5. Stile di personalità tendente ai disturbi alimentari (tDA)

Nel capitolo precedente abbiamo visto che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, la mediazione tecnologica non solo modifica l’esperienza percettiva attraverso un’accelerazione di mutamento dei contesti (tecnologie della velocità), ma introduce man mano nuove fonti di senso, nuovi modelli di referenza, che forniscono l’ancoraggio per generare e mantenere la propria identità (tecnologie della trasmissione dell’informazione e della riproduzione dell’esperienza). L’impatto dello sviluppo tecnologico sulla vita degli uomini produce cioè un nuovo «modo di conformità» caratterizzato dal fatto che la percezione di sé emerge simultaneamente e in sintonia con la percezione di una sorgente di senso. Nella seconda metà dell’Ottocento, la diffusione di questo nuovo modo di essere che va di pari passo con l’evoluzione tecnologica, comincia ad apparire anche nelle belles lettres. È Flaubert che ne articola con più chiarezza i tratti a partire da Madame Bovary – moglie insoddisfatta di un medico di campagna, continuamente alla ricerca di un’identità che corrisponda alla vita fantastica che lei sogna – fino allo scritto pubblicato a titolo postumo Bouvard et Pécuchet – dove i due protagonisti trasformano picarescamente la propria identità in relazione al mutare del campo d’interesse che, dopo essere stato abbracciato con entusiasmo all’inizio, viene ogni volta sostituito dopo la prima disillusione.

La stessa tensione che attraversa i personaggi di Flaubert, qualche tempo dopo s’intravede anche nell’ambito della letteratura nordeuropea. Sin dall’inizio traspare nei protagonisti di questi racconti – Nora della Casa di bambola di Ibsen (1879), Niels Lyhne dell’omonimo romanzo di Jacobsen, Julia e Laptev di Tre anni di Čechov o anche il signor M. dell’Uomo di carattere di Rilke – un’inquietudine che scaturisce da una lacerazione che attraversa l’identità. È la stessa inquietudine che aveva abitato Diderot nella seconda metà del Settecento dando forma allo straordinario protagonista del Neveu de Rameau. E dunque, se la mia esperienza prende forma a partire dall’alterità, se l’altro è il modello (o il modo di essere) a cui corrispondere per accedere a sé, il dilemma di fondo riguarda allora il sentirsi autore della propria storia e/o degli episodi della propria vita o invece l’avvertirsi attore di un testo scritto da altri. Rilke lo riassume in un brevissimo schizzo del 1895-96, Un uomo di carattere, con l’ironia del poeta che si cimenta con la narrazione. Il racconto si apre durante il funerale del protagonista in un uggioso giorno di pioggia mentre due signori, che fanno parte del corteo funebre, passando silenziosamente in rassegna la vita del defunto, commentano: «un uomo di carattere». È questa l’occasione colta da Rilke per dare il titolo al breve racconto che tratteggia tutta la vita di M., uomo di carattere.

Il piccolo M. era nato in una famiglia agiata da un padre commerciante e da una madre virtuosa. Dopo la prima infanzia, «quando le mani smisero di raspare sul pavimento preferendo intrattenersi nella bocca e nel naso», iniziarono gli alberi di Natale e le esposizioni pubbliche. Il bambino veniva chiamato un paio di volte a settimana nel salotto buono dove veniva ammirato, accarezzato, lodato e dove in molti pronunciavano la solenne profezia che M. da lì a poco si sarebbe mostrato bravissimo anche a scuola. In effetti il piccolo, che aveva più volte ascoltato questa espressione chiaroveggente, fin dalle scuole elementari e poi man mano fino all’università, senza sforzo e inconsapevolmente fu all’altezza di quelle aspettative. Finì così nella ditta del padre. Poiché il genitore era ormai invecchiato si cominciò a spargere la voce che il giovane M. sarebbe diventato il nuovo responsabile dell’azienda. Ciò avvenne da lì a poco, dopo la morte del padre.

Cominciò intanto a vociferarsi – così M. apprendeva dagli amici – che il nuovo padrone avesse in mente grandi progetti. M., stupito da quanta capacità gli fosse attribuita, cominciò a realizzare effettivamente le imprese che la gente gli attribuiva, traendone notevoli vantaggi economici. Passarono gli anni. Un giorno giunse alle sue orecchie una nuova voce che lo voleva fidanzato con una giovane a cui egli, quasi involontariamente, rivolse la sua attenzione e che in poche settimane sposò.

Nella città, la buona società aveva progettato la realizzazione di un teatro comunale per la cui costruzione mancavano però i fondi. In un baleno, come un temporale primaverile dice Rilke, si diffuse la voce che M. aveva deciso di finanziare la realizzazione del teatro. Una delegazione guidata dal sindaco si recò a fargli visita per ringraziarlo della sua generosità. M. sconcertato, intuì il senso di quella visita, e per un attimo pensò di non versare l’ingente somma necessaria all’opera… ma fu solo un attimo perché gli venne in mente che quel gesto avrebbe potuto nuocere alla sua reputazione e alle fortune della sua ditta. Intanto la città cominciò ad aspettarsi l’annuncio di un lieto evento. Sguardi indiscreti erano furtivamente lanciati verso la giovane moglie per cogliere qualche segno di una possibile gravidanza. M. cercò con tutte le sue forze di non deludere le aspettative della gente. Ma questa volta la sorte lo tradì. Il figlio non arrivava. Allora si cominciò a sussurrare in città che forse sarebbe stato necessario ricorrere alle cure termali. M. fece sua la pubblica opinione, ci dice Rilke; dalla cura la signora tornò incinta. La sua fama crebbe e si diffuse e da più parti si parlò di un pubblico riconoscimento che M. non esitò a conseguire: seguirono quindi il discorso pubblico, il distintivo, le congratulazioni. L’inverno successivo, durante un viaggio d’affari, M. contrasse un raffreddore che si aggravò trasformandosi in un’infezione polmonare. Le condizioni di salute peggioravano di giorno in giorno. Un mattino, il malato stremato dall’infermità fu svegliato da un vociare diffuso. Smarrito, chiese prima alla suora di carità che lo accudiva e poi al vecchio domestico cosa stesse accadendo. L’anziano servitore rispose che quella gente andava dicendo «che il signore è già morto». M. guarda stupefatto il vecchio. Poi si distende sul fianco sinistro e si addormenta… per sempre!

Era proprio un uomo di carattere, conclude laconico Rilke.

Il protagonista, il signor M., da quando bambino si regge sulle proprie gambe fino alla morte, genera la sua esperienza e la sua identità a partire dalle aspettative dell’altro. Qui, il fatto fondamentale è che l’essere se stessi, l’ipseità, è caratterizzata da un modo di avvertirsi che può prodursi solo attraverso la contemporanea centratura sull’alterità. È evidente che questa centratura può assumere differenti caratteristiche. L’alterità cioè può essere fonte di aspettative a cui dover corrispondere, ma anche polo di opposizione oppure una sorgente di emulazione o infine una commistione di queste forme. In ogni caso, però, l’alterità rimane il sistema di coordinate primario attraverso cui sentirsi situati: ed è proprio questo fatto che pone il problema dell’autorialità dell’esperienza in quanto il senso di sé si con-fonde con quello dell’altro.

Il fatto che il senso di sé sia avvertito a partire dalla sintonizzazione sull’alterità implica che l’altro rappresenta un punto focale da cui differenziarsi e contemporaneamente attraverso cui sentirsi. Sebbene questa con-fusione sia manifesta anche nei comportamenti oppositivi, essa è più evidente nei fenomeni mimetici perché in tal caso l’adesione all’alterità diventa indistinguibile da come ci si avverte.1 Mentre corrispondere all’altro diviene cioè il modo attraverso cui co-percepirsi, nello stesso tempo l’altro è il referente rispetto al quale distinguersi. Il rapporto con l’altro è il fulcro su cui prende forma la dialettica fra la determinazione di sé e la contemporanea demarcazione dall’altro la cui modulazione è rinegoziata in ogni circostanza significativa: in ogni accadimento, cioè, che rimette in gioco l’equilibrio fra il sentirsi autore della propria esperienza e la sua determinazione da parte di altri. Ciò è particolarmente evidente nello sviluppo del personaggio di Nora, la protagonista di Casa di bambola.

Nora, che da quando sposa Torvald vive come una moglie-bambola centrata sulle aspettative del marito, gli nasconde da lungo tempo un segreto. Per pagare un soggiorno in Italia necessario a salvarlo da una malattia mortale, essa ha contratto un debito a sua insaputa. Da ormai otto anni, Nora continua silenziosamente a fare risparmi giornalieri sulle sue spese personali o a svolgere lavoretti occasionali per mettere insieme i denari per pagare la rata trimestrale. Contemporaneamente, senza dar nulla a intendere, si comporta con Torvald come una bambina viziata e capricciosa.

Finalmente, grazie a un avanzamento di carriera del marito sembra prospettarsi una condizione economica più florida che le permetterebbe di saldare facilmente il debito. A questo punto entra in scena Krogstad, l’uomo che aveva prestato il denaro a Nora e che ora minaccia di ricattarla rivelando al marito non solo del debito, ma anche di un illecito commesso da lei per contrarlo. Krogstad, che non godeva della stima di Torvald di cui pure in gioventù era stato amico, per mantenere il segreto chiede a Nora d’intercedere presso il marito perché questi, quando otterrà la sua promozione, gli riconfermi l’impiego invece di licenziarlo. Nora è smarrita. Pensieri di morte le attraversano la mente alternati a tentativi di seduzione del marito per convincerlo ad aiutare Krogstad; tentativi che invece spingono Torvald a inviargli una lettera di licenziamento. Si prepara così il gran finale che si consuma fra due lettere. La prima in cui Krogstad ricatta Torvald e che rappresenta il punto di svolta del dramma. Torvald, disperato, con il senso di essere completamente in balia di Krogstad, dopo aver appreso dalla lettera il segreto che Nora aveva custodito per tanti anni, si scaglia contro di lei ricoprendola d’ingiurie e prospettandole un futuro in cui sarà privata sia del ruolo di madre che di quello di moglie.

Ma ecco che la cameriera porta una seconda lettera che Torvald legge intimidito e a cui reagisce dopo un attimo d’incredulità con un grido di gioia. Krogstad si pente delle sue azioni e restituisce la ricevuta che era stata l’arma del ricatto. Torvald, giubilante, brucia la prova dell’illecito mentre si prodiga in parole di comprensione e di perdono verso Nora. Qualcosa però è irrimediabilmente cambiato. È un’altra Nora quella che nelle pagine finali spiega a Torvald perché quell’evento ha messo fine al suo amore. Non più l’uccellino rumoroso e vivace dei primi due atti che come un animale domestico svolazza capricciosa intorno al marito, ma una donna risoluta che non esita ad abbandonare la famiglia dichiarando tutto il suo orrore per essere vissuta otto anni con un estraneo e per aver avuto da lui tre figli…

Quando stavo con babbo egli mi comunicava tutte le sue idee, e quindi quelle idee erano le mie. Se per caso ero di opinione diversa, non glielo dicevo, perché non gli sarebbe affatto piaciuto… Dalle mani di papà passai nelle tue mani. Tu regolasti ogni cosa secondo i tuoi gusti, e così il tuo gusto io lo condivisi. O forse fingevo, non so neanche io… Se ora mi guardo indietro mi sembra di aver vissuto qui come un mendicante alla giornata. Ho vissuto delle piroette che eseguivo per te, Torvald. Ma eri tu che volevi così. Tu e il babbo siete molto colpevoli verso di me. È colpa vostra se io non sono buona a nulla (1879, trad. it. 2006, p. 84).

È questo modo di vivere che Nora non accetta più; non sopporta più di essere la moglie-bambola di Torvald come era stata la figlia-bambola del padre. Vuole restare sola. Ma il punto fondamentale che genera quel cambiamento così radicale e repentino con cui si chiude il dramma è che Nora si rende conto che la scoperta del pericolo che la minacciava viene intesa dal marito invece che come un momento difficile della sua vita (di Nora), come un pericolo che stava correndo lui stesso. Comprende cioè che al senso che lei dà alla propria esperienza viene riconosciuto un valore solo se corrisponde alla volontà, ai desideri e alle aspettative del marito. Se si discosta da quelle determinazioni di cui il marito è autore non le viene più riconosciuta un’identità. È questa consapevolezza che porta Nora verso un’altra vita e che contemporaneamente le fa percepire Torvald come un estraneo. Dirà al marito che la supplica di restare: «Debbo esser sola per rendermi conto di me stessa e delle cose che mi circondano… Debbo riflettere col mio cervello per rendermi chiaramente conto di tutte le cose».

5.1 Co-percepire se stesso e l’altro

La dialettica fra demarcazione e contemporanea definizione di sé attraverso l’altro è un processo che trova sempre soluzioni temporanee poiché ogni evento può rimettere in gioco questo equilibrio che riguarda il sentirsi autori della propria esperienza. Le varie forme che questo stile di personalità può generare si articolano tutte nell’ambito di questa dialettica.

L’oscillazione verso un «eccesso» di demarcazione, che corrisponde a un forte senso di essere all’origine delle proprie scelte senza che sia co-percepita un’alterità definente, si accompagna alla percezione di ridimensionamento dell’autorialità dell’esperienza. E cioè, più una persona sente di aver preso un’iniziativa indipendentemente dagli altri, meno essa si avverte sicura. Per cui al percepirsi autonomi è associato un senso d’insufficienza, di poca rilevanza, di svalutazione o d’inautenticità. Concretamente, il compiere una scelta anche banale senza prendere l’altro a riferimento, come per esempio comprare un paio di scarpe, può accompagnarsi a un senso d’incertezza rispetto alla propria competenza, ai propri gusti o alle proprie necessità. Paradossalmente quindi, con il sentimento di essere l’origine del proprio agire, sentire e pensare è coniugato un senso di carenza percepito come incapacità o inadeguatezza, insicurezza o falsità.

L’altro, cioè, rimane presente nell’orizzonte esperienziale in via negativa, come assenza di convalida della propria esperienza, e quindi non ne consente la piena proprietà (Eigenschaften). Come se l’esperienza personale, privata della simultanea referenza all’altro, fosse comunque incompleta sia nel valore che nella qualità. Ciò genera un senso di sé molto più fluttuante e vago che si accompagna a un più intenso timore di proporsi. Un esempio abbastanza comune nella pratica psicoterapeutica è il senso d’insicurezza di giovani adolescenti che è spesso connesso alla latitanza delle figure significative di cui essi hanno bisogno, ma a cui è difficile o impossibile accedere.

Uno dei modi per regolare questo senso d’insufficienza personale è attraverso il corpo, che diviene così uno strumento per modulare la dimensione del confronto con l’altro. In questo senso il corpo è gestito come immagine in sintonia con le immagini alla moda. È il caso, per esempio, dell’adolescente iperseduttiva che utilizza la fisicità come mezzo per la ricerca dell’autonomia e insieme del consenso alternativo a quello familiare.

Il paradosso diventa più acuto quando l’alterità scompare completamente dal proprio orizzonte referenziale, come nella solitudine. La condizione emotiva con cui è sentito il proprio essere senza l’altro – attraverso cui ci si definisce e nello stesso tempo ci si demarca – è descritta come senso di vuoto, di spaesamento, di perdita di senso ed è spesso avvertita come un’afflizione: un vuoto che necessita di alterità ad ogni costo.

È quel paradosso che abbiamo già incontrato nel caso di Robert, di cui possiamo adesso cogliere la coerenza interna degli avvenimenti riportandola a una tipologia. Alla luce della dialettica tra la determinazione di sé e la definizione di sé attraverso l’altro si comprendono infatti l’uso «esistenziale» che fa Robert della tecnologia, il suo percepirsi distante quando prende forma un’intimità più intensa con Sara, la con-fusione delle reciproche vite fino al suo sentirsi svanire nel nulla.

E quasi in controluce, adombrata dalla storia di Robert, s’intravede, anche quella di Sara. Il suo essersi appropriata della vita di lui mimetizzandosi in essa e poi, forse per noia o forse per essere stata finalmente accettata da lui, la sua necessità di risintonizzarsi su nuove fonti di senso e infine, per uscire dalla co-esistenza con Robert, la sovrapposizione fra la fine di una relazione e l’inizio di un’altra.

Lo stesso tema della reciproca determinazione-definizione di sé, articolato però lungo un’altra traiettoria, è l’argomento di Tre anni (1895): il lungo racconto di Čechov che narra la storia della trasformazione reciproca di Julia e Laptev. La storia inizia con Laptev che trabocca d’amore al chiaror di luna mentre Julia si convince a sposarlo per fuggire dalla provincia; si chiude con Julia che tesa verso di lui gli dice: «sai che ti amo?» mentre lui aveva il senso «come se l’avesse sposata già da dieci anni, oltreché voglia di far colazione». Attraverso lo sviluppo del loro amore, Čechov tratteggia quella linea di confine che resta immutata sino alla fine della storia nonostante il ribaltamento delle mutue posizioni iniziali dei protagonisti (Arciero, 2002). È questo il confine attraverso il quale Julia e Laptev si differenziano e insieme si definiscono l’una attraverso l’altro; è la stabilità di questi margini che rende possibile fra loro alcune forme d’intimità anche nei momenti più difficili, mentre fra Robert e Sara si rompe dopo una breve stagione.

Una modalità per rendere più ferma la dialettica fra la demarcazione (self-centeredness) e la simultanea definizione di sé attraverso l’alterità (other-centeredness) è la convalida dell’esperienza in corso per mezzo della corrispondenza a un’immagine ideale, spesso mutuata dal grande palcoscenico mediatico,2 o relativa a un modello di eccellenza nell’ambito delle professioni liberali, o delle carriere artistiche o sportive. Tali modelli, che hanno di solito i caratteri di perfezione, costituiscono la fonte condivisa a cui con-formarsi fornendo on-line i criteri costanti di valutazione di sé. In tal caso, l’autonomia percepita si accompagna a un senso d’insoddisfazione punteggiato da sporadici momenti di appagamento, invece che a sentimenti d’insufficienza che caratterizzano la percezione della propria autorialità in assenza della convalida dell’altro. È come se il pieno valore dell’esperienza sia diminuito dalla consapevolezza che quella stessa esperienza potrebbe essere perfezionabile. Lo scarto tra la perfezione del modello e la perfettibilità della propria esperienza concreta ne assicura anche la differenza innescando fra sé e sé, ma anche con gli altri, un atteggiamento competitivo. Questo sentimento perenne di prontezza alla sfida e alla prova, quest’ansia continua di confronto fornisce il senso della propria demarcazione (self-centeredness) mentre d’altro canto permette la contemporanea definizione dell’esperienza in corso attraverso il paragone con il modello. È questa una tensione da primi della classe!

L’aderenza al modello o ai modelli di riferimento può declinarsi secondo vari gradi di stabilità fino all’estrema variabilità della co-percezione di sé. È quel senso picaresco ed episodico di sé che prende forma dalla capacità di sintonizzar-si di volta in volta sull’immagine richiesta dal contesto e che costituisce, secondo Rosen (2001), la caratteristica principale della «personalità camaleonte» (chameleon personality).3 «Per adattarsi con successo nel gioco della vita – scrive Rosen – i “camaleonti” devono essere capaci di capire intuitivamente ciò che gli altri pensano e come mai si stanno comportando in un certo modo. Devono saper riconoscere e adattarsi ai valori degli altri “giocatori”, o almeno dissimulare il loro disaccordo» (2001, p. 23).

È interessante sottolineare a tale proposito uno studio che investigava le differenze tra soggetti con alto e basso livello di empatia: coloro che avevano un alto livello di empatia presentavano un più alto grado di comportamenti imitanti (mimicking behaviours) rispetto ai soggetti con un basso livello d’empatia (Sonnby-Borgström, 2002). Nella stessa direzione sembra puntare anche lo studio di Van Baaren e collaboratori (2003) che indica come una più accentuata interdipendenza del Sé sia associata a una maggiore tendenza alla mimica rispetto a un Sé più indipendente.

Quando a fare oscillare la dialettica fra definizione e contemporanea demarcazione di sé è una «eccedenza» di alterità, a essa corrisponde un «assottigliamento» del senso di autodeterminazione fino ad avvertirsi come diretti dall’altro. Il sentirsi in prima persona protagonista di episodi più o meno significativi coincide cioè col percepirsi come un attore che impersona nella vita e non in un film la parte voluta dal regista. Certo, si può scegliere di essere più o meno diretti da un regista e corrispondere alla parte! Oppure, l’eccesso di alterità percepita s’intreccia con una dimensione autonoma che necessariamente resta segreta. Come la Nora dei primi due atti del dramma di Ibsen che, mentre corrisponde al copione scritto dal marito, contemporaneamente vive un segreto di cui nessuno è a conoscenza e su cui orienta concretamente l’esperienza quotidiana. Svelato il segreto, insieme si dissolve in mille pezzi la bambola e la casa di bambola. È evidente che il contenuto del segreto è secondario; potrebbe essere, come nella maggior parte dei casi, una relazione sentimentale parallela.

Spesso, invece, l’avvertirsi attori di senso piuttosto che autori si accompagna a una percezione d’invasività da parte dell’altro e di annullamento di sé più o meno momentanea – a seconda delle circostanze e delle storie personali – che corrisponde al dissolvimento contemporaneo della demarcazione dall’altro. Lo stesso effetto di annientamento può essere prodotto da un giudizio negativo da parte di un altro altamente significativo.

Se dunque il senso di essere autori della propria esperienza è co-regolato sull’alterità, quanto più forte è la percezione d’invadenza tanto maggiore sarà il bisogno di fronteggiarla. È frequente che questa oppositività emerga nel corso dell’adolescenza amplificando la fisiologica necessità di demarcazione dalle figure genitoriali caratteristica di questa età e dando luogo a una fenomenologia variegata che va dalla conflittualità manifesta alla trasgressione, fino alla chiusura e all’indifferenza. Questi atteggiamenti possono persistere nel corso dell’età adulta stabilizzandosi in tratti oppositivi innescati da altri significativi, come per esempio nell’ambito di rapporti affettivi improntati alla sfida e alla lotta.

A questo proposito è interessante considerare uno studio di Chartrand, Dalton e Fitzsimons (2007), che esamina l’influenza sul perseguimento di un obiettivo in individui con un più alto grado di abituale reactance4 non cosciente, che è elicitata automaticamente dall’esposizione ad altri significativi. Gli autori hanno mostrato che il percepire o meno altri significativi come una minaccia per la propria autonomia dipendeva da quanto i partecipanti corrispondevano in modo non cosciente ai desideri degli altri significativi (low-reactant) oppure, al contrario, se perseguivano un obiettivo chiaramente in opposizione con quei desideri (high-reactant). Quindi i soggetti low-reactant adottavano l’obiettivo di un altro significativo innescato in modo subliminale, mentre i soggetti high-reactant perseguivano un obiettivo in opposizione.

Le molteplici forme che assume la dialettica fra adesione all’alterità e contemporanea differenziazione da essa si accompagnano a un ventaglio di emozioni caratterizzate dal fatto che esse emergono allorché un individuo è in relazione con l’altro: un altro reale o immaginato attraverso cui ci si definisce e insieme ci si demarca. Una caratteristica distintiva delle «emozioni non-basiche» è proprio il fatto che, insieme al modo di essere dell’altro, ciò che è co-percipito è la reciprocità dell’altro con il proprio modo di essere. In questo senso, tali emozioni assumono una rilevanza fondamentale nella struttura di questo stile di personalità.

L’incapacità, l’inadeguatezza, l’insicurezza, l’insufficienza, l’inautenticità, il vuoto, l’insoddisfazione, la competitività, l’invasività, l’oppositività, l’annullamento ma anche la colpa, la noia, l’imbarazzo, l’indifferenza, la vergogna, l’ansia sono stati emotivi che adombrano il senso della reciprocità percepita, sia essa manchevole, assente, ideale o eccessiva.

Tuttavia, l’ambivalenza è, fra tutte, l’emozione più rappresentativa. Essa coniuga nei fatti il bisogno di riconoscimento e la necessità di autonomia, la partecipazione e la distanza, la responsabilità e la sottrazione. È l’ambivalenza che, assicurando la possibilità del disimpegno in ogni circostanza, permette di diluire continuamente i confini del reale nella finzione, consentendo così il riaggiustamento disinvolto e flessibile dei vincoli e delle vie d’uscita. L’impegno può essere allora assunto solo se si coniuga con la temporaneità o con la diserzione (reale o immaginaria). Il confronto diretto può essere allora accettato solamente se non è risolutivo. È qui che ritroviamo «l’amore convergente» di Bauman (2003), quell’amore che lega i partner solo per il tempo che fa comodo a entrambi; svanito l’interesse, si sciolgono i vincoli.

È l’ambivalenza che sottende la tanto celebrata flessibilità! E questa è una proprietà costitutiva di tale stile di personalità; in amore ciò si traduce nella ricerca di un’intimità che tuttavia deve contemporaneamente salvaguardare la propria autonomia. È ancora questa dialettica che ci permette non solo d’interpretare la dinamica dei rapporti sentimentali nel corso dell’età adulta ma anche di dar senso a fenomeni singolari che vanno dal non debutto sentimentale, al matrimonio bianco o ad alcuni disturbi sessuali come disturbi dell’erezione, impotenza, e nelle donne anorgasmia (eccesso di demarcazione dall’altro) fino alle donne che amano troppo (Women Who Love Too Much, Norwood, 1985), all’amore non condiviso (Baumeister e Wotman, 1992) e ad alcune forme di ex-partner stalking (eccesso di definizione attraverso l’altro). L’andamento delle relazioni sentimentali, infatti, prende forma dalla modulazione di questa dialettica e nel suo ambito il corpo può spesso assumere una rilevanza centrale. Il corpo inteso come il luogo ultimo dell’autonomia ma anche della fusione con l’altro, come confine che non può essere sorpassato ma anche come strumento per corrispondere alle aspettative altrui, per mimare il desiderio dell’altro.

Parlando del complesso mondo emotivo che caratterizza questo stile di personalità, abbiamo soprattutto messo in evidenza le emozioni non-basiche connesse a condizioni problematiche, mentre non abbiamo preso in considerazione gli aspetti emotivi «positivi» che emergono proprio grazie all’orientamento interpersonale che lo contraddistingue. La sensibilità, la delicatezza, la tolleranza, la cura, la compassione, l’intensità empatica, la dedizione, la premura, l’accoglienza, la sollecitudine, l’abnegazione sono tutte emozioni altrettanto fondamentali. Lo sono in quanto espressione di una personalità che è centrata su una particolare necessità relazionale oltre che su una singolare capacità a cogliere segnali sociali.

È proprio grazie a questa spiccata attenzione alle informazioni che vengono dagli altri e alla facile propensione ad assumerne il punto di vista, che Witkin sottolineava come quei soggetti da lui definiti «dipendenti dal contesto» (field-dependent)5 – che presentano una costellazione di tratti assimilabili per noi allo stile di personalità tendente ai disturbi alimentari (tDA) – erano più efficienti in una serie di situazioni che comportavano il dover fare affidamento su dei segnali relativi al contesto. Per esempio, in situazioni ambigue, i soggetti dipendenti dal contesto (field-dependent) per far fronte alla mancanza di informazioni su cui basare il loro giudizio prendono in considerazione quelle che sono disponibili da altre persone. Essi cioè non solo accettano con più facilità il punto di vista di altre persone, ma lo prendono in considerazione per formare il proprio. Ciò evidentemente agevola, per esempio, la mediazione di conflitti, la conduzione di trattative, la gestione di progetti di collaborazione. Da questo punto di vista possono essere interpretati gli studi empirici che nel corso d’interazioni sociali strategiche mettono in evidenza l’importanza di assumere la prospettiva dell’altro per scoprire interessi soggiacenti, tanto da generare soluzioni creative e concludere abilmente un affare (Galinsky, Maddux, Gilin e White, 2008) e l’importanza dell’imitazione strategica per facilitare la coordinazione interpersonale e gli esiti dei negoziati (Maddux, Mullen e Galinsky, 2008).

Un altro aspetto che Witkin aveva osservato nel corso delle interazioni sociali è che i soggetti dipendenti dal contesto (field-dependent) orientano il loro sguardo oppure evitano il viso di una persona con cui stanno interagendo a seconda dell’attività in corso. «Questi comportamenti opposti nei soggetti dipendenti dal contesto – evitare i visi altrui quando si è coinvolti in attività intellettuali cognitivamente impegnative o osservare i visi degli altri quando da questi si potrebbero ottenere informazioni utili – riflettono entrambi l’impatto peculiare che hanno i volti sulla loro attenzione» (1978, p. 52). Per Witkin, questa prontezza a cogliere segnali sociali è basata sul loro atteggiamento osservativo. Come abbiamo visto, questa caratteristica diventa particolarmente pronunciata nelle situazioni meno comprensibili o ambigue che possono essere appunto chiarite da segnali sociali che originano dal viso dell’altro.

Dalla prospettiva che stiamo sviluppando, le osservazioni di Witkin sono riconducibili allo stile di personalità tDA che costituisce il suo senso di permanenza usando un sistema di coordinate ancorate a un altro, reale o immaginato (Outward). Delle conferme interessanti emergono quando confrontiamo queste osservazioni con i dati relativi ai nostri studi sulla relazione fra stile emozionale ed elaborazione di stimoli minacciosi. I soggetti tendenti ai Disturbi alimentari sottoposti a uno studio di risonanza magnetica funzionale (fMRI) in cui erano impegnati nell’osservazione di uno stimolo minaccioso reclutavano in misura elevata le aree della corteccia visiva associativa (BA18), le aree deputate al riconoscimento del viso (BA37), le regioni legate alle funzioni cognitive (BA46) e le aree connesse all’attenzione (BA7) (Bertolino et al., 2005). Anche i dati relativi all’esperienza soggettiva della spiacevolezza del dolore in soggetti tDA indicano che il gruppo Outward mostra un’attivazione significativa della corteccia occipitale (BA19), della porzione posteriore della corteccia cingolata (BA31) e della corteccia parietale/precuneo (BA31), nelle regioni cioè che sono implicate nei processi visuo-spaziali e nell’orientamento dell’attenzione (Mazzola et al., 2010).

Le stesse caratteristiche permangono anche nell’ambito dei disordini riconducibili a questo stile di personalità. Infatti, diversi lavori evidenziano come soggetti sia bulimici che inclini alle diete (dieters), la cui sensibilità è focalizzata su come apparire agli altri e su come corrispondere a standard personali e culturali piuttosto che a sensazioni interne, sono relativamente insensibili agli stati interni (Garner, Olmsted e Polivy, 1983; Heatherton, Polivy e Herman, 1989; Heatherton e Baumeister, 1991).

5.2 Disturbi psicopatologici

Parlare di questo stile di personalità implica riferirsi a una certa inclinazione a poter sviluppare dei disturbi alimentari (o al persistere di tale inclinazione dopo la guarigione). Tuttavia, questa definizione non è completa in quanto i disturbi alimentari costituiscono solo una parte dello spettro sintomatico che questo tipo di personalità può generare. La stessa ampiezza di variabilità della personalità si riflette nella varietà dei disturbi che hanno principalmente come riferimento il corpo nelle sue varie dimensioni, sociale, intima e personale. In realtà, dunque, il riferimento ai disordini alimentari più in generale indica un’afflizione che ha a che fare con il proprio corpo nell’ambito del rapporto con l’altro. La relazione con il proprio corpo, cioè, diventa il mezzo che regola la dialettica fra determinazione di sé e contemporanea demarcazione dall’altro. E dunque, la stessa dialettica che sottende la costituzione della personalità rappresenta anche il nucleo distintivo psicopatologico che unisce i vari disturbi che vanno dall’anoressia nervosa fino ai comportamenti additivi.

ANORESSIA NERVOSA

Sin dalla seconda metà dell’Ottocento, quando l’anoressia cominciò a essere riconosciuta come un problema medico, questa malattia fu collegata a un eccesso di preoccupazione del malato per il peso e conseguentemente per il cibo e dunque, ma solo più tardi, per l’immagine. Saranno infatti i media degli anni venti a dare impulso su vasta scala alla connessione fra il corpo proprio e l’immagine alla moda promuovendo la figura di una donna snella, veloce e attenta in modo nuovo all’apparire (Vandereycken e Van Deth, 1990). È la donna moderna a cui pensa in quegli anni Coco Chanel.

Si stabilisce così una relazione fra modelli mediatici e la figura del proprio corpo, oggi ben documentata (per una review cfr. Groesz, Levine e Murnen, 2002), che sposterà l’enfasi sugli aspetti percettivi dell’esperienza corporea: sul corpo inteso come immagine. Infatti, l’esposizione agli ideali di bellezza rappresentati dai media in modo «irrealistico» oggi è generalmente considerata come uno dei fattori più importanti per comprendere nelle società occidentali l’alto livello d’insoddisfazione per il proprio corpo e per lo sviluppo di disturbi alimentari. Ciò riguarda soprattutto le donne. Perché sono le donne a subire sin dagli inizi l’impatto più violento dei modelli mediatici? Come mai già dai primi anni del Novecento l’immagine proposta dai media diventa il modello sul quale, le donne specialmente, costruiscono la propria immagine?6 Una risposta indiretta viene da uno studio sugli aspetti sociali della forma femminile della sindrome Camaleonte (Chameleon Syndrome) (Rosen e Aneshensel, 1976). Secondo gli autori, la sindrome Camaleonte, intesa come effetto secondario della socializzazione del ruolo femminile, ha come obiettivo di preparare le donne al matrimonio. Uno degli elementi fondamentali del «camaleontismo» è l’orientamento sull’apparenza. È forse questo il punto d’incontro con i modelli mediatici.

Le immagini offerte dai media, cioè, diventano per le donne le figure su cui regolare e definire la propria attrattività fisica, e questa componente, insieme ad altre, aumenterebbe le possibilità di attirare l’interesse dell’uomo, compresa la possibilità di trovare marito.7 Il comportamento alimentare femminile è infatti influenzato da standard sociali, culturali e da aspettative interpersonali, così come da standard personali relativi all’apparenza (Mori, Chaiken e Pliner, 1987).

La diffusione su larga scala della televisione negli anni cinquanta consolida questo processo di trasformazione del corpo a immagine. Nello stesso periodo scoppia la prima grande «epidemia» di disturbi alimentari. Non per caso, a ridosso di questa prima estesa diffusione del fenomeno negli anni sessanta l’alterazione dell’immagine corporea sarà considerata la principale responsabile del disturbo (Bruch, 1962; Selvini Palazzoli, 1963).

Ma è veramente la modificazione dell’immagine il problema oppure possiamo rendere conto di quella relazione fra il corpo, il cibo e l’immagine in altro modo?

Nelle pagine precedenti è stato fatto cenno al rapporto con il proprio corpo prendendo in considerazione due situazioni: l’utilizzo del corpo come mezzo per la ricerca del consenso e come confine all’intimità con l’altro. In ambedue i casi la relazione con il proprio corpo si giocava all’interno della dialettica fra determinazione di sé / definizione attraverso l’altro. Nell’ambito di questa dialettica, considerare l’anoressia restrittiva come dovuta all’alterazione dell’immagine corporea ha poco senso. Ma ha poco senso anche dal punto di vista di chi soffre di anoressia restrittiva in prima persona. Basta prendere in considerazione un fatto che è a dir poco evidente: chi soffre di anoressia soffre «volontariamente» di affamarsi.8 L’esperienza di essere se stessi, cioè, è un’esperienza continuativa di fame ed è a partire dal senso di questa esperienza che occorre comprendere la condizione anoressica. Che senso ha dunque affamarsi?

Molti autori hanno insistito sulla volontà di prendere le distanze da una famiglia invadente e di affermare la propria autonomia attraverso una strenua oppositività o di ribellarsi a genitori esigenti e con aspettative elevate. Del resto a questa lotta si alluse già nei primi due articoli sull’argomento di William Gull e di Ernst Lasègue che, mentre parlavano di ostinazione e testardaggine delle pazienti, raccomandavano già nella seconda metà dell’Ottocento una terapia fuori dall’ambiente familiare e sotto la guida di un personaggio autorevole (cit. in Vandereycken e Van Deth, 1990). L’enfasi sul conflitto è ulteriormente avvalorata nella situazione concreta dalla battaglia giornaliera fra i familiari che pressano perché l’anoressico riprenda un comportamento alimentare adeguato, e il malato, che di solito considera la propria perdita di peso come un successo piuttosto che come un problema. Guardare però l’anoressia dal punto di vista della definizione di sé rispetto alla famiglia non dà conto del modo in cui l’anoressico si avverte, di quale esperienza ha di sé, di come cioè struttura un senso stabile di sé attraverso la fame.

Affamare il proprio corpo è il mezzo attraverso cui il se stesso viene contemporaneamente avvertito come altro da sé. L’aspetto fondamentale qui è la capacità scoperta di riuscire a mantenere un senso di autonomia radicale senza sprofondare nel senso di vuoto, ma combattendo ogni momento in maniera vigile contro un corpo, il proprio, che urla di fame e/o di stanchezza. In questo modo l’affrancarsi dalla definizione dell’altro non è più avvertito attraverso il senso di vuoto, in quanto un corpo affamato fornisce al sentire un centro di gravità permanente. E allora quel corpo proprio, ma contemporaneamente altro – affamato o affaticato da eccessiva attività fisica o spossato da condotte di eliminazione – diventa l’interlocutore privilegiato su cui regolare il senso di sé. Un interlocutore che orienta l’immaginario, il pensiero e l’azione. Selvini Palazzoli, riferendosi a questa condizione, non per caso parlò di alterazione delirante (sebbene con l’enfasi sull’immagine corporea).

Trovare nel proprio corpo un nuovo centro da cui differenziarsi, mentre al contempo si corrisponde ad esso, permette di non avere più bisogno degli altri per una definizione di sé. Infatti, con il progressivo calo ponderale si riduce l’interesse per gli altri fino al completo ritiro sociale. Ed è anche in questo esito che va letta l’origine dell’anoressia, che corrisponde appunto al tentativo di sottrarsi dall’eccesso di definizione altrui attraverso la relazione con il proprio corpo, che diventa quindi il polo su cui sintonizzarsi per svincolarsi completamente dagli altri.

In questo senso va anche interpretato il perfezionismo, ritenuto un tratto premorboso particolarmente caratteristico dell’anoressia nervosa (Fairburn, Cooper, Doll e Welch, 1999; Fairburn e Harrison, 2003). La costante ricerca di corrispondenza a standard comportamentali i più elevati possibili o/e ad aspettative di persone significative, oltre che il tentativo di guadagnare l’approvazione degli altri manifestando conformità alle loro attese, permette di erigere una barriera per prevenire l’impatto delle critiche o delle valutazioni altrui sul proprio senso di sé (Hewitt, Flett e Ediger, 1995). Più è forte questa necessità, più è spiccato il perfezionismo, come indicano gli studi che associano un perfezionismo più elevato con una severità più importante dei disturbi alimentari (Bastiani, Rao, Weltzin e Kaye, 1995; Halmi et al., 2000; Pieters et al., 2007).

Infine, da questa prospettiva risulta abbastanza evidente come il peso, la forma, ma anche un semplice commento che alluda a un aumento ponderale, possano alterare il livello di autostima. La lotta continua contro la propria carne fornisce infatti la misura delle proprie capacità, della propria forza e quindi del proprio valore. La bilancia ne è quindi la conferma oggettiva. La sofferenza cronica che questa lotta comporta è documentata da alcuni studi di neuroimaging strutturale (Katzman, Zipursky, Lambe e Mikulis, 1997; Lambe et al., 1997; Mühlau et al., 2007) che dimostrano una diminuzione globale della sostanza grigia ma non di quella bianca, sia nell’anoressia nervosa che nel dolore cronico (Kuchinad et al., 2007). Per persone con disturbi alimentari che strutturano la loro identità combattendo il proprio corpo affamato, la magrezza anche scheletrica non può che costituire una qualità e una conferma (anche se questi soggetti sono chiaramente consapevoli di non essere attraenti).

Uno studio di Jansen e collaboratori (Jansen, Smeets, Martijn e Nederkoorn, 2006) ha investigato l’origine del «non sentirsi attraente» in soggetti con disturbi alimentari sintomatici paragonandoli a un gruppo di controllo composto da soggetti normali. Tutti i partecipanti dovevano valutare le immagini corporee di coloro che erano nel proprio gruppo o quelle dell’altro gruppo. È interessante sottolineare che i soggetti normali valutavano se stessi molto più attraenti rispetto alla valutazione dei partecipanti al gruppo disturbi alimentari, mentre invece tutti i partecipanti erano d’accordo nel valutare negativamente le immagini corporee dei soggetti con disturbi alimentari. In questa stessa direzione vanno anche le conclusioni di uno studio di Probst e collaboratori (Probst, Vandereyken, Vanderlinden e Van Coppenolle, 1998): in 100 donne che presentavano un’anoressia nervosa, forma restrittiva, il 50% circa delle pazienti fornivano una stima esatta delle loro proprie dimensioni corporee, mentre solo il 20% le valutava per eccesso.

BULIMIA NERVOSA

Nel corso degli anni ottanta, una nuova forma di patologia alimentare s’impone all’attenzione: la bulimia nervosa, definita appunto da Polivy e Herman (1985) la malattia degli anni ottanta (the desease of the eigthies). Rispetto all’anoressia, di cui spesso rappresenta un’evoluzione (Eddy et al., 2008),9 la fenomenologia bulimica prende forma non dalla necessità di una radicale autonomia dagli altri, ma proprio dal rapporto con gli altri o meglio da un’acuta consapevolezza delle opinioni, giudizi, valutazioni degli altri. Sono gli altri a determinare il proprio valore attraverso l’approvazione o il rifiuto. Come più autori hanno indicato da tempo, la paura del rifiuto o dell’esclusione è una caratteristica essenziale della bulimia (per esempio, Baumeister e Tice 1990; Gross e Rosen, 1988; Heatherton e Baumeister, 1991). Le bulimiche imparano a far fronte a questo costante timore del giudizio attraverso la manipolazione della propria attrattività fisica e alla modificazione delle forme corporee, regolandone i parametri secondo le immagini alla moda. Con chiara evidenza rispetto alle anoressiche, per le bulimiche la sintonizzazione su modelli mediatici di perfezione riduce il timore del confronto fornendo un criterio di riferimento attraverso cui valutare il grado della propria desiderabilità.

L’essere sé è quindi caratterizzato da una continua ansia del giudizio altrui,10 attenuata però dalla focalizzazione sulla propria attrattività e quindi sulla propria silhouette. Ciò dà luogo a una singolare fenomenologia contraddistinta da uno strano e complicato intreccio fra esposizione e attenzione all’immagine corporea. Se da un lato l’accettazione da parte degli altri è manipolata attraverso un certo modo di proporsi che mette in primo piano l’apparenza fisica amplificando così l’attenzione centrata sul corpo, d’altro canto l’eventuale disconferma non può che essere riferita al proprio corpo aumentando la focalizzazione negativa su di esso. Questo rapporto fondamentale fra livello di esposizione e attenzione centrata sul corpo rende conto di un fatto che potrebbe sembrare a prima vista bizzarro: la disconferma in qualsiasi dominio – percepita dai bulimici sempre come fallimento personale – si trasforma automaticamente in una percezione negativa del proprio corpo (per esempio, il senso di avere un addome troppo ampio o di essere sovrappeso), generando immediatamente un’alterazione del comportamento alimentare. Non stupisce perciò che questo disturbo sia più frequente tra le donne in carriera più esposte al confronto e alla valutazione e più preoccupate a valutare la propria efficacia e performance secondo standard elevati e alte aspettative (Barnett, 1986). Inoltre, ogni disconferma – travalicando la situazione in corso – è avvertita come se fosse totale e riguardasse l’intera vita della persona, producendo un’intensa amplificazione del senso di negatività personale. Questa forma di disregolazione affettiva che aumenta a dismisura l’intensità emozionale è nei bulimici anche una delle cause dell’incidenza elevata di abuso di alcool (Bulik et al., 2004) e dell’uso di sostanze stupefacenti (Wiederman e Pryor, 1996).11 Quanto sia acuta la sensibilità alla disconferma è testimoniato da una nostra paziente che, raccontando di una festa a cui era stata invitata qualche giorno prima, poiché non era stata corteggiata dal ragazzo più in vista della serata era giunta alla conclusione che il suo aspetto fisico fosse sgradevole. Nel corso della serata aveva ripetutamente pensato che nessun uomo interessante le avrebbe mai rivolto l’attenzione e che avrebbe perciò trascorso una misera esistenza da sola. In questo stato di disperazione, tornata a casa aveva avuto tre episodi consecutivi di alimentazione incontrollata seguiti da vomito.

Una modalità fondamentale che caratterizza questo disturbo, abbastanza evidente anche nel racconto della nostra paziente, è come i bulimici tentano di gestire le emozioni collegate soprattutto agli esiti o alle aspettative di confronto – tristezza, paura, timore, stress, rabbia, delusione – ma anche quelle connesse alla solitudine (e quindi all’assenza di un altro attraverso cui definirsi) come, per esempio, il vuoto e la noia. Per far fronte a queste emozioni essi manipolano la propria percezione corporea attraverso il binge eating, le condotte eliminative, ma anche attraverso la dieta e l’intensa attività fisica.12 Emerge qui un quesito che costituisce il nucleo enigmatico della bulimia nervosa: perché queste emozioni scatenano una serie di condotte di manipolazione dell’ingestione e dell’espulsione del cibo?

Prima di cercare una soluzione, riassumiamo però le tappe che ci hanno condotto fino a questo problema. Anzitutto, alla base del disturbo vi è l’automatismo che si mette in moto a partire da una disconferma, che genera uno stato d’intensa attivazione emotiva. Inconsapevolmente, questo profondo malessere viene riferito alle forme del proprio corpo. Un’attivazione emozionale di eguale intensità può essere ovviamente generata anche da situazioni di solitudine o da circostanze create nell’immaginazione. A questo punto l’acuto stato emotivo negativo scatena l’ingestione incontrollata di cibo (più o meno immediata) a cui possono seguire condotte di eliminazione, periodi di diete e attività fisica o la combinazione di queste forme.

Da tempo Baumeister (Baumeister e Tice, 1990; Baumeister e Wotman, 1992) ha dato una risposta a questo problema nell’ambito della sua teoria della fuga (theory of escape) (Heatherton e Baumeister, 1991). In chiave cognitivista egli sostiene che per sfuggire alle sensazioni negative i bulimici riducono la portata della loro attenzione al presente immediato. Ciò permetterebbe di spostare l’attenzione verso livelli bassi di consapevolezza e quindi di rimuovere una serie di inibizioni rispetto all’assunzione di cibo che sono legate a livelli più articolati di consapevolezza. Come risultato, «la persona è assorbita nel processo dell’assunzione di cibo tralasciando perciò di valutare correttamente il comportamento alimentare rispetto ai propri standard, norme o linee guida», generando così un episodio bulimico senza alcun controllo (Heatherton e Baumeister, 1991, p. 95). Questa sequenza di eventi, ritengono gli autori, potrebbe però avvenire anche al contrario; il processo dell’assunzione di cibo, cioè, potrebbe assorbire l’attenzione della persona determinando così la fuga da una più ampia consapevolezza.

Ma anche se questa seconda ipotesi fosse vera, la questione che questa prospettiva cognitivista sembra mancare riguarda il motivo per cui sia necessario creare uno stato viscerale nel proprio corpo per sfuggire il senso di sofferenza prodotto dallo stato emotivo in corso. Dal nostro punto di vista, come nell’anoressia anche nella bulimia la relazione con il proprio corpo è il mezzo che regola la dialettica fra determinazione e contemporanea demarcazione di sé dall’altro. In linea con l’analisi del disturbo anoressico, anche per la bulimia nervosa la generazione di stati viscerali attraverso condotte di manipolazione dell’ingestione e dell’espulsione del cibo fa emergere il corpo come un centro su cui ri-sintonizzarsi per svincolarsi dallo stato affettivo negativo connesso al rapporto con gli altri. Rimpinzare il proprio corpo e poi svuotarlo attraverso varie modalità, oppure saziarlo e poi affamarlo per un certo periodo sottoponendolo contemporaneamente a sforzi fisici, sono i mezzi attraverso cui il bulimico avverte il corpo come proprio e contemporaneamente come altro da sé.

È proprio la produzione di questa alterità nel proprio corpo che polarizza e circoscrive il grado dell’attenzione determinando la fuga da livelli più articolati di consapevolezza. Tuttavia, a differenza dell’anoressico, il senso che definisce la relazione con gli altri non è la radicale separazione bensì l’acuta necessità della loro approvazione. In questo contesto, la manipolazione degli stati viscerali serve a regolare le disconferme che emergono nell’ambito della relazione con gli altri. Gli episodi di alimentazione incontrollata (binge) punteggiano una condizione caratterizzata dalla cronica co-percezione del senso di sé e dell’accettazione altrui e sono il segno della percezione acuta di una valutazione (reale o immaginaria) negativa.

Appena l’abbuffata termina, la sintonizzazione su una certa immagine di riferimento o su un certo peso ideale per la propria attrattività fisica conduce alle varie condotte compensative come il vomito provocato, l’uso di lassativi, la restrizione alimentare o l’attività fisica eccessiva.13 Con le parole di René Girard (2006) possiamo dire che «la bulimica moderna mangia per se stessa, ma vomita per gli altri». E noi aggiungiamo: per tutti coloro la cui opinione conta. Questo sembra essere il punto fondamentale in cui rientra il tema del corpo come immagine, come strumento per regolare il confronto con l’altro minimizzando i rischi di rifiuto. Da questa prospettiva anche la promiscuità sessuale, frequente fra i bulimici, può essere considerata come una modalità di manipolazione dell’accettazione altrui.

DISTURBO DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA

Negli ultimi dieci anni, una letteratura scientifica che è cresciuta rapidamente ha documentato la rilevanza clinica di una nuova sindrome, il disturbo da alimentazione incontrollata, che si sta rivelando più diffusa dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa (Pope et al., 2006; Streigel-Moore e Franko, 2003; Spitzer et al., 1992). Come la bulimia nervosa, una particolare caratteristica di questo disturbo è l’occorrenza di frequenti episodi di alimentazione incontrollata. Questo elemento comune pone immediatamente un quesito sul tipo di contiguità/continuità fra i due disturbi, sebbene sia le modalità sia la frequenza degli episodi di alimentazione incontrollata siano diversi. La questione non è tanto definire un punto limite tra la bulimia nervosa con condotte di eliminazione e quella senza condotte di eliminazione (Devlin, Goldfein e Dobrow, 2003) quanto piuttosto comprendere se vi è un meccanismo comune che sottende le due sindromi che invece, per altri versi, sembrano differire radicalmente. Sono infatti diverse le caratteristiche epidemiologiche – il disturbo da alimentazione incontrollata riguarda soggetti sulla quarantina, in prevalenza uomini ed è fortemente associata con l’obesità (Walsh e Devlin, 1998; Fairburn e Harrison, 2003; Pope et al., 2006) – e diverso sembra essere l’esordio. Come scrivono Dingemans e collaboratori in una review sul disturbo da alimentazione incontrollata: «Nella bulimia nervosa, la maggior parte degli individui comincia a seguire delle diete prima dell’esordio dell’alimentazione incontrollata. Invece, un consistente sottogruppo dei soggetti con disturbo da alimentazione incontrollata inizia l’alimentazione incontrollata prima di avere iniziato delle diete (35-54%)» (Dingemans, Bruna e Van Furth, 2002, p. 301).

Diverso è chiaramente anche il fatto che nei soggetti con disturbo da alimentazione incontrollata agli episodi di alimentazione incontrollata non seguano condotte eliminative o di compenso come nella bulimia, sebbene i limiti dal punto di vista nosologico non sempre siano così netti. Devlin, per esempio, si chiede se tra gli individui che hanno delle crisi bulimiche e subito dopo digiunano o svolgono attività fisiche compensatorie – che rientrano nella categoria della bulimia nervosa del tipo senza condotte di eliminazione – e gli individui che descrivono dei periodi più lunghi di alimentazione incontrollata alternati con giorni o settimane di diete a volte estreme – che invece sarebbero dei candidati per la diagnosi di disturbo da alimentazione incontrollata – non ci sia piuttosto una continuità (Devlin, Goldfein e Dobrow, 2003). Questo continuum tra disturbo da alimentazione incontrollata e bulimia nervosa è oggetto di dibattito (Fairburn, Welch e Hay, 1993; Spitzer et al., 1993, Fichter, Quadflieg e Brandl, 1993; Fairburn et al., 1998; Fairburn, Cooper, Doll e Welch, 1999; Fitzgibbon, Sanchez-Johnsen e Martinovich, 2003). Ma che cosa c’è di comune in questi due disturbi? In primo luogo, le situazioni che scatenano gli episodi di alimentazione incontrollata sono in ambedue le condizioni fatte spesso precipitare dallo stress e da emozioni negative (Arnow, Kenardy e Agras, 1995; Engelberg, Steiger, Gauvin e Wonderlich, 2007; Deaver et al., 2003; Whiteside et al., 2007; Stein et al., 2007). Inoltre, in entrambe le sindromi sembra che l’ingestione rapida di considerevoli quantità di cibo – che fa emergere stati viscerali su cui sintonizzarsi – venga utilizzata per sfuggire il senso negativo di sé in corso. La differenza più chiara si palesa proprio con la fine dell’abbuffata. Mentre i bulimici si ricentrano su un’immagine di riferimento e per questo danno luogo a condotte di eliminazione, i soggetti con disturbo da alimentazione incontrollata non usano comportamenti compensatori. Ciò genera due conseguenze evidenti.

La prima concerne l’esperienza corporea. Infatti, la condizione di un riempimento gastrico veloce, ingente e incontrollato non è seguita, come nella bulimia, da un’alterazione più o meno repentina (il vomitare) o estrema (dieta cronica) dello stato viscerale legato all’abbuffata. Piuttosto, la percezione corporea è connessa ai processi digestivi relativi alla considerevole quantità di cibo appena ingerito. Questo importante impegno digestivo catalizza passivamente l’attenzione producendo una singolare fenomenologia corporea. La visceralità del corpo proprio si manifesta cioè attraverso una forma che potremmo dire opposta a quella anoressica della fame, in quanto è prevalentemente centrata sul senso di sazietà ed è quindi vicina a quella degli obesi. Il disturbo da alimentazione incontrollata ha infatti una prevalenza tra coloro che sono curati per obesità, tra il 15 e il 50% (Latner e Clyne, 2008). Per comprendere a che cosa corrisponda la sola fisicità di questa esperienza basta immaginare come ci si sente alla fine di un lauto pasto; la stessa sensazione viscerale può essere riprodotta nei casi più gravi di disturbo da alimentazione incontrollata anche più volte al giorno. È veramente singolare quanta poca attenzione abbia destato nella letteratura scientifica il rapporto fra la digestione di quantità considerevoli di cibo e la percezione del proprio corpo. Questa mancanza di considerazione dell’esperienza che fanno in prima persona gli individui che soffrono di disturbi alimentari è evidente anche negli studi di neuroscienze, che restano centrati sulla psicobiologia dei processi di ricompensa (Uher et al., 2004; Wagner et al., 2007).

Ciò che invece è ben documentato sono le similarità d’interesse al peso e all’apparenza fisica tra i soggetti con disturbo da alimentazione incontrollata non obesi e i bulimici (i pazienti obesi con disturbo da alimentazione incontrollata descrivono un più scarso interesse per la magrezza) (Crow et al., 2002; Vervaet, Van Heeringen e Audenaert, 2004; Santonastaso, Ferrara e Favaro, 1999). Questa preoccupazione per l’apparenza nasconde evidentemente un’inquietudine legata al rapporto con gli altri. Il fatto interessante è che i pazienti con disturbo da alimentazione incontrollata, pur riferendo un alto grado d’insoddisfazione rispetto al proprio corpo, a differenza dei bulimici non cerchino di modificare né la forma, né il peso; come se l’apparenza intollerabile fosse passivamente subita.

Una seconda conseguenza, testimoniata dalla frequente associazione fra disturbo da alimentazione incontrollata e depressione, riguarda il senso di negatività personale che caratterizza i soggetti con disturbo da alimentazione incontrollata e che si amplifica con l’aumentare degli episodi di alimentazione incontrollata. In un sondaggio sulla popolazione generale, Striegel-Moore e collaboratori (1998) hanno riportato che soggetti con una sindrome da disturbo da alimentazione incontrollata conclamata soffrivano di un grado di tristezza più elevato, di una minore autostima e di un livello di stress maggiore rispetto a soggetti con una variante al limite inferiore della diagnosi del disturbo da alimentazione incontrollata (definita attraverso una frequenza minima di un episodio di alimentazione incontrollata a settimana). Questi dati sembrano avvalorati da altri studi che mettono in evidenza come l’alimentazione incontrollata non solo non procura sollievo, ma genera un umore ancor più negativo nella fase che segue la crisi (Stein et al., 2007, Wegner et al., 2002). In altri termini, individui con disturbo da alimentazione incontrollata quanto più generano episodi di abbuffate tanto più amplificano il senso di negatività personale che li predispone a produrre nuovi episodi di alimentazione incontrollata. Pertanto la frequenza degli episodi assume una rilevanza cruciale, sia perché è indice di un numero maggiore di condizioni che possono scatenarli (affetti negativi e senso di vuoto), sia perché produce e stabilizza – attraverso la generazione di un circuito che si automantiene – una serie di sentimenti negativi verso di sé (disgusto, colpa, incapacità, rabbia, tristezza, rammarico e autodenigrazione).

Quando si analizzano le storie dei soggetti con disturbo da alimentazione incontrollata si rintracciano con chiarezza questi due aspetti. Da un lato la più alta frequenza appare connessa a situazioni di vita significative che fanno precipitare il senso di negatività personale. È come se per far fronte a questa percezione di sé i soggetti con disturbo da alimentazione incontrollata fossero costretti a variare la frequenza degli episodi modificando quindi anche l’andamento del disturbo. D’altro canto, l’amplificazione del senso della propria nullità prodotta dal ripetersi degli episodi di alimentazione incontrollata, spesso seguita da un evidente incremento ponderale, stabilizza il livello del disturbo su un grado di maggiore gravità.

In linea con l’anoressia nervosa e con la bulimia nervosa, anche per il disturbo da alimentazione incontrollata il nucleo psicopatologico distintivo è dunque rappresentato dalla relazione con il proprio corpo che diventa – attraverso il cibo – il centro su cui risintonizzarsi (al negativo) per regolare la dialettica fra demarcazione e contemporanea definizione di sé attraverso l’altro.

DISORDINI CONNESSI ALL’IMMAGINE CORPOREA MASCHILE

Solamente il 10% dei casi clinicamente diagnosticati come disturbi alimentari è rappresentato da individui di sesso maschile (American Psychiatric Association, DSM IV, 2000). Inoltre, la distribuzione diagnostica è simile a quella riportata per le donne, e cioè con un tasso di bulimia 5-10 volte più elevato rispetto a quello dell’anoressia. Al contrario, come abbiamo visto, i disturbi da alimentazione incontrollata prevalgono fra i maschi senza però che ci sia una differenza di distribuzione così marcata (Carlat e Camargo, 1991; Carlat, Camargo e Herzog, 1997; Spitzer et al., 1992; Szmukler, McCance, McCrone e Hunter, 1986). Come spiegare allora che ci sia in quel 10% di casi diagnosticati fra gli uomini una congruenza di distribuzione con i casi riportati fra le donne? Ma soprattutto, come dar conto delle differenze significative fra i due sessi per ciò che riguarda la prevalenza dei disturbi alimentari?

È stato suggerito che una proporzione più elevata di uomini che presentano disturbi alimentari sia omosessuale, bisessuale o asessuale, proponendo così un’interpretazione di questi dati epidemiologici in termini d’inclinazione sessuale di quei maschi che sviluppano tali disturbi (Carlat, Camargo e Herzog, 1997; Herzog, Norman, Gordon e Pepose, 1984; Schneider e Agras, 1987; Fichter e Daser, 1987). A sostegno di questa prospettiva c’è anche da aggiungere che soggetti maschi eterosessuali che sviluppano questi disturbi non differiscono clinicamente dalle donne con disturbi alimentari (Woodside et al., 2001).

Forse però, per quel che concerne la diversità di prevalenza fra sessi, nei maschi c’è qualcosa di diverso che potrebbe dar conto dello sviluppo di questi disturbi. I maschi, cioè, svilupperebbero un tipo di disturbo con caratteristiche eziologiche simili a quelle femminili, ma con una differente sintomatologia. Del resto, se la relazione con il corpo proprio modula il rapporto con gli altri, allora questa differenza sembra essere legata al modo in cui i maschi utilizzano il proprio corpo nell’ambito della dialettica fra definizione di sé / accettazione da parte dell’altro. La regolazione di questa dialettica ruota cioè attorno a quelle stesse modalità che rappresentano la base per lo sviluppo dell’anoressia e della bulimia, ma attraverso un «essere incarnato» al maschile.

Come per i disturbi alimentari, la maggior parte degli studi realizzati con popolazioni maschili ha focalizzato l’attenzione sull’insoddisfazione dell’immagine fisica, allargando però lo spettro a un’altra importante dimensione dell’immagine corporea nel maschio: la muscolarità.

A differenza delle donne, gli uomini non solo sembrano più interessati alla forma rispetto al peso, ma l’insoddisfazione dell’immagine corporea spinge piuttosto nella direzione dell’aumento di peso (Anderson e Di Domenico, 1992). Secondo una prospettiva che sottende diversi studi sull’argomento, l’insoddisfazione dell’immagine corporea e quindi il desiderio di diventare più muscoloso e di costruire un corpo a forma di V, motiva un allenamento fisico rigoroso e il sollevamento pesi (Furnham, Badmin e Sneade, 2002). Per esempio, Olivardia e collaboratori hanno valutato in 154 studenti maschi di college gli indici dell’immagine corporea e i tratti psicologici associati (Olivardia, Pope, Borowiecki e Cohane, 2004). Quando veniva chiesto loro di scegliere qual era il corpo che idealmente avrebbero voluto, essi sceglievano un corpo ideale all’incirca con 5 kg in più di muscoli e 1,8 kg in meno di grasso rispetto al loro livello attuale. Tale preferenza per un corpo magro e muscoloso si sviluppa a partire dai sei e sette anni, aumenta con gli anni e raggiunge un picco tra la prima adolescenza e l’inizio dell’età adulta (Ricciardelli e McCabe, 2004; Spitzer, Henderson e Zivian, 1999). Questo ideale è intimamente legato al punto di vista culturale sulla mascolinità.

A questo proposito Pope e collaboratori hanno studiato l’evoluzione dell’immagine ideale del corpo maschile considerando le misure della vita, del torace e della circonferenza dei bicipiti di diversi giocattoli per maschi (GI Joe, Luke Skywalker e Hans Solo) durante gli ultimi trent’anni (Pope, Olivardia, Gruber e Borowiecki, 1999). Essi hanno rilevato che queste misure sono aumentate in modo più importante per le masse muscolari e che nel corso del tempo si è sviluppata una definizione dell’apparenza muscolare di gran lunga superiore alla forma dei più imponenti bodybuilders umani. In un altro studio dello stesso gruppo di ricerca (Leit, Pope e Gray, 2001), gli autori hanno esaminato 115 modelli delle pagine centrali della rivista «Playgirl» dal 1973 al 1997, dimostrando che diventavano sempre più muscolosi e «asciutti» col passare degli anni. Quindi, come nelle donne è stato ipotizzato che l’esposizione a «irrealistici» ideali di bellezza veicolati dai media può contribuire a far crescere la prevalenza di disturbi alimentari, così si è supposto che negli uomini la diffusione di ideali culturali di «muscolarità» può aver contribuito a creare un livello elevato d’insoddisfazione del proprio corpo e a pratiche di bodybuilding estreme o di abuso di steroidi anabolizzanti. Lungo questa linea di ricerca possono essere distinti due disturbi: la dismorfia muscolare, che può essere considerata come l’equivalente dell’anoressia, e l’uso di steroidi anabolizzanti androgeni, che presenta alcune analogie con la bulimia.

La dismorfia muscolare, precedentemente chiamata anoressia nervosa al contrario (reverse anorexia nervosa) (Pope, Katz e Hudson, 1993; Pope e Katz, 1994), è caratterizzata dai seguenti aspetti: 1) una persistente preoccupazione per le dimensioni della propria muscolatura – anche se questi individui sono muscolosi – tanto da evitare attività o luoghi in cui il loro corpo potrebbe essere osservato (spiagge, spogliatoi) a causa dei difetti percepiti del proprio corpo; 2) la principale preoccupazione è l’inadeguatezza della muscolatura; 3) sono presenti difficoltà significative o riduzione del funzionamento in ambito sociale, professionale o in altre importante dimensioni significative di vita; 4) mancanza di controllo sul sollevamento-pesi, che si fa compulsivo, così come sul regime dietetico (Pope, Phillips e Olivardia, 2000; Olivardia, Pope e Hudson, 2000). Come commentano Olivardia e collaboratori nelle conclusioni del loro primo studio controllato sulla dismorfia muscolare: «la ricerca della grossezza (bigness) mostra notevoli paralleli con il perseguimento della magrezza» (Olivardia, Pope e Hudson, 2000).

Tuttavia, come per l’anoressia anche la genesi di questo disturbo sembrerebbe aver poco a che fare con un’alterazione dell’immagine corporea. Mentre nel caso dell’anoressia l’esperienza da cui partire per comprendere questa condizione è la sensazione di fame, nel caso della dismorfia l’essere se stessi corrisponde a una continua esperienza muscolare. Per questi soggetti che costruiscono la loro identità percependo i propri muscoli, il perseguimento della bigness non può che costituire un valore assoluto. Come per gli anoressici, avvertire il corpo in questo modo assolve questi soggetti dalla relazione con gli altri.

Un altro esempio estremo della ricerca della muscolarità è l’uso di steroidi androgeni anabolizzanti. Come è stato messo in evidenza da diversi studi, una delle principali ragioni per cui gli adolescenti maschi usano gli steroidi è per migliorare la loro attrattiva e apparenza fisica, in sintonia con un’immagine a cui corrispondere (Ricciardelli e McCabe, 2004; Bahrke, Yesalis, Kopstein e Stephens, 2000; Wichstrom e Pedersen, 2001). Il profilo dell’adolescente che usa steroidi per aumentare la massa muscolare ha una serie di caratteristiche simili alle pazienti bulimiche. Bassa autostima e affetti negativi più elevati (Ricciardelli e McCabe, 2001; Irving, Wall, Neumark-Sztainer e Story, 2002; Kindlundh, Hagekull, Isacson e Nyberg, 2001), alti livelli di comportamento impulsivo (per una review cfr. Ricciardelli e McCabe, 2004);14 ma un aumento dell’uso di steroidi è stato riscontrato anche tra adolescenti maschi che sono atleti d’élite, animati cioè da un’importante competitività (Bahrke, Yesalis, Kopstein e Stephens, 2000).

Come le bulimiche, anche per questi adolescenti e giovani maschi l’uso degli steroidi sembrerebbe essere legato alla manipolazione dell’attrattiva fisica per ridurre il timore del confronto e del giudizio. Migliorare l’apparenza fisica in sintonia con gli standard culturali della mascolinità permetterebbe cioè una maggiore accettazione e popolarità fra i coetanei dello stesso sesso e del sesso opposto (Eppright, Sanfacon, Beck e Bradley, 1997; Holland e Andre, 1994). Anche in questo caso, come per le bulimiche, il problema ruota sul timore conferma/disconferma altrui, timore arginato attraverso la manipolazione della forma del corpo. D’altro canto, questa cura per l’attrattiva fisica è intrecciata con una sintonizzazione sul proprio corpo attraverso l’esercizio muscolare.

In verità, l’analogia molto parziale con la bulimia nervosa è di fatto limitata a questi aspetti. Mancano in questo caso caratteristiche affini a elementi salienti del disturbo bulimico, come il rapporto fra emozioni negative e alimentazione incontrollata o l’attuazione di condotte di compenso. Tuttavia, nella letteratura scientifica non si trovano studi sull’esperienza in prima persona dei soggetti affetti da queste patologie e quindi è ancora prematuro delineare un quadro complessivo del rapporto fra l’uso degli steroidi, l’esercizio fisico e la regolazione emozionale.

COMPORTAMENTI DA DIPENDENZA (BEHAVIORAL ADDICTIONS): ACQUISTI COMPULSIVI, GIOCO PATOLOGICO, CLEPTOMANIA, DIPENDENZA DA INTERNET, COMPORTAMENTI SESSUALI IMPULSIVO-COMPULSIVI, PIROMANIA

Le analogie con alcuni aspetti rilevanti della bulimia nervosa – come l’alimentazione incontrollata e il suo rapporto con le emozioni negative, o l’emergere dopo l’episodio di alimentazione incontrollata di emozioni autovalutative come la colpa, la vergogna o l’imbarazzo – diventano più precise quando prendiamo in considerazione i disturbi connessi ai comportamenti da dipendenza.

Tuttavia, prima di descrivere quali sono gli elementi dello stesso processo psicopatologico che interviene sia nei disturbi alimentari sia nei comportamenti di dipendenza, è necessario sottolineare che questi ultimi possono emergere anche in altri stili di personalità. Ciò implica che differenti modi di sentirsi emotivamente situati possono scatenare una stessa condotta impulsiva.

Per esempio, si possono compulsivamente comprare (o rubare) oggetti inutili allorché si è attivati dal senso di vuoto – come nel caso di Robert descritto all’inizio di questo libro – oppure la spesa compulsiva può essere generata dal senso che resistere alla tentazione di acquistare significa perdere un affare. Oppure, l’insostenibile pesantezza della noia – che per alcuni individui tendenti ai disturbi alimentari corrisponde alla mancanza di stimoli attraverso cui trovare una definizione di sé – può attivare il gioco patologico. L’essere spinto in questo modo verso il gioco d’azzardo è ben diverso dal sentimento che ha il protagonista del Giocatore di Dostoevskij quando, nello straordinario epilogo del romanzo, subito dopo aver preso i pochi luigi donatigli quasi con disprezzo da un vecchio amico, egli avverte che resistendo a scommettere sta perdendo la possibilità della sua vita. «Basta essere, una volta almeno nella vita, calcolatore e paziente, ed ecco tutto! Basta dimostrare carattere almeno una volta, e in un’ora sola posso mutare tutta la sorte!».

Gli antecedenti emotivi che scatenano il disturbo sono quindi connessi con la storia del paziente, la cui esperienza in prima persona diventa necessaria per interpretare correttamente la dinamica della sintomatologia. L’intreccio fra la prospettiva in prima e quella in terza persona sembra un fondamento epistemologico essenziale alla psicopatologia!

L’aspetto che differenzia i comportamenti da dipendenza dai disturbi dell’alimentazione e da quelli connessi all’immagine corporea maschile è il fatto che l’esperienza del proprio corpo piuttosto che nella componente viscerale (la fame, la sazietà, la fatica, la muscolarità) viene a essere centrata su uno stato di grande eccitazione descritto dai soggetti come euforia, esaltazione, fino a un vero e proprio eccitamento sessuale (per esempio nell’acquisto compulsivo).15

Il contesto emotivo in cui queste condotte emergono è invariabilmente caratterizzato da emozioni che ruotano attorno a stati di solitudine come il senso di vuoto o la noia, a situazioni di disconferma con pensieri autocritici o rabbia e a condizioni di ansia da esposizione. Sebbene non vi siano in letteratura studi sistematici, la specificità delle attivazioni fa ragionevolmente supporre che le condotte (di solito vissute come gradevoli) che caratterizzano i differenti disturbi vengano a essere generate per superare affetti negativi (Jacobs, 1989; Faber, 1992). Questa relazione è comunque ben documentata per gli acquisti compulsivi. Per esempio, Scherhorn e collaboratori (Scherhorn Reisch e Raab, 1990), Faber e O’Guinn (1992) e Miltenberger e collaboratori (2003) hanno messo in evidenza che le emozioni negative sono la causa più frequente che precede gli «acquisti incontrollati». Stati depressivi o di tensione interiore sono stati spesso segnalati anche come precursori della cleptomania e di altri tipi di furto (Bradford e Balmaceda, 1983; Goldman, 1991). Inoltre la sequenza dei comportamenti è più o meno sovrapponibile in tutti i disturbi e analoga all’alimentazione incontrollata. Attivata da situazioni sgradevoli, la persona sviluppa un forte desiderio ad agire, che può o meno prendere forma a seconda delle circostanze in corso. Se le condizioni non consentono il passaggio all’atto, la persona orienta la sua attenzione verso l’anticipazione di una serie di azioni preparandosi alla loro attuazione. La distanza temporale fra la preparazione e la reale effettuazione delle azioni è caratterizzata da una crescente eccitazione che assorbe l’attenzione del soggetto attraverso la pianificazione della sequenza, riducendo progressivamente lo spettro della consapevolezza.

Finalmente la realizzazione della condotta descritta dai soggetti come la fase più intensamente eccitante del processo corrisponde a un’immersione globale nell’esperienza. Una sorta di visione a tunnel accompagnata dalla perdita del contesto.

Per esempio, un nostro paziente, già denunciato più volte per atti osceni in luogo pubblico, ogni volta che si sentiva valutato negativamente dal suo capoufficio, ma a volte anche quando rimaneva da solo in ufficio, cominciava a pianificare come esibire il suo corpo nudo. L’urgenza di esibirsi era cioè generata sia da situazioni in cui il paziente si sentiva annullato dal giudizio negativo, sia da circostanze in cui l’essere solo era avvertito con un forte senso di vuoto. In ambedue i casi egli perdeva il punto di riferimento attraverso cui co-percepirsi. La dinamica dell’esibizione, ripetuta più volte, consisteva nel mostrarsi nudo di fronte a un’audience di studentesse dai quattordici ai diciotto anni che frequentavano un istituto femminile, dalle cui finestre si poteva osservare la sua terrazza. Poiché il suo appartamento non era distante dall’ufficio e poiché l’esposizione poteva avvenire solamente nel corso dell’ora di ricreazione delle studentesse, quando le circostanze lo permettevano scappava a casa dall’ufficio. Il livello di eccitazione montava con l’avvicinarsi verso casa e ancor più, una volta entrato, mentre si spogliava osservando di nascosto, da dietro le tende, le finestre dell’istituto. Man mano che si avvicinava l’ora della ricreazione sentiva forte il battito del cuore, il corpo teso, il respiro affannato… fino al momento in cui il suono della campana annunciava la ricreazione. Allora le finestre si aprivano, le ragazze si affacciavano e lui correva nudo sulla terrazza. Mentre dalle finestre le studentesse urlavano, schiamazzavano e ridevano, lui era pervaso da un senso di straordinaria pienezza. Un misto tra euforia ed eccitazione.

Una sequenza simile è stata descritta anche da Black (2007) per gli acquisti compulsivi. Egli identifica quattro fasi distinte: 1) l’anticipazione; 2) la preparazione; 3) l’acquisto; 4) la spesa.

Con queste parole – che rimandano a un’attivazione analoga a quella del nostro paziente – un compratore compulsivo descrive un episodio di perdita di controllo:

«Ma è stato come… è stato quasi come se il mio cuore stesse palpitando. Io non potevo aspettare di entrare per vedere cosa ci fosse lì. Ebbi una tale sensazione! Nel negozio, le luci, le persone; stavano suonando una musica di Natale. Stavo iperventilando, le mie mani stavano cominciando a sudare, e all’improvviso stavo toccando dei maglioni e tutto era come un invito diretto solo a me» (O’Guinn e Faber, 1989, cit. in Faber e Vohs, 2004, p. 520; Black, 2007).

La produzione di stati viscerali sembra dunque essere il filo comune che lega le varie forme di disturbi prodotti nell’ambito di questo stile di personalità. Dalla fame alla pienezza, dal vomito alla diarrea, dalla stanchezza all’impegno muscolare, dall’eccitazione fino all’eccitamento sessuale provocato dal bisogno urgente di comprare, la focalizzazione sull’esperienza corporea risintonizza un senso di sé che ha perso l’ancoraggio all’altro. Come più volte abbiamo ripetuto in questo capitolo, la relazione con il proprio corpo diventa il mezzo che regola la dialettica con l’altro, a cui corrispondere e da cui distinguersi. L’aspetto sicuramente più sorprendente e che apre nuove prospettive di ricerca è connesso al fatto che questo stile, che trova la propria stabilità sintonizzandosi su fonti esterne di riferimento – attraverso l’orientamento che ricava dalla co-percezione degli altri – per gestire situazioni relazionali critiche o problematiche genera stati viscerali su cui polarizzarsi. Come se solamente attraverso la generazione di quegli stati fosse possibile «liberarsi» dell’altro. Il fatto cioè che il senso di sé sia avvertito a partire dalla sintonizzazione sull’alterità implica che l’altro rappresenta un punto focale da cui differenziarsi e contemporaneamente attraverso cui avvertirsi.