Trasalii per lo sconcerto quando lessi il biglietto da visita che il valletto mi aveva portato su un vassoio d’argento.
«Dottor John Watson.» Pronunciai il nome a voce alta per essere sicura di aver letto bene. Non riuscivo a credere che, fra tutti i miei potenziali clienti, fosse proprio lui il primo a entrare nel nuovissimo – aperto nel gennaio 1889 – studio dell’unico perditoriano scientifico di Londra. Anzi, del mondo.
Il dottor John Watson? John era un nome piuttosto comune, ma Watson? E dottore? Doveva essere per forza lui, ma ancora non volevo crederci. «È proprio chi penso che sia, Joddy?»
«Come posso saperlo, milady?»
«Joddy, te l’ho già detto, devi chiamarmi signorina Meshle. Signorina Meshle.» Alzai gli occhi al cielo, ma d’altronde cosa ci si poteva aspettare da un ragazzo la cui madre l’aveva chiamato Jodhpur (scritto erroneamente Jodper nel registro parrocchiale) perché a suo parere aveva un non so che di aristocratico? Era per via della sua riverenza nei confronti delle mie gonne plissettate e maniche a sbuffo che Joddy mi chiamava “milady”, ma non avrebbe dovuto, altrimenti la gente avrebbe cominciato a fare domande. Volevo che il valletto continuasse a riverirmi, perché in quel modo non si sarebbe accorto che ero solo una ragazzina poco più grande di lui, ma volevo che la piantasse di chiamarmi “milady”.
Con più calma, ricordandomi di eliminare dal mio accento ogni traccia di cadenza aristocratica, gli domandai: «Hai già detto al signore che il dottor Ragostin non è in ufficio?»
«Sì, milady. Volevo dire, sì, signorina Meshle.»
Lo studio del perditoriano scientifico portava il nome di un certo Dott. Leslie T. Ragostin, perché uno scienziato doveva essere per forza un uomo. Ma il “dottor Ragostin” – dottore nel senso che deteneva un dottorato di ricerca – non sarebbe mai stato in ufficio perché non esisteva se non nella mia mente e sui manifesti e i biglietti da visita che avevo distribuito nei negozi, le edicole, i fruttivendoli, le aule universitarie… ovunque avessi potuto.
«Se fai accomodare il dottor Watson nel mio ufficio, proverò a capire se posso aiutarlo.»
Joddy corse via. Il suo aspetto, a differenza del suo intelletto, era fine: sfoggiava una livrea impreziosita da ricami sui polsini e lungo i lati dei pantaloni, dei guanti bianchi, un cappello a strisce che assomigliava a una torta a strati in miniatura posata sulla testa… ma d’altronde, perché no? La maggior parte delle uniformi aveva un aspetto assurdo.
Non appena scomparve, mi afflosciai sulla sedia di legno dietro la scrivania con le ginocchia che tremavano al punto da far frusciare le sottogonne di seta. Così non andava. Facendo un respiro profondo, chiusi per un attimo gli occhi e richiamai alla mente il volto di mia madre. Assieme a quell’immagine riuscii quasi a sentire la sua voce: «Te la caverai molto bene da sola, Enola».
Quell’esercizio mentale sortì l’effetto desiderato. Sentendomi più tranquilla, aprii le palpebre appena in tempo per vedere Joddy accompagnare il dottor Watson nello studio dal salotto che fungeva da sala d’aspetto.
«Dottor Watson. Sono la signorina Meshle, segretaria del dottor Ragostin.» Mentre sollevavo la mano per tenderla al mio visitatore, mi trovai davanti una persona il cui aspetto corrispondeva esattamente a quello che mi sarei aspettata dopo aver letto i suoi scritti: un robusto gentiluomo inglese, non benestante ma appartenente senza dubbio alla classe istruita, con il viso rubicondo, gli occhi gentili, e una lieve propensione alla corpulenza.
E io sperai di apparirgli la persona che stavo fingendo di essere: una giovane impiegata del tutto ordinaria, con una spilla tondeggiante al centro del petto e un paio di orecchini altrettanto orrendi ai lobi; più in generale, una signorina vestita con abiti eleganti ma di materiali scadenti per imitare le ultime tendenze (tanto assurde quanto le uniformi). Una ragazza con dei riccioli biondi non suoi ma provenienti con ogni probabilità dalla testa di una contadina bavarese. Una giovane donna rispettabile, certo, ma non di famiglia altolocata. Una il cui padre avrebbe potuto essere un sellaio o un locandiere. Una ragazza probabilmente impegnata nella ricerca di un marito. Se davo quell’impressione grazie alla suddetta “spilla”, al girocollo a collarino, ai molti fiocchi e all’esagerata parrucca che portavo, allora il mio travestimento era riuscito.
«È un piacere fare la sua conoscenza, signorina Meshle.» Il dottor Watson, ovviamente, si era già tolto il cappello, ma, com’era giusto, aveva aspettato a stringermi la mano solo dopo aver rimosso i guanti e averli affidati al valletto assieme al suo bastone da passeggio.
«Per favore, si sieda.» Indicai una poltrona. «Si avvicini pure al focolare. Si muore di freddo fuori, vero?»
«È spaventoso. Non ho mai visto uno strato di ghiaccio sul Tamigi così spesso da poterci pattinare.» Mentre parlava, si sfregò le mani e le tese verso il fuoco. Questo, pur provandoci, non riusciva a scaldare granché la stanza, e invidiai all’ospite la sua accogliente poltrona imbottita. Per qualche ragione il freddo e l’umido non mi avevano turbata così tanto prima di venire a Londra, dove avevo già visto un mendicante – o quantomeno i resti del suo corpo – incollati al suolo ghiacciato.
Dopo aver ripreso il mio posto sulla scomoda sedia di legno alla scrivania, mi ingobbii ancora di più sotto allo scialle, mi sfregai anche io le mani (congelate nonostante i guanti fatti a mano dai quali spuntavano le dita), poi afferrai un blocchetto per appunti e una matita. «Dottor Watson, mi dispiace che il dottor Ragostin non sia in ufficio. Sono sicura che sarebbe molto lieto di incontrarla. Lei è lo stesso dottor Watson che lavora in società con il signor Sherlock Holmes, non è vero?»
«Sono io.» Educato, perfino umile, mi guardò negli occhi mentre mi parlava. «Ed è proprio per conto del signor Holmes che sono qua.»
Il cuore iniziò a battermi con una forza tale da farmi temere che il mio visitatore potesse sentirlo. Non potevo più illudermi che fosse una fortunata – o sfortunata – coincidenza ad aver portato quell’uomo da me.
Qui, a consultare l’unico trovatore professionista di cose, e persone, smarrite.
Ma cercai di apparire semplicemente educata, con il corretto accento medio-borghese e la giusta commistione tra efficienza impiegatizia e ossequiosità. «Ah, sì?» Mi misi in posizione per prendere appunti, e chiesi: «In quale guaio si trova il signor Holmes?»
«Signorina Meshle, sono certo comprenderà che preferirei attendere di parlare a tu per tu con il dottor Ragostin.»
Sorrisi. «E io sono certa comprenderà, dottor Watson, che il mio compito è quello di raccogliere le informazioni preliminari, in maniera da risparmiare il prezioso tempo del dottor Ragostin. Sono la rappresentante legale del dottor Leslie Ragostin… anche se non ho il diritto di prendere decisioni, ovviamente» specificai, al fine di tranquillizzare la sua naturale diffidenza verso il genere femminile. «Ma fungo spesso da occhi e orecchie per conto suo. Proprio come fa lei per il signor Sherlock Holmes» aggiunsi, nel tentativo di persuaderlo ma cercando di non farlo in maniera evidente. Provando a non far trasparire la voce che dentro di me supplicava: Per favore. Per favore, devo sapere se ho indovinato cosa la porta qui.
«Ehm, sì» disse il dottor Watson con una punta di incertezza. «Più o meno.» Aveva davvero degli occhi buoni, ancora di più quando era preoccupato. «Ma non sono sicuro… La questione è delicata… Vede, Holmes non sa della mia visita.»
Ma… ma allora non viene per conto di mio fratello?
Il mio cuore si calmò un po’, ma sentii una fitta al petto.
Con tono più dimesso, dissi al dottor Watson: «Può star certo della mia assoluta discrezione».
«Ma certo.» E quasi come se il mio aver perso interesse avesse convinto quell’anima in pena a liberarsi del suo fardello, afferrò i braccioli della poltrona e iniziò a raccontare.
«Lei senza dubbio sa che per diversi anni sono stato il coinquilino del signor Sherlock Holmes all’inizio della sua incredibile carriera, ma dato che ora sono sposato e nella vita faccio il medico, lo vedo molto meno di prima. Tuttavia, non mi è sfuggito che dall’estate scorsa è diventato più inquieto, e negli ultimissimi mesi mi è parso addirittura sconvolto, al punto che non mangia come dovrebbe e non dorme. Sono preoccupato per lui non solo come amico ma anche come medico. Ha perso peso, ha un colorito malaticcio, ed è diventato malinconico e irritabile.»
China sulla scrivania, intenta ad annotare per conto del “dottor Ragostin” tutto quello che stava dicendo, riuscii a evitare lo sguardo del dottor Watson. Era un bene, perché ero sicura di non riuscire a nascondere la mia costernazione. Mi salirono le lacrime agli occhi. Mio fratello, la lucida razionalità fatta a persona, sconvolto? Inappetente e insonne? Non avevo idea che fosse in grado di provare emozioni così profonde. Men che meno nei miei confronti.
Il dottor Watson proseguì: «Anche se gli ho chiesto più volte cosa lo turbi, lui nega di avere alcun problema, e quando ieri ho insistito per avere una risposta, si è arrabbiato a tal punto e in maniera così strana per lui – un uomo dall’autocontrollo d’acciaio –, così irrazionale, che per il suo bene mi sono sentito in dovere di prestare ascolto alle mie preoccupazioni, che gli piacesse o meno. Di conseguenza, mi sono recato da suo fratello, il signor Mycroft Homes…»
Ivy Meshle, mi resi conto, non avrebbe dovuto sapere nulla del fratello di Sherlock Holmes. Per cui lo interruppi: «Mi perdoni, come si scrive il suo nome?»
«È un nome strano, è vero.» Watson me lo dettò, mi diede l’indirizzo di Mycroft a Londra, e proseguì: «Dopo qualche esitazione, Mycroft Holmes mi ha spiegato che lui e Sherlock sono accomunati dalla singolare sfortuna di non riuscire a localizzare la propria madre. E non solo la madre, svanita senza lasciare traccia, bensì anche la sorella minore. Due membri della famiglia – gli unici a loro rimasti, peraltro – sono scomparsi.»
«È terribile» mormorai, continuando a tenere gli occhi bassi. Non mi sentivo più incline al pianto; avevo invece voglia di sorridere. Anzi, avrei volentieri riso in faccia a mio fratello Mycroft, molto più anziano di me, che mi avrebbe voluta trasformare in una smorfiosetta. Faticai a mantenere un’espressione compassionevole, come si addiceva alla situazione, impersonando il ruolo di una persona del tutto ignara della questione. «Rapite?»
Il dottor Watson scosse la testa. «Non ci sono state richieste di riscatto. No, sono fuggite.»
«Scioccante.» Ricordai che non ero al corrente di nulla. «Se ne sono andate assieme?»
«No! In due momenti differenti. La madre è scomparsa l’estate passata, mentre la ragazza è scappata quasi sei settimane più tardi, un momento prima di essere mandata in collegio. Se n’è andata da sola. Credo sia per questo che Holmes ha preso la questione tanto a cuore. Se la ragazza fosse con sua madre, vede, potrebbe disapprovare, ma saprebbe che la sorella è al sicuro. Tuttavia, pare che la fanciulla – che è ancora piuttosto piccola – sia arrivata a Londra per conto proprio!»
«Una bambina, intende?»
«Ha solo quattordici anni. Mycroft Holmes mi ha detto che lui e il fratello hanno ragione di credere che la ragazza disponga di una somma di denaro considerevole…»
Mi irrigidii, attraversata da una scarica d’ansia. Come accidenti potevano averlo indovinato?
«…e temono si sia travestita da gentiluomo ozioso…»
Mi rilassai, perché non potevano essere più distanti dalla verità. Sperai di non dovermi mai abbassare al cliché teatrale di travestirmi da maschio. Anche se non mi limitavo certo a impersonare Ivy Meshle.
«…e che in quelle vesti possa venire esposta a influenze decadenti» stava dicendo il dottor Watson «e trovarsi invischiata in una vita di malaffare.»
Di malaffare? Non avevo la minima idea di cosa fosse, ma annotai diligentemente l’espressione. «I signori Holmes hanno qualche motivo di pensare tutto ciò?» chiesi.
«Sì. La madre era, o forse è ancora, una suffragetta convinta, e purtroppo sembra che anche la ragazza sia fatta di una stoffa poco femminile.»
«Davvero. Che triste.» Sollevai lo sguardo per osservarlo da sotto una frangia vaporosa di capelli finti, sbattei le ciglia finte e gli sorrisi con delle labbra leggermente truccate; a dire il vero mi ero data su tutto il viso un tocco di una scandalosa sostanza chiamata “belletto” per trasformare la tinta giallastra, aristocratica, della mia pelle in un colorito più roseo, sano e ordinario. «Potrebbe fornire al dottor Ragostin una foto della giovane?»
«No. E nemmeno della donna. Sembra che entrambe abbiano evitato di farsi ritrarre.»
«Perché mai?»
Sospirò, e l’espressione del suo viso perse per la prima volta un po’ della sua bonarietà. «Suppongo sia dovuto al loro sprezzo assoluto per le leggi della natura femminile.»
«Potrebbe gentilmente darmi i loro nomi e descriverle?»
Mi dettò i nomi: lady Eudoria Vernet Holmes, signorina Enola Holmes. (Mamma si era rivelata una veggente quando mi aveva chiamata Enola che, letto al contrario, in inglese significa “sola”).
Il dottor Watson disse: «Da quanto mi è stato detto, è più la ragazza a dare nell’occhio, tra le due. Piuttosto alta e magra…»
Stavo provando a prendere peso, ma fino a quel momento non avevo avuto successo a causa dei pasti serviti dalla mia frugale affittacamere: zuppe fatte con le teste di pesce e stufati a base di teste di pecora.
«…con il viso allungato, un naso e un mento prominenti, ehm, volevo dire, ciceroniani…»
Un modo assai delicato per dire che assomigliavo fin troppo a mio fratello Sherlock. Avendo per il momento fallito nel mio intento di ingrassare, inserivo all’interno della bocca, uno per guancia, dei congegni di gomma pensati per riempire in realtà un’altra parte innominabile della persona. Quelli, assieme ad alcuni dilatatori per le narici, alteravano assai la forma del mio viso.
«…e un corpo spigoloso, per lo più carente di fascino femminile» continuò il dottor Watson. «Ha dimostrato di preferire gli abiti da uomo e le attività da maschiaccio, cammina a grandi falcate mascoline, e, più in generale, potrebbe perdere ogni speranza di accedere alla buona società, se non la troviamo presto.»
«E la madre?» chiesi per cambiare argomento prima di scoppiare a ridere.
«Sessantaquattro anni d’età, ma sembra molto più giovane. Fisicamente non presenta segni particolari, ma in quanto a carattere è risoluta e ostinata. È un’artista di talento ma purtroppo ha rivolto le sue energie a sostenere i cosiddetti diritti delle donne.»
«Ah. Vorrebbe portare i pantaloni?»
Sorrise al mio apparente disdegno nei confronti di tali riformatrici. «Molto probabile. È una sostenitrice del cosiddetto “abito razionale”.»
«E non vi è alcun indizio su dove potrebbe trovarsi?»
«Nessuno. Ma come ho già detto si pensa che la ragazza sia a Londra.»
Posai la matita e sollevai gli occhi a guardarlo. «Molto bene, dottor Watson, informerò il dottor Ragostin dei particolari. Ma la devo avvisare che con ogni probabilità non accetterà questo incarico.» Il mio primissimo incarico, un dilemma: trovare me stessa? Non potevo assolutamente accettarlo.
«Perché mai?»
Avevo già pensato a una risposta. «Perché non vuole avere a che fare con intermediari. Domanderà perché il signor Sherlock Holmes non sia venuto qui di persona…»
Il dottor Watson mi interruppe con un certo fervore, anche se la sua agitazione non era diretta a me. «Perché Holmes è troppo riservato, troppo orgoglioso. Se non dice nemmeno a me il motivo del suo turbamento, pensa che si confiderebbe con un estraneo?»
«Magari con un collega investigatore» rimarcai placida.
«Ancora peggio. La riterrebbe un’umiliazione trovarsi alla presenza di…» Il dottor Watson s’interruppe bruscamente, poi chiese: «A tal proposito, in effetti viene da chiedersi, chi è il dottor Ragostin? Mi perdoni, signorina, ehm…»
«Meshle.» Si prenda il nome Holmes, si invertano le sillabe – Mes Hol – e lo si scriva come lo si pronuncia, Meshle; assurdo nella sua semplicità. Eppure non l’avrebbe mai indovinato. Né lui, né nessun altro.
«Signorina Meshle. Non la prenda come un’offesa, ma ho chiesto in giro e nessuno ha mai sentito nominare il dottor Ragostin. Sono venuto qui solo perché sostiene di essere specializzato nel ritrovamento di persone scomparse…»
«Di qualsiasi cosa scomparsa» m’intromisi.
«Ma non ho trovato nessuno che possa garantire per lui.»
«Perché è solo agli inizi, proprio come lo era un tempo il suo amico. Il dottor Ragostin non si è ancora fatto un nome. Ma le interesserà sapere che è un discepolo entusiasta del metodo del signor Sherlock Holmes.»
«Ah, sì?» Watson sembrò ammansirsi.
«Sì. Venera il signor Holmes, e rimarrà a bocca aperta quando verrà a sapere che il suo eroe non è stato in grado di rintracciare lui stesso la madre e la sorella scomparse.»
Sedendosi sull’orlo della poltrona come se fosse all’improvviso diventata scomoda, il dottor Watson si schiarì la gola. «Suppongo sia perché Holmes di norma non si interessa di casi di questo tipo» disse lentamente. «Li trova banali e monotoni, e di solito non li accetta. Proprio ieri» aggiunse «entrando da Holmes, mi sono imbattuto in sir Eustace Alistair e lady Alistair, che erano stati da lui per pregarlo di investigare sulla scomparsa della figlia, e lui li ha mandati via con una lavata di capo.»
Ignorai l’impossibilità logica di lavare lo stesso capo a due persone, perché ero rimasta del tutto catturata dalla sostanza di quanto mi aveva riferito. «Sir Eustace Alistair? Sua figlia è scomparsa? Ma non ho visto nulla sui giornali…»
Watson alzò la mano alla bocca e tossì. «Il fatto è stato messo a tacere per prevenire scandali.»
Temevano che la ragazza fosse scappata con un amante allora.
Dovevo investigare. Sapevo che il dottor Watson non mi avrebbe detto altro – pensava di avermi già rivelato troppo – ma alla fin fine mi aveva davvero portato il mio primo caso. Avrei trovato la figlia scomparsa del baronetto.
Watson si alzò con un’espressione per nulla felice; il colloquio era giunto al termine. Afferrando la corda del campanello, suonai affinché Joddy venisse ad accompagnarlo alla porta.
«Vorrei incontrare il dottor Ragostin di persona prima che decida di agire» mi disse Watson.
«Certo. Il suo indirizzo? Il dottor Ragostin la contatterà non appena avrà esaminato i miei appunti» mentii.
Dopo essermi appuntata l’indirizzo, mi alzai e accompagnai il mio ospite alla porta.
E dopo che se ne fu andato, occupai la poltrona accanto al fuoco che aveva appena liberato e, paradossalmente, iniziai a tremare.