XV. La catastrofe

1. «La contestazione n. 2».

Scoppierà nel 1978 la contestazione n. 2.

Francesco Alberoni, in «Il Corriere della Sera», 6 luglio 1975.

Nel luglio del 1975 Francesco Alberoni prevedeva una nuova esplosione giovanile e ne indicava le radici: l’università, scriveva, sta diventando

l’area di parcheggio di disoccupati intellettuali che tirano avanti ancora per un po’ attraverso borse di studio e sussidi e poi con lavori precari. Ma tutto questo ha un prezzo: una delusione profonda sul piano personale, una sfiducia radicale nel funzionamento del meccanismo economico.

Si è messo in moto, continuava Alberoni, «un meccanismo che contemporaneamente frustra e delude gli individui quando sono giovani e quando sono vecchi, distrugge ricchezza sociale, trasforma la forza creativa e liberante della conoscenza in miseria e minaccia il sistema che lo ha adottato»1.

L’addensarsi nelle università di nuove forme di marginalità giovanile era segnalato in più forme, in quello stesso 1975: Non c’è lavoro per i giovani? Mandiamoli all’Università, ironizzava Arrigo Benedetti, e convergenti accenti venivano da Barbiellini Amidei e da altri ancora2. Le ricerche sociologiche offrono qualche dato, sia pur approssimativo: un’indagine dei primi mesi del 1976 valuta a circa 1 200 000 le persone fra i 14 e i 29 anni disoccupate o sotto-occupate (un anno dopo alla conferenza governativa su questo tema si parlerà di oltre due milioni): quasi la metà di esse possedeva un diploma o una laurea, due su tre non erano mai entrate nel processo produttivo3. Disoccupazione e forme diverse di lavoro precario si mescolavano4, e Gabriele Invernizzi prevedeva «una nuova ondata di collera generazionale, la più terribile del dopoguerra»5. Va a finire che scoppia un ’68 aggiungeva poco dopo, indicando i tratti «di una nuova contestazione [...] diversa da quella di un tempo»: «in attesa di lavoro, a quale occupazione si dedicano? Sfasciano bar e fanno feste»6. Proprio una «festa» rivelerà in modo lacerante nuovi scenari: il Festival del proletariato giovanile di Parco Lambro, nell’estate del 1976 (all’indomani delle elezioni e della secca sconfitta subita dalle liste di estrema sinistra). Sin dall’inizio alcuni «collettivi autonomi» ne rovinano il clima con violenze gratuite e saccheggi. Così muore un mito giovanile, scrive Giulia Borgese: «il festival è naufragato fra l’odore aspro dei candelotti lacrimogeni, una gran puzza di sudore e immondizie». E aggiunge:

Viene in mente l’epoca d’oro di simili manifestazioni, viene in mente quello di Zerbo, tutto un giocare nell’acqua del Ticino (che oltretutto giustificava con la sua presenza anche il nudismo), carni arrostite sul greto, fuochi alla sera, molta musica e un paese che dopo il primo stupore era diventato così bonario da mescolarsi pacificamente agli hippies […] oggi siamo quasi alla guerra, certo all’ansia e alla nevrosi. Gli hippies non ci sono più da un pezzo. Gli abitanti del quartiere dicono: «ci vorrebbe la mitraglia». Non ci sono più neanche gli extraparlamentari7.

Osservava a sua volta Marisa Rusconi: «cercano di insediare alla periferia della metropoli industriale un loro micro-paradiso terrestre e vi scatenano la violenza [...] la voglia di liberazione diventa collera disperata»8. Parco Lambro è quasi un simbolo, ha scritto a distanza di anni Gianni Borgna: tra espropri, assalti al palco, saccheggi, «la ricerca della felicità si trasformò in esibizione tragica della propria impotenza»9. Di lì a poco è invasa la festa nazionale della Fgci, a Ravenna, provocando analogo sconcerto se non trauma10, e sullo sfondo di episodi come questi vi è anche il diffondersi sempre più visibile della droga: l’eroina compare in Italia nei primi anni settanta, con un numero crescente di morti (otto del 1974, quaranta nel 1977); alla fine del decennio i consumatori abituali sono circa trentamila, in larga parte giovani e giovanissimi11. Vi sono anche altri fenomeni, che traspaiono sin dalle lettere pubblicate nel corso del 1977 da «Lotta continua»12. In esse – ha osservato Manuela Fraire – solitudine e suicidio si intrecciano all’insistita riflessione su violenza e politica, femminismo e dissenso: «c’è una lettera [...] nella quale la parola “morte” compare circa ogni dieci righe, quasi avesse acquistato un diritto di cittadinanza che prima non aveva»13. Si legga il biglietto lasciato da Marco, ventidue anni, anch’egli militante della sinistra extraparlamentare: «non è stato il rifiuto della vita ma l’impossibilità di vivere, di vivere la mia vita, la mia realtà a farmi scegliere la morte»14. Dal canto suo Cesare Musatti scriverà nel 1978: «Non c’è una grande differenza, psicologicamente, fra il giovane compagno suicida e il brigatista rosso [...]. Già il brigatista è consapevole che prima o poi cadrà sotto la sventagliata di mitra e non si preoccupa di questo, è indifferente alla vita propria e altrui. Perché? Perché si sente egli stesso un suicida»15. Gli faceva eco Walter Tobagi: «speranze e illusioni si restringono a un “orizzonte tragico”, si trasformano in spinta di “distruzione” e “autodistruzione”, che poi significa sparare al “nemico” o iniettarsi una dose di eroina»16.

2. Fra disperazione, «riflusso» e «crisi della ragione».

Per altri versi, la disillusione e il disincanto portano a multiformi e brusche prese di distanza da una «politica onnivora». Nella «sinistra rivoluzionaria» c’è «un’aria di riflusso e un po’ di crisi», scriveva già nel 1976 Enzo Forcella recensendo un libro che ha un imprevisto e straordinario successo: Porci con le ali, le vicende «intime» di due adolescenti di sinistra, Rocco e Antonia, raccontate da Marco Lombardo Radice e Lidia Ravera1. Riflusso: di lì a poco parola-simbolo della «generazione del ’68», ormai più che trentenne. Un «ritorno nel privato» cui si contrappone la radicalizzazione estrema di gruppi di militanti provenienti soprattutto dalla generazione successiva.

Sullo sfondo, sempre a sinistra, un più profondo mutare del clima culturale. Si vedano ad esempio le riflessioni sulla «teoria dei bisogni» di Agnes Heller2 che compaiono in riviste filosofiche come «aut-aut» o in «riviste di movimento» come «Ombre rosse»3: una rivisitazione critica del marxismo volta a riscoprire il soggetto individuale, il suo modo di essere, la sua cultura4. La riflessione procede poi con la messa in discussione del modo tradizionale di intendere la razionalità, e il nesso stesso fra razionalità e irrazionalità (via su cui si era già mossa l’elaborazione femminista)5: sino a un libro del 1979, La crisi della ragione, che si pone al crocevia di molteplici percorsi6. In una cultura diffusa cresce l’attenzione ai grandi temi filosofici, all’«infinitamente piccolo» e all’«infinitamente lontano»7, mentre sembra crollare quell’interesse per la storia contemporanea che era stato «ossessivo» negli «anni del ’68»8. Esso aveva avuto due tratti fondanti: la sostanziale riduzione della storia a «storia politica» e il rivolgersi al passato prossimo per «comprendere il presente». Inevitabile il disincanto, in un presente sempre più «incomprensibile» per quella generazione e per quella cultura.

In generale vi è un più radicale mutare del rapporto fra presente e passato: la fiducia nel futuro e il baldanzoso rifiuto di un passato prossimo arretrato e buio hanno ormai lasciato il posto a spaesamenti diffusi, a paure sia del presente che del futuro. Cedono il passo, anche, a quella ricerca delle «radici», a quella «cultura del revival», a «quel gran traffico dal solaio alla boutique» su cui ironizzava Alberto Arbasino:

Dopo aver gettato dalla finestra il golfino della mamma, la stufetta della zia Maria, il vecchio setaccio e il vecchio imbuto della cascina Madonnina, riacquistare alla boutique del festival lo scialle della nonna Clotilde, il braciere indiano, il setaccio della cugina di Barthes e l’imbuto della zia di Foucault […]. Ah, sì, vi vergognavate delle tendine del tinello e del frigorifero non dell’ultimo modello? Allora farete una microstoria della ghiacciaia della bisnonna della cameriera di Le Roy Ladurie, e il piccolo Massimiliano, non appena finiti gli omogeneizzati, eseguirà una ricerca scolastica sui ferri da stiro di Orietta Berti, e gli servirà per la laurea e la carriera sul territorio9.

3. Eclissi e crisi di una «cultura di sinistra».

La crisi della cultura di sinistra e – al suo interno – di una generazione rimanda a questioni più generali ma ha anche tratti propri che appaiono più evidenti, più «alla superficie».

Nel 1976 Giorgio Gaber rivisitava così una koinè ormai consunta: «avere una linea e unirsi attorno a un’idea/ [...] per confrontarsi/ e decidere insieme la lotta/ in assemblea». Ne riproponeva illusioni e disillusioni: «tutto che saltava in aria e c’era un senso di vittoria/ [...] tutto sembrava pronto per la rivoluzione/ ma era una tua immagine o soltanto un’invenzione». Concludeva con lo spaesamento: «e allora ti torna voglia di fare un’azione/ ma ti sfugge di mano e si invischia ogni gesto che fai»; e con una ironia amara: «ci siamo sentiti insicuri e stravolti/ come reduci laceri e stanchi, come inutili eroi/ con le bende perdute per strada e le fasce sui volti/ già a vent’anni siam qui a raccontare ai nipoti che noi...»1.

Sono temi che variamente ritorneranno negli anni successivi: dalla «generazione di sconvolti/ che non hanno più santi né eroi» di Vasco Rossi («non abbiamo più niente da dire»)2 allo smarrimento cui dà voce Franco Battiato: «cerco un centro di gravità permanente/ che non mi faccia mai cambiare idea/ sulle cose, sulla gente»3; dal fallimento della «leva calcistica del 1968» di Francesco De Gregori («chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai/ di giocatori stanchi che non hanno vinto mai/ e hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro»)4 allo sconforto di fine decennio di Lucio Dalla e Roberto Roversi: «nel Settanta si pensava a tutto/ negli anni Ottanta si è perduto tutto»5.

Era stato più precoce e più tragico l’«elogio funebre del ’68» (di questo in realtà si tratta) scritto dal grande cantore degli sconfitti, Fabrizio De André: Storia di un impiegato (1973). Del ’68 De André evoca l’«innocenza» («lottavano così come si gioca/ i cuccioli del maggio era normale») e al tempo stesso la radicalità: «se credete ora/ che tutto sia come prima/ perché avete votato ancora/ la sicurezza, la disciplina/ convinti di allontanare/ la paura di cambiare/ ritorneremo alle vostre porte/ e grideremo ancora più forte/ per quanto voi vi crediate assolti/ siete per sempre coinvolti». Tratteggia poi la cupezza dei primi anni settanta («per strada tante facce/ non hanno un bel colore/ qui chi non terrorizza/ s’ammala di terrore») e intuisce possibili derive tragiche. Le mette in bocca a «un trentenne disperato/ se non del tutto giusto/ quasi niente sbagliato»: «Potere troppe volte/ delegato ad altre mani [...]/ io vengo a restituirti un po’ del tuo terrore/ del tuo disordine, del tuo rumore». De André conclude poi: «certo bisogna farne di strada [...]/ per diventare così coglioni/ da non riuscire più a capire/ che non ci sono poteri buoni»6.

Questo ultimo squarcio ci conduce a un altro, decisivo versante. Stavano entrando in crisi, infatti, due «architravi culturali» condivisi – pur con diverse articolazioni – sia dalla «sinistra storica» che da quella nata nel ’68: il riferimento al comunismo internazionale e la «centralità» della classe operaia.

Defunto da tempo il mito dell’Unione sovietica (travolto definitivamente dall’invasione di Praga), i «miti alternativi» degli anni sessanta facevano uno dopo l’altro analoga fine. L’astro cinese è appannato già dal 1971 – quando Lin Piao muore in un oscuro incidente aereo (a lungo tenuto nascosto) – ed è ulteriormente compromesso da una «politica estera» che conserva ben poco della «coerenza rivoluzionaria»; tramonta per sempre pochi mesi dopo la morte di Mao, nel 1976, con lo scontro interno che porta all’arresto della «banda dei quattro» (fra cui vi è anche la moglie del «grande timoniere»)7. Per quel che riguarda il Vietnam, alla vittoria definitiva contro gli Stati Uniti, nel 1975, seguono segnali ben diversi da quelli attesi: «ancora una volta – scrive alla fine del 1976 Giorgio Bocca – la stagione del coraggio e della democrazia partigiana, delle grandi speranze e della solidarietà internazionale [...] pare rapidamente finita per lasciare il posto a un duro stato di polizia e agli inevitabili campi di lavoro forzato»8. Un anno dopo il quotidiano «Lotta continua», in un «bilancio di fine d’anno», è ancor più drastico: «Non abbiamo più niente compagni, siamo orfani... Il mondo si è ristretto, l’orizzonte è più piccolo. Il Vietnam... appena dieci anni fa [...]. Anche la dittatura del proletariato. Alt! Dittatura di chi, con chi, come, con che cosa?»9. E poco dopo, al termine di una più pacata e ampia riflessione: «il nostro internazionalismo stesso aveva dei lati schematici, al limite disumani»10. Il trauma non è dato solo dall’invasione della Cambogia ma anche dalle strazianti immagini del «boat people»: migliaia e migliaia di vietnamiti che cercano di abbandonare il paese in condizioni disperate.

Cuba, per finire: abbandonati da tempo i sogni «libertari», si presenta sempre più anche sullo scenario internazionale come supporto dell’Urss e delle sue strategie11. Che cosa è andato storto nel nostro internazionalismo? si chiedeva Lisa Foa in un lucido e penetrante intervento. Vi è qualcosa di più – aggiungeva – del «fallimento verticale delle nostre ipotesi»: vi è «uno sconvolgimento totale per cui i nostri amici si mescolano con i nostri nemici e viceversa, si sparano l’un l’altro, oppure si inseriscono in schieramenti e fronti contrapposti, in un groviglio che è sempre più complicato districare»12. Effettivamente era difficile utilizzare ancora categorie come «lotta di classe internazionale», ma nello stesso torno di tempo il problema si allargava alla «lotta di classe» tout court, con la messa in discussione del secondo «architrave forte» della cultura di sinistra, il ruolo e la funzione della classe operaia.

Nella fase finale degli anni settanta iniziava a declinare – come s’è visto – la centralità dell’industria e della grande fabbrica13, mentre la crisi petrolifera metteva in discussione l’idea stessa della produzione e dello sviluppo come valore in sé. Iniziava ad incrinarsi al tempo stesso anche l’altro, connesso, modello, che aveva assunto la classe operaia come soggetto collettivo e simbolo di una più generale ingiustizia sociale. Era, naturalmente, un elemento «costitutivo» della cultura della sinistra, ma si considerino anche le riflessioni che affioravano fra anni sessanta e anni settanta nel mondo cattolico, sin lì propenso a rivolgersi piuttosto all’indistinto mondo dei «poveri», o della «povera gente». È esemplare un brano del 1972 di padre Ernesto Balducci: «la capacità della classe operaia di essere portatrice del destino del genere umano non è certo un’investitura messianica venuta dall’alto [...]: è perché di fatto la classe operaia porta in sé scopertamente la contraddizione del sistema»14. Le citazioni potrebbero proseguire a lungo: con i sacerdoti della Val Pescara, che nel 1971 affermano di ravvisare negli operai abruzzesi licenziati «Cristo stesso, sfruttato, ironizzato, “licenziato” (Matteo, 25, 40)»15. O con dom Giovanni Franzoni, che nella sua ultima omelia a San Paolo fuori le mura afferma di cercare «la strada della liberazione dell’uomo e della liberazione della Chiesa [...] là dove lottano gli operai, dove le lotte significano sudore, ore di lavoro perse, sacrifici grossissimi nel proprio benessere e, al limite, significano anche perdite della vita, sangue, nel senso stretto della parola»16.

Dal canto suo, ancora agli inizi del 1977 Enrico Berlinguer indicava la classe operaia come «principale motrice della storia», ma da allora troveremo sempre meno frequentemente analoghi accenti e toni17. A questo declino non contribuiscono solo i processi «materiali» che attraversano il mondo del lavoro. Vi contribuisce, molto di più, una crisi che coinvolge il vissuto stesso dei lavoratori. Nelle testimonianze operaie raccolte a Torino fra il 1977 e il 1978 da Giulio Girardi il «tentativo di capire chi siamo» prende sempre più le distanze da illusorie certezze precedenti. Fa emergere anche qui un’attenzione crescente agli spazi personali, «privati»; rivela il solco fra le cose che si dicono e quelle «che i lavoratori non riescono a dire ma che pensano. E a volte esprimono in conversazioni private: [...], la loro “seconda verità”, “esigenze sotterranee”, “inespresse”, “inconfessabili”»18. Si ascolti qualche frammento di queste voci:

«nell’ultima riunione qualcuno diceva: c’è un ufo che si aggira, è la classe operaia. In realtà chi entra in fabbrica oggi è uno sconosciuto»; «noi abbiamo avuto un ruolo centrale nel ’68-’69-’70-’71. Si parlava molto di centralità operaia […], c’era un interesse notevole anche da parte di altri strati sociali verso gli operai, perché erano portatori di discorsi nuovi. Oggi noi pensiamo di contare meno per cambiare la società»; «Io non voglio solo produrre, voglio vivere una vita felice, socializzare il tempo libero […], mettere in evidenza le condizioni etniche e culturali da cui sono stato espropriato […]. Di qui nasce la crisi dei delegati, la crisi del compagno che non fa più attività politica perché si è accorto che l’attività politica gli imponeva di trascurare le sue condizioni di vita»; «il modo di lottare contro il lavoro, oggi, è dimenticarlo il più possibile»19.

Sono perlopiù militanti sindacali e politici a parlare in questo modo, e altri segni indicano una distanza sempre più grande fra questa pur ampia minoranza e la «gente immodificabile», come dice un leader operaio della Fiat: i «tanti [...] che sono rimasti, sotto sotto, quelli di prima». I molti che «usavano il potere operaio in fabbrica per farsi le cose loro, per giocare a carte, leggere il giornale, semplicemente per lavorare di meno»20. Racconta un delegato sindacale:

C’erano squadre che giocavano solo a carte […]. Non che la produzione non fosse fatta, eh! […] Ma il tempo che si guadagnava, e se ne poteva guadagnare parecchio, allora, lo si passava in quei modi lì. Giocavano a tutto: tutti i giochi di carte regionali, ma specialmente a scopone. E poi a dama. C’erano dei veri e propri tornei di dama. Oppure, quei cinque minuti strappati alla catena tirandosi su, li passavano a chiacchierare. Fino a qualche tempo prima si gridava, nei cortei, negli scioperi, tutti insieme, adesso si bisbigliava, a piccoli gruppi, come sulla piazza del mercato21.

Con il proceder del tempo – ha osservato Giuseppe Berta – emerge sempre più la corposità di questa «zona grigia»: capace di avvantaggiarsi del più debole controllo padronale imposto dalle lotte ma non di condividere – di quelle lotte – orizzonti e valori.

Il mutamento era avvertito anche all’esterno della fabbrica, e la drastica inversione di un clima culturale ci è riconsegnata in modo estremo dal più disincantato «commiato dagli anni settanta», Un paese senza di Alberto Arbasino, in cui si descriveva appunto «un Paese onirico, vittima di abbagli metalmeccanici e velleità petrolchimiche»22. Si leggano i brani sprezzanti dedicati al «marxo-machismo italiano, per cui il cuore della vita italiana sono i gloriosi pensionati dello Stato, cioè gli operai delle grandi imprese passive»; si veda l’irrisione dei «trips accademici fondati sulla metallurgia wagnero-mirafior-marxista e sulle migliaia di miliardi annualmente perduti dalla siderurgia, dalla chimica, e dai trasferimenti finanziari dal Nord al Sud»23. Arbasino continua dissacrando l’«operaismo come tesi assistenziale», mentre la «centralità e l’egemonia operaia» diventa «la centralità e l’egemonia dei sovvenzionati nell’economia in rosso»24. E ancora:

Un paese irreale: fabbriche spropositate, con posti di lavoro che costano ciascuno come parecchi vitalizi, e dove si sa già che si lavorerà male per produrre manufatti che si dovranno vendere sottocosto o che nessuno o quasi vorrà. Le imprese rovinose che bruciano i miliardi più che una battaglia perduta, più che una collezione di pensioni a vita25.

È certamente ingenerosa ed estrema questa trasformazione degli operai da «classe sfruttata» a «classe assistita»: nel 1977 però la contrapposizione ai «garantiti» e al movimento sindacale che li rappresenta sarà fatta propria dall’ultima esplosione di massa dell’estremismo politico giovanile26. Era al tempo stesso la rabbiosa presa di coscienza della perdita di un «referente», di un punto fermo: in qualche modo, di un «padre».

In quell’esplosione si inserirà un «tasso aggiunto» di violenza: vi contribuiscono anche i diversi spezzoni dei «servizi d’ordine» che sopravvivono alla crisi delle organizzazioni extraparlamentari e sono ormai privi di direzione e controllo. Per questa via «la violenza tende a diventare autonoma [...], prassi che trova in sé le proprie giustificazioni»: il giudizio è frutto della più seria e ampia ricerca sull’argomento, condotta dall’Istituto Cattaneo27. Essa ci illustra bene il precipitare del dramma: considerando il periodo fra il 1968 e il 1982, gli atti terroristici di sinistra si concentrano per il 70% fra 1977 e 1979, e per il 90% fra 1977 e 1982. Le cifre «rivelano» sia la tragica dimensione del fenomeno, sia la sua relativa debolezza prima dell’esplosione del 1977. Si considerino le uccisioni: otto e sette vittime nel 1976 e nel 1977, ottantuno nei tre anni successivi (ventinove nel 1978, ventidue nel 1979, trenta nel 1980), con un’analoga crescita dei ferimenti28.

Al decisivo «salto di qualità» che si compie nel 1977 contribuiscono anche in modo «indiretto» le Brigate rosse e le altre organizzazioni clandestine: la loro stessa esistenza suggerisce la possibilità, «l’alternativa esperibile» della lotta armata29. Viene ad essere «elemento di transizione», in questo percorso, la costituzione della più importante organizzazione dopo le Br: Prima linea, lontana da quella rigorosa e lunga preparazione – «militare» e segreta – che aveva segnato le esperienze precedenti; a mezza via fra il «servizio d’ordine impazzito» e il terrorismo organizzato30. Le stesse Br, del resto, sono travolte e stravolte dall’esplosione del 1977, anche perché i loro capi storici sono ormai in carcere: «il ’77 – ha ricordato Renato Curcio – ci è piombato addosso come una slavina di giovani selvaggi»31.

4. 1977.

Il 7 dicembre del 1976, in occasione dell’inaugurazione della stagione lirica alla «Scala» di Milano, durissimi scontri annunciano l’ingresso in campo di una «jacquerie urbana senza bandiere [...] sterile, priva di obiettivi», come scrive «Il Corriere della Sera»1. Perché odiate la città? chiedono Leonardo Vergani e Giorgio Santerini ai giovanissimi protagonisti della protesta2. La risposta è chiara: «Quello che volevamo marciando alla Scala era di farvi paura»3. È l’avvio di altre iniziative violente, con la rivendicazione di una sorta di «consumismo per tutti» in opposizione alla «logica dei sacrifici»: l’opposto cioè, di quella diffusa contestazione del «consumismo immorale» che aveva segnato il dicembre del 1968. A Milano come a Roma i «circoli giovanili» invitano agli «espropri proletari», cioè «alla riappropriazione di quegli oggetti – vestiti, libri, dischi – attraverso i quali organizzazioni mafiose ci sfruttano [...]. Nell’orgia consumistica del Natale vogliamo anche noi il diritto al regalo [...]. La logica dei sacrifici dice: ai proletari la pastasciutta, ai borghesi il caviale. Noi rivendichiamo il diritto al caviale»4.

Vi è qui qualcosa di più della sgangherata deformazione di analisi teoriche e discorsi politici, vi è un fondo di disperazione e di cupezza che si intreccia in modo crescente ad azioni terroristiche: con le contemporanee esplosioni che incendiano centraline telefoniche e uffici della Montedison, lo scontro armato in cui trovano la morte un agente della polizia e un militante dei Nap5, e il tragico epilogo di una perquisizione a Sesto S. Giovanni. Dice il funzionario di polizia che l’ha diretta: «Quello non era un covo delle Br, ma la casa di una famiglia operaia che ha il figlio brigatista. Quando ci siamo trovati di fronte la madre e il padre spaventati e ci siamo lanciati nel piccolo corridoio con loro a fianco, ci pareva quasi di fargli uno sgarbo, quella pareva soltanto una casa di disperati»6. Vent’anni, e dormiva col mitra sotto il letto7: Walter Alasia muore dopo aver ucciso un vicequestore e un maresciallo di polizia.

Gli elementi dell’esplosione sono ormai tutti presenti, manca solo l’occasione. Inizia a offrirla inconsapevolmente il ministro Malfatti, che introduce all’università misure restrittive per piani di studio e appelli di esami e riaccende la mobilitazione studentesca. Il 1° febbraio, mentre sono in corso alcune assemblee, vi è un’irruzione di neofascisti all’Università di Roma: usano bottiglie molotov e armi, uno studente è ferito gravemente da un colpo di pistola8. Il giorno dopo un corteo promosso dai «collettivi autonomi» esce dall’università per raggiungere la sede missina da cui è partita la «spedizione»: le forze dell’ordine intervengono sparando a raffica, un agente e due studenti rimangono gravemente feriti. Scrive Eugenio Scalfari:

Una vera e propria battaglia si è svolta ieri mattina in piazza Indipendenza, nel pieno centro della città. I redattori di questo giornale hanno assistito dalle finestre allo scontro, nel corso del quale tre uomini sono rimasti sul terreno immersi nel loro sangue mentre la forza pubblica presidiava impassibile gli sbocchi della piazza. Abbiamo visto poliziotti in borghese dare la caccia all’uomo e sparare a mitraglia, abbiamo visto i colpiti dissanguarsi sul selciato, uno di essi percosso mentre era già a terra ferito da una guardia che, dal canto suo, aveva appena soccorso un collega morente a pochi metri di distanza. Questi episodi sono di per sé terribili, ma ancor più terribile è il processo che essi hanno innescato e che nei prossimi giorni minaccia di dilagare per le strade di Roma e di altre città italiane9.

Scalfari coglieva nel segno, mentre Corrado Augias individuava bene due elementi di novità: da un lato un mutamento nella gestione dell’«ordine pubblico», con l’utilizzo di poliziotti in borghese confusi con i dimostranti; dall’altro l’«inedita tattica della P38» messa in atto dai «collettivi autonomi», cioè l’uso di armi all’interno di manifestazioni di massa10.

Nei giorni successivi la mobilitazione degli studenti medi e universitari cresce a Torino, Milano, Mestre, Trieste11, e soprattutto a Roma12. La polizia assedia l’Università occupata, scrive «la Repubblica» in riferimento alla capitale, e Carlo Rivolta dà conto di affollatissime assemblee13: esse, annota, invocano la Costituzione contro i divieti della questura alle manifestazioni e criticano le posizioni del Pci e dell’«Unità» («gli occupanti si contano in due o tre decine», aveva scritto il quotidiano il 6 febbraio)14. A essere criticato è soprattutto il sostegno comunista al governo Andreotti e alla «politica dei sacrifici»: la contestazione diventa dirompente pochi giorni dopo in un corteo di trentamila studenti nel quale compare l’ironia degli «indiani metropolitani» (mentre le femministe sfilano con un corteo separato)15. L’ateneo romano diventa il centro di una vasta aggregazione, sede di «uno strano movimento di strani studenti»: migliaia di persone che dividono il loro tempo e la loro vita fra un rapporto precario con lo studio e un rapporto ancor più precario con il lavoro16. E che sembrano trovare un’ultima occasione collettiva, prima della definitiva dispersione nei multiformi rivoli della «marginalità» o dell’«inserimento»: ne approfittano con il linguaggio dell’irriverenza e al tempo stesso con una violenza che nasce fra frustrazione e disperazione.

Vi è diversità e tensione fra l’«ala creativa» del movimento e quella dei «collettivi autonomi», prossimi alla lotta armata, ma le «chiusure» delle istituzioni favoriscono le iniziative e le prevaricazioni di questi ultimi. È un grave errore17, da questo punto di vista, la decisione della Cgil di organizzare all’Università di Roma un comizio del suo segretario generale, Luciano Lama, nella forma della sfida e non del dialogo con il «movimento del ’77». Lo accolgono irridenti slogan, paradossali deformazioni della «politica d’unità nazionale» e dell’«austerità»: «Andreotti è rosso, Fanfani lo sarà»; «Più lavoro, meno salario»; «Sacrifici, sacrifici»; «È ora, è ora, miseria a chi lavora»; «Ti prego Lama non andare via, vogliamo ancora tanta polizia». Progressivamente crescono altri, meno ironici slogan («Via, via la nuova polizia»), il servizio d’ordine del sindacato e del Pci travolge gli «indiani metropolitani» ma è costretto a ripiegare per la reazione dei «collettivi autonomi», che giungono sino a distruggere il palco18. Nel pomeriggio il rettore chiama la polizia e chiude l’università, nei giorni successivi la città è percorsa da grandi cortei studenteschi: al centro, la critica al «governo delle astensioni» e alla «politica dei sacrifici»19.

Umberto Eco sull’«Espresso» insisteva sulle novità dei «linguaggi» del movimento20, moltiplicati anche dal diffondersi delle «radio libere»: frutto non di una misura riformatrice del governo ma di quelle pronunce della Corte costituzionale che fra il 1974 e il 1976 avevano posto termine al monopolio dell’emittenza pubblica21. Erano «tentativi di dialogo» sostanzialmente isolati, e prevalevano invece altri toni. Il ministro dell’Interno Francesco Cossiga annunciava alla televisione con toni drammatici nuove misure di polizia22 mentre «l’Unità», riferendosi agli studenti, parlava con insistenza di «nuovo squadrismo»23 ed Enrico Berlinguer scomodava il «diciannovismo». Ritrovava cioè forti analogie con il 1919-20, «quando l’Italia cominciò a essere investita da un magma fangoso nel quale confluivano – sotto il marchio dell’irrazionalità – correnti e velleità contraddittorie: ribellismo, anarchismo piccolo borghese, livore anti-operaio e anti-sindacale, demagogia populista e violenza eversiva contro le istituzioni»24.

Di lì a poco lo scontro coinvolge una delle principali roccaforti comuniste, Bologna. La polizia interviene a difesa di un’iniziativa di Comunione e liberazione, attaccata dai collettivi dell’«autonomia»: negli scontri che ne derivano uno studente di Lotta continua, Francesco Lorusso, è ucciso da un colpo di fucile sparato da un carabiniere25. Scrive Roberto Roversi:

A che punto è la città?

La città in un angolo singhiozza.

Improvvisamente da via Saragozza

le autoblindo entrano a Bologna.

C’è un ragazzo sul marmo, giustiziato26.

Scontri ancor più duri si hanno il giorno dopo a Roma, in una manifestazione nazionale prevista da tempo27: vi affluiscono più di cinquantamila persone, i collettivi dell’«autonomia operaia» la fanno degenerare e la trasformano in una guerra. Battaglia a Roma tra polizia e bande di «autonomi» scrive «la Repubblica» descrivendo il centro della capitale «sconvolto per ore da sparatorie, atti di teppismo, incendi», sino all’assalto alla sede del quotidiano della Dc, «Il Popolo», o al saccheggio di alcune armerie28. Il ministro dell’Interno Cossiga sintetizza così al Senato – senza neppur bisogno di forzature – i fatti di Bologna e di Roma:

L’uso di armi da guerra, l’aggressione deliberata alle forze dell’ordine, la sistematica distruzione di negozi e autovetture, gli assalti alle caserme e agli uffici di polizia hanno posto l’autorità di fronte a gravissimi problemi che hanno dovuto essere affrontati anche con l’uso di mezzi pesanti blindati29.

Dieci giorni dopo migliaia di studenti sfilano pacificamente a Roma ai margini di un imponente corteo sindacale, affidando questa volta la «sfida» alla sola ironia e terminando la giornata con una grande festa all’università30.

Ce n’è abbastanza per far discutere a fondo su ciò che questa inattesa «esplosione di massa» rivela. Alberto Asor Rosa inizia a farlo dopo la contestazione a Luciano Lama: si sono scontrati in realtà – scrive – due soggetti sociali diversi; più esattamente, le due società che si stanno delineando in Italia. Da un lato i «garantiti», la società «strutturata», al cui centro sta la classe operaia con le sue organizzazioni; dall’altro il mondo dell’«emarginazione, disoccupazione, disoccupazione giovanile, disgregazione». In questo e altri interventi Asor Rosa sottolineava al tempo stesso la progressiva assimilazione «antropologica» di forze politiche tradizionalmente antagoniste (in primo luogo Dc e Pci)31: ben più rilevante, a ben vedere, dello stesso, contingente sostegno del Pci al «governo dei sacrifici» e a una politica di ordine pubblico resa sempre più rigida dall’«emergenza terrorismo». Inoltre, continuava Asor Rosa, la prospettiva indicata dal Pci acquista significato negativo e lacerante per strati sociali che vivono quotidianamente una realtà di «penuria, indigenza, incertezza, precarietà»: possono quindi comprendere ben poco l’«austerità» proposta da Berlinguer come chiave di una trasformazione sociale ed etica32.

Una rottura così frontale e radicale fra movimenti giovanili e Partito comunista faceva emergere elementi e questioni solo in parte riconducibili alla «politica», ma ben poco sembrò coglierli la discussione che attraversò allora il Pci e la Fgci: impegnata soprattutto a condannare la «guerriglia» scatenata a Bologna da «squadristi armati» o l’«assalto eversivo contro lo Stato democratico» tentato a Roma da «gruppi di provocatori»33. Nel migliore dei casi si rilevava: «tratti omogenei e comuni della “generazione del ’77” sono alcuni interrogativi di fondo che mettono in discussione la possibilità stessa di una trasformazione democratica della società»34.

Su quella esplosione pesarono anche ragioni specifiche, ha osservato Piero Craveri: in un paese caratterizzato da un «labirinto di aree protette» – e protette in primo luogo dal sistema pubblico – le fasce di emarginazione sociale «rimanevano ancor più prive di plausibile giustificazione»35. Alla base vi era però qualcosa di molto più radicale che proprio la differenza rispetto al ’68 metteva in luce. Mancava al «movimento del ’77» l’ottimismo profondo, «la carica psicologica di “onnipotenza”» della generazione precedente: una generazione che si sentiva comunque parte di una «società del benessere», sia pure segnata da ingiustizie e distorsioni36. Quella «società del benessere» era sembrata irreversibile, ed era sembrato quindi possibile trasformarla a fondo, utilizzandone in modo etico – «a misura d’uomo» – le potenzialità. Alla fine degli anni settanta non è più così, e ce lo ricordano moltissime testimonianze. Si legga quella di Marino Sinibaldi:

La rinuncia, l’azzeramento delle promesse di trasformazione, questo era il clima: quando c’è la catastrofe, la peste – le storie del Medioevo – si diffonde una specie di allegria sconsiderata e festaiola. Il ’77 a Roma era soprattutto questo, si giocava e si scherzava, si stava insieme tutto il giorno, si consumavano droghe leggere in modo del tutto allegro, non colpevole e liberalizzato, si facevano molte conoscenze37.

Sinibaldi concludeva:

C’erano i giardini dell’Università, fu il febbraio più caldo della storia, c’era già il sole e le margherite e si stava tutti là nei prati, un sacco di gente […]. Tra noi c’era una parte che stava solo sdraiata fra le margherite e c’era una parte che solamente sparava, però c’era una parte tra tutte e due le cose38.

La «parte che solamente sparava» cresce tumultuosamente in quei mesi. Si è scatenata la squadra della P38, scrive «la Repubblica» in riferimento a Milano39, e diventa impossibile tener dietro alle azioni compiute allora da vecchie e nuove organizzazioni clandestine o semiclandestine: dal ferimento di alcuni dirigenti della Fiat40 all’uccisione di un brigadiere di polizia durante un controllo stradale presso Milano41; dall’azione compiuta da «donne combattenti per il comunismo» contro un’azienda milanese42 sino all’assassinio di due agenti di polizia a Roma alla vigilia di uno sciopero generale43.

Uno scontro specifico si svolge a Torino, attorno al processo alle Brigate rosse che si sta aprendo. Vengono uccisi un brigadiere della squadra politica44 e poi il presidente dell’Ordine degli avvocati, Fulvio Croci, per impedire la nomina degli avvocati d’ufficio. La giuria non può esser completata per la defezione dei giudici popolari e il processo è rinviato: «A Torino – scrive Giorgio Bocca – le Brigate rosse hanno vinto e la giustizia dello Stato democratico si è arresa, vergognosamente: avvocati divisi, giudici popolari piangenti, magistrati sbiancati dalla paura»45 (il processo riprenderà solo il 9 marzo 1978 e si concluderà tre mesi dopo con la condanna di Curcio, Franceschini, Gallinari e altri: fra i giudici popolari che accettano il mandato vi è Adelaide Aglietta, segretario del Partito radicale).

Il governo inasprisce le misure di polizia46 nel momento stesso in cui risponde negativamente alla richiesta degli agenti di costituire un sindacato all’interno delle tre Confederazioni: il no definitivo verrà ad ottobre, dopo che un’assemblea di migliaia di agenti aveva già deciso le tappe concrete per la nascita dell’organizzazione47.

Ad aprile la violenza armata ha una nuova fiammata a Roma. La polizia interviene in forze all’università il giorno stesso in cui alcune facoltà sono occupate: gruppi di «autonomi» sparano e uccidono l’agente Settimio Passamonti, di ventitre anni48. Nella notte, accanto alla chiazza di sangue compare una scritta orrenda: «qui c’era un caramba, il compagno Lorusso è vendicato». I cortei a Roma sono vietati per oltre un mese, e viene proibito anche quello indetto dai deputati radicali il 12 maggio per ricordare la vittoria nel referendum sul divorzio. Un tragico errore che si doveva evitare, commenta «la Repubblica» criticando la scelta del ministro dell’Interno Cossiga: la polizia spara ripetutamente e rimane uccisa una studentessa di diciannove anni, Giorgiana Masi49. Il movimento femminista la ricorda con questo manifesto:

A Giorgiana

…se la rivoluzione d’ottobre fosse stata di maggio

se tu vivessi ancora

se io non fossi impotente di fronte al tuo assassinio

se la mia penna fosse un’arma vincente

se la mia paura esplodesse nelle piazze

coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola

se l’averti conosciuta diventasse la nostra forza

se i fiori che abbiamo regalato

alla tua coraggiosa vita nella nostra morte

almeno diventassero ghirlande

della lotta di noi tutte donne

se...

non sarebbero le parole a cercare di affermare la vita

ma la vita stessa, senza aggiungere altro50.

Due giorni dopo a Milano vi sono altri scontri: l’agente Antonio Custrà viene ucciso da un gruppo di «autonomi»51. Nei giorni successivi i giornali pubblicano due contrapposte immagini: agenti armati in borghese a Roma, il 12 maggio, e un «autonomo» con il passamontagna che spara contro la polizia a mani giunte, a Milano52.

Seguono per tutta l’estate ferimenti di giornalisti (tre all’inizio di giugno, fra cui Indro Montanelli)53, di quadri intermedi d’azienda, di funzionari e dirigenti di partito (fra cui i segretari della Dc ligure e toscana), e così via. Si legga un articolo de «la Repubblica» del 1° luglio, Guardia uccisa dai fascisti. Le Br feriscono due dirigenti Fiat: informa anche dell’esplosione di tre vagoni ferroviari della Zanussi, a Pordenone, del rinvenimento di quattro chili di gelignite nei pressi della Liquichimica di Augusta, di «attentati (falliti o meno) a Bologna, bombe molotov a Roma, bombe a Spoleto, sabotaggi a Palermo, sparatorie a Catania»54. Il tutto nello stesso giorno.

Ai primi di settembre un gruppo di deputati e giornalisti visita il supercarcere da poco aperto all’Asinara per custodire i capi delle Brigate rosse55. Nel padiglione centrale, scrive Fausto De Luca,

è come precipitare in un film […]. È un fortino bianco, alla messicana, e tutt’intorno al muro esterno tanti fiori, sopra il muro le sentinelle coi mitra. Trafila di cancelli, di chiavi e di serrature. All’interno c’è un cortile e nel cortile un blocco di muratura, otto celle, tre uomini in ogni cella, spazio ristrettissimo, la finestra per l’aria sullo stesso lato della porta. La porta è intera, non a persiana, non passa l’aria. Dietro la porta il cancello di ferro; sbarre doppie alle finestre, dentro la cella letti a castello56.

Commenta Stefano Rodotà: «finalmente [...] abbiamo cominciato a specchiarci nelle carceri speciali e cominciato a chiederci se esse siano solo un incidente di percorso o se in esse è anticipato il nostro futuro, se già in quei luoghi possono cogliersi i segni di una incipiente democrazia autoritaria»57.

Il timore di una possibile «germanizzazione del sistema carcerario» – su cui De Luca si interroga – di lì a poco diventa incubo: nelle carceri speciali di Stammheim vengono trovati morti nelle loro celle Andreas Baader e altri due leader del gruppo terroristico tedesco della Raf. Il governo federale parla di suicidio, ma in ampi settori dell’opinione pubblica internazionale sorgono molti dubbi: e tutte le ipotesi possibili – compresa quella del suicidio – fanno paura58. La tragedia di Stammheim avviene mentre è in corso il rapimento dell’industriale tedesco Schleyer da parte della Raf, e all’indomani del dirottamento di un aereo che ha come obiettivo proprio la liberazione del gruppo della Raf. Dopo 5 giorni di assedio a Mogadiscio un raid della polizia tedesca libera tutti gli ostaggi e uccide i quattro dirottatori59, mentre Schleyer è trovato morto nel bagagliaio di un’automobile60.

In Italia la discussione politica sembra ritornare per un attimo a dominare nel magma confuso del «movimento»: nel settembre del 1977 migliaia di giovani confluiscono in un convegno nazionale a Bologna (preceduto da un appello di intellettuali francesi contro la repressione in Italia)61. Al palazzo dello sport si svolge un duro confronto fra ciò che resta della sinistra extraparlamentare e i leader dell’Autonomia operaia, mentre migliaia di giovani si disseminano per la città: sino al grande, teso, irridente e pacifico corteo conclusivo62. È l’ultimo confronto pubblico e di massa, prima di definitive derive e disgregazioni63.

Il 30 settembre a Roma un giovane di Lotta continua, Walter Rossi, viene ucciso a colpi di pistola da un neofascista: centomila persone seguono i suoi funerali. Il giorno dopo a Torino, ai margini di un corteo di protesta, una trentina di giovani lancia delle molotov in un bar frequentato (forse) da giovani di destra, l’«Angelo Azzurro»: vi trova la morte Roberto Crescenzio, studente lavoratore di ventidue anni. Quell’insensato e feroce rogo sancisce in realtà la conclusione definitiva di una storia64. È una fine già annunciata dai mille rivoli che affluiscono in modo tumultuoso nel quotidiano «Lotta continua» e che segnalano percorsi diversificati:

Il giorno dopo la morte di Walter Rossi «Lotta continua» in prima pagina: «Dura risposta antifascista attraversa l’Italia». In seconda pagina, oh dio non l’avevo quasi visto, un «articoletto» su Roberto Crescenzio che muore ustionato, non in piazza-luogo-eroico-di-morte, ma è stato ucciso in un’azione di piazza [...]. Rimozione assoluta dei problemi «personali» propri e degli altri, assunzione di una logica eroica e quindi individualistica, votata alla morte, omicidio-suicidio. Non mi va bene per niente.

Manuela

Finito il tempo «politico» ognuno rientra alla sua casa, ai suoi problemi, alla sua solitudine […] esiste anche una mancanza di coraggio ad affrontare il problema, il timore di sembrare «cattolici»: non voglio ascoltare i tuoi problemi, mi vergogno a parlare dei miei. I sentimenti li accettiamo solo se sono «comunisti»: non abbiamo amici ma compagni […]. La solitudine è un male senza rispetto. Colpisce duramente chiunque, imprigiona. Essere diversi non è faticoso. Essere soli sì, soprattutto nel movimento.

Maria

Scrivo queste righe perché un nostro compagno si è suicidato. Purtroppo fatti come questi sono sempre più frequenti: non fanno neanche più notizia […] è morto anche perché siamo stati tutti «disumani», tutti noi, Roberto incluso, vittime di un certo modo di fare politica.

Un compagno di Roberto

Non voglio più indicare cosa scegliere, quando, come e con chi ma raccontare di me. Oggi io scelgo di non avere più un centro del mondo dal quale dipendere, verso il quale camminare, da conquistare […] Non ho bisogno di un partito che sia il centro delle mie idee né di una montagna da scalare […]. Nessuno mi può costringere a buttare via la mia vita nell’ipotesi di un giorno, nella strategia di una rabbia che non sia dettata dalla mia voglia di vivere e dalla coscienza che questa mia vita me la vogliono negare […]. Voglio farmi un mestiere che non sia il mestiere di parlare a nome di altri ma quello di parlare degli altri. Ho scelto di fare questo mestiere in un quotidiano non molto diverso da altri, che ha avuto dei padroni, che ha intorno a sé tanta gente che vorrebbe diventare padrone.

Mauro65.

5. Aldo Moro: i funerali della Repubblica.

Di lì a poco il vicedirettore de «La Stampa», Carlo Casalegno, viene ucciso dalle Brigate rosse e la Torino di quei giorni «rivela» a un giornalista attento come Giampaolo Pansa alcune «verità amare». La lotta al terrorismo, scrive, «non è uno scontro tra una pattuglia di assassini e il resto del corpo sociale unito e ben saldo come un’immensa armata [...]: quel che più allarma è il territorio che si intravede nei dintorni del nucleo centrale» delle organizzazioni armate. Per sconfiggere il terrorismo, conclude,

occorre chiamare in campo tutti i cittadini [...]. Una battaglia di tanto impegno ha però bisogno di bandiere decenti [...]. Davanti ai cancelli della Fiat il suono di molte repliche era bruciante. Già, i giornali ci parlano di difesa dello Stato dalle Brigate rosse. Ma quale Stato? Quello dei processi che non si concludono, dei ministri bugiardi e impuniti, delle liste di «uomini d’oro» che spariscono dalle casseforti delle banche, dei segreti che coprono chi comanda? E la rabbia giovanile propone domande ancor più semplici e brutali: perché debbo prendermela con i terroristi e non con chi mi lascia senza lavoro? Le tante Torino che abbiamo visto in questi giorni (la Torino dell’indifferenza, quella della paura, quella della rabbia) ci dicono che l’alleato più forte del terrorismo è la non credibilità del sistema e la scarsissima credibilità della guida politica di questo sistema1.

Dopo pochi mesi, il 16 marzo 1978, l’«evento». Un’edizione straordinaria de «la Repubblica» mette in prima pagina l’inimmaginabile: L’attacco allo stato ha raggiunto il suo culmine. Moro rapito dalle Brigate rosse. Falciati a raffiche di mitra i cinque uomini della scorta. Il quotidiano commenta: «Il paese è stordito come sotto una mazzata. Aldo Moro rapito dalle Brigate rosse nonostante le misure di sicurezza che proteggevano la sua persona, la sua scorta massacrata, i rapitori introvabili». Hanno colpito il cuore dello Stato, sottolineava l’editoriale del giorno successivo, e «Il Corriere della Sera» aggiungeva: «È inutile nascondere la verità, per amara che sia [...]. L’efficienza dei terroristi è fuori discussione, ma è lecito chiedersi sin d’ora se si possa dire altrettanto dei nostri servizi segreti»2.

Il 19 marzo sui quotidiani campeggia la foto di Moro prigioniero e l’annuncio che le Brigate rosse intendono processarlo. Il 30 marzo è pubblicata la sua prima lettera indirizzata a Cossiga. Invita i leader della Dc a trattare con i terroristi e sottolinea: «siamo tutti noi del gruppo dirigente che siamo chiamati in causa, ed è il nostro operato collettivo come gruppo dirigente che è sotto accusa e di cui devo rispondere». Quelle parole non sono le sue, commenta «la Repubblica», e Fausto De Luca aggiunge Parole scritte sotto tortura. Il 5 aprile viene pubblicata la lettera a Zaccagnini («moralmente sei tu al mio posto, dove materialmente sono io») con la proposta di uno scambio con i terroristi in carcere. Quelle parole non sono credibili, commenta ancora «la Repubblica». Vi sono poi altre lettere, e reazioni non sempre dignitose del «Palazzo», sino al documento distribuito ai giornalisti nella sede della Dc e firmato da numerosi «amici di vecchia data» dell’onorevole Moro. Essi, annota Leonardo Sciascia,

solennemente assicurano che l’uomo che scrive le lettere a Zaccagnini, che chiede di essere liberato dal «carcere del popolo» non è lo stesso uomo di cui sono stati lungamente amici, al quale per «comunanza di formazione culturale, di spiritualità cristiana e di visione politica» sono stati vicini3.

Un documento «mostruoso», un’«incivile protestazione», secondo Sciascia, e Adriano Sofri ha aggiunto:

Gli uomini pubblici interdirono Moro, lo dichiararono altro da sé, lo esentarono dalle conseguenze delle sue parole, e con ciò si illusero di esentarne se stessi. Lo zelo che posero in questa faccenda bruciò una seconda volta i vascelli alle loro spalle. Ormai, non avrebbero più potuto rimettersi a parlare con Moro: non c’era più4.

Si infittiscono le «risoluzioni della direzione strategica» delle Br e – a trent’anni dal 18 aprile del 1948 – vi è l’annuncio che il cadavere si trova nel lago della Duchessa, nel Reatino5. Moro assassinato? intitola «la Repubblica»: due giorni dopo pubblica però la foto di Moro con in mano proprio quella pagina, assieme a un nuovo ultimatum dei brigatisti. Intanto si snoda la discussione fra il «partito della fermezza» e il «partito della trattativa», con la comparsa di avventurosi intermediari, mentre il paese vive uno stato d’assedio permanente e diffuso: con schieramenti e movimenti massicci delle forze dell’ordine, controlli assillanti e senza esito, la capitale lacerata dalle sirene6. E con echi potenti sulla scena internazionale: un documento del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, accentuando un giudizio precedente, afferma che il rapimento «sta spingendo la classe politica italiana a gettare un ponte verso l’abisso»7.

In questo scenario si staglia l’isolata dignità dell’appello di Paolo VI:

Io scrivo a voi, uomini delle Brigate rosse: restituite alla libertà, alla sua famiglia, alla vita civile l’onorevole Aldo Moro [...] in questo supremo nome di Cristo mi rivolgo a voi che certo non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di quest’uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni [...] in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità8.

Il 9 maggio il corpo di Moro è ritrovato a Roma, in una Renault rossa in via Caetani. I 55 giorni iniziati in via Fani e terminati qui, nel cuore della capitale, a un passo dalle sedi della Dc e del Pci, sono un trauma drammatico nella storia del paese. Nel corso di essi, ininterrottamente, «sulla scena politica si rappresentò la morte. Drammatizzata, la politica visse per quasi due mesi come spettacolo, diffusa da tutti i mezzi di comunicazione di massa a tutte le ore del giorno, invase la vita quotidiana, divenne vita quotidiana»9. Milioni di persone vissero per questa via una continua e drammatica sensazione di impotenza, la conferma di un’«espropriazione».

Per volontà dei familiari i funerali si svolgono privatamente: Moro viene sepolto nel piccolo cimitero di Torrita Tiberina, mentre la cerimonia pubblica in sua memoria si tiene – senza il suo corpo e senza la sua famiglia – in San Giovanni in Laterano: zona extraterritoriale e vaticana. Le immagini televisive di quella cerimonia conservano ancor oggi «una profonda suggestione e suggeriscono una constatazione storica». Piero Craveri le ha «interpretate» con grandissima efficacia, riconsegnandoci la preghiera di Paolo VI «tra i rossi paramenti della vigilia di Pentecoste», in una Basilica in cui erano «disordinatamente stipati pressoché tutti i notabili della repubblica»:

L’intensità religiosa ed umana della figura del Pontefice, visibilmente sofferente del male di cui di lì a poco sarebbe morto, la compostezza ieratica della sua persona, sulla seggiola gestatoria che lo trasportava da un lato all’altro dell’altare maggiore, faceva da singolare contrasto con l’immagine anonima del pubblico illustre che occupava la navata della Chiesa. Poteva ben dirsi che lì, in un momento così drammatico e significativo, la Repubblica era scomparsa, senza più immagine e parola, e il suo posto era interamente occupato dal rito solenne della Chiesa di Roma10.

6. Un mondo che crolla.

Pochi giorni dopo, il referendum promosso dai radicali contro il finanziamento pubblico ai partiti raccoglie il 43,6% dei suffragi, pur avendo l’opposizione di quasi tutte le forze politiche: il paese non si è stretto attorno al Palazzo. Anche per l’impatto di quel voto il presidente della Repubblica Leone – sempre più chiamato in causa per lo «scandalo Lockheed»1 – si dimette prima del tempo.

Contemporaneamente entra in una crisi irreversibile quello che era parso sino a poco prima il perno di una possibile e credibile alternativa. Il Partito comunista, infatti, è costretto a registrare il fallimento della propria politica, ritira il sostegno al governo e apre la via a nuove elezioni anticipate. L’arretramento del Pci che esse sanciscono (dal 34,4% al 30,4% dei voti) è il primo dopo il 1948, interrompe una serie continua di avanzate elettorali (travolgenti, negli ultimi anni) e annuncia un’inversione di marcia definitiva e robusta. Robusta già di per sé, ed enfatizzata dalla contemporanea ascesa del Psi di Bettino Craxi: dal 1976 al 1987 il Pci passerà alla Camera dal 34,4% al 26,6%, il Psi dal 9,7 al 14,3%. Ancor più consistente, inoltre, se lo sguardo si appunta sul voto giovanile. Esso aveva ingigantito l’avanzata del Pci nel 1976, ora ne amplifica l’arretramento e ne segnala il carattere non episodico: al Senato il partito perde infatti solo il 2,3% contro il 4% della Camera. Secondo calcoli approssimativi, il voto giovanile al Pci scende in tre anni dal 38% (se non di più) al 24-26%, con un balzo all’indietro di quasi due decenni2. Si indeboliscono anche le già fragili formazioni alla sua sinistra e il voto premia invece il Partito radicale, che aveva incentrato la sua presenza sui diritti civili e sulla polemica contro la «partitocrazia»: rispetto al 1976 ottiene più del triplo dei voti (dall’1,1% al 3,5%), supera il Partito liberale e quello repubblicano e raggiunge quasi il Partito socialdemocratico. Di lì a poco il malessere nei confronti del «regime dei partiti» sarà intercettato da attori diversi (e sarà anche questo un segno dei tempi): nel 1983 la Liga veneta conquisterà un seggio sia alla Camera che al Senato e aprirà la via alla successiva scesa in campo della Lega lombarda3.

Rimaniamo però alla politica del Pci fra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta4: essa è in continua e contraddittoria oscillazione fra la ribadita centralità del sistema dei partiti (con la riduzione a «qualunquismo» di ogni critica ad esso) e la denuncia della sua ormai irrimediabile degenerazione (i partiti sono ormai «macchine di potere e di clientele [...] federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto boss”», afferma Berlinguer nel 1981)5. Quella politica si lacera e si consuma, inoltre, fra l’eco dell’antagonismo originario (come sarà nel 1980, nella vertenza alla Fiat) e una pratica sempre più condizionata dalle logiche di un sistema in agonia. Letta alla lunga distanza, l’insistenza dell’ultimo Berlinguer sulla «diversità comunista» non appare tanto l’orgogliosa sottolineatura di una granitica realtà, quanto l’appassionato appello a un «dover essere», il disperato aggrapparsi a qualcosa che si sta scolorendo sotto i suoi occhi. Proprio i funerali di Berlinguer fotografano in maniera irripetibile un punto alto e al tempo stesso l’inizio del declino di quello che veniva definito con espressione efficace «il popolo comunista»: una realtà e un modo di essere erosi da processi molto più profondi della vicenda politica, e destinati irrimediabilmente a scomparire6. Sono straordinariamente intense le immagini dell’ultimo discorso pubblico di Berlinguer a Padova, il 7 giugno del 1984, e non solo per la commozione che sanno suscitare. Si riveda quell’ostinato continuare un comizio ormai al termine nonostante abbia già avvertito i sintomi del male; si riguardi quel testardo e orgoglioso proseguire anche dopo che la piazza e i militanti sul palco hanno avvertito il dramma e tentano in tutti i modi di farlo concludere, con applausi e grida angosciate. Quelle immagini rivelano certo una tempra e un costume di dirigente politico di altri tempi, ma sembrano anche evocare simbolicamente quasi una fine inconsciamente cercata, una disperazione più profonda7.

Forti segnali della crisi di fondo che attraversa il partito erano venuti da tempo proprio dal suo tradizionale punto di riferimento, e già nei lunghi giorni del rapimento di Aldo Moro. Ancor prima di essi Giampaolo Pansa aveva colto bene ai cancelli della Fiat i processi di disgregazione che l’esplosione terroristica «rivelava», non determinava8. Il suo impatto era rilevante proprio alla Fiat: tra il 1975 e il 1980 sono 16 i dirigenti dell’azienda feriti in azioni terroristiche, in un crescendo che culmina nel 1979 con l’uccisione di Carlo Ghiglieno, responsabile della pianificazione. E sono 62, secondo il ministero dell’Interno, gli operai della Fiat che scelgono la lotta armata. È il peso di questo clima che deve essere colto: «il meccanismo della paura ritornò a isolare e dividere. Il mito della piena trasparenza dei rapporti interpersonali – l’idea antica che in fabbrica si conoscono gli uomini nella loro piena autenticità – fu infranto. L’ombra della clandestinità di alcuni finì per rendere ognuno clandestino a ogni altro»9.

Il rapimento di Aldo Moro estendeva il trauma a tutto il paese, e ancora gli operai della Fiat offrivano – a chi voleva interrogarli – impietosissimi squarci. Li «fotografarono» allora Brunello Mantelli e Marco Revelli, «raccontando» una duplice afasia. Da un lato militanti sindacali e politici rinchiusi in ottuse certezze10; dall’altro una miriade di lavoratori in cui il «linguaggio compatto e solido degli anni della lotta» si è spezzettato «in mille dialetti [...], e ha assunto il multiforme pluralismo della disgregazione territoriale»11. Nelle interviste da loro raccolte in quei giorni le invocazioni della pena di morte per i terroristi12 sono accompagnate da invettive feroci contro Moro e la classe dirigente democristiana: «Quelli che sono al governo in trent’anni [...] hanno fatto degli scandali a non finire. Io direi di tagliargli la testa a loro, prima che a tutti gli altri [...]. Quelli gli fanno fare la fame a uno che lavora. E loro fanno sparire i miliardi [...] è sempre l’operaio che paga in prima persona»13. A prevalere sono però le afasie («non ho niente da dire, chiedi ai delegati»), i discorsi smozzicati, le reticenze («se dicessi cosa ne penso sarebbe già di troppo. Meglio stare zitti...»), e un insistito ritornello: «io non sono un politicante... non mi mischio tanto»14. La crudeltà più forte non sembra annidarsi tanto nell’invettiva quanto nell’indifferenza, nell’inconsapevole disumanità: lo sciopero contro il rapimento e l’uccisione della scorta «potevano farlo domani, eh? Domani mattina. Così almeno uno poteva saperlo prima…Noi [...] dobbiamo fare quaranta chilometri e venire fin qua. Domani mattina se sapevo che c’era lo sciopero non partivo di casa, no?»15.

Commentando le interviste, Guido Quazza osservava come «gli entusiasmi per una classe operaia cuore e centro di una vicina rivoluzione» andassero ormai relegati a ricordo di un lontano passato16. Gli facevano eco Mantelli e Revelli: «non è una bella immagine quella che [le interviste] ci sbattono in faccia, ed è difficile forzarci ad amare questa classe operaia, riconoscere in essa, nelle sue drammatiche divisioni, nel cinismo ostentato, nel conformismo apparente lo stesso soggetto che dal ’69 in poi ha segnato i tempi della vita politica italiana»17. Quel periodo appare ormai sepolto e più vicini appaiono semmai, sempre secondo Mantelli e Revelli, «gli ultimi anni cinquanta, quando la grande Fiat [era] divenuta apatica e politicamente sorda e grigia». Oggi inoltre, a differenza di ieri, «Mirafiori affoga dentro Torino: i processi di ristrutturazione produttiva [...] attraversano e dilaniano la grande fabbrica abbattendone i muri di cinta che la separano dal territorio»18.

È difficile trovare una più lucida premonizione di ciò che sarebbe avvenuto di lì a pochissimo, quando la direzione aziendale – avvertendo prima del sindacato il mutamento di un clima – sferrerà l’offensiva volta a chiudere non solo una fase «anomala» di relazioni sindacali ma un’intera epoca19. Prima vi è il licenziamento di sessantuno operai imputati di violenze in fabbrica (e lo sciopero di solidarietà non riesce). Poi, nel settembre del 1980, la Fiat annuncia 15 000 licenziamenti, e poco dopo – a parziale rettifica – la messa in cassa integrazione a zero ore di 23 000 operai, nominativamente indicati: elemento efficace di divisione, che fa intravedere un’ipotetica via d’uscita per una parte almeno di essi. Inizia così una vertenza che vede impegnati fino alle estreme conseguenze i settori più radicali della fabbrica, con un «blocco dei cancelli» che contribuisce a isolarli da una parte consistente di impiegati e operai. «Noi siamo i dinosauri, una razza in via di estinzione», dice «con un sorriso forzato» uno dei militanti sindacali che vi sono impegnati20: coglie nel segno.

Il 14 ottobre migliaia e migliaia di persone affluiscono alla manifestazione indetta contro lo sciopero dal «Coordinamento dei capi e dei quadri intermedi»: gremiscono presto il Teatro Nuovo e invadono il piazzale e le vie adiacenti. «Non siamo il partito dei capi», proclama il loro leader Luigi Arisio: «Siamo il ben più grande partito della voglia di lavorare, di produrre, di competere con la concorrenza». Poi un silenzioso corteo invade il centro di Torino ed entra nella storia come la «marcia dei quarantamila»21: «quadri», dirigenti, impiegati, operai, cittadini. «In un’ora cancellano con il loro silenzio – ha scritto Marco Revelli – trentatre giorni di rumore operaio». Cancellano in realtà due interi decenni e «annunciano» modifiche profondissime nel sistema di fabbrica, che neppur essi sanno presentire. Si veda lo stupore con cui Luigi Arisio, una quindicina d’anni dopo, descrive al regista Mimmo Calopresti la «nuova Fiat» trasformata dai robot e dall’elettronica, con una rarefatta presenza di uomini; si veda l’ingenuità attonita con cui «racconta», in altri termini, la scomparsa radicale del suo mondo: il mondo che aveva voluto difendere22.

Il giorno dopo la «marcia dei quarantamila» la vertenza si chiude con una secca sconfitta sindacale: dei 23 000 operai messi in cassa integrazione pochissimi rientreranno in fabbrica23. Nell’insieme del gruppo Fiat i 212 000 operai del 1980 scendono ai 129 000 del 198624, ed è solo il caso più appariscente: fra il 1979 e il 1988 nelle imprese medie e grandi gli operai occupati diminuiscono di circa un terzo, mentre aumentano la produttività e le ore lavorate pro capite, e crollano quelle di sciopero25.

Una storia finiva, dunque, per il convergente operare di fattori diversissimi e potenti: per le trasformazioni complessive del paese e al tempo stesso per il crollo definitivo delle precedenti, grandi speranze di cambiamento; per la barbarie crescente dell’offensiva terroristica e per un’altrettanto forte chiusura repressiva delle istituzioni, ma anche per il modificarsi degli «abiti mentali», degli immaginari collettivi.

Vi era sullo sfondo un generale disorientamento, una crisi profonda di categorie culturali consolidate. Insieme alle testimonianze operaie che abbiamo ricordato si leggano le «voci» di circa mille studenti raccolte da Luca Ricolfi e Loredana Sciolla nello stesso periodo, e ancora a Torino: in un «luogo di origine», cioè, sia del ’68 che dell’«autunno caldo». Esse portano alla luce smarrimenti che pervadono il «privato» e il «pubblico», il passato e il futuro: ci riconsegnano in modo crudo un generale disincanto, la più totale sfiducia nella possibilità di modificare la realtà: e quindi il rifiuto di investire intelligenze ed energie in quella direzione26. Nel giro di pochi anni, ha osservato Ernesto Galli della Loggia, «a qualsiasi osservatore l’atmosfera della società italiana appariva completamente mutata. Ogni fiducia nella possibilità di un cambiamento spenta o agonizzante [...], scematissimo e languente l’interesse per le ragioni dell’ideologia». Ha aggiunto: «quella che solo poco tempo prima era stata giudicata una fra le società più politicizzate, o addirittura la più politicizzata dell’Occidente, sembrava esprimere ora un massiccio rifiuto della politica»27. Il «riflusso» viveva allora i suoi trionfi: era «termine meno impegnativo di restaurazione ma più ampio e allusivo della semplice spoliticizzazione»28. In questo quadro la crisi della sinistra diventa piena e radicale: a esser messa in discussione non è ormai solo la sua capacità egemonica, la sua possibilità di rappresentare idee-forza. È, molto di più, la sua stessa radice: il suo coniugarsi al mutamento, alla volontà e alla speranza di trasformazione. L’egemonia della sua principale organizzazione, il Partito comunista, non avrà più «nemici a sinistra» e sarà insidiata semmai – con successo, ma su tutt’altri versanti – dal Psi di Bettino Craxi.

7. Ultimi fuochi.

Alla fine degli anni settanta gli sviluppi futuri apparivano ancora avvolti nelle nebbie, ed era semmai l’incubo degli «anni di piombo» a dominare. Incubo, la parola non sembri oggi esagerata: dal 1978 al 1980 le vittime del terrorismo di sinistra sono più di ottanta e ad esse vanno aggiunti i «combattenti armati» che muoiono in scontri a fuoco o maneggiando esplosivi. Vi sono anche le vittime dell’ultima esplosione del terrorismo neofascista: sono ottantacinque nella strage alla stazione di Bologna nel 1980, e in quello stesso anno altre otto persone vengono uccise dai Nar (Nuclei armati rivoluzionari) e da altre organizzazioni armate di destra1. Il 1980 vedeva però importanti risultati dell’azione dello Stato, frutto anche del ritorno del generale Dalla Chiesa alla guida del nucleo antiterrorismo: ne era stato allontanato tre anni prima (abbastanza inspiegabilmente, dopo i duri colpi iniziali inferti alle Br), ed è richiamato con poteri speciali dopo l’assassinio di Moro. Già nel 1978 i suoi uomini irrompono nella base milanese di via Montenevoso arrestando nove brigatisti, fra cui due membri dell’«esecutivo» dell’organizzazione (poco prima era stato arrestato anche Corrado Alunni). All’inizio del 1980 vi è poi l’arresto di Patrizio Peci, che diventa uno dei primi «pentiti» e fornisce a Dalla Chiesa gli elementi per compiere arresti decisivi e smantellare basi importanti2: a partire dall’irruzione in via Fracchia, a Genova, ove sono uccisi quattro brigatisti (che forse si erano arresi)3. Nell’area di Prima linea il primo a fornire una pioggia di informazioni è Roberto Sandalo, sempre nel 1980: nel febbraio di quell’anno erano state varate le prime misure «premiali» (rese più organiche due anni dopo), che prevedevano sconti di pena per chi collaborava alle indagini. Già allora le azioni del terrorismo di sinistra erano calate rispetto al 1979, e caleranno rapidamente nei due anni successivi: complessivamente sono oltre 220 nel 1980, poco più di 110 nel 1981 e una settantina nel 19824. Nello stesso anno del rapimento Moro erano stati uccisi – come in passato – dirigenti d’azienda, magistrati, agenti di polizia e guardie carcerarie5. Nel 1979 entra nel mirino anche «l’ala riformista dello schieramento politico», per usare il linguaggio delle Br. Vengono uccisi, fra gli altri, l’operaio comunista dell’Italsider di Genova Guido Rossa (aveva denunciato un operaio che distribuiva volantini delle Br)6 ed Emilio Alessandrini: un magistrato democratico di alto valore, che aveva portato sulla «pista nera» le indagini relative alla strage di piazza Fontana ed era impegnato allora ad indagare sul Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Fra le vittime dell’anno successivo vi sono un giornalista di viva passione civile come Walter Tobagi7 e il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, Vittorio Bachelet (assassinato all’interno dell’Università di Roma)8. Si aggiungono atti di pura ferocia: con l’uccisione di due detenuti nelle loro celle, a Nuoro, e di un altro a Torino, ad opera di brigatisti, mentre l’omicidio di un detenuto comune nel carcere di Cuneo è rivendicato dai nappisti9 (dal canto suo il killer neofascista Concutelli strangola assieme a Mario Tuti nel carcere di Novara Ermanno Buzzi, condannato per la strage di Brescia del 1974, e due anni dopo uccide nello stesso carcere un neofascista coinvolto nelle indagini per la strage di Bologna). Si veda la deriva di Prima linea: con l’assassinio di un militante di Autonomia operaia, per impedirgli di parlare ai processi per due omicidi10. O con le azioni di rappresaglia a Torino per la morte di Barbara Azzaroni e Matteo Caggegi: in un agguato alla polizia viene ucciso casualmente uno studente diciottenne, poi è assassinato il proprietario di un bar. Non è diverso l’imbarbarimento ulteriore delle Brigate rosse, sino all’uccisione di Roberto Peci, il fratello del «traditore Patrizio»: nell’agosto del 1981, dopo un sequestro di due mesi, il suo corpo crivellato da undici colpi di pistola viene lasciato «a ridosso di un muro scalcinato della periferia romana, tra montagnole di rifiuti e fiori di cicoria»11. È eloquente anche il rapimento dell’assessore regionale della Campania Ciro Cirillo, iniziato il 27 aprile 1981 con l’uccisione della sua scorta: sarà liberato grazie al pagamento di un’ingente somma da parte di esponenti della Dc, in una rete di relazioni e mediazioni in cui compaiono anche i servizi segreti e la camorra di Raffaele Cutolo12.

Fra la fine del 1981 e l’inizio del 1982 vi è però la vicenda che segna uno spartiacque: il rapimento del generale americano James Lee Dozier, liberato il 28 gennaio da un commando dei Nocs (Nuclei operativi centrali di sicurezza): uno dei sequestratori – probabilmente sottoposto a torture – dà le indicazioni che permettono l’arresto dell’intera «colonna veneta» delle Br.

8. «Campioni del mondo!»: le nefaste illusioni degli anni ottanta.

Volgono così al termine anni che lasciano macerie1, anche se le uccisioni in parte continuano: ancora nel 1985 sarà assassinato l’economista Ezio Tarantelli e nel 1988 Roberto Ruffilli, intellettuali di alto profilo che è ben difficile iscrivere nello «Stato imperialista delle multinazionali» (per usare un’espressione cara alle Brigate rosse).

Nell’allontanarsi degli «anni di piombo» sembrano sfumare altre cappe che il paese aveva fortemente avvertito: in particolare la distanza fra il paese e il Palazzo e la durezza di una crisi economica profonda.

Inizia a sentirsi, sul primo versante, l’«effetto Pertini». Il «presidente partigiano»2, l’uomo che «non si vergogna d’esser stato operaio» (come gli capita di dire – senza troppo tatto ma con una gran carica di simpatia – a lavoratori ed emigrati) rappresenta un «pezzo d’Italia» che sembrava smarrito. Pertini porta un «Palazzo diverso» fra la folla: ai funerali delle vittime del terrorismo e nelle più diverse occasioni pubbliche, nei luoghi del dolore come in quelli della gioia, fra gli anziani o fra le scolaresche che riceve quotidianamente al Quirinale (360 000 giovani dalle elementari in su, secondo le sue stime)3. Ripete le regole semplici della moralità e della democrazia in un italiano un po’ antiquato; pratica severità di costumi, fustiga difetti di politici e lusinga orgogli nazionali. Ribadisce di continuo la denuncia di corruzioni e degenerazioni. Così dice, ad esempio, nel messaggio agli italiani del 31 dicembre del 1979: «la corruzione è una nemica della Repubblica. E i corrotti devono essere colpiti senza attenuante, senza nessuna pietà. Dare la solidarietà, per ragioni di amicizia o di partito, significa diventare complici di questi corrotti»4. Analoghi accenti nel 19805, mentre nel 1981 il riferimento è alla P2 «che ha turbato, inquinato la nostra vita [...] gli uomini politici non possono rimanere, non può rimanere al suo posto chi è stato indiziato per questa trappola della P2. La P2 si prefiggeva di compiere atti contro la Costituzione, contro la democrazia e contro la Repubblica»6.

Nel novembre del 1980, all’indomani del terremoto in Irpinia, fa un’improvvisa apparizione televisiva e ammonisce con veemenza a non ripetere le nefandezze compiute nel Belice. L’episodio è ripreso con grande rilievo dai giornali7 e provoca reazioni risentite dell’establishment democristiano: ma la ricostruzione dell’Irpinia segnerà – come vedremo – un salto di qualità rilevantissimo nei meccanismi della corruzione pubblica e negli intrecci fra affari legali e illegali, con consistenti guadagni sia di uomini politici che di clan criminali.

Non è forse ingeneroso affermare, con Silvio Lanaro, che a «tenere insieme i cocci ancora sani» della Repubblica è in realtà «una grandiosa operazione di cosmesi teatrale, dove dietro le spalle curve dell’attore consumato – mai istrione, ma sempre ben conscio della parte che sta recitando – si accumulano le macerie che nessun artificio di transfert riesce a smaltire»8. Ciò nulla toglie all’assoluta onestà dell’uomo né all’estremo bisogno che il paese sembra avere di illudersi: illudersi, in fondo, di poter ancora essere diverso. In qualcos’altro, del resto, Pertini lo sa rappresentare, ed è emblematica la sua presenza alla finale dei campionati del mondo in Spagna, la sua gioia «fuori protocollo» per la vittoria finale, il suo esultare in sintonia con il triplice urlo della telecronaca di Nando Martellini: «Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo!». Quell’urlo sembra esorcizzare anni di cupezza e di delusioni. Sembra poter assumere lo stesso valore simbolico di un’altra, liberatoria esplosione: quel «Volare!» di Domenico Modugno, nella Sanremo del 1958, in cui il paese aveva visto l’«annuncio» di un sogno possibile, la fine dell’Italia povera e umiliata del dopoguerra.

Segnali apparentemente corposi, del resto, vengono a rafforzare quella sensazione sul più solido terreno dell’economia. In quello stesso 1982 il paese sembra uscire dalla recessione e subito dopo vi è una ripresa ancor più sensibile, collegata al trend internazionale e al calo del prezzo del petrolio e delle materie prime. È l’avvio di «una delle fasi espansive più lunghe, anche se non più intense, dell’economia italiana (e delle economie europee)»9: essa ha una sostanziale interruzione già nell’autunno del 1987, dopo il crollo della borsa di New York10, ma avrà definitivamente fine solo con la recessione internazionale dei primi anni novanta.

La «grande illusione» del 1983-87 sembra avere fondate ragioni. Dopo anni di crescita selvaggia, ad esempio, l’inflazione torna a livelli «controllabili»: dal 20% del 1980 al 6% del 1987. Il prodotto interno lordo cresce del 2,5% (contro una media inferiore all’1% nel periodo precedente), le esportazioni riprendono quota e vigore. La perdita di posti di lavoro nell’industria (un milione fra 1980 e 1987) e la crescita complessiva della disoccupazione ufficiale (il 12% della forza lavoro occupata, considerando disoccupati e lavoratori in cassa integrazione) trovano abbondanti compensazioni nell’espansione del «lavoro non regolare»11. Si delinea inoltre un’«euforia borsistica di massa» – per più versi inedita – e l’apparenza inganna anche commentatori avvertiti. «Il secondo miracolo economico italiano è già cominciato – scrive Giuseppe Turani nel maggio del 1986 –. Da un bel po’, forse anche da un anno. Ed è quasi sicuro che andrà avanti a lungo. Probabilmente non meno di dieci anni, fino al 1995»12.

La corsa ai consumi assume di nuovo i ritmi degli anni sessanta: accentuando il valore di status symbol di essi, dilatando il peso e il ruolo della «dimensione simbolica del benessere, con i suoi idoli e le sue icone»13. Molte inchieste segnalano che alla fine del decennio il 70% degli italiani sembra rincorrere soprattutto un «consumo vistoso da inseguimento di status»: per essi, cioè, i consumi sono largamente diventati «un modo per innalzarsi al di sopra del proprio gruppo di appartenenza»14. È un fenomeno accentuato dal peso crescente dei messaggi pubblicitari e dai modelli che essi propongono: veicolo importante di questo dilagare è il prepotente affermarsi – proprio in questo periodo – delle televisioni commerciali. Telemilano – avviata qualche anno prima con più modeste pretese da Silvio Berlusconi – diventa Canale 5 nel 1980, e fra 1980 e 1984 si delinea nella sostanza il «sistema Fininvest»: con l’assorbimento delle potenziali concorrenti – Retequattro e Italia Uno – e lo scardinamento delle regole dettate dalle sentenze della Corte costituzionale del 1974 e del 1976. Nel 1984, di fronte alla violazione ripetuta e quotidiana delle norme vigenti, la magistratura interviene a Roma, Torino e Pescara facendo oscurare appunto quelle emittenti. Il governo coglie l’occasione per rendere «provvisoriamente» legale ciò che era illegale con un apposito decreto: esso è chiamato alternativamente «decreto Berlusconi», dal nome del beneficiario, o «decreto Craxi», dal nome del presidente del Consiglio (per superare la provvisorietà si aspetterà il 1990, cioè il completo assestamento del «sistema Fininvest»)15.

Bettino Craxi, appunto, il cui lungo periodo di governo coincide temporalmente con la «stagione dell’ottimismo»: lungi dall’esserne l’artefice, egli è tuttavia più capace di altri di «interpretarla» e di lasciarvi l’impronta. È passato ormai molto tempo dal suo incerto e contrastato avvio alla guida di un partito giunto nel 1976 ai suoi minimi storici, attraversato da tensioni e concorrenze interne, «schiacciato» da un Pci che ha toccato la sua massima espansione e capacità egemonica.

Craxi abbandona rapidamente – e pour cause – l’ipotesi di contrastare quell’egemonia sul terreno delle idee, come inizialmente aveva pur fatto: con la critica dei versanti autoritari della tradizione marxista, il rilancio del socialismo umanitario di Proudhon e la proposta di un approccio liberal-democratico, più che libertario16. Lascia cadere, anche, l’ipotesi di farsi portavoce di una visione più «umana» della politica (come aveva provato in qualche modo a fare ai tempi del rapimento di Aldo Moro, cercando alternative alla «linea della fermezza»). Preferisce ben presto la più concreta ipotesi di affiancarsi alla Dc nell’occupazione dei gangli vitali del potere: vi riesce con indubbia abilità ma anche con gli strumenti più vecchi della tradizione politica. Innanzitutto ridimensiona o sconfigge indocili alleati e potenziali concorrenti all’interno del Psi17, diventando leader incontrastato e incontrastabile. Poi ripropone con decisione la conventio ad excludendum nei confronti del Pci, che la Dc sancisce prontamente18: Craxi la utilizza nel modo più spregiudicato per accrescere il prezzo di una collaborazione di governo ormai insostituibile.

Vi è poi il passaggio successivo. La formula del «pentapartito» – che caratterizzerà l’ultimo decennio prima di «Tangentopoli» – è varata già nel 1981 dal repubblicano Giovanni Spadolini: il primo capo del governo non democristiano dopo la breve esperienza di Ferruccio Parri (1945), incaricato a ciò da Pertini quando il governo Forlani affonda nella «vicenda P2». Il «pentapartito» include nell’alleanza di centrosinistra i liberali, cioè i tradizionali e «storici» avversari del centro-sinistra: a conferma anche simbolica di un mutare profondo della politica e delle sue ragioni.

Ne nasceva una coalizione rissosa e priva di un reale profilo, che non aveva però di fronte a sé un’opposizione capace di diventare maggioranza: «la mancanza di un’alternativa politica permetteva ai partiti al governo di occupare le istituzioni e di disporne a proprio piacimento»19. Ha osservato Pietro Scoppola: «partiti sempre più uguali a se stessi si contendevano ormai il consenso degli elettori per farlo valere nei loro reciproci rapporti ai fini della definizione del rispettivo potere»20.

Il «sistema» dunque è approntato. Craxi riesce a mettersene alla guida – dopo due governi sostanzialmente incolori di Spadolini – nel 198321: all’indomani di elezioni che hanno portato ai suoi minimi storici (32,9%) una Dc indebolita dagli scandali (e dalla stessa perdita della presidenza del Consiglio)22.

La strategia craxiana volta a impadronirsi di leve decisive dello Stato e dell’economia non presenta grandi tratti innovativi. In fondo, è stato osservato, è solo un aggiornamento della vecchia metafora nenniana della «stanza dei bottoni» in cui era necessario essere presenti: con l’ulteriore considerazione che «i bottoni fanno tutt’uno con la cassaforte»23. È una via perseguita in rappresentanza di una «società civile» intesa come luogo dell’affermazione individuale, della scalata sociale senza norme, degli arricchimenti illeciti o – se proprio necessario – leciti, purché consistenti e molteplici. È perseguita, inoltre, all’insegna di un «pragmatismo» povero di contenuti e sempre più commisto a prassi degenerative. Esso si apre la strada a sciabolate all’ombra della conclamata «fine delle ideologie», si ammanta di una «modernità» in cui principi e regole si scolorano, e ha come «fisiologico» risvolto l’affermarsi di un’ambizione disgiunta dai meriti. A questo non nobile frutto della storia patria (per il quale è coniato allora il termine di «rampantismo») il «craxismo» dà dignità e legittimazione: la sua fortuna risiede proprio nella capacità di «rappresentare la vitalità e la voracità del corpo sociale e dei suoi singoli membri»24.

Sono poco più che esornativi, da questo punto vista, gli altri elementi che concorrono all’immagine del craxismo: un appello – in realtà impotente – alla «governabilità»; un decisionismo che ha i tratti dell’aggressione politica agli avversari più che dell’autorevole egemonia; un «orgoglio nazionale» materiato di pochi gesti significativi25 (rilevanti solo perché fanno contrasto con la storica acquiescenza democristiana nei confronti degli Stati Uniti).

«Centralità» del Psi, personalizzazione crescente della politica, priorità assegnata «all’azione pecuniaria fra tutti i mezzi per l’azione politica»: i tratti indicati da Luciano Cafagna26 tratteggiano un percorso destinato ad aprire la via, dopo il crollo del «craxismo», ad altri attori. Non è qui luogo per insistere su alcuni corollari connessi all’identificazione craxiana dei «bottoni» con la cassaforte: è dei primi anni ottanta, in connessione con la vicenda del Banco Ambrosiano di Calvi, l’apertura presso l’Unione di Banche Svizzere di un fondo denominato «Protezione»27. È opportuno però richiamare altri fatti, che rimandano al nuovo clima che sembra circolare nel mondo dell’economia.

Al «raffreddamento» dell’inflazione e al rilancio della ristrutturazione e dei profitti industriali contribuirono sia la diminuita capacità contrattuale dei lavoratori (dopo la «marcia dei quarantamila»), sia la modifica, non più rimandabile, del meccanismo di scala mobile avviato nel 1975. Su questo Craxi gioca una mano importante della sua partita, utilizzando le crescenti divisioni fra i sindacati e la miopia di un’opposizione comunista che cerca nell’arroccamento il surrogato di una riflessione politica: l’«accordo di San Valentino» sull’indennità di contingenza (1984) acquista valore ancor più marcato un anno dopo, per l’insuccesso del tentativo di invalidarlo con un referendum28.

Si mettano pure agli atti questa scelta e questo esito, e si guardi però meglio all’«ottimismo economico» della parte centrale degli anni ottanta. Alle basi di esso troviamo non solide fondamenta ma nidi di termiti, e verminai sempre più diffusi.

Dalle termiti conviene cominciare, in particolare da quell’aumento colossale del debito pubblico su cui il ciclo espansivo largamente si basa. È una strada già battuta in passato e ulteriormente amplificata ora (anche per il crescente ricorso al mercato attraverso i titoli a breve, i Bot). Si giunge molto al di là del tollerabile: il debito pubblico si aggira attorno al 60% del prodotto interno lordo nel 1980, giunge addirittura a superarlo dieci anni dopo e prosegue poi sino al 130% nei primi anni novanta. Esplode allora la crisi finanziaria e valutaria, resa più acuta dalla situazione internazionale29: «questo Stato è fallito» scriverà con buone ragioni Eugenio Scalfari nell’autunno del 199130. È fallito anche per aver alimentato in modo «drogato» l’euforia e le gravissime distorsioni degli anni ottanta, e conviene segnalare almeno alcuni versanti.

Vi è in primo luogo un sistema fiscale inadeguato, a lungo applicato poco rigorosamente nei confronti di quei ceti di cui si teme di perdere l’adesione e il voto. Ha qui origine la sperequazione fra il contributo fiscale dei lavoratori dipendenti (automaticamente detratto dalla busta paga) e quello dei lavoratori autonomi. Fra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta i redditi medi dichiarati da molte agiate categorie di commercianti e professionisti saranno di pochissimo superiori, e in alcuni casi addirittura inferiori, a quelli dichiarati dai loro stessi dipendenti. Al 1993 ad esempio, ha sottolineato Paul Ginsborg, i rivenditori di elettrodomestici dichiararono un reddito medio di soli 16,2 milioni di lire contro i 20,2 milioni dei loro commessi; i gioiellieri appena 22,5 milioni a fronte dei 19,8 milioni dei loro dipendenti; gli autoriparatori 21,2 milioni contro i 18,6 milioni dei loro meccanici31.

Queste cifre – ha proseguito Ginsborg – consentivano ai piccoli commercianti e artigiani di sopravvivere ma al tempo stesso alimentavano un «blocco sociale» composto da liberi professionisti, piccoli imprenditori e piccoli commercianti che defraudavano sistematicamente lo Stato. E che contribuivano anche a «chiudere il cerchio»: parte del reddito sottratto alla tassazione veniva investito in «titoli di Stato che, ideati per finanziare il debito pubblico, assicuravano interessi di tutto rispetto. Era un’operazione cinica, impossibile da quantificare ma profondamente radicata nel folklore degli anni ottanta»32. Naturalmente commercianti e professionisti potevano eludere l’obbligo della certificazione solo con l’accondiscendenza dei loro clienti (spesso compensata con sconti e favori): anche per questa via si consolidavano modelli di comportamento sempre meno rispettosi delle regole collettive.

Ad alimentare a dismisura il debito dello Stato contribuiva soprattutto un utilizzo del denaro pubblico largamente finalizzato a mantenere il consenso sociale ed elettorale. E vi contribuivano in modo crescente operazioni «dietro compenso», con il crescente impiantarsi della corruzione nel cuore stesso delle funzioni di governo.

Emerge nel 1979 il maggior affare patrocinato dalla P2, la tangente di 200 miliardi connessa al contratto per la fornitura di greggio fra l’Eni e l’arabo-saudita Petromin. In quello stesso 1979 viene assassinato il giudice Giorgio Ambrosoli (1979), che era stato nominato liquidatore della banca di Sindona, e due anni dopo Roberto Calvi, già presidente del Banco Ambrosiano, è trovato cadavere sotto un ponte di Londra. Sindona muore invece nel 1985 per avvelenamento nel supercarcere di Voghera, dove sconta l’ergastolo come mandante dell’omicidio di Ambrosoli.

Eni, Banco Ambrosiano, Ior e finanza vaticana: non sono pezzi irrilevanti del paese quelli che troviamo nelle cronache, così come non sono irrilevanti i nomi che compaiono nelle liste della P2 ritrovate nel 1981 nella residenza di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi. Alti gradi dell’esercito e dei servizi di sicurezza variamente connessi alla strategia della tensione: dai generali Maletti e Miceli a Federico D’Amato; e sino ai capi del Sisde (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica) e del Sismi (Servizio per le informazioni e la sicurezza militari), i generali Grassini e Santovito33. Vi sono poi magistrati, esponenti della Dc (fra cui Massimo De Carolis e due ministri allora in carica), del Msi (Giulio Caradonna e l’ex generale Birindelli, oltre allo stesso Miceli), del Psdi (a partire dal segretario del partito, Pietro Longo), del Psi (Fabrizio Cicchitto, Silvano Labriola e altri); imprenditori come Angelo Rizzoli, Bruno Tassan Din e Silvio Berlusconi, e naturalmente Roberto Calvi e Michele Sindona; giornalisti come Franco Di Bella (allora direttore del «Corriere della Sera»), Maurizio Costanzo e così via34.

Si segua, per altri versi, una «coda» dello scandalo dell’Italcasse (Istituto di credito delle casse di risparmio italiane), che ha portato alla luce ulteriori, ingenti finanziamenti a partiti e a correnti di partito. Fra i «finanziatori» vi sono due costruttori romani, i fratelli Caltagirone, che nel 1980 vengono colpiti da mandato di cattura per bancarotta fraudolenta e fuggono all’estero. Nell’occasione il «braccio destro» di Andreotti, Franco Evangelisti – all’epoca ministro della Repubblica – ammette di aver ricevuto del denaro, e l’intervista di Paolo Guzzanti è memorabile:

– Ministro, Lei ha preso dei soldi dai Caltagirone?

Sì, da Gaetano.

– Quanti soldi?

E chi se lo ricorda, ci conosciamo da vent’anni ed ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: «a Fra’, che te serve?».

– Così? Caltagirone tirava fuori e scriveva?

Sì, così. E senza nessuna malizia. Chi ci pensava a questi scandali? Chi ci pensava di fare qualcosa di male? Non le pare?35

Il ministro si deve dimettere, ma il capo del governo di allora, Francesco Cossiga, trova poco da eccepire e in parlamento dichiara: «Evangelisti mi ha garantito di non aver fatto da tramite per contribuzioni valutarie di Caltagirone alla Democrazia cristiana. Le correnti di partito sono mere realtà di fatto, non si possono neppure considerare come articolazioni politico-organizzative dei partiti»36. I divieti posti dalla legge sul finanziamento pubblico ai partiti, dunque, non valgono...

La vicenda era uno dei tanti segnali di una «uscita dalla legalità dell’intera classe dirigente, del suo costituirsi come realtà extra-giuridica [...], fuori della legge»37. Segnalava «un vero e proprio mutamento antropologico-culturale della classe politica del paese», per cui anche chi era estraneo alla corruzione la considerava poi una sorta di «patologia fisiologica»38.

I processi degenerativi iniziano a coinvolgere sempre più massicciamente la periferia: lo annuncia nel 1983 l’arresto per corruzione e concussione dell’ex presidente della regione Liguria Alberto Teardo e di altri esponenti socialisti. Craxi – che anche nell’attacco ai giudici è un precursore – dichiara: «considero l’iniziativa una volgare strumentalizzazione politico-elettorale. È in questo modo che si tocca il fondo nell’uso disinvolto dei poteri giudiziari». Teardo sarà condannato ma il giudice è trasferito, assieme al collega che ha collaborato con lui39. È solo la punta di un iceberg40, o meglio di quel sistema organizzato di tangenti – con percentuali fisse – che si sta definendo e che dieci anni dopo le indagini di «Mani Pulite» porteranno allo scoperto: «senso della politica» e «senso dello Stato» subiscono per questa via un’alterazione profondissima41.

Processi ancor più gravi e densi di conseguenze sono accelerati nel Mezzogiorno dalle leggi sulla ricostruzione delle zone della Campania e della Basilicata colpite dal terremoto del 1980. In nome dell’emergenza essa prevedeva – come aveva chiesto in parlamento l’esponente democristiano Cirino Pomicino (successivamente ministro e poi plurindagato) – accelerazioni e semplificazioni drastiche delle procedure, tali da rendere poco più che formali i controlli42. Successivamente, altre misure legislative allargano queste norme a una più ampia mole di lavori pubblici: ha così avvio un processo che distribuirà decine di migliaia di miliardi «tra un gran numero di imprese edilizie (private, pubbliche, camorristiche) [...], con assegnazioni di quote fisse (circa il 3%) rispettivamente a uomini politici e a clan criminali»43. La vicenda – ampiamente documentata nel 1991 da una commissione parlamentare d’inchiesta – merita alcune considerazioni, innanzitutto per i guasti che essa provocò su molti terreni: la grande solidarietà che il terremoto aveva suscitato – così come era avvenuto quattro anni prima nei confronti del Friuli – fu l’ultima che il paese manifestò per il Mezzogiorno, su cui furono poi riversate colpe di ben diversa natura. Può avere un qualche significato, del resto, lo stesso paragone con la ricostruzione del Friuli44, utilizzato talora strumentalmente e quasi «a conferma» di un’«irrimediabile inferiorità civile» del Mezzogiorno. Molti elementi avevano concorso in quel caso a una ricostruzione rapida e sostanzialmente positiva: fra essi, la «tenuta» di una rete estesa di amministratori locali e il solidale e vigile impegno della Chiesa friulana45. Questi e altri fattori, però, poterono avere efficacia reale anche per il clima complessivo in cui il dramma era venuto a irrompere, la primavera-estate del 1976: il momento cioè in cui la «voglia» e la speranza di «cambiare» erano più forti, e condizionavano più da presso partiti e sistema politico. In Friuli si traducono anche in una diffusa mobilitazione popolare che ha i suoi centri nelle assemblee delle tendopoli e le sue espressioni in ripetute manifestazioni di massa: esse iniziano già nell’estate del 197646 e continuano poi nell’autunno, in occasione della visita del presidente del Consiglio47 e di una commissione parlamentare48. Sarebbe certo riduttivo considerare solo questo elemento, eppure esso è presente: la distanza fra quel clima e quello di quattro anni dopo può fungere anch’essa da epitaffio a una storia.

A un’ultima questione generale, infine, ci riconduce la vicenda della ricostruzione campana, nella quale l’espansione delle organizzazioni criminali trova spazi crescenti proprio per i processi di degenerazione dei poteri pubblici. Spostiamoci in Sicilia, in quello stesso 1982 che vede il trionfo dell’Italia ai mondiali di calcio: poco prima e poco dopo di esso troviamo due momenti più drammaticamente simbolici.

Il 30 aprile a Palermo, a pochi passi dalla Federazione del Pci, è ucciso il segretario regionale del partito, Pio La Torre, assieme al suo autista Rosario Di Salvo: La Torre era stato promotore di un progetto di legge che prevedeva per la prima volta il reato di «associazione mafiosa» e l’utilizzo delle indagini patrimoniali per colpire il potere della mafia. Così Enrico Deaglio ha raccontato i suoi funerali, cui partecipano migliaia di persone:

In piazza Politeama, d’improvviso silenziosa, la cerimonia si preannuncia con l’arrivo di una Fiat 127 che avanza lentamente. Sul tetto ha un altoparlante che diffonde le note della Nona di Beethoven [...]. Passano pochi minuti e compare il corteo funebre. Ora echeggiano le note dell’Inno dei lavoratori e dell’Internazionale, suonati da una banda musicale [...]. Ed ecco le due berline nere [...] camminano appaiate, coperte di fiori. Seguono i sindaci comunisti siciliani con la fascia tricolore, i corazzieri, un gruppo – non folto – di dirigenti nazionali del Pci, una rappresentanza di operai siderurgici con il caschetto giallo49.

Parla il presidente democristiano della Regione Mario D’Acquisto, sommerso di fischi e di grida («Lima, D’Acquisto, Ciancimino, chi di voi è l’assassino?»), poi Enrico Berlinguer rievoca la «milizia politica di La Torre. Quando parla di Rosario Di Salvo esclama con orgoglio: “Ha estratto la pistola, ha sparato numerosi colpi, forse ha ferito uno dei killer”. La piazza applaude»50.

L’assassinio di La Torre accelera l’arrivo del nuovo prefetto, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: all’uomo che aveva diretto l’attacco decisivo alle Brigate rosse vengono però negati poteri straordinari. Giorgio Bocca lo intervista tre mesi dopo, descrivendo in avvio il clima di quella Palermo:

La mafia non fa vacanza, macina ogni giorno i suoi delitti; tre morti ammazzati giovedì 5 fra Bagheria, Casteldaccia e Altavilla Mìlicia, altri tre venerdì, un morto e un sequestrato sabato, ancora un omicidio domenica notte sempre lì, alle porte di Palermo, mondo arcaico e feroce che ignora la Sicilia degli svaghi, del turismo internazionale, del «windsurf» nel mare azzurro di Mondello51.

Dalla Chiesa completa il quadro: «Uccidono in pieno giorno, trasportano i cadaveri, li mutilano, ce li posano fra questura e Regione, li bruciano alle tre del pomeriggio in una strada centrale di Palermo». Il generale denuncia inoltre l’isolamento in cui è lasciato dai poteri pubblici, il mancato riconoscimento del suo ruolo nella lotta alla mafia:

Se non otterrà l’investitura formale che farà? Rinuncerà alla missione? «Vedremo a settembre. Sono venuto qui per dirigere la lotta alla mafia, non per discutere di competenze e di procedure. Ma non mi faccia dire di più»52.

Dalla Chiesa si sofferma poi su un elemento di novità emerso in quegli anni: ad esempio nel 1979, con gli assassini di Boris Giuliano (vicequestore di Palermo) e del giudice Cesare Terranova (che aveva indagato in profondità sulle cosche e aveva partecipato alla Commissione antimafia come deputato eletto nelle liste del Pci); oppure nel 1980, con l’uccisione del dirigente democristiano Piersanti Mattarella e del magistrato Gaetano Costa. Conclude così:

Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del Palazzo. Credo di aver capito la nuova regola del gioco, si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può ucciderlo perché è isolato53.

Neppure un mese dopo, il 3 settembre, giunge la conferma: Dalla Chiesa, la moglie e un agente della scorta vengono uccisi in un agguato mafioso in via Carini, a Palermo. Nell’omelia funebre il cardinale Pappalardo esclama, citando Sallustio: «mentre a Roma si discute sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto, ma Palermo. Povera Palermo!»54.

È solo la punta di un iceberg che si è consolidato negli anni settanta, grazie alla colpevole sottovalutazione del fenomeno e all’isolamento delle poche voci che lo denunciavano; e grazie, soprattutto, alla «commistione di vertice» tra gruppi mafiosi e settori significativi dell’imprenditoria, della finanza, dell’amministrazione. La relazione presentata nel 1985 dalla Commissione parlamentare antimafia, ricostituita all’indomani dell’assassinio del generale Dalla Chiesa, descriveva così il «salto di qualità» che era stato compiuto:

Con una base economica così vasta, con il traffico di droga a fungere da volano ed a produrre continuamente disponibilità di denaro liquido, è sempre più forte il coinvolgimento della mafia, nell’economia, nel mondo valutario, nell’alta finanza, e sono sempre più alte le poste in gioco […]. Infine, un nuovo e diverso terreno di conquista si trova [...] nelle regioni del Centro-Nord a forte sviluppo economico e produttivo55.

Vi sono inoltre legami sempre più stretti fra mafia siciliana, ’ndrangheta calabrese, camorra napoletana. E vi sono conflitti sanguinosi, senza precedenti, fra le famiglie56: la «grande guerra di mafia» del 1981-83 a Palermo, con centinaia di morti57; nello stesso periodo la guerra fra le cosche a Catania e fra le diverse fazioni dalla camorra a Napoli. Un po’ più tardi, Reggio Calabria: fra il 1985 e il 1991 una città che conta l’1% della popolazione italiana registra l’11% degli omicidi58. Nel 1984 in Sicilia, Calabria e Campania vi è il 50% degli omicidi compiuti nel paese, cinque anni dopo siamo al 70%, e vi va aggiunta una parte non piccola delle persone che risultano «scomparse»59.

Non è qui luogo per ricostruire questa storia e il suo successivo svolgersi: la qualità nuova delle reazioni civili che l’assassinio di La Torre e Dalla Chiesa innescò, il lavoro del pool di magistrati che portò al «maxiprocesso» del 1986, il contrattacco mafioso che ebbe il suo punto più alto nel 1992, con l’assassinio dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (assieme alla moglie del primo, Francesca Morvillo, e alla scorta di entrambi).

È necessario però concludere queste sommarie osservazioni finali ricordando che in quello stesso 1992 verranno a confluire una crisi economica acutissima (con l’uscita dell’Italia dal Sistema monetario europeo e una forte svalutazione della lira) e una crisi politica radicale: con l’esplosione di «Tangentopoli» e l’iniziale dissolversi del sistema dei partiti che aveva caratterizzato fin lì la storia della Repubblica.

Sullo sfondo vi sono inoltre il 1989 e il suo esito: la caduta del «muro di Berlino» e la dissoluzione del «socialismo reale». Per quel che riguarda il nostro sistema politico, essa toglieva i pretesti residui a ogni «logica di esclusione» nei confronti del Pci basata su ragioni internazionali. Imponeva però al Pci di fare i conti con la propria identità, prima ancora che con la propria storia: lo farà nel peggiore dei modi, intrecciando rimozioni e pigrizie intellettuali, rigidità burocratiche e dissipazione di valori; e «bruciando» definitivamente ogni residuo di «diversità».

Molte vicende essenziali vengono dunque a confluire, e il 1992 è un anno che non si può eludere: è un osservatorio essenziale per guardare anche agli anni ottanta e all’esito degli anni settanta. È forse necessario chiedersi se in questo percorso il Palazzo e parti significative del paese non si siano in realtà «avvicinate», con quei tratti che Pasolini aveva delineato: lo spregio delle regole, il crescente disinteresse per i valori collettivi, un privilegiamento dell’affermazione individuale e di gruppo che considera le norme un impaccio (e tratta chi le difende come un nemico da sconfiggere o da corrompere). Nel processo conflittuale che contribuisce di volta in volta a definire l’identità di un paese – nel nostro caso, a «fare gli italiani» – l’esito degli anni settanta e i processi degli anni ottanta hanno lasciato segni non superficiali: segni destinati a condizionare anche il decennio successivo.

1 F. Alberoni, Scoppierà nel 1978 la contestazione n. 2, in «Il Corriere della Sera», 6 luglio 1975.

2 G. Barbiellini Amidei, Ricomincia la marcia verso la laurea. E poi?, ivi, 5 novembre 1975; cfr. inoltre C. Mariotti, Io ho una laurea, e tu? Io ho un lavoro, in «L’Espresso», 26 settembre 1976.

3 G. Borgna, I giovani, in Dal ’68 ad oggi cit., pp. 395-7.

4 L. Annunziata e R. Moscati, Lavorare stanca, Roma 1978.

5 G. Invernizzi, Da grande farò l’arrabbiato, in «L’Espresso», 4 gennaio 1976.

6 Ivi, 18 aprile 1976.

7 G. Borgese, Così muore il festival pop, in «Il Corriere della Sera», 29 giugno 1976; sul Festival di Parco Lambro del 1975 cfr. il servizio fotografico Parco Lambro, di Giovanna Calvenzi e Toni Thorimbert, in «Ombre Rosse», novembre 1975, 11-12; ivi, cfr. anche Dopo Licola.

8 M. Rusconi, Com’è difficile essere giovani, in «L’Espresso», 11 luglio 1976: Parco Lambro, scriveva, ha segnato la «crisi di un mito».

9 Borgna, I giovani cit., p. 414.

10 «Operai perbenisti – scriveva Guido Passalacqua – si fronteggiano con giovani confusi che pensano che tutto si risolva espropriando un supermercato»: Una festa rovinata da provocatori, in «la Repubblica», 1° agosto 1976; cfr. inoltre M. Sarno, I giovani dopo le feste, in «Ombre rosse», novembre 1976, 17.

11 Borgna, I giovani cit., pp. 411 sgg.; M. Lombardo Radice, I giovani e la droga, in «Ombre rosse» luglio 1975, 9-10; G. Arnao, Rapporto sulle droghe, Milano 1976. Dal 1975 la stampa inizia a guardare con occhio meno distratto al fenomeno: cfr. ad esempio Il flagello della droga continua a uccidere, in «Il Corriere della Sera», 10 luglio 1975; La droga, una vera tragedia italiana, ivi, 24 luglio 1975; G. Nascimbeni, Il ragazzo morto a Salerno. Eroina: è quasi un’epidemia, ivi, 20 ottobre 1975.

12 Una parte di esse è in Care compagne, cari compagni. Lettere a Lotta continua, Roma 1978.

13 M. Fraire, Care compagne, cari compagni, in «Quaderni Piacentini», giugno 1978, 66-67, pp. 169-74.

14 Borgna, I giovani cit., p. 421.

15 C. Musatti, È un modo di ammazzare. Uno dei tanti, in «L’Espresso», 30 luglio 1978.

16 W. Tobagi, Ricordando senza rabbia il 68 lontano, in «Il Corriere della Sera», 2 febbraio 1978, ora in Id., Il coraggio della ragione (scritti 1964-1980), Milano 1981.

1 Cfr. «Porci con le ali»: perché il sequestro?, Enzo Forcella ne discute con gli autori e l’editore, in «la Repubblica», 8 dicembre 1976.

2 Cfr. A. Heller, La teoria dei bisogni in Marx, Milano 1974.

3 Cfr., ad esempio, F. Di Paola, Marx, la Heller e i nostri bisogni, in «Ombre rosse», luglio 1975, 9-10, pp. 5-24; S. D’Alessandro, Bisogni e movimento reale, ivi, aprile 1976, 14, pp. 7-19; F. Di Paola, Il bisogno di comunismo, ivi, novembre 1976, 17, pp. 12-36.

4 G. Jervis, Quali bisogni? Alcune note, ivi, pp. 5-11.

5 Il tema era al centro di uno scritto del 1970 di Carla Lonzi che abbiamo già citato, Sputiamo su Hegel. Più in generale, cfr. «aut aut», settembre-ottobre 1977, 161, Irrazionalismo e nuove forme di razionalità. Ivi, in riferimento alle riflessioni e ai percorsi del movimento femminista cfr. B. Frabotta, Contraddizione e trasgressione. Sulla specificità del femminile.

6 La crisi della Ragione, a cura di A. Gargani, Torino 1979. Per una sintetica rivisitazione di questi aspetti cfr. P. Battista, Cultura e ideologie, in Storia d’Italia, 6, L’Italia contemporanea dal 1963 ad oggi cit., pp. 440-539, e Ajello, Il lungo addio cit., pp. 166-224.

7 Racconterà di lì a poco Franco Fortini: «Quando i ragazzi del primo anno di Lettere accorrono a frotte laddove si parli dell’interpretazione psicoanalitica della letteratura [...] quel che a loro interessa è la psicoanalisi, non la letteratura [...]: si ricerca la salvezza, si vuole sapere per che cosa vivere o morire»: cfr. A. Andreoli, Calvino, il telefono c’è, in «Paese Sera», 25 febbraio 1980.

8 Una convincente documentazione è in A. Caracciolo, Il mercato dei libri di storia 1968-1978, in «Quaderni Storici», maggio-agosto 1979, 41, pp. 765-77. È solo in questi anni che inizia ad avere una più larga diffusione in Italia la storiografia delle «Annales» con la sua attenzione alla «lunga durata»: cfr. N. Gallerano, Fine del caso italiano? La storia politica fra «politicità» e «scienza», in «Movimento operaio e socialista», 1987, 1-2, pp. 5-25.

9 A. Arbasino, Un paese senza, Milano 1980, p. 18.

1 G. Gaber, I reduci (scritto con Sandro Luporini), in G. Gaber, La libertà non è star sopra un albero, Torino 2002, pp. 214-5.

2 V. Rossi, Siamo solo noi, 1981; cfr. inoltre D. Giachetti, Fra riflusso e vite spericolate: forme di resistenza umana, in «Cosa resterà di questi anni80?», in «Il presente e la storia», dicembre 2002, 62, pp. 117-42.

3 F. Battiato, Centro di gravità permanente (1981).

4 F. De Gregori, La leva calcistica della classe 1968 (1982). Su questi aspetti, rimando a Pivato, La storia leggera cit., pp. 190-4.

5 Il Duemila, un gatto e il re (1988).

6 Le citazioni sono tratte da alcune parti della Storia di un impiegato: Introduzione, Canzone del maggio, Il bombarolo, Nella mia ora di libertà: cfr. Fasoli, Fabrizio De André cit., pp. 175-89.

7 Cfr. Tomba, Storia della Repubblica popolare cinese cit., pp. 141-6. Per la ricezione in Italia di alcuni di questi momenti cfr. almeno R. Ledda, Ipotesi e interrogativi sul caso Lin Piao, in «Rinascita», 25 agosto 1972; P. Sormani, Lin Piao è scomparso da un anno ma le epurazioni non sono finite, in «Il Corriere della Sera», 15 settembre 1972; La stampa cinese parla della rivolta di Lin Piao, ivi, 20 settembre 1972; G. Co., Dietro il golpe di Pechino, in «L’Espresso», 24 ottobre 1976; La moglie di Mao arrestata per complotto, in «Il Corriere della Sera», 12 ottobre 1976.

8 G. Bocca, Il Vietnam esiste ancora?, in «L’Espresso», 5 dicembre 1976.

9 «Lotta continua», 31 dicembre 1977.

10 Cfr. Dalla guerra di popolo, ivi, 12 gennaio 1978 (non firmato, ma scritto da Lisa Foa).

11 Scriveva Lisa Foa alla fine del 1978: l’anno si è aperto con la guerra tra Vietnam e Cambogia, poi «i guerriglieri cubani, agli ordini del generale Petrov, si sono esibiti in una travolgente guerra-lampo nel corno d’Africa che ha comportato il massacro di migliaia di abitanti dell’Ogaden, offrendo una nuova visione di «internazionalismo socialista»»: L. Foa, Che cosa è andato storto nel nostro internazionalismo?, in «Ombre rosse», dicembre 1978, 26, p. 12.

12 Ivi, p. 11.

13 Cfr. su questi temi I rumori della crisi. Trasformazioni sociali e identità sindacali, a cura di P. Giovannini, Milano 1993; Paci, I mutamenti della stratificazione sociale cit.; Classi e movimenti in Italia 1970-1985, a cura di C. Carboni, Bari 1996.

14 E. Balducci, Fede cristiana e scelta rivoluzionaria, in «Rocca», 15 gennaio 1972.

15 Cfr. Dopo il licenziamento in Abruzzo di circa 1700 operai, in «Rocca», 1°-15 febbraio 1971.

16 Cfr. Omelie a San Paolo fuori le mura di dom Giovanni Franzoni curate dalla Comunità, Milano 1974, p. 222.

17 Cfr. E. Berlinguer, Austerità. Occasione per trasformare l’Italia, Roma 1977.

18 Coscienza operaia oggi, a cura di G. Girardi, Bari 1980, pp. 43 e 45.

19 Ibid., pp. 59-60, 94, 92, 137. Questi stessi nodi emergono in un dibattito che coinvolge a Pavia operai della Necchi ed ex militanti di Lotta continua: cfr. «Pavia contro», I, 1° ottobre 1978, 11 (anche in «Lotta continua», 28 novembre 1978).

20 Cfr. la testimonianza di Giovanni Falcone in Polo, I tamburi di Mirafiori cit., pp. 168-9.

21 Traggo la testimonianza da Revelli, Lavorare in Fiat cit., pp. 69-70.

22 Arbasino, Un paese senza cit., p. 23.

23 Ibid., p. 56

24 Ibid., p. 53.

25 Ibid., p. 55.

26 Su questi aspetti si veda più oltre.

27 Traggo il giudizio da R. Catanzaro, Immagini della violenza nei terroristi, in «Storia e problemi contemporanei», 1993, 11, p. 12; ivi, cfr. inoltre D. della Porta, Protesta e violenza politica, pp. 21-52. I risultati della ricerca dell’Istituto Cattaneo sono più ampiamente illustrati in Ideologie, movimenti, terrorismi, a cura di R. Catanzaro, Bologna 1990; Id., La politica della violenza, Bologna 1990; D. della Porta, Il terrorismo di sinistra, Bologna 1990; R. Catanzaro e L. Manconi, Storie di lotta arnata, Bologna 1995; cfr. inoltre Galleni, Rapporto sul terrorismo cit.

28 Cfr. della Porta e Rossi, Cifre crudeli cit.; Tranfaglia, Un capitolo del «doppio stato» cit., pp. 57-76.

29 Cfr. G. Pasquino, Sistema politico bloccato e insorgenza del terrorismo, relazione presentata al convegno Ricordare e capire. Violenza politica e terrorismo in Italia, Bologna, 29-30 aprile 1983.

30 Cfr. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana cit., pp. 419-34; Tranfaglia, Un capitolo del «doppio stato» cit., pp. 57-74; Novelli e Tranfaglia, Vite sospese cit.

31 G. Bocca, Noi terroristi. 12 anni di lotta armata ricostruiti e discussi con i protagonisti, Milano 1985, p. 186.

1 Jacquerie senza bandiere, in «Il Corriere della Sera», 8 dicembre 1976.

2 G. Santerini e L. Vergani, Rosa, Pippo, Giovanna: perché odiate la città?, ivi, 9 dicembre 1977; cfr. inoltre G. Passalacqua, Assediata la Scala, scontri e feriti a Milano, in «la Repubblica», 8 dicembre 1976; Id., Autocritica dopo l’assalto alla Scala, ivi, 9 dicembre 1976.

3 È il titolo di una discussione tra alcuni esponenti dei «circoli giovanili» con Paolo Grassi, Giulia Devoto Falk, Mario Spinella ed Elvio Fachinelli che «la Repubblica» pubblica il 12 dicembre 1976.

4 R. Di Rienzo, Dall’assedio della Scala al Natale autoridotto. Così giovani e così disperati, in «L’Espresso», 19 dicembre 1976; cfr. inoltre Clamorosa invasione con pretesti politici. Roma: saccheggiata la Standa da trenta giovani, in «Il Corriere della Sera», 14 novembre 1976; Terza domenica contro i prezzi dei biglietti. Ultrà di sinistra hanno invaso due cinema e un teatro a Milano, ivi, 15 novembre 1976; È stata chiusa l’università statale di Milano devastata dalla violenza degli ultrà di sinistra, ivi, 1° dicembre 1976; Milano: saccheggio in un supermercato, ivi, 4 dicembre 1976; Padova. Estremisti di sinistra razziano un supermercato, ivi, 12 dicembre 1976; C. Rivolta, Dalla spesa proletaria al diritto al lusso, in «la Repubblica», 24 febbraio 1977.

5 Sanguinoso agguato dei Nap a Roma. Uccisi un agente e il fuorilegge Zicchitella, ivi, 15 dicembre 1976.

6 Cfr. R. Di Rienzo, A tutti i commandos: tirare sull’uomo, in «L’Espresso», 16 dicembre 1976; ivi, cfr. anche P. Mieli, Il terrore cambia marcia e Un vecchio comunista di fronte a queste cose (colloquio con lo zio di Walter, Franco Alasia).

7 Questo il titolo dell’articolo di Cesare Pillon, in «Il Corriere della Sera» del 16 dicembre 1976.

8 R. Di Giovacchino, Assalto ai fascisti all’Università di Roma, in «la Repubblica», 2 febbraio 1977; per una ricostruzione complessiva, che utilizzerò anche in seguito, cfr. C. Augias, Roma. Università 1977. I cento giorni della grande violenza, ivi, 17 maggio 1977.

9 E. Scalfari, Spetta ai giovani isolare la violenza, ivi, 3 febbraio 1977; ivi, cfr. anche Mattinata di fuoco al centro di Roma; cfr. inoltre Quello che hanno visto i redattori di Repubblica, ivi, 5 febbraio 1977, che smentisce nettamente la versione dei fatti fornita dal governo, e La sparatoria di Piazza Indipendenza, ivi, 11 febbraio 1977.

10 Augias, Roma, Università 1977 cit.; cfr. inoltre G. Passalacqua, Dai delusi dell’extrasinistra è nata a Milano la banda della P38, in «la Repubblica», 26 maggio 1977.

11 Cfr. Mobilitazione generale in molte università, ivi, 4 febbraio 1977; F. Froio, La contestazione della riforma è partita da Palermo, ivi, 8 febbraio 1977; S. Tropea, Torino: rabbia studentesca e nuovi scioperi operai, ivi, 13 febbraio 1977.

12 C. Rivolta, Occupazioni, assemblee dibattiti: è un’illusione o un ritorno?, ivi, 5 febbraio 1977.

13 Id., Antifascismo e disoccupazione i motivi della protesta giovanile, ivi, 6 febbraio 1977.

14 Id., Il progetto Malfatti nella tempesta, ivi, 8 febbraio 1977.

15 Id., Si estende la protesta in tutti gli atenei d’Italia. Trentamila studenti in corteo per le strade di Roma, ivi, 10 febbraio 1977; cfr. inoltre C. Salaris, Il movimento del settantasette. Linguaggi e scritture dell’ala creativa, Bertiolo 1997.

16 Cfr. L. Manconi e M. Sinibaldi, Uno strano movimento di strani studenti, in «Ombre rosse», marzo 1977, 20, pp. 3-27.

17 Lo osservava già «a caldo» Eugenio Scalfari: Una pagina amara per la sinistra, in «la Repubblica», 18 febbraio 1977; cfr. inoltre, ivi, C. Augias, Chi ha voluto la sfida?, V. Sivo, Il sindacato ha rischiato la crisi e Sorpresi i comunisti: non ce lo aspettavamo.

18 Cfr. C. Rivolta, La rabbia studentesca esplode all’Università di Roma, ivi, 18 febbraio 1977; M. Grispigni, Il settantasette, Roma 1997, pp. 29-40; G. Bianconi, Mi dichiaro prigioniero politico, Torino 2003, pp. 133-7.

19 Grande corteo a Roma, incidenti a Milano, in «la Repubblica», 20 febbraio 1977.

20 Un’antologia del dibattito che si svolse allora sul «movimento del ’77» è in G. Orsini e P. Ortoleva, Alto là! Chi va là?, Roma 1977; cfr. inoltre U. Eco, Sette anni di desiderio, Milano 1983.

21 Cfr. F. Monteleone, Radio pubblica ed emittenti commerciali dal 1975 al 1993, in La stampa italiana nell’età della Tv, 1975-1994, a cura di V. Castronovo e N. Tranfaglia, Roma-Bari 1994, pp. 173-206. Per i primi echi del fenomeno cfr. M. Luzzatto Fegiz, È scoppiato il boom delle «radio libere», in «Il Corriere della Sera», 23 luglio 1975; F. Felicetti, Voci a sorpresa dai microfoni alternativi, ivi, 19 dicembre 1975; C. Sabelli Fioretti, Duecento antenne all’assalto del monopolio, in «la Repubblica», 8 gennaio 1976; Una radio per ultrasinistra e Cisl, ivi, 15 giugno 1976; Affollatissima la «banda» FM per odio-amore verso mamma Rai, in «l’Unità», 22 marzo 1976. Cfr. inoltre «aut-aut», gennaio-febbraio 1978, 163, interamente dedicato a Informazione di massa e comunicazione di classe e G. Fofi, P. Violi, G. Lerner, V. Borelli, Comunicazione e movimenti, in «Ombre rosse», giugno 1979, 29, pp. 13-38.

22 Cfr. M. Mafai, Cossiga annuncia nuove misure di polizia, in «la Repubblica», 22 febbraio 1976.

23 Cfr. Ferma condanna in tutto il paese dell’aggressione squadristica di Roma e Unità e iniziativa di massa contro lo squadrismo, per rinsaldare il legame fra giovani e democrazia, in «l’Unità», 19 e 20 febbraio 1977; Intervento del Pci sulla crisi studentesca, in «la Repubblica», 20 febbraio 1977.

24 Cfr. il testo del discorso su «l’Unità» del 26 febbraio 1977; cfr. inoltre S. Viola, «Quest’Italia ricorda il 1919», in «la Repubblica», 26 febbraio 1977; Berlinguer: «arginare il magma fangoso», in «Lotta continua», 27 febbraio 1977.

25 G. Cerruti e M. Marozzi, Bologna sconvolta, in «la Repubblica», 12 marzo 1977.

26 R. Roversi, Il libro paradiso, in «Il cerchio di gesso», I, giugno 1977, 1; cfr. inoltre G. Lerner e M. Pieralisi, Democrazia e organizzazione nel movimento: l’esperienza di Bologna, in «Ombre rosse», giugno 1977, 21, pp. 6-15.

27 Cfr. C. Rivolta, Migliaia di studenti discutono, in «la Repubblica», 27 febbraio 1977 e Id., Nel movimento esplodono le contraddizioni, ivi, 1° marzo 1977.

28 Cfr. C. Rivolta, Battaglia a Roma tra polizia e bande di «autonomi», ivi, 13 marzo 1977: la cronaca – e la condanna delle violenze di una parte dei manifestanti – è scritta da un giovane giornalista sensibile e attento alle dinamiche e ai problemi del «movimento». Cfr. inoltre, in riferimento a Milano, G. Passalacqua, Si è scatenata la squadra della P 38, ivi.

29 Cossiga racconta le ore nere di Roma e Bologna, ivi, 15 marzo 1977. Si vedano anche gli interventi che compaiono nei giorni successivi sul quotidiano «Lotta continua», oscillanti fra la condanna e la giustificazione delle violenze degli «autonomi».

30 L. Villoresi, In corteo con ironia, in «la Repubblica», 24 marzo 1977. Villoresi riferisce alcuni slogan: «Lama star, superstar, più sacrifici vogliamo far»; «Siamo tutti delinquenti, Gui e Tanassi sono innocenti» ecc.

31 Cfr. la rilettura che Asor Rosa ha compiuto di recente di questi testi in «Storia e problemi contemporanei», 2002, 20, pp. 135-7.

32 A. Asor Rosa, Le due società, in «l’Unità», 20 febbraio 1977; cfr. inoltre l’insieme degli interventi di Asor Rosa su questi temi in Le due società, Torino 1977. Per le critiche avanzate allora a questa analisi cfr. L. Melandri Ascetismo rosso e M. G. Meriggi, Due società. Una classe operaia, in «aut aut», settembre-ottobre 1977, 161, Irrazionalismo e nuove forme di razionalità; cfr. inoltre E. Scalfari, Il Pci e gli studenti, in «la Repubblica», 23 febbraio 1977.

33 Così inizia la relazione di Massimo D’Alema, allora segretario nazionale della Fgci, al Comitato centrale del Pci del 14-16 marzo 1977: cfr. I comunisti e la questione giovanile, Roma 1977, p. 11.

34 W. Vitali, I comunisti e il movimento del ’77, in Aa. Vv., Dialogo sul movimento, Bari 1978, p. 67.

35 Craveri, La repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 720; cfr. inoltre Manconi e Sinibaldi, Uno strano movimento di strani studenti cit., e Annunziata e Moscati, Lavorare stanca cit.

36 Craveri, La repubblica dal 1958 al 1992 cit., pp. 722-3.

37 Cfr. Passerini, Autoritratto di gruppo cit., p. 187.

38 Ibid., pp. 187-8; cfr. inoltre Aa.Vv., Millenovecentosettantasette, Roma 1997; F. Berardi, Dell’innocenza. Interpretazioni del settantasette, Bologna 1989.

39 L’articolo, di Guido Passalacqua, è pubblicato il 13 marzo 1977.

40 Sul ferimento dei primi due cfr. S. Tropea, Attentato br a Torino, in «la Repubblica», 18 febbraio 1977; per un quadro completo cfr. Cavallini, Il terrorismo in fabbrica cit.

41 Agente ucciso da un brigatista a Milano, in «la Repubblica», 20 febbraio 1977

42 G. Passalacqua, Un commando di donne assalta un’azienda milanese, in «la Repubblica», 5 marzo 1977.

43 Criminale provocazione a Roma. Assassinati due agenti, uno ferito, ivi, 23 marzo 1977.

44 Per una sintetica ricostruzione cfr. A. F., Dalla nascita delle Br 8 anni di violenza, in «Il Corriere della Sera», 17 marzo 1978.

45 G. Bocca, A Torino vince la paura. Mancano i giudici: rinviato il processo delle Br, in «la Repubblica», 4 maggio 1977; ivi, cfr. anche G. Neppi Modona, Il processo di Torino.

46 Proteste dei partiti e precisazioni del governo. La polizia sparerà solo per legittima difesa, ivi, 24 aprile 1977; Misure di polizia. Intercettazioni telefoniche, fermo preventivo e carceri più severe, ivi, 5 maggio 1977.

47 «Ordine Pubblico» sulle nostre pagine, ivi, 4 gennaio 1977; L’intervento di Fedeli al Consiglio sindacale, ivi, 9 gennaio 1977; Il progetto Dc nega agli agenti il sindacato libero, e Mille guardie a Torino a confronto con i partiti, ivi, 6 aprile 1977; cfr. inoltre «Ordine pubblico», ottobre 1977.

48 C. Rivolta, Un agente assassinato, in «la Repubblica», 22 aprile 1977.

49 L’editoriale de «la Repubblica» è del 13 maggio 1977. Ivi, cfr. anche Ancora guerra a Roma e 7 ore di scontri e sparatorie.

50 Cfr. Grispigni, Il settantasette cit., pp. 55-6.

51 La P38 anche a Milano, in «la Repubblica», 15 maggio 1977.

52 Le foto sono pubblicate per la prima volta, rispettivamente, da «Il Messaggero» e da «Il Corriere di informazione», e vengono riprese da tutti i giornali: cfr. ad esempio «la Repubblica» del 15 e 17 maggio 1977.

53 Gli altri due sono Vittorio Bruno, vicedirettore de «Il Secolo XIX», ed Emilio Rossi, direttore del Tg1.

54 Scatenati i terroristi: un’altra giornata di violenze e di attentati in tutta Italia. Guardia uccisa dai fascisti. Le Br feriscono due dirigenti Fiat, in «la Repubblica», 1° luglio 1977.

55 Ne fanno parte gli onorevoli Silverio Corvisieri e Antonello Trombadori, lo psichiatra Giovanni Jervis e il giornalista Fausto De Luca.

56 F. De Luca, Rapporto sull’Asinara, in «la Repubblica», 9 settembre 1977.

57 S. Rodotà, L’Asinara un cuore dello Stato?, ivi.

58 P. Benetazzo, Ampi dubbi sulla versione ufficiale. I capi della Baader Meinhof trovati morti nelle loro celle e G. Bocca, Una fosca tragedia tedesca, in «la Repubblica», 19 ottobre 1977; C. Panella, Come tutto cominciò, in «Ombre rosse», dicembre 1977, 22-23, pp. 69-72. Poco più di un anno prima, nel maggio del 1976, Ulrike Meinhof era stata trovata impiccata nella sua cella: cfr. una ricostruzione della vicenda e le ultime lettere della Meinhof, in Faré e Spirito, Mara e le altre cit., pp. 120-52. Ci avvicina bene a quel clima, inoltre, un film girato allora da vari registi (fra cui Rainer Werner Fassbinder e Alexander Kluge), Germania in autunno (1978).

59 Assalto al Boeing dirottato. Tutti salvi gli 86 ostaggi, in «la Repubblica», 17 ottobre 1977.

60 Cfr. Schleyer ucciso dai terroristi. Baader «suicidato» alla nuca e B. Spinelli, Non è Schmidt il «giustiziere» di Andreas Baader, ivi, 21 ottobre 1977.

61 L’appello è firmato da J.-P. Sartre, M. Foucault, F. Guattari, G. Deleuze, R. Barthes, e altri, ed è pubblicato da «Lotta continua» il 5 luglio 1977.

62 Cfr. G. Bocca, Un fatto inedito nella vita politica del paese, in «la Repubblica», 27 settembre 1977.

63 Cfr. G. Lerner, L. Manconi, M. Sinibaldi, Le altre stagioni del movimento di primavera, in «Ombre rosse», dicembre 1977, 22-23, pp. 3-39.

64 Cfr. A Torino, dopo l’Angelo Azzurro, ivi, pp. 52-68. Per la discussione che attraversò allora la sinistra extraparlamentare su questi temi cfr. Aa.Vv., Sulla violenza, Roma 1978.

65 Care compagne, cari compagni cit., pp. 270, 261-2, 222-4 e 262-3; cfr. inoltre A. Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, Milano 1998, pp. 276-85. E si veda, naturalmente, lo «spaesamento» raccontato da un film in realtà drammatico come Ecce Bombo di Nanni Moretti (1978).

1 G. Pansa, Il Palazzo corrotto aiuta i terroristi, in «la Repubblica», 19 novembre 1977. Cfr. inoltre l’intervista di Gad Lerner e Andrea Marcenaro – pubblicata da «Lotta Continua» il 19 novembre 1977 – al figlio di Casalegno, Andrea, e il dibattito che ne seguì (in Aa.Vv., Sulla violenza cit., pp. 45-70).

2 Reagire con forza, in «Il Corriere della Sera», 17 marzo 1977.

3 Sciascia, L’affaire Moro cit., p. 106.

4 A. Sofri, L’ombra di Moro, Palermo 1991, p. 43.

5 Moro assassinato? Vane le ricerche di elicotteri e sommozzatori. Non si esclude l’ipotesi di una falsa pista, in «la Repubblica», 19 aprile 1977.

6 Un’efficace ricostruzione di quel clima è in Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana cit., pp. 434-44.

7 Gentiloni Silveri, Gli anni settanta nel giudizio degli Stati Uniti cit., p. 1016.

8 Su questi aspetti cfr. A. Riccardi, Il cattolicesimo della Repubblica, in Storia d’Italia, 6, L’Italia contemporanea dal 1963 ad oggi cit., pp. 296-302.

9 B. Mantelli e M. Revelli, Operai senza politica, Roma 1979, pp. 171-2.

10 Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 774.

1 Un libro di Camilla Cederna, Giovanni Leone. La carriera di un presidente, pubblicato dalla casa editrice Feltrinelli nel marzo del 1978, giunge già nel giugno di quell’anno alla quattordicesima edizione.

2 Are, Radiografia di un partito cit., pp. 22-3 e 131-42. Per una discussione «a caldo», cfr. Ma cosa c’è che non va fra questi giovani e questa sinistra?, con interventi di Lucia Annunziata, Franca Fossati, Paolo Franchi, Annabella Gioia, Maurizio Lichtner e Marino Sinibaldi, in «Lotta continua», 10 luglio 1979.

3 Cfr. I. Diamanti, La Lega, Roma 1993 e Figli di un benessere minore, a cura di De Luna, cit.

4 Sul dibattito e l’identità del partito nella seconda metà degli anni settanta cfr. M. Barbagli e P. Corbetta, Una tattica e due strategie. Inchiesta sulla base del Pci, in «il Mulino», novembre-dicembre 1978, 260, pp. 922-67; M. Carrieri, Dopo la stagione dei leader una leadership negoziale? Il gruppo dirigente del Pci 1975-1986, in «Democrazia e Diritto», 1988, 6.

5 Il brano è tratto da un’intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari, in «la Repubblica», 28 luglio 1981.

6 Cfr. Ciao Enrico, Vhs girato da molti registi italiani e montato sotto la direzione di Ugo Gregoretti, 1984.

7 Ivi.

8 G. Pansa, Interroghiamo gli operai ai cancelli di Mirafiori, in «la Repubblica», 18 novembre 1977; cfr. inoltre Id., Romanzo di un ingenuo, Milano 2000, pp. 313-31.

9 Revelli, Lavorare in Fiat cit., p. 72. Traggo da qui anche i dati sull’incidenza del terrorismo alla Fiat; cfr. inoltre Cavallini, Il terrorismo in fabbrica.

10 Si legga l’«aggressione verbale» di un militante comunista a un intervistatore: «Se sei un compagno, come dici, dovresti saperlo già cosa c’è nella testa degli operai. Non hai bisogno di venire qua davanti! Vai al sindacato! Vai alla lega», Mantelli e Revelli, Operai senza politica cit., p. 179.

11 Ibid., p. 174.

12 «Io li metterei con le spalle al muro e finita lì»; «Secondo me quelli che stanno dentro ucciderli tutti [...] Quelli che sono in prigione? Perché no? [...] Uccidendo loro si mettono a posto quelli che sono fuori, come hanno fatto in altri posti. Come in Germania, dice? Eh, perché no? Non si sente più che fanno queste cose in Germania, no? E allora?» (ibid., pp. 35 e 42).

13 Ibid., pp. 23-4. E inoltre, scegliendo solo pochissimi esempi: «Per Moro a me non mi dispiace, proprio niente [...] Moro, lo vedessi morto...»; «A me mi dispiace di più per le quattro guardie; Moro pazienza. Ma quei poverini che hanno bambini...»; «Di Moro sono contenti, ci hanno fatto la danza indiana»; «Abbiamo sempre avuto contro la Democrazia Cristiana e adesso ci fate fare sciopero per la Democrazia Cristiana?»; «Cominciando da Moro e compagnia bella, tutti da ammazzare»; «Secondo me hanno colpito una sanguisuga e hanno fatto bene, mi dispiace solo che non hanno preso Andreotti e Cossiga» (ibid., pp. 45, 23, 33, 28, 50, 58).

14 Ibid., p. 28.

15 Ibid., p. 21.

16 Cfr. G. Quazza, Presentazione, ibid., p. 12.

17 Ibid., p. 181.

18 Ibid., p. 190.

19 Cfr. G. Polo e C. Sabattini, Restaurazione italiana, Roma 2000.

20 Revelli, Lavorare in Fiat cit.

21 Il telegiornale di quel giorno parlò di 15 000 persone (ibid.) e il titolo del quotidiano della Fiat, «La Stampa», fu In trentamila contro i picchetti Fiat. Di «30 000 in corteo» parla anche «il manifesto» (con i commenti di Valentino Parlato, Stefano Bonilli e Loris Campetti), mentre la cifra che «rimarrà» compare invece sulla prima pagina de «Il Corriere della Sera» («40 000 dipendenti della Fiat chiedono in corteo di tornare al lavoro») e de «La Repubblica». Sulla vertenza cfr. gli interventi di Pietro Marcenaro e Marco Revelli, e le testimonianze sia di operai che di partecipanti alla «marcia dei 40 000», in «Ombre rosse», marzo 1981, 33, pp. 37-58; A. Baldissera, La marcia dei quarantamila, pubblicato nel 1984 dai «Quaderni di sociologia» e ora in La società italiana, a cura di L. Gallino e P. Ceri, in «Quaderni di sociologia», 2001, 26-27, pp. 307-36; cfr. inoltre Boursier, Signorina Fiat cit., e Calopresti, Tutto era Fiat cit.

22 Ivi.

23 Revelli, Lavorare in Fiat cit., pp. 104-6.

24 Fiat: le fasi della crescita cit., pp. 140-1.

25 Cfr. Castronovo, Storia economica d’Italia cit., pp. 513-4.

26 L. Ricolfi e L. Sciolla, Senza padri né maestri, Bari 1980. Anche questo libro, come Operai senza politica, è introdotto da Guido Quazza: un intellettuale che aveva partecipato alla Resistenza (cui ha dedicato pagine storiografiche dense e acute) e che ha seguito poi con passione sia le lotte studentesche (allora era preside di facoltà) che quelle operaie.

27 E. Galli della Loggia, La crisi del «politico», in Id. e altri, Il trionfo del privato, Roma-Bari 1980, p. 6.

28 Ibid. Cfr. inoltre Giovani oggi. Inchiesta Iard sulla condizione giovanile in Italia, Bologna 1984.

1 Cingolani, La destra in armi cit.

2 Cfr. P. Peci, Io, l’infame, a cura di G. B. Guerri, Milano 1983.

3 Analizzando l’«orrendo senso di sollievo» provato alla notizia che sono stati dei terroristi, non cittadini innocenti o tutori dell’ordine a morire, Eugenio Scalfari riflette a fondo sui guasti indotti dal terrorismo in un «sentire comune» diffuso: «l’uso selvaggio del terrore spegne nel cuore della gente ogni sentimento di pietà umana e cristiana [...]. Contro questi guasti profondi occorre reagire. Occorre contrastare l’avversario non soltanto con la difesa armata [...] ma non facendo spegnere nei nostri cuori il sentimento della pietà» (cfr. «la Repubblica», 30 marzo 1980).

4 Della Porta e Rossi, Cifre crudeli cit.

5 Fra essi, un direttore generale del ministero di Grazia e giustizia, Gerolamo Tartaglione, il giudice di Cassazione Riccardo Palma, il procuratore capo di Frosinone, Fedele Calvosa (in un agguato in cui muoiono anche due uomini della scorta e un brigatista), oltre al giurista e docente universitario Alfredo Paolella.

6 Francesco Berardi, l’operaio denunciato da Rossa, si suiciderà poco dopo il suo assassinio.

7 Oltre ai suoi libri (Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia, Milano 1970; Gli anni del manganello, Milano 1972; La rivoluzione impossibile, Milano 1978; Vita di giornalista, Bari 1979; Che cosa contano i sindacati, Milano 1980), cfr. due raccolte postume di articoli: Il coraggio della ragione. Scritti 1964-1980, a cura di G. Da Rold, Milano 1981, e Testimone scomodo. Scritti scelti 1975-80, a cura di A. Forbice, Milano 1989.

8 Si veda il commento di Giampaolo Pansa su «la Repubblica» del 13 febbraio 1980; si veda inoltre la testimonianza di Virginio Rognoni, allora ministro dell’Interno: V. Rognoni, Intervista sul terrorismo, Roma-Bari 1989, pp. 80-3.

9 Cfr. Moretti, Brigate rosse cit., pp. 238-9.

10 Cfr. Novelli e Tranfaglia, Vite sospese cit.

11 Si veda la «cronaca di un’esecuzione» di Luca Villoresi su «la Repubblica» del 4 agosto 1981; cfr. inoltre Curcio e Scialoja, A viso aperto cit., pp. 192-6; Moretti, Brigate rosse cit., pp. 226-58.

12 Cfr. F. Barbagallo e G. Bruno, Espansione e deriva del Mezzogiorno, in Storia dell’Italia repubblicana cit., III, t. 1, pp. 427-9.

1 Oltre ai volumi già citati dell’Istituto Cattaneo e alle ricostruzioni – anch’esse citate – di Paul Ginsborg, Silvio Lanaro, Nicola Tranfaglia e Piero Craveri, cfr. Galleni, Rapporto sul terrorismo cit.; G. Galli, Il partito armato, Milano 1986.

2 In questa dignitosissima veste Pertini entra a far parte di quell’inventario di luoghi comuni sull’«italiano» che Toto Cutugno canta al Festival di Sanremo del 1983 (cioè qualche mese dopo la vittoria ai mondiali di calcio): «Buongiorno Italia con gli spaghetti al dente/ e un partigiano come presidente/ [...] lasciatemi cantare/ con la chitarra in mano/ lasciatemi cantare [...]/ perché ne sono fiero/ io sono un italiano/ un italiano vero» (L’Italiano).

3 Così afferma nel messaggio di fine d’anno del 1984: http://www.quirinale.it.

4 Ivi.

5 «Guai se qualcuno per amicizia o solidarietà di partito dovesse sostenere questi corrotti e difenderli [...]. Deve essere dato, ripeto, il bando a questi disonesti e a questi corrotti» (ivi).

6 Ivi.

7 Il 27 novembre 1980 il titolo d’apertura a piena pagina – su tre righe – del «Corriere della Sera» è «Pertini al paese/: bisogna risorgere/. Ma chi ha mancato dev’essere colpito». Questo è il brano più significativo del messaggio: in Belice «i terremotati vivono ancora in baracche, eppure allora fu stanziato il denaro necessario [...]. Mi chiedo: dove è andato a finire questo denaro? Chi è che ha speculato su questa disgrazia del Belice, e se v’è qualcuno che ha speculato io chiedo: costui è in carcere come dovrebbe essere in carcere, perché l’infamia maggiore per me è quella di speculare sulle disgrazie altrui».

8 Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana cit., p. 419.

9 Salvati, Occasioni mancate cit., p. 65.

10 Il 19 ottobre 1987 «la Repubblica» ha questo titolo di prima pagina: Wall Street, il crollo. È peggio che nel 1929. Sconvolte tutte le borse. Il giorno dopo il commento di Mario Pirani ha come titolo Un crack annunciato.

11 Salvati, Occasioni mancate cit., pp. 69-73; Balcet, L’economia italiana cit., pp. 76-84; Castronovo, Storia economica d’Italia cit., pp. 503 e 515-31

12 G. Turani, Il secondo miracolo durerà 10 anni, in «la Repubblica», 18 maggio 1986.

13 V. Vidotto, I consumi, in Storia d’Italia, 6, L’Italia contemporanea dal 1963 ad oggi, cit., p. 55. Per una più ampia analisi cfr. S. Scamuzzi, I consumi e gli stili di vita, in Le dimensioni della diseguaglianza, a cura di M. Paci, Bologna 1993.

14 Scamuzzi, I consumi e gli stili di vita cit., p. 209 e Vidotto, La nuova società cit., p. 56.

15 Cfr. F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Venezia 1992; E. Menduni, Televisione e società italiana, Milano 2002.

16 Cfr. almeno un testo ambizioso che fece scalpore: B. Craxi, Il vangelo socialista, in «L’Espresso», 27 agosto 1978. Per due diverse letture cfr. E. Scalfari, Craxi ha tagliato la barba al profeta, in «la Repubblica», 24 agosto 1978, e V. Dini, G. Fofi, L. Manconi, Autonomia della nuova sinistra, in «Ombre rosse», dicembre 1978, 26. Si vedano inoltre i numeri di quel periodo di «Mondoperaio», diretto da Federico Coen: un gruppo di intellettuali di qualità (da Giuliano Amato a Massimo Salvadori, da Luciano Cafagna a Paolo Flores d’Arcais, da Gino Giugni a Giorgio Ruffolo) continua a proporre una riflessione su questi temi anche quando la prua della navigazione craxiana punta ormai verso direzioni ben diverse: cfr. Ajello, Il lungo addio cit., pp. 162-6 e 187-192.

17 Cfr. Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992 cit., pp. 817-8.

18 Nel febbraio del 1980, al XIV Congresso della Dc, la maggioranza che si afferma (e che fa capo ad Arnaldo Forlani, Carlo Donat-Cattin, Flaminio Piccoli e Antonio Gava) sottoscrive un «preambolo» al documento finale che esclude appunto alleanze con il Pci.

19 Castronovo, Storia economica d’Italia cit., p. 529.

20 Scoppola, La repubblica dei partiti cit., p. 399.

21 Cfr. E. Scalfari, Come lavora la banda del capo, in «la Repubblica», 24 luglio 1983.

22 Al contrario, l’«effetto Spadolini» porta il Pri dal 3% al 5,1% (scenderà di nuovo al 3,7% nel 1987). Su «la Repubblica» del 29 giugno 1983 si vedano i commenti di Giampaolo Pansa e di Eugenio Scalfari alla sconfitta elettorale della Dc.

23 Cafagna, La grande slavina cit., p. 97; cfr inoltre Craveri, Storia della Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 665.

24 Sofri, L’ombra di Moro cit., p. 155; Santarelli, Storia critica della repubblica cit., pp. 268-71.

25 Così è nel settembre del 1985, quando terroristi palestinesi ed esponenti dell’Olp sono fatti atterrare dall’aviazione americana nella base italiana di Sigonella, in provincia di Siracusa: nonostante l’opposizione statunitense, i prigionieri sono presi in consegna dalle autorità italiane.

26 Cafagna, La grande slavina cit., pp. 97-9 e 105-6.

27 Bruno e Segreto, Finanza e industria in Italia cit., pp. 675 sgg.

28 Esso è fortemente sostenuto dal Pci ma la proposta abrogativa raccoglie solo il 45,7% dei voti.

29 Cfr. Salvati, Occasioni mancate cit., in particolare il paragrafo che ha come titolo Il grande debito (1880-1992).

30 E. Scalfari, Lo stato fallisce e i partiti ingrassano, in «la Repubblica», 17 settembre 1991. Il brano è più ampiamente ripreso e commentato in P. Ginsborg, L’Italia del tempo presente, Torino 1998, pp. 55 sgg.

31 Ginsborg, L’Italia del tempo presente cit., p. 99.

32 Ibid.

33 Galli, Il partito armato cit., pp. 173-5; Tranfaglia, Un capitolo del «doppio stato» cit., pp. 65 sgg.; Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana cit., p. 441; Craveri, Storia della Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 731.

34 Cfr. S. Turone, Politica ladra, Roma-Bari 1992, pp. 245-79. Piovvero allora smentite e tentativi di ridimensionare la propria partecipazione alla loggia ma anche ammissioni.

35 «La Repubblica», 28 febbraio 1980.

36 Cfr. Craveri, Storia della Repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 853.

37 E. Galli della Loggia, Dov’è lo scandalo?, in «Mondo operaio», marzo 1980.

38 Craveri, Storia della repubblica dal 1958 al 1992 cit., p. 779.

39 Cfr. Ginsborg, L’Italia del tempo presente cit., pp. 338 sgg. e 363 sgg.

40 In quell’anno sono colpiti da mandato di cattura anche il vicesindaco socialista e alcuni assessori e consiglieri comunali di Torino.

41 Cfr. su questi aspetti D. della Porta, Lo scambio occulto, Bologna 1992.

42 L’intervento alla Camera dei deputati dell’on. Pomicino è ampiamente citato in F. Barbagallo e G. Bruno, Espansione e deriva del Mezzogiorno, in Storia dell’Italia repubblicana cit., III, t. 2, p. 425.

43 Ibid., p. 432.

44 Una sintetica e penetrante riflessione è in G. P. Nimis, La ricostruzione possibile, Venezia 1988; cfr. inoltre Ires-Cgil del Friuli-Venezia Giulia, 1976-1986. La ricostruzione del Friuli, a cura di S. Fabbro, Udine 1986.

45 Sono esemplari, ad esempio, gli atti dell’Assemblea dei cristiani del Friuli indetta dall’arcivescovo di Udine monsignor Alfredo Battisti che si svolge – dopo un’intensa e diffusa preparazione – un anno dopo il terremoto: I cristiani per la ricostruzione e la rinascita del Friuli, a cura della Diocesi di Udine, 1977.

46 Sul «Corriere della Sera» del 13 luglio Giuliano Zincone scrive: «I terremotati hanno deciso di passare all’attacco. Hanno eletto delegati di tendopoli, organizzano assemblee e il giorno sedici faranno una grande manifestazione a Trieste [...] per evitare che il terremoto si trasformi definitivamente in una “Caporetto civile”»; cfr. inoltre V. Monti, Sono scesi in piazza i terremotati del Friuli, ivi, 17 luglio 1976

47 Cfr. M. Durand, Andreotti contestato nel Friuli, ivi, 5 settembre 1976; L. Coen, Agitato viaggio di Andreotti nelle tendopoli del Friuli. Qui fa freddo e le parole non sono case, in «la Repubblica», 5 settembre 1976

48 Cfr. M. Durand, Accolti da proteste e denunce senatori e deputati in Friuli, in «Il Corriere della Sera», 15 settembre 1976. Un’ampia raccolta dei volantini distribuiti allora è consultabile nell’«Archivio Gubiani», presso la Biblioteca comunale di Gemona: cfr. la guida all’archivio, Documents pa storie dai furlans tal taramot dal 1976, a cura di M. Ermacora, Gemona 2000.

49 E. Deaglio, Raccolto rosso, Milano 1995, p. 15.

50 Ibid., p. 22.

51 L’intervista è pubblicata da «la Repubblica» il 10 agosto 1982, ed è ripubblicata in N. Dalla Chiesa, Delitto imperfetto, Roma 2003 (I ed. 1984), pp. 249-54, cui rimando anche per altri aspetti.

52 Ibid., p. 250.

53 Ibid., p. 252; cfr. inoltre Lupo, Storia della mafia cit., pp. 216-7.

54 Cfr. Santino, Storia del movimento antimafia cit., pp. 263-4. Sulle omelie precedenti del cardinale, dopo altri assassinii di mafia, ibid., pp. 240-1.

55 Cfr la Relazione della Commissione parlamentare antimafia (legge 13 settembre 1982, n. 646, art. 32) presentata alla presidenza della Camera il 16 aprile 1985, relatore Abdon Alinovi: traggo la citazione da Tranfaglia, Mafia, politica e affari cit., p. 303.

56 Una sintetica ma accurata ricostruzione è in Ginsborg, L’Italia del tempo presente cit., pp. 365-401; cfr. inoltre L. Violante, Non è la piovra, Torino 1994; cfr. inoltre S. Lupo, Andreotti, la mafia, la storia d’Italia, Roma 1996.

57 Sulle sue origini cfr. ora L. Tescaroli, Le faide mafiose nei misteri della Sicilia, Soveria Mannelli 2003.

58 Ginsborg, L’Italia del tempo presente cit., p. 375.

59 Tranfaglia, Mafia, politica e affari cit., p. 336.