. 11001/97.
15 Cfr. il rapporto prefettizio del 24 maggio 1969, ivi, b. 31, f. 11001/50.
16 F. Avati, Quarantasei feriti nei violenti scontri, in «Il Messaggero», 25 maggio 1969; L. Ricci, I ciclisti hanno mantenuto la calma, mentre la polizia ha perso la testa, in «Paese sera», 25 maggio 1969.
17 Cfr. un elenco delle più disparate agitazioni dell’aprile-maggio 1969, tratto dalle cronache dei quotidiani, in IRSIFAR, GC, b. 2, f. 4.
18 Cfr. la relazione del prefetto di Nuoro del 20 giugno 1969, in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 38, f. 11001-94.
19 Cfr., ivi, il rapporto prefettizio del 9 maggio 1969: «in vista delle imminenti elezioni regionali [...] lo sgombero dovrà essere attuato solo con breve preavviso, il che potrà determinare qualche difficoltà».
20 Traggo le citazioni dai rapporti del 9 maggio e del 19 e 20 giugno del 1969, ivi. Cfr. inoltre, ivi, anche i volantini del circolo giovanile di Orgosolo (I pastori non sono carne da cannone, Contro l’occupazione militare uniti nella lotta e I crumiri di nuovo all’attacco) e del movimento studentesco di Cagliari (Orgosolo in lotta); cfr. inoltre G. Podda, Cannoni ad Orgosolo scelta come base di tiro, in «l’Unità», 15 giugno 1969.
21 Cfr. la nota del 20 novembre 1968 ACS, MI GAB, 1967-70, b. 38, f. 11001/94.
1 Cfr. Rapporto sulla violenza fascista in Lombardia, a cura della Regione Lombardia, Milano 1974, pp. 16-7.
2 «Il Giorno», 27 aprile 1969.
3 Cfr. l’Appunto, in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 354, f. 15584/69.
4 È, secondo il rapporto prefettizio del 24 maggio 1969, «uno dei principali responsabili dei disordini […] individuato per aver capeggiato reiterate azioni illegali»: ivi, b. 50, f. 17191/48.
5 Il rapporto prefettizio, del 17 aprile 1969, e il materiale qui citato sono ivi, b. 30, f. 11001/48; cfr. inoltre Rapporto sulla violenza fascista in Lombardia cit., pp. 525-44. Le notizie erano filtrate già allora: cfr. Milano. Teppismo squadristico e padronale in Lombardia, in «Rinascita», 3 marzo 1972 e Per «Lotta Europea» un direttore picchiatore, in «Bollettino di Controinformazione Democratica» (BCD), a cura del Comitato dei giornalisti per la libertà di stampa e per la lotta contro la repressione, III, 23 febbraio 1972, 2 (16). Per un ulteriore riferimento a questa vicenda cfr. in APC, IG, 1969, b. 307, p. 2953, il Verbale della seconda riunione sui gruppi cosiddetti di sinistra e su quelli reazionari, 24 aprile 1969; cfr. inoltre Lugano: si è costituito […] un personaggio-chiave delle trame nere, in «Il Corriere della Sera», 13 settembre 1974 e Aa.Vv., Vent’anni di violenza politica in Italia, Roma 1992, pp. 514, 516, 549, 670.
6 Cfr. Rapporto sulla violenza fascista in Lombardia cit., pp. 553-62.
7 L’istruttoria che lo prepara – ha scritto Alberto Malagugini – «resta una delle pagine più intollerabilmente vergognose di questi anni»: A. Malagugini, Al servizio di una politica, in «Rinascita», 4 giugno 1971.
8 Cfr. la relazione del 21 giugno 1969 in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 426, f. 16998/3.
9 Ivi, b. 426, f. 16998-3. Camilla Cederna così ricorda il capo dell’ufficio politico della questura milanese, Allegra, in una conferenza stampa immediatamente successiva agli attentati alla Fiera: teneva «un cartoccio in mano e dentro del filo metallico, una specie di rocchetto e una rotellina da mostrare ai giornalisti, la prova secondo lui, insieme a un disegno incomprensibile, che gli attentati erano “quasi sicuramente anarchici”»: C. Cederna, Pinelli. Una finestra sulla strage, Milano 1971, p. 11.
10 P. Meucci, Caccia ai terroristi, in «Il Giorno», 10 agosto 1969.
11 Cfr. ancora Boatti, Piazza Fontana cit., e M. Fini e A. Barberi, Valpreda. Processo al processo, Milano 1972.
12 Cfr. P. Ignazi, Il polo escluso, Bologna 1989, pp. 129-42; su Ordine nuovo e gli altri gruppi del neofascismo, cfr. ACS, MI GAB, 1967-70, b. 19, da f. 195/P/93 a 195/P/104, e b. 25, f. 353/P. Si veda su «Il Borghese» del 29 maggio 1969 il testo del comizio tenuto l’11 maggio da Mario Tedeschi a una platea di estrema destra, con riferimento esplicito a iniziative clandestine e semiclandestine.
13 Cfr. il dibattito della Direzione del Pci del 28 dicembre 1968, in APC, IG, 1968, mf 20, pp. 1307 sgg. Nella riunione del 24 marzo 1969 Luigi Longo afferma: «Per quanto riguarda i pericoli di svolte autoritarie o di colpi di mano, dobbiamo richiamare l’attenzione del Partito sul fatto che questi pericoli sono reali»: ivi, 1969, mf 6, pp. 1288-9. Alinovi, dal canto suo, riferisce di riunioni di ufficiali dell’esercito e aggiunge: «La nostra sensibilità su tali questioni non è sempre all’altezza della situazione», ivi, p. 1304.
14 Cfr. il verbale della riunione della Direzione del 7-8 maggio 1969, ivi, pp. 1585 sgg. e 1645. Dal canto suo Galluzzi, in quella stessa riunione, insiste sulla «tendenza a tradurre lo spostamento a destra a livello organizzativo di governo e forse anche la spinta ad andare a soluzioni autoritarie, di tipo greco», e delinea due ipotesi: «un colpo di stato autoritario che può venire da ambienti militari integrati dalla Nato», o una svolta autoritaria di tipo «centrista» promossa dal presidente della Repubblica Saragat: ivi, pp. 1597-8.
15 Anche nell’originale i puntini sostituiscono il nome della persona cui Longo si riferisce: ivi, p. 1778. Cfr. inoltre, nella riunione del 7 luglio, l’intervento di Gian Carlo Pajetta, pp. 1841-2. Giorgio Napolitano interviene subito dopo invitando a misurare i toni sulla stampa di partito: «Ora ci sono queste notizie. Ci può essere un disegno che fa leva su determinati ambienti dell’esercito. Ma si possono presentare tutti i generali come potenziali golpisti? Fare esplicitamente appello al fatto che i soldati sono figli del popolo», ivi, p. 1779.
16 Ivi, p. 2575.
17 Cfr. la riunione della Direzione del 16 luglio 1969, ivi.
18 Cfr. la riunione della Direzione del 28 luglio 1969, ivi. I rischi di una «svolta radicale e autoritaria a destra» o di un «colpo di stato all’italiana» sono al centro di un opuscolo scritto e pubblicato da Giangiacomo Feltrinelli in quello stesso luglio 1969, Estate 1969.
1 Cfr. gli interventi di Minucci nelle riunioni della direzione del Pci dell’8 e del 29 maggio 1969, in APC, IG, 1969, mf 6.
2 Cfr. il rapporto del 29 maggio in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 163, f. 13347/81. Ivi, cfr. anche il rapporto del 22 maggio, in cui il prefetto dà conto del ruolo svolto dal Psiup all’interno di Mirafiori, con la costituzione del «Centro di azione politica degli operai della Fiat».
3 Il prefetto si riferisce ai fatti di Battipaglia.
4 Ivi, cfr. il rapporto prefettizio del 31 maggio 1969; cfr. inoltre V. Rieser, Cronaca delle lotte alla Fiat, in «Quaderni Piacentini», luglio 1969, 38, e, per una bella testimonianza, F. Platania, Vingt-trois année chez Fiat, in «Les Temps Modernes», Juin 1974, 335, pp. 2286-302.
5 Gli operai delle linee di montaggio – scrive lo stesso prefetto torinese il 19 giugno – «in numero circa tremila habent anche effettuato cortei all’interno della fabbrica, promovendo varie assemblee», e nei giorni successivi assediano anche la palazzina degli impiegati: ACS, MI GAB, 1967-70, b. 163, f. 13347/81.
6 Polo, I tamburi di Mirafiori cit., pp. 63-4.
7 La testimonianza è in Revelli, Lavorare in Fiat cit., p. 48.
8 La testimonianza di Carlo Calleri è in Berta, Conflitto industriale cit., p. 172. Dal canto suo Luigi Arisio, che sarà il leader della «rivincita dei capi» e della «marcia dei quarantamila» del 1980 ha ricordato: «gli operai che non aderivano alle agitazioni [...] trovavano la loro borsa piena di erba (il pasto dei conigli)»: L. Arisio, Vita da capo, Milano 1990, p. 144. Alla Dalmine di Bergamo, invece, in irrisione agli impiegati è portato ai cancelli della fabbrica un asino con una penna in testa e un cartello: «Io non sciopero perché mi piace il padrone» (Cartosio, Quando alla Dalmine cit.).
9 G. Bocca, La rabbia non ha salario, in «Il Giorno», 1° giugno 1968. Nell’aprile del 1969, alla vigilia delle lotte di primavera alla Fiat, ancora Bocca descriveva così le reazioni dei giovani meridionali nell’impatto con Torino: «alla malora questa città che ti tratta come un sasso, un oggetto, anzi peggio, peggio delle macchine che tutti lavano, ungono e riforniscono religiosamente, alla malora i partiti, i preti, l’autorità, la società» (Id., Torino: la patria del pieno impiego, in «Il Giorno», 27 aprile 1969).
10 Cfr. il saggio introduttivo di Alessandro Pizzorno, in Pizzorno, Reyneri, Regini e Regalia, Lotte operaie e sindacato: il ciclo 1968-72 cit. In questo stesso volume Emilio Reyneri (Il «maggio strisciante»: l’inizio della mobilitazione operaia) osserva che gli scioperi interni, nelle tumultuose forme che assumono, segnalano «la rottura del comportamento deferente e il primo sorgere di una solidarietà collettiva» in un soggetto sociale che in precedenza non aveva avuto una «socializzazione» industriale o sindacale. E che aveva vissuto il precedente periodo in fabbrica come un’assoluta e intollerabile subordinazione a una struttura produttiva incomprensibile, autoritaria e «feroce».
11 Cfr. il verbale in IRSIFAR, GM, Quaderno, 5.
12 Ivi. Cfr. inoltre Note sul funzionamento del consiglio dei delegati della Fiat (dal luglio 1969 all’agosto 1970), in appendice a Scuola e sviluppo capitalistico, in «Quaderni di Agape», 1970.
13 Cfr. i verbali dei Quaderni, 6 e 7, in IRSIFAR, GM.
14 Cfr. Revelli, Lavorare in Fiat cit., p. 134. Sul peso delle condizioni abitative nell’esplosione dei conflitti sociali cfr. S. Turone, Dai bassi del meridione agli abbaini di Torino, in «Il Giorno», 13 settembre 1969. Cfr. la descrizione degli scontri del 3 luglio 1969 nella sintesi curata dalla Direzione generale della PS, in Incidenti durante manifestazioni politiche e sindacali - Statistica, in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 39, f. 11001-97, e D. Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di corso Traiano, Pisa 1997. Cfr. inoltre il settimanale «La classe», che esce dal 1° maggio 1969 sino all’agosto di quell’anno.
15 La piattaforma sindacale, che l’azienda deve accettare quasi per intero, comprende aumenti salariali inversamente proporzionali (quindi fortemente perequativi), l’abolizione delle categorie inferiori, la contrattazione dei ritmi di lavoro e – soprattutto – la riduzione d’orario a 36 ore in un reparto particolarmente nocivo: cfr. Chinello, Sindacato, Pci, movimenti cit., II, pp. 701-4.
16 Cfr. Trentin, Autunno caldo cit.
17 Oltre ai volumi su Lotte operaie e sindacato in Italia cit., cfr., in riferimento a Milano, i rapporti prefettizi sulla lotta alla Fiar del maggio 1969 in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 132, f. 13248; per l’Ignis di Varese cfr. invece ivi, b. 142, f. 13287 e sulla Ignis Sud di Napoli, b. 134, f. 13249.
18 Per rimanere in Lombardia, si veda il rapporto del prefetto di Pavia del 24 luglio 1969: il movimento studentesco e il gruppo Potere Proletario, informa il prefetto, «stanno compiendo approfondite inchieste sulle condizioni di lavoro e di ambiente nei maggiori complessi industriali». Sulla base di esse «vengono interessati gli addetti ai vari reparti che, scavalcando commissioni interne e sindacati, iniziano agitazioni […]. Tale tattica è stata attuata con successo nei giorni scorsi negli stabilimenti cittadini “Snia Viscosa” e “S.p.A. Vittorio Necchi”, dove alcuni reparti sono scesi in sciopero»: ACS, MI GAB, 1967-70, b. 353, f. 15584/56.
19 Nelle elezioni della Commissione interna della Rumianca di Cagliari, ad esempio, la lista del «comitato di lotta» promosso dal Partito comunista marxista-leninista supera quelle della Cgil e della Cisl: cfr. il rapporto prefettizio del 21 aprile 1969, in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 87, f. 1200/18.
20 Cfr. le Note sulla consultazione redatte dalla Fiom che il prefetto di Modena inoltra al ministero il 19 giugno 1969, ivi, b. 92, f. 12000/94. Sulla propria opposizione ad aumenti uguali per tutti cfr. Trentin, Autunno caldo cit., pp. 91 sgg.
21 In altre categorie permangono ancora impostazioni tradizionali. Le organizzazioni dei chimici, ad esempio, evitano anche di consultare i lavoratori, e ciò provoca molte proteste: cfr. Chinello, Sindacato, Pci, movimenti cit., II, pp. 738 sgg. Riferendo di un convegno sindacale interregionale sul contratto dei chimici, il prefetto di Ferrara segnalava nel settembre del 1969 che vi erano stati «molti interventi di lavoratori i quali per la quasi totalità si sono dichiarati insoddisfatti delle richieste formulate dalle segreterie nazionali dei tre sindacati»: ACS, MI GAB, 1967-70, b. 153, f. 13304/30.
22 Già il 3 settembre «Il Giorno» scrive che «i sindacati sono tenuti in scacco dai “comitati di base” che spingono per la rottura a tutti i costi; il clima si è andato deteriorando per atti di intemperanza e violenza, lanci di pomodori, vandalismi contro le vetture di impiegati e dirigenti».
23 Manzini, Un lungo autunno cit., p. 47.
24 «I tram e gli autobus che dalla zona della Bicocca caracollano verso la stazione centrale si riempiono di tute e ai piedi del grattacielo si forma un cordone di 3-4000 operai che impediscono l’accesso a tutti quanti. La polizia è schierata davanti agli ingressi, tascapane, elmetto, visiera calata e scudo di plexigas»: ibid.
25 Nella riunione della Direzione del Pci del 25 settembre 1969 Ingrao informa che Donat-Cattin «è stato in stretto contatto con noi, giorno dopo giorno. Abbiamo concordato tutto con lui, anche la discussione alla Camera». Fernando Di Giulio aggiunge: «Donat-Cattin lavora ormai quotidianamente tendendo ad un appoggio organico con i sindacati e con il nostro partito. È un fatto politico abbastanza nuovo»: APC, IG, mf 6, pp. 2039-41. Cfr. inoltre A. Marchetti, L’autunno del ’69 e il ruolo del ministro Donat-Cattin, in «Parolechiave», dicembre 1998, 18.
26 Manzini, Un lungo autunno cit.
27 Alla Comit di Milano, ad esempio i bancari in sciopero bersagliano i «crumiri» con cachi, uova e pomodori: cfr. Un’altra giornata di tensione. Blocchi stradali e incidenti, in «Il Giorno», 8 novembre 1969.
28 Cfr. i rapporti prefettizi conservati in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 163, f. 13347/81; cfr. inoltre un’altra descrizione di atti di violenza ne «Il Giorno» del 18 ottobre («impiegate e impiegati fatti uscire dagli uffici, lanci di monetine, atti ostili, spintoni»). E si veda – il giorno precedente – il comunicato della Fiat sugli stessi fatti.
29 M. Calopresti, Tutto era Fiat, Videoteche Rai. La testimonianza, di Maria Teresa Arisio, è al centro anche del documentario di Giovanna Boursier, Signorina Fiat, Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, 2001.
30 ACS, MI GAB, 1967-70, b. 163, f. 13347-81.
31 Lo conferma Adalberto Minucci nella direzione del Pci del 5 novembre 1969, in APC, IG, mf 6, pp. 2116 sgg. Sono interessanti anche in questo caso i «verbali» delle discussioni che si svolgono nell’«assemblea operai-studenti», che si sta trasformando nella sede torinese di Lotta continua: l’organizzazione e il quindicinale con lo stesso nome nascono infatti allora; cfr. IRSIFAR, GM, Quaderni, 9-22.
32 Cfr. È ora di isolare i gruppi teppisti e le fotografie con il titolo Violenze alla Fiat Mirafiori e Rivalta, in «La Stampa», 30 ottobre 1969; V. Emiliani, Cortei a Torino. Violenze a Mirafiori, in «Il Giorno», 30 ottobre 1969.
33 Cfr. V. Emiliani, Bergamo. La presenza dei crumiri scatena i dimostranti. Vetrate in pezzi, fischi e grida, in «Il Giorno», 22 ottobre 1969. Oltre che all’Italcementi di Pesenti, invasa dai dimostranti, vi sono momenti di tensione davanti a una banca, a un grande magazzino e a «Il Giornale di Bergamo», espressione degli industriali: cfr. il rapporto prefettizio del 28 ottobre 1969 in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 26, f. 11001-13.
34 Così il rapporto del prefetto del 28 ottobre 1969: ACS, MI GAB, 1967-70, b. 280, f. 15101/13.
35 Ivi, il rapporto del 6 novembre 1969.
36 L’incriminazione riguarda un picchetto attuato il 12 novembre; il collegio difensivo è guidato dal segretario della Dc di Brescia, Mino Martinazzoli, e da altri avvocati del partito cattolico: cfr. M. Mariani, Per 140 operai della OM difesa gratis, in «Il Giorno», 9 gennaio 1970.
37 Cfr. i rapporti prefettizi in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 33, f. 11001/61.
38 Su questi aspetti, cfr. Lavoratori e televisione, a cura di F. Rositi, Milano 1970.
39 Cfr. «Il Giorno», 7 novembre 1969.
40 Da tre «quindicine», annota Enzo Forcella, gli operai percepiscono appena due terzi del già basso salario, mentre anche la situazione industriale inizia ad esser critica: Una carica di esigenze e di tensione, in «Il Giorno», 2 novembre 1969.
41 Cfr. l’intervento di Lama nella direzione del Pci del 5 novembre, APC, IG, 1969, mf 6, pp. 2114 sgg.
42 Cfr. Bologna: in autobus gratis i lavoratori in agitazione, in «Il Giorno», 14 novembre 1969.
43 Cfr. Giorni decisivi alla Fiat per le sospensioni, ivi, 5 dicembre 1969.
44 L’articolo con questo titolo compare il 14 ottobre 1969.
45 Così è ad Aprilia, in provincia di Latina (cfr. «Il Giorno», 18 ottobre 1968) e a Vanzago, nel milanese: in questo caso il proprietario della fabbrica è anche il sindaco democristiano del paese; cfr. il rapporto prefettizio del 2 dicembre 1969 (in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 132, f. 13248) e «Il Giorno», 3 dicembre 1969.
46 Le parti essenziali dello «Statuto» sono in V. Foa, Sindacati e lotte operaie 1943-1973, Torino 1975, pp. 193-5
1 Traggo le citazioni dalle relazioni dei prefetti dell’aprile 1969, riferite al trimestre precedente, in ACS, MI GAB, 1967-70, bb. 412-424, ff. 16995/1-16995/94.
2 Ivi. Le citazioni potrebbero continuare, e basti citare qui un brano del prefetto di Milano: «l’azione contrattuale odierna, imposta dai sindacati con il nuovo metodo dell’assemblea dei lavoratori, mentre ha riscosso un certo successo tra le categorie interessate alla lotta, ha prodotto d’altro canto sfavorevoli commenti in larghi strati dell’opinione pubblica».
3 Anche il rapporto del prefetto milanese Mazza, inviato alle 16,45 di quel 19 novembre, conferma che il corteo dei marxisti-leninisti era defluito e che una decisione dei dirigenti del servizio portava un reparto a contatto con i partecipanti al comizio sindacale. Partivano le invettive, una camionetta investiva un dimostrante e «incidente determinava violenta reazione confronti reparto»: il comandante «azionava sirene et iniziava carosello. Verificavasi quindi ulteriore violenta reazione dimostranti», cui si aggiungono gruppi di marxisti-leninisti e studenti (ACS, MI GAB, 1967-70, b. 83, f. 111222).
4 È un giudice, Domenico Pulitanò, a testimoniare che la carica non ha avuto alcun preavviso, né alcuna ragione: cfr. Un brutale e ingiustificato intervento della polizia ha provocato i gravi incidenti verificatisi a Milano, in «l’Unità», 20 novembre 1969.
5 G. Pansa, Annarumma, in Le bombe di Milano cit., pp. 13-22. Anche il dirigente comunista Tortorella riferisce alla Direzione del partito che l’intervento della polizia si è verificato «all’uscita della folla dal comizio unitario e gli scontri si sono avuti direttamente fra i nostri compagni, quelli della Cisl e della Uil e la polizia».
6 Le dinamiche dei fatti non sono state mai chiarite Fra le ipotesi, lo scontro fra jeeps della polizia o un tubolare lanciato dai dimostranti per frenare la carica. Diversi giornali affermarono allora che un filmato della tv francese in possesso della Rai, che avrebbe confermato la prima ipotesi, era scomparso misteriosamente.
7 Pansa, Annarumma cit.
8 Nelle manifestazioni sindacali compariranno i cartelli: «Operai in lotta non sono assassini»: cfr. il documentario di Ugo Gregoretti, Contratto (1970).
9 Cfr. l’intervista nel servizio di S. Zavoli e di A. Campanella, F. Cangedda, G. Fiori, Quelli che perdono, TV7, 19 dicembre 1969.
10 Cfr. «L’Unità» del 21 e 22 novembre 1969.
11 Cfr. il verbale della Direzione del Pci del 24 novembre 1969, in APC, IG, 1969, mf 6, pp. 2244-5.
12 Cfr. E. Forcella, L’arte della fuga. Il black out dell’informazione nella crisi italiana dell’8 settembre 1943, in «Movimento operaio e socialista», 1983, 3.
13 Cfr. il già citato verbale della Direzione del Pci del 24 novembre 1969.
14 Ivi.
15 Pansa, Annarumma cit., p. 23
16 Cfr. i rapporti conservati in ACS, MI GAB, 1967-70, b. 83, f. 11122.
17 Cfr. Saluti fascisti e caccia all’uomo, in «Il Giorno», 21 novembre 1969.
18 Cfr. Tumulti di avvocati con calci e schiaffi, titola «Il Giorno», 22 novembre 1969.
19 P. Murialdi, La stampa italiana del dopoguerra 1943-1972, Bari 1973, p. 529.
20 Potere Operaio: rinvio a lunedì, in «Il Giorno», 27 novembre 1969.
21 C. Zappulli, L’ora delle cifre, in «Il Corriere della Sera», 29 novembre 1969.
22 14.000 denunce. Chi, dove, come, quando, perché, a cura di L. Borgomeo e A. Forbice, Roma 1970.
23 L’accordo prevede la graduale riduzione dell’orario a 40 ore e la tendenziale parità normativa fra operai e impiegati, consistenti aumenti salariali uguali per tutti e il diritto a tenere assemblee in azienda durante l’orario di lavoro per dieci ore retribuite.
24 Cfr. Boatti, Piazza Fontana cit., pp. 3-42.
25 Patmos, in Pasolini, Trasumanar e organizzar cit., pp. 107-15.