Per fortuna non avrei potuto avere una reazione più spaventata rispetto a quella che già traspariva dal mio comportamento sovraeccitato… non dal mio volto, però, che continuava a essere nascosto da uno spesso velo nero.
E per fortuna l’attenzione di Sherlock, come quella del dottor Watson, era del tutto assorbita dalla forma esanime, forse anche senza vita, della ragazza accasciata accanto a me.
«Santo cielo!» A grandi passi, Watson mi venne incontro e sollevò lady Cecily come se fosse una bambina da cullare. La trasportò quasi di corsa all’interno della biblioteca calda e ben illuminata.
Seguendolo, mio fratello chiese: «Respira?»
«A malapena.»
Era viva, allora. Non appena lo seppi, mi venne un capogiro improvviso, tutto il mio corpo si alleggerì, come se potesse galleggiare: tale era il fardello che mi era stato levato di dosso.
Il dottor Watson distese la ragazza sul divano di pelle e le cinse il polso con le dita esperte. «Ha il battito debole. Brandy, Holmes!»
Mio fratello stava già attraversando la stanza per prendere il decanter, dandomi la schiena. La domestica si trovava a qualche metro da me, aggrappata al pilastro centrale della tromba delle scale come se stesse per svenire. In quel momento avrei potuto semplicemente voltarmi, uscire dalla porta e sgattaiolare via nell’oscurità.
Sapevo che avrei dovuto farlo. Non avevo ragione di rimanere. Lady Cecily avrebbe ricevuto le cure di cui aveva bisogno.
E avevo tutte le ragioni per andarmene. L’attenzione del dottor Watson, o quella del suo amico, si sarebbero potute dirottare su di me; mio fratello avrebbe potuto riconoscermi. Inoltre, in qualsiasi momento, lady Cecily avrebbe potuto riprendere i sensi e pronunciare il mio nome, che come una sciocca le avevo rivelato.
Ogni nervo del mio corpo mi disse di fuggire.
Invece, come una grossa falena nera attirata dalla fiamma di una candela, entrai a mo’ di spettro nella stanza assieme agli altri.
Con mio fratello.
Con la ragazza che desideravo avere come amica.
Con il paterno dottor Watson.
Inginocchiandosi di fianco alla sua paziente, dopo aver rimosso la corda dal suo collo, Watson esclamò: «Che genere di bruto tenterebbe di strangolare una mendicante!» Chiamò verso l’entrata: «Rose, vai a chiamare la polizia!»
Rose, immaginai, era la cameriera, che si era forse ripresa abbastanza da rispondere, o forse no.
Sopraggiunto al fianco di Watson con il brandy, Holmes disse: «Non è una mendicante. Guarda i suoi denti. Se n’è presa cura tutta la vita».
Waston non rispose subito, mentre le somministrava il liquore.
«Guarda la sua pelle, i suoi lineamenti. La nostra paziente è una dama.»
«Se è così, allora cosa fa con questi…»
Mio fratello lo interruppe imperioso: «Qui c’è un mistero da risolvere». Come un falco, si voltò verso di me che esitavo all’entrata della biblioteca, a non più di tre metri da lui. Il suo sguardo grigio acciaio si fissò sul mio mantello sudicio, e le sue sopracciglia si inarcarono di colpo: «È sangue quello?»
Suppongo che sui miei vestiti neri imbrattati di fanghiglia e alla fievole luce delle lampade a gas non potesse essere facile capire cosa fossero quelle macchie bagnate.
«Sangue?» Dopo aver sollevato lo sguardo per vedere di cosa stesse parlando Holmes, anche il dottor Watson mi osservò, poi all’improvviso si alzò. «Signora, è ferita?»
In realtà ero davvero ferita: avevo il viso ammaccato e dolorante nel punto in cui Alexander Finch mi aveva colpita. Ma scossi il capo velato per indicare di no.
Di nuovo: sarei potuta fuggire, sarei dovuta fuggire, ma un desiderio funesto mi teneva inchiodata al posto.
Il dottor Watson mi chiese: «Perché non parla?»
«La sorella delle strade è muta, così ho sentito dire» disse Sherlock al suo amico, senza fissarlo; il suo sguardo grigio rimase inchiodato su di me, come per trapassarmi il velo.
«O forse è ferita e in stato di shock» ribatté Watson. «Quello assomiglia davvero a sangue. A tanto sangue.»
«Ci mancano elementi per arrivare a qualsiasi conclusione» disse Sherlock, e si mosse verso di me per investigare.
Trassi di colpo il pugnale.
Mio fratello si fermò sul posto, a non più di due metri da me. Tutto sembrò fermarsi nello stesso momento in cui lo minacciai con la mia lama d’acciaio affilata, tagliente come un rasoio. Anche il ticchettare dell’orologio sembrò bloccarsi. Ricordo l’assoluta immobilità, il silenzio più totale.
La punta argentea del coltello era velata di rosso.
Il silenzio si protrasse, poi s’infranse. Fu Watson a parlare, la voce un po’ tirata: «Non penso sia il suo sangue, Holmes».
«Mi piacerebbe sapere di chi è» mormorò il grande detective. Poi tese le mani verso di me in segno di pace ma anche per acquietarmi, e cominciò a protestare o a tentare di persuadermi: «Mia cara sorella…»
La sua cara sorella.
Quelle parole… che strano effetto ebbero su di me.
«Non mi trattare con sufficienza!» Riconobbi appena la mia stessa voce, distintiva, aristocratica, mentre sbottava, come non avrebbe mai dovuto fare, da sotto il velo. «Non ho bisogno di aiuto. Lady Cecily, invece…» Con un gesto della mia arma indicai la ragazza ancora svenuta sul divano. «…figlia di sir Eustace Alistair, richiede cure che io non posso darle.» Anche se, con ogni probabilità, non le avrebbe mai ricevute, le cure per l’alienazione della sua psiche, per il suo mancinismo segreto. Ma se stava per arrivare la polizia, non avevo tempo per le spiegazioni. Proseguii: «Il delinquente che l’ha strangolata…»
Con la voce incantata e incrinata per – per l’incredulità, suppongo – mio fratello mi interruppe: «Enola?» Il suo viso era diventato pallido e affilato come una raffinata incisione nel marmo.
«Stai zitto e ascolta.» Non c’era tempo per i melodrammi; dovevo finire di parlare. «Per favore, presta attenzione a ciò che ti sto dicendo. Lo strangolatore è Alexander Finch, un giovane che dopo aver trovato il modo di fare amicizia con la signora, l’ha mesmerizzata e rapita. Si maschera da propagandista della classe operaia e si fa chiamare Cameron Shaw. Troverete il suo costume per strada, e con ogni probabilità troverete lui da qualche chirurgo o all’ospedale, segnato dalle ferite del mio coltello.»
Potevo solo sperare che il dottor Watson avesse prestato attenzione a quello che avevo detto, perché mio fratello, chiaramente, non l’aveva fatto.
Rispose più o meno come aveva fatto prima: «Enola?»
Dopo aver fatto tutto ciò che potevo per il bene della giustizia, addolcii considerevolmente il tono: «Mio caro fratello, per favore, mettiti il cuore in pace per quanto mi riguarda. Il giorno in cui ho preso dalla tua scrivania il mio libriccino di messaggi in codice, hai per caso trovato un mio fazzoletto avvolto attorno a una mezza cipolla?»
Vedete, desideravo convincerlo che le lacrime che avevo versato non erano state altro che una recita. Per rassicurarlo.
Ma lui non sembrò comprendere il mio ragionamento. Si sporse verso di me, i lineamenti di alabastro accesi da un’emozione che riusciva a malapena a controllare. «Enola, sii ragionevole. Non puoi continuare a comportarti in questo modo sciocco, sola, senza una guida, testarda!»
Il dottor Watson mi guardava sbigottito. Sembrò sul punto di dire qualcosa – come temevo avrebbe fatto – ma un movimento e un gemito di lady Cecily richiamarono la sua attenzione.
Si sarebbe ripresa. Con una stretta al cuore, abbandonai ogni speranza di diventarle amica; dovevo accontentarmi di sapere che adesso era al sicuro.
E sperare che un giorno avrebbe trovato la libertà. Come l’avevo trovata io.
«Sherlock» dissi piano e seria a mio fratello «me la sto cavando molto bene da sola, grazie.»
«Intendi dirmi che stai bene?»
«Esatto. Anche se» rimarcai «sono un po’ preoccupata per nostra madre, non ho ancora avuto risposta al mio ultimo messaggio.»
«Dimmi dov’è, allora, e io la troverò!»
Ah! Allora non sapeva proprio tutto! Risposi: «Non sarebbe la sua volontà, indipendentemente dalle circostanze».
«E tu, Enola? Intendi seguire il suo esempio ribelle? Ti succederà qualcosa!»
«Mio caro Sherlock» gli dissi quasi con tenerezza, anche se tenevo ancora in mano il pugnale, pronta ad allontanarlo se si fosse avvicinato. «La cosa peggiore che potrebbe accadermi sarebbe di perdere la mia libertà, essere costretta a una vita convenzionale di lavori domestici e matrimonio.»
«Non puoi certo essere seria. La vocazione di ogni donna che si rispetti è di occupare il proprio posto nella società.» Fece un passo verso di me.
Lo fermai con un gesto della mia arma. «Non ti avvicinare, ti avverto.» In realtà non avrei mai potuto fargli del male, ma mi conosceva così poco che si arrestò.
«Non posso credere a una parola di quello che mi stai dicendo, mia cara sorella» mi implorò perfino. «Fammi vedere il tuo volto.»
Era il minimo che potesse chiedermi, ma non potevo farlo; il dottor Watson avrebbe potuto riconoscere Ivy Meshle. «No.» Nello stesso momento realizzai che si trattava di uno stratagemma per distogliere la mia attenzione dall’arma; per sollevare un velo, infatti, si devono usare due mani. «No, mio astuto fratello, penso proprio di no.» Il mio tono rimase comunque dolce; sperai riuscisse a cogliere nella mia voce l’affetto che provavo per lui. «Me ne vado, adesso. Per favore porta i miei migliori auguri a Mycroft…»
Un gran picchiare risuonò dietro di me alla porta. Abbassando subito il coltello, lo nascosi tra le pieghe del mantello, mi voltai e mi fiondai fuori dalla biblioteca, proprio mentre la domestica e un agente di polizia entravano barcollanti per la porta principale.
«Fermatela!» gridò mio fratello, ma la domestica, alquanto agitata, stava strattonando il poliziotto verso il punto in cui giaceva lady Cecily, e prima che Sherlock potesse gridare per la seconda volta io ero sfrecciata fuori dall’edificio, correndo lungo la strada.
«Fermatela!» La voce di mio fratello riecheggiò come un corno nella notte.
Sentii degli inseguitori alle mie spalle, i passi pesanti del poliziotto e la falcata più ampia e leggera di Sherlock.
Braccata come una preda, superai con un balzo una ringhiera di ferro e atterrai in un seminterrato riservato ai domestici. Fuggendo per aver salva la vita – essere privata della mia libertà mi avrebbe uccisa –, sbucai dall’uscita sul retro e di lì attraversai un labirinto di capanni per attrezzi, officine e recinzioni per animali che si ergevano dietro agli edifici. Mi fermai un attimo in una rimessa per carrozze per riprendere sia il fiato che la ragione, e udii mio fratello parlare con l’agente di polizia; poi sentii il secondo fermarsi alla postazione telefonica all’angolo della strada. Oh, che meraviglia. In pochi istanti avrei avuto tutti i poliziotti di Londra alle calcagna.
«Portami una lanterna» ordinò a qualcuno la voce imperiosa di mio fratello. «Non può essere andata lontana.»
Uscii di corsa dall’altro lato della rimessa e proseguii alla cieca, i miei pensieri frenetici, disperati: Sherlock avrebbe perquisito ogni scuderia, ogni stalla, gli angoli di ogni fabbricato, mentre la polizia avrebbe perlustrato le strade; non c’era luogo dove nascondermi.
Il mio mantello nero, lo scialle e il velo, il mio abito mi rendevano un bersaglio, ora e per sempre; dovevo sbarazzarmene.
Ma poi cosa avrei fatto? Sarei corsa a casa nella mia biancheria di flanella rossa?
Per cambiare aspetto e sfuggire ai miei inseguitori, dovevo trovare un nascondiglio.
Ma dove potevo andare, con ogni uomo contro di me?
E con ogni donna alla mercé di un uomo?
Poiché avevo scelto di non accettare il destino delle altre donne, avrei dovuto vivere per sempre così? Perennemente in fuga, nascosta, sfuggente, mascherata? Enola, sola?
Non permisi a me stessa di rispondere a quella domanda, sforzandomi invece di pensare a cosa fare in quel momento, mentre sbucavo in una via principale e la attraversavo come una scheggia. Si trattava di un luogo dove ero già stata.
Baker Street.
Ma certo.
I miei piedi, apparentemente più intelligenti della mia testa, mi avevano portata nell’unico posto dove mio fratello non mi avrebbe cercata.
Con un’energia nuova, nata dalla speranza, accelerai verso il numero 221, poi guizzai dietro alla casa. Durante la mia precedente visita, avevo notato che nel piccolo cortile sul retro cresceva un unico albero, di quelli nodosi, un Platanus acerifolia. Mi arrampicai senza alcun problema per quel tronco meraviglioso, dopodiché, con qualche semplice manovra, atterrai sul tetto della veranda della cucina.
Appena in tempo. Mentre sedevo boccheggiante, due poliziotti passarono sul marciapiede opposto di Baker Street. Uno stava gridando all’altro: «Una ragazza vestita da suora, dice il sergente».
«Con un coltello, ho sentito, e fuori di sé» rispose l’altro. «Difficile da credere, ma dicono sia pericolosa.»
«È l’isteria» disse l’altro saggiamente. «Un’afflizione comune del suo sesso.»
Mi chiesi se fosse quello che pensava Sherlock di me. Fuori di sé. Isterica.
Sì, era molto probabile.
Dopo essermi tolta gli stivali per non fare rumore, zampettai lungo il tetto fino alla finestra che pensavo conducesse alla camera di mio fratello. La toccai delicatamente e quella si aprì con facilità; come mi aspettavo, non era stata bloccata. Sherlock, dopotutto, era pur sempre figlio di mia madre e dormiva in maniera salutare, facendo entrare l’aria fresca notturna.
M’intrufolai all’interno e chiusi la finestra dietro di me, immaginando già come avrei frugato nel suo armadio alla ricerca di qualcosa da indossare. Sapevo che aveva molti travestimenti. A volte si era persino fatto passare da donna anziana. Mi sarebbero bastati una gonna, uno scialle e un cappello qualsiasi.
Dopodiché avrei aspettato e mi sarei riposata finché non avessi sentito la porta di sotto aprirsi, quindi sarei sgattaiolata fuori allo stesso modo in cui ero entrata.
Sapevo che non mi sarei mai più potuta travestire da sorella di carità.
Mi chiesi se avrei ancora potuto indossare i panni di Ivy Meshle. Forse no. Holmes e Watson avrebbero senza dubbio discusso gli eventi della serata, e il buon dottore avrebbe potuto confessare di aver fatto visita al “dottor Ragostin”.
Mi chiesi se avrei mai più visto lady Cecily.
Con ogni probabilità no.
L’unico modo che avevo per restare al sicuro e rimanere libera era essere… essere quello che il mio nome aveva decretato per me. Enola. Sola.
Mentre gettavo altra legna nel focolare del numero 221 di Baker Street, fui pervasa da tutto il dolore di quel pensiero, ma c’era anche di che consolarsi: che lo sapesse o no, che gli piacesse o meno, mio fratello Sherlock mi stava fornendo tutto il riparo che una famiglia potesse offrire. Mi stava dando un rifugio.