IL QUARTO GIORNO

 

L’indomani mattina Vidya si era ripresa abbastanza per fare colazione con un po’ di tè e del pane tostato. Ma quando lei e Latika andarono a chiamare Gouri per la colazione, non la trovarono in camera: bussarono e aspettarono, bussarono e aspettarono, poi si fecero aprire la porta dall’addetto alla reception con un duplicato della chiave. La borsa di Gouri era sul tavolino. Quando ne controllarono il contenuto videro che mancavano il portamonete e il rosario che teneva in un sacchettino di stoffa. Per il resto, non sembrava mancasse altro.

“I bigliettini con l’indirizzo!” esclamò Latika. “Li ha lasciati nella borsa.”

Non doveva mostrarsi troppo in ansia. Non aveva raccontato a Vidya di come avesse trovato Gouri, in confusione totale, con i bagagli fatti e pronta per andare in stazione il giorno dopo il loro arrivo a Jarmuli. Adesso era troppo spaventata per rivelarglielo. E se Gouri avesse davvero lasciato l’albergo, convinta di dover prendere un treno? Disse, “Sarà da qualche parte qui vicino. La stanza non le piaceva, magari sta insistendo con qualcuno per farsela cambiare.”

Vidya rispose, “Faccio il possibile, cos’altro avrei potuto fare? Guarda, mancano due bigliettini. Cosa può voler dire?”

Si abbandonò sul letto. Forse non si era ancora ripresa del tutto e le girava la testa per via dei disturbi allo stomaco del giorno prima.

“Oh, cosa diremo a suo figlio!” disse Latika. “Già non voleva che viaggiasse. L’ha detto e ripetuto, ‘Non si può più lasciare sola, si dimentica tutto!’” Gouri sarebbe diventata uno di quei visi tristi di persone scomparse, ritratti in bianco e nero negli annunci di polizia e pubblicati sui giornali? E non era neanche la peggiore delle disgrazie possibili.

“Dovremmo telefonare al figlio…” Latika si raffigurò la sua faccia calva e boriosa. I baffi sottili e le guance. Il modo in cui diceva sempre, “Proverò a trovare il tempo, ma non assicuro niente” ogni volta che gli chiedevi se poteva dare un passaggio a Gouri prima di andare al lavoro. Il modo in cui arricciava le labbra quando gli si chiedeva di sorridere.

“Se dovessimo dare retta a lui, Gouri non uscirebbe mai di casa. Ti ricordi cosa mi ha chiesto in stazione?” Vidya improvvisò una voce da baritono. “Dimmi, zia Vidya, cosa avete intenzione di combinare, voi ragazze, nel vostro fine settimana proibito, eh?” Il ricordo di quella voce sembrò restituirle energia e determinazione. “La troveremo. Aspetta e vedrai.” Aveva gestito diverse emergenze durante gli anni in cui aveva lavorato in burocrazia, compresa una dattilografa latitante.

Girarono per l’albergo descrivendo Gouri a chiunque incontravano. Entrarono in una stanza che non avevano ancora visto, piena di cuscini di raso, che si chiamava Mumtaz Bar; attraversarono la sala da pranzo, l’atrio, i corridoi, le file di sedie disposte intorno alla piscina, poco più grande di una vasca da bagno, il tratto di giardino appena davanti, con l’elegante colonnato di palme da cocco: Gouri non c’era. Vidya interrogò il chowkidar di guardia al cancello, che a sua volta chiese al manipolo sgangherato di autisti di risciò parcheggiati lì vicino se per caso quella mattina avessero accompagnato da qualche parte una signora anziana, robusta e con i capelli bianchi. Provarono persino a superare una serie di porte chiuse con il chiavistello per arrivare in cucina, ma furono bloccate da un agitato cameriere.

Sul retro dell’albergo c’era un giardino, cinto da un sentiero sterrato costeggiato da palme. Si interrompeva davanti a un cancelletto di ferro. Non si erano accorte di quel cancello prima e notarono che si apriva direttamente sulla spiaggia. Quando lo varcarono, si trovarono davanti il bianco e l’azzurro dell’oceano e della spiaggia, illuminati dalla luce chiara del mattino. Dei pescatori a torso nudo spingevano le barche di legno tra le onde, intonando delle preghiere propiziatorie. Due o tre donne alla volta, vestite con sari dai colori fluorescenti che arrivavano al ginocchio, passarono loro davanti con ceste di pesce sulla testa.

Vidya e Latika si tolsero le scarpe, le presero in mano, e si incamminarono a piedi nudi scrutando la spiaggia in cerca di una forma tondeggiante avvolta da un sari. Superarono una zaffata di zenzero e chiodi di garofano. Latika si ricordò del chiosco del tè e si girò per individuarlo, ma scorse qualcuno che, di schiena, assomigliava molto a Suraj. Afferrò la mano di Vidya per tirarla dalla parte opposta e farfugliò, “Guarda, laggiù vendono aragoste. E anche granchi. Vicino a quelle barche.” Delle barche capovolte sbucavano dalla sabbia come fossero carcasse di animali preistorici. Latika spinse Vidya in quella direzione.

Camminavano svelte e Vidya protestava. “Se andiamo così di fretta non la troveremo mai. Rallenta!” Il canto mattutino dell’uomo del tè le raggiungeva solo a tratti, “La pioggia tornò quella notte. E ancora e ancora e ancora.

Il canto fu interrotto da una voce familiare. “Vi siete svegliate, finalmente. Io sono in piedi dall’alba! Avreste dovuto vedere sorgere il sole. Oggi ho deciso che volevo recitare le preghiere qui davanti al mare.”

Si era piazzata sulla chiglia di una barca abbandonata. Nonostante il rosario, i capelli bianchi e le forme, Gouri aveva più un’aria minacciosa che da adorabile nonnina. Portava degli occhiali da sole tondi che non le avevano mai visto indossare prima, e una collana di perle rosa comprata pochi minuti prima da un ambulante che ora cercava di vendere anche a loro la stessa mercanzia. Gouri non trattenne le risa davanti alle loro facce infuriate e il bianco smagliante della dentiera scintillò al sole. “Oh, su, andiamo!” disse allegra. “Non sono mica agli arresti domiciliari anche qui, no? E comunque nella mia stanza non si respira, le vostre sono molto più carine.”

Non sapevano cosa dire, sentivano che le emozioni trattenute fino a quel momento si stavano a poco a poco liberando.

“Non sopportavo di stare in camera, mi soffocava” dichiarò Gouri mentre si alzava dal trono improvvisato.

“Ma perché non hai almeno preso i bigliettini che ti avevo scritto?” Quand’era arrabbiata come in quel momento, la voce di Vidya suonava come una grandinata. La stessa voce che si diceva fosse capace di far scoppiare delle bombe sotto le sedie degli impiegati pigri e sonnolenti, quando era a capo della Direzione Generale dell’Assistenza Sociale.

Su Gouri non aveva alcun effetto. Estrasse uno dei bigliettini scritti a mano da Vidya da chissà quale strato del sari e glielo sventolò in faccia. “Non ho preso la borsa, tutto qui. Pesa troppo.” Con aria sempre più compiaciuta.

Per un po’ nessuna delle due riuscì a rivolgere la parola a Gouri. Fu solo dopo la colazione, quando raggiunsero il bazar e dovettero sommare le loro voci per scoraggiare i mendicanti, che riuscirono a dimenticare la rabbia. Fecero acquisti e trovarono un ristorante dove pranzare. Montagne fumanti di riso bianco, daal e verdure, in quantità impossibili da finire, servite da un cameriere che sembrava avesse fretta di andarsene. Cominciarono a risuonare le campane di tutta la città, le note dei bhajan si davano battaglia dagli altoparlanti. Dal piano superiore sentivano cantare gli inni in un sanscrito dagli accenti esotici. Un drappello di pellegrini passò loro davanti, cantando kirtan e facendo tintinnare i cembali. Nel gruppo c’erano giovani donne e uomini, persino qualche bambino, tutti vestiti con sari e dhoti, la fronte segnata dal tilak di Vishnu. Sorrisero loro oltre la vetrina del ristorante.

“Mangiamo alla svelta” ordinò Vidya. “Abbiamo altre cose da fare.”

Quando cominciarono il pranzo, i canti s’interruppero e dalle scale dell’edificio scesero in cinque o sei tra uomini e donne. Erano stranieri vestiti con tuniche gialle e color zafferano. Da dietro le teste rasate spuntavano ciocche tese di capelli che sembravano i rami di un cespuglio.

Gouri notò che agli stranieri servivano solo ciotole d’uva. Perché mai?, chiese sottovoce al cameriere. “Non gradiscono il cibo che servite qui?” L’uomo la fulminò con un’occhiataccia. “Stanno facendo il digiuno” disse. E aggiunse con una certa foga, “Per Shivaratri. Alcuni di loro non bevono acqua per tutto il giorno. L’avete dimenticato?”

Il tono di disprezzo e l’aria autoritaria le ricordarono casa. Era così che le si rivolgeva suo figlio, quando diceva “Dovevi ritirare la pensione, ti ricordi? La lezione di tennis dei ragazzi era alle due, ti ricordi?”

Si ricordò del tè di terracotta e si disse che doveva proprio berne una terza tazza prima di tornare a casa. E sarebbe anche tornata al tempio. Da sola.

La mattina di Shivaratri il grande tempio era più gremito del solito. Badal era con un anziano sull’ottantina che avanzava incerto, cercando di non perdere l’equilibrio in quell’immenso luogo sacro. Come sempre era semibuio, illuminato solo dalla luce tremula delle lanterne.

“Si tenga forte al mio braccio, altrimenti rischia di cadere.” C’era qualcosa, in quell’uomo, che a Badal ricordava suo padre. Forse le orecchie più grandi del normale. Segno di saggezza, diceva sempre il padre di Badal tirandosi i lobi allungati. Bastava guardare le statue del Buddha.

L’uomo disse, “Ti sembrerò fragile, figliolo, ma sappi che ai miei tempi ho scalato l’Himalaya e ho attraversato a nuoto metà canale della Manica. Non sono arrivato dall’altra parte solo perché…”

Nella parte più interna del tempio, l’immagine di Vishnu brillava di rosso, oro e nero. Da bambino, Badal aveva sempre provato un senso di terrore lì dentro, anche se suo padre lo teneva per mano. Le lampade a olio proiettavano ombre nere ovunque, l’aria ronzava di un brusio cantilenante, e c’erano persone così rapite dalla devozione che sembravano aver perso la percezione del mondo. Lo spaventavano molto, con i loro corpi ondeggianti, gli sguardi confusi, il canto delirante. Lo impaurivano anche i sacerdoti con i loro dhoti bianchi, i corpi nudi che si fondevano nella penombra, e l’immagine della divinità che incombeva su tutti loro con la forza impassibile di una montagna.

Ma che montagne aveva visto, lui? Non aveva mai lasciato le rive del mare dov’era nato. Qualche notte prima le aveva sognate: vette innevate e catene di colline azzurre. Seguiva delle persone che salivano a fatica fra rocce e ghiaccio. C’era un cane con loro. Faceva freddo, i suoni erano ovattati. Accadeva tutto molto lentamente, ogni passo richiedeva un secolo. All’improvviso era finito in un lungo corridoio con la moquette rossa e qualcuno gli gridava: “Le porte sono chiuse. Non ti faranno entrare.” Il grido di quella voce lo aveva svegliato.

Non appena aveva aperto gli occhi, aveva compreso con superstiziosa certezza di aver sognato la propria morte e che le persone che seguiva nel sogno erano i Pandava che marciavano verso il cielo. Nel Mahabharata, anche i Pandava erano stati fermati ai cancelli del cielo. Era apparso Indra che aveva ordinato loro, “Abbandonate il vostro cane, non c’è posto per chi ha un cane nei Cieli.” E Yudhishtira, sprezzante, aveva risposto al re degli dei che avrebbe preferito abbandonare il cielo, pur di non deludere un amico.

Badal non avrebbe mai abbandonato Raghu, per nessuna ragione. Avrebbe dimenticato ciò che aveva visto: il monaco, la bottiglia di birra, i jeans neri attillati. Non era più riuscito a trovare Raghu da quella sera. Doveva riaverlo, non gli avrebbe chiesto niente. Tutto ciò che voleva era abbracciarlo così forte da fondere i loro battiti.

Voci e grida confuse irruppero nei suoi pensieri. Regnava il caos, gente che si spingeva e inciampava sul pavimento scivoloso. Badal capì che era rimasto imprigionato nel sogno, a occhi chiusi. L’anziano di cui avrebbe dovuto prendersi cura era finito chissà dove. Si fece strada tra la folla che gremiva la penombra, all’improvviso sudava. Non farti prendere dal panico, si disse. Resta concentrato, vedrai che lo ritrovi.

La figlia dell’anziano, anche lei ignara di dove fosse l’uomo, sentì una voce flebile e tremula provenire da poco distante, si girò a cercarlo ma non vedeva nulla nella penombra, finché non scorse una sagoma infagottata sul pavimento. “Papà! Papà!” esclamò.

Il terrore serpeggiò tra la folla. La gente cominciò a spintonarsi per uscire dal santuario, pensando che fosse accaduto qualcosa. Un uomo cadde e urlò. Una voce gridò “C’è un incendio! Al fuoco.” Spinte e strattoni si fecero ancora più pressanti.

Badal riuscì a raggiungere l’anziano. “Non c’è nessun incendio. È al sicuro” disse ad alta voce. “Non si è fatto niente.”

Fece sedere l’anziano sugli scalini di un santuario più piccolo all’esterno. Una vedova grinzosa che chiedeva l’elemosina cantando un kirtan s’interruppe per portare loro dell’acqua in una ciotolina d’ottone. “Arrivati a quest’età,” disse rivolta alla figlia, “è dura. È dura per noi vecchi. La terra ci scivola sotto i piedi.” Le mani dell’anziano tremavano. Badal gli avvicinò la ciotola alle labbra e la inclinò appena. L’acqua gli gocciolò sul mento tremolante e sui vestiti. Da sopra la testa dell’uomo, Badal scambiò uno sguardo di comune sollievo con la figlia, gli occhi inumiditi dalle lacrime trattenute. La donna infilò la mano nella borsa e tirò fuori due banconote da cento rupie che mise nelle mani della vedova e le disse, “Per favore. Per voi. Ci canti un kirtan. Dio è stato molto buono. Ha fatto in modo che non succedesse niente a mio padre.” Mentre se ne andavano, si sporse dal parasole del risciò, verso Badal. “Non so cosa avremmo fatto senza di lei. Non avrei mai dovuto farlo venire. Ma non mi ascolta.” Aveva il viso gonfio e un sorriso storto che le conferivano un’aria triste. L’anziano, che si era ormai ripreso, disse con voce incerta, “La prossima volta dovrà farmi vedere tutto il tempio. Voglio avere quello per cui ho pagato. Tornerò!”

Badal decise di aspettare in strada e osservare il loro risciò che s’intrufolava nella stretta corsia tra la folla di biciclette, motorini e altri risciò. Rimase dov’era finché lo perse di vista. Incontrava così tante persone in un anno, che la sua testa era come una stanza gremita di una folla anonima. Eppure sapeva che non avrebbe mai dimenticato quella donna e suo padre. Sentiva che era colpa sua, se era caduto. Avrebbe dovuto prendersi cura di lui. E l’ironia della loro gratitudine! Se fosse accaduto qualcosa a quell’anziano… no, meglio non pensarci. Si sentì umiliato dalla loro generosità.

Eppure era anche appagato per quel pomeriggio. Di solito non provava alcun interesse per i pellegrini ai quali mostrava il tempio. Erano solo lavoro, e una volta andati via, finiva lì. Ma queste persone… ora voleva mostrargli Jarmuli, prendersi cura di loro, accertarsi che padre e figlia stessero bene, portarli a mangiare il piatto speciale di riso e pesce in quel locale annesso al Manoj, dietro al bazar, e poi i dolci caldi e succulenti del Mahaprabhu. Voleva portarli al chiosco del tè di Johnny Toppo.

Il chiosco del tè! Le ombre della notte prima si sollevarono come per magia, il sole di metà pomeriggio divenne abbagliante. Badal si diresse sul lato della strada dove aveva parcheggiato il motorino. Avrebbe mangiato qualcosa. Poi sarebbe andato a cercare Raghu. Forse era tornato e lo aspettava. Finalmente gli avrebbe dato il cellulare. Girò l’angolo cantando a squarciagola. Una delle canzoni che Johnny Toppo, ripeteva ogni giorno:

D’oro scuro e lucente sono le gambe nude del mio amore,

immerse nella risaia di smeraldo.

Rossi come rose sono i suoi bracciali,

splendenti nella risaia di smeraldo.

Cauto come un ladro l’airone bianco

osserva nella risaia di smeraldo.

E la pioggia arrivò ancora e ancora quella notte,

e sommerse la risaia di smeraldo.

Gli affari andavano a rilento, al chiosco. Con poche persone in spiaggia e tante donne che digiunavano per Shivaratri, il numero dei clienti era dimezzato. Johnny Toppo era da solo, a spadellare. Dal mento gli spuntavano i peli bianchi e ispidi della barba corta, la testa calva brillava. Raghu aveva chiesto qualche ora libera e gli aveva risposto di scomparire. Era un sollievo essersi liberato di quel ragazzo. Johnny Toppo era certo che quel mascalzone lo derubasse: era furbo come una volpe, quello. Il solo pensiero di Raghu lo metteva di malumore anche se quella mattina si era svegliato leggero come la schiuma del tè. Capitava che si trovasse a sorridere per un nonnulla, anche quando era da solo, e spesso si sentiva al settimo cielo senza motivo, come succede alle persone più semplici o ai bambini. Giusto il giorno prima, mentre osservava il pazzo che innaffiava il ramoscello secco e poi partiva per lunghe incursioni in acqua, aveva deciso di abbandonare il chiosco e unirsi a lui, come uno stupido. Aveva agito senza riflettere, non aveva pianificato nulla: era la fine di una giornata pesante, quasi notte, ed eccolo lì a fare a gara con quel pazzo tra le onde, a gridare cose senza senso, finché non erano scoppiati entrambi a ridere e avevano fatto la pipì in mare, fianco a fianco. Eppure oggi non sopportava neanche la vista di quell’orrendo e lurido pazzoide. E desiderava che scomparissero anche i clienti. Ma doveva guadagnare, no? Sorridere ai turisti, preparare il tè e poi sorridere ancora. Certi giorni avrebbe voluto trasformare il tavolo in una zattera e partire alla volta della Baia del Bengala. Sarebbe finito alla deriva su un’isola sconosciuta per vivere di pesce fresco, sigarette e vino di palma. E neanche una goccia di tè.

Era immerso in questi pensieri quando comparve Nomi e gli disse, troppo vicino alle orecchie, “Uno. Con zenzero e chiodi di garofano.”

Per qualche motivo, ogni volta che lo coglievano di sorpresa in quel modo, cominciava a sentire un formicolio in tutto il corpo e ci voleva del tempo prima che gli passasse. Si grattò la testa, poi le spalle, si sforzò di non grattarsi le ascelle e l’inguine. Fece appello a tutte le forze per ritrovare il sorriso e la parlantina. “Fatto spese, oggi? Andata al tempio? Compra qualche sari, già che ci sei. E non dimenticarti di mangiare i gamberetti fritti in riva al mare. Jarmuli è famosa per questo! E per il mio tè.” Erano le solite frasi che sciorinava a tutti e dimenticò che la ragazza le aveva già sentite almeno due o tre volte. Lo metteva a disagio, ma non sapeva perché. Forse era il modo in cui lo fissava, con quei suoi occhioni neri.

In spiaggia, il pazzo correva da una parte all’altra, piantava il ramoscello, lo innaffiava con l’acqua del mare, lo guardava ammirato, poi lo sradicava per piantarlo in un posto migliore.

Johnny Toppo non si era coperto la cicatrice sul collo con la pezza di cotone che a volte usava come fazzoletto e altre come strofinaccio. Sentì gli occhi della ragazza sopra quel tratto di carne viva, ripiegata su se stessa. Si sistemò il fazzoletto intorno al collo. Si riaggiustò, nascosto dietro ai fornelli. Rimestò nella pentola con eccessiva energia, sbattendo rumorosamente piatti e tazze. Il suo sorriso era scomparso, non cantava più.

Nomi s’incamminò verso l’acqua e diede un calcio a una bottiglia di plastica ammaccata. Planò verso il mare in una pioggia di sabbia e il pazzo si precipitò a recuperarla tra le onde. Nomi si voltò a guardare Johnny Toppo al chiosco, che pestava zenzero e chiodi di garofano nel mortaio come se li prendesse a pugni. Lo vide acciuffare un barattolo di polvere nera, o così sembrava, e versarne un po’ nell’acqua che bolliva sui fornelli. Quando Nomi tornò indietro, la miscela gorgogliava scura e schiumosa come le birre che aveva bevuto in Germania. Inalò a pieni polmoni il profumo del tè sul fuoco e disse, “A volte mi sembra di averti già visto. Non sembra anche a te, a volte… di aver già visto qualcuno, di essere già stato da qualche parte?”

“Io non penso e non sento troppo.” Johnny Toppo le versò il tè. “Se pensi troppo ti viene il mal di testa e perdi i capelli. E io di capelli da perdere non ne ho più, vedi?”

Rimasero in silenzio. Lei finì il tè che aveva nella tazza e poi ci guardò dentro. Disse, “Lo sai che ci sono persone che prevedono il futuro dalle foglie di tè?”

“No, non lo so. La gente s’inventa di tutto pur di fare soldi.”

“No, dico sul serio. Una volta mi sono fatta prevedere il futuro. E quella donna – una vecchina di New York, che è in America, in una stanza con una tenda di perline e un albero minuscolo, piccolo così, in un vaso davanti alla finestra – quella donna mi ha detto che se c’era un posto al mondo dove dovevo assolutamente andare, era da qualche parte a est, sull’oceano. E infatti eccomi qui.”

“Nel mio tè non ci sono foglie, faccio bollire tutto quanto. Non ti posso dire quale sarà il tuo prossimo viaggio.”

Nomi sorrise e si passò le dita fra le perline nei capelli. “Posso averne un altro?” Non voleva andarsene, ormai Johnny Toppo l’aveva capito. Versò nella pentola del latte e dell’altra acqua, poi aggiunse un cucchiaio di zucchero.

“Canti spesso di alberi, fiori e risaie. Sei un contadino o un giardiniere?”

“Sono quello che vedi. Vendo tè e biscotti.”

“Ma non c’è stato un tempo in cui curavi le piante?” Ora sembrava più spavalda, parlava più forte.

“Capita a tutti di curare le piante, prima o poi. Lo vedi quel matto laggiù? Ne innaffia una, visto? Ce l’avrai avuta anche tu qualche pianta, in vita tua.”

Nomi soffiò sopra il tè che lui le porse. “Intendevo se ti sei mai occupato di piante per lavoro. Non so, è perché le tue canzoni…”

“No” le rispose. “E per il tè sono dieci rupie.” Si voltò e si mise ai fornelli. In quel momento le ossa di Johnny Toppo sporgevano più del solito, come se risucchiasse le guance e sigillasse le labbra per impedirsi di parlare.

“Prendo un ombrello,” disse Nomi, “e mi siedo qui.”

“Non ho ombrelli da affittare, oggi” disse Johnny Toppo. Aveva tre ombrelli nel secchio di ferro alle sue spalle ma se avesse insistito le avrebbe detto che li aveva già promessi a qualcuno.

Nomi guardò verso il mare. Johnny Toppo si affaccendava in un clangore di pentole e padelle. Poi lei disse, “Sai niente di un ashram qui a Jarmuli?” fissando il pazzo della spiaggia che ora calpestava il ramoscello che aveva appena finito di innaffiare.

Un gruppo di pellegrini passò loro davanti proprio in quel momento: giovani donne, uomini. Sorrisero mentre si dondolavano e cantavano, diretti alla spiaggia.

“Un ashram?” chiese Johnny Toppo, quando i pellegrini si erano allontanati. “Ci sono centinaia di ashram da queste parti. Del resto è una citta tempio. Qui non si sente altro che mare e campane. E ogni cinque minuti passano gruppi di scemi come quelli, che ragliano come asini e pretendono di comprare un biglietto anticipato per il cielo. Templi. Ashram. Devoti. Jarmuli è così.”

“Un grande ashram. Gestito da un guru. C’era una scuola. Visto che vivi qui da molti anni, di sicuro lo conosci, no?”

Johnny Toppo le si avvicinò e ringhiò, “Che ne sai da quanto tempo vivo qui? Ho abitato in mille posti diversi. Domani potrei essere chissà dove. Tutti gli ashram sono gestiti da un guru, come faccio a sapere qual è il tuo?”

Prima che Nomi potesse fare un’altra domanda, due turisti ancora fradici dopo un bagno in mare arrivarono affannati al chiosco. “Tè bollente! Tè bollente è proprio quello che ci vuole!” esclamò uno dei due.

Arre, babu! Guardate come avete conciato i vestiti!” La trasformazione di Johnny Toppo avvenne in meno di un secondo. Aveva il tono di una madre ammirata dall’imprevedibilità dei figlioletti. “Che tipo di tè? Con lo zenzero? O con il limone? Con o senza zucchero?” Voltò le spalle alla ragazza e si esibì nell’amichevole risatina che riservava a tutti i clienti. Mescolò il tè nella pentola e cominciò a mormorare tra sé e sé. I turisti chiesero, “Che cosa canta? Canti più forte.”

“Oh, non è niente!” Il suo tono di consumata cordialità era tornato. “È solo una canzone popolare. È tutto quello che mi sono portato dietro fin qui a Jarmuli. Qualche canzone e qualche vestito.” Ricominciò a cantare.

Nomi si sedette poco distante sulla spiaggia, ad ascoltare. Era una voce antica, una voce piena di granelli di sabbia e venti marini. Perché non l’aveva sentita in maniera così chiara, prima?

I turisti si sedettero sulla panca. Uno disse all’altro, “Ti ho portato nel posto giusto o no? Hai mai sentito niente di più bello?” L’uomo si rivolse a Johnny Toppo. “Voglio registrarti, bhai. Ti registro, vendo le canzoni e ti faccio diventare una stella. E guadagno anch’io qualche soldo.”

Johnny Toppo continuava a mescolare. “Per quelli come me i sogni sono scappati da un pezzo. Non ho tempo per le stelle, mi serve solo un pezzo di terra su cui dormire, un cencio per vestirmi e da mangiare ogni giorno.”

L’uomo rilanciò e disse. “Possiamo tirarci fuori qualcosa, le canzoni folkloristiche vanno di moda, adesso!” Mentre si allontanavano, sorrise e diede una pacca all’amico sulla spalla. “Ti compri quelle canzoni o no?”

Johnny Toppo aveva sentito tante conversazioni come quella. Si girò dall’altra parte e si mise a raschiare la casseruola e a sciacquarla con l’acqua del secchio di ferro lì vicino. Nomi rimase seduta a guardare, e prima che potesse capire fino in fondo cosa stava per dire, le parole le uscirono di bocca e non riuscì a fermarle.

“C’era una volta una donna di nome Shabari che scappò di casa il giorno del suo matrimonio. Andò a vivere in una fitta foresta e poi nell’ashram di un eremita, e diventò la sua serva.”

La testa di Johnny Toppo si mosse con uno scatto violento e la casseruola cadde sulla sabbia. Sembrò percorso da un brivido. Quando si chinò a raccogliere la pentola sembrava vecchio e scricchiolante. “Vuoi altro tè? Ho del lavoro da fare” disse. Si strinse forte il fazzoletto intorno al collo. Prese un pacchetto di beedi. Cercò i fiammiferi. Quando se ne accese uno gli tremavano le mani.

“In punto di morte, l’eremita disse con voce triste a Shabari che lui aveva trascorso tutta la vita a servire Dio, eppure lasciava quella vita mortale senza averlo mai visto. Ma quello non sarebbe stato il suo destino, le disse. Un giorno Dio le sarebbe apparso e quindi doveva essere pronta. Dopodiché, l’eremita morì.”

Johnny Toppo disse. “Allora qual è la morale, eh? Ti sembro un bambino che ha bisogno di favole?”

Nomi proseguì, sottovoce, quasi tra sé e sé. “Shabari capì, dalle ultime parole dell’eremita, che avrebbe dovuto farsi trovare pronta. Avrebbe dovuto aspettare Dio proprio lì, altrimenti come avrebbe fatto a trovarla? Shabari era una donna semplice. Aspettò e aspettò, per tutta la vita.”

Johnny Toppo uscì da dietro il bancone e si precipitò verso Nomi. “Credevo che ti conciassi solo come una pazza, con tutte quelle perline tra i capelli, quegli orecchini e quelle trecce.” Sputò sulla sabbia un grumo luccicante di saliva gelatinosa. “Quel giardiniere fuori di testa laggiù, lo vedi? È lui l’uomo che cerchi! Chiedilo a lui, se ricorda qualcosa.”

Tornò al chiosco e spense i fornelli. Dietro al carretto c’era un baule in cui chiudeva tutto a chiave ogni sera, e cominciò a impilare pentole e padelle, tazze e barattoli alla rinfusa, imprecando quando qualche tazza di terracotta si rompeva. Quando chiuse il negozio borbottò furibondo, “Solo chiacchiere e niente soldi: certe giornate iniziano male e finiscono peggio.”

Nomi era seduta da sola in un’automobile e osservava la periferia di Jarmuli scorrerle accanto. Con lo sguardo fisso come se non potesse permettersi di perdere un istante di quel paesaggio, anche se la periferia di Jarmuli non era diversa da quella di qualsiasi altra città. Case basse e tozze su entrambi i lati della strada, con le verande schermate dai panni stesi ad asciugare sui fili del bucato. Pochi alberi, ricoperti di polvere. Striminzite siepi d’oleandro con i fiori rosa afflosciati. Agli incroci, i banchetti di generi alimentari inghirlandati con i pacchetti d’alluminio delle patatine. Era lontana dal mare, dai templi, dai turisti, dalla radiosa e sospesa incredulità della spiaggia.

Johnny Toppo non aveva voluto aiutarla. Era stata colta da una vertiginosa sensazione di riconoscimento, di gioia – non era morto, dopo tutto, era vivo e l’aveva trovato! Anche se aveva sputato e si era girato dall’altra parte. Poteva sopportarlo, non ci sarebbe rimasta male, era abituata a vedersi sbattere la porta in faccia. E magari mi sbaglio, si disse, ci sono tanti uomini con le cicatrici sul collo ed è normale chiedere la morale alla fine di una storia. Cosa mi fa essere così sicura che sia proprio lui? Un ricordo che credeva di aver perso le ritornò in mente con precisione assoluta: Jugnu che svuotava il furgone del letame all’ashram. Prima lo scaricava con la pala in una grossa tanica di metallo. Poi se la sollevava sulla testa e la trasportava così fino al mucchio di concime vicino al capanno. La svuotava, tornava indietro e ricominciava da capo. Era chino sotto lo sterco puzzolente. Il corpo nudo e sottile era forte e asciutto come il legno. Non parlava con nessuno. Lo sguardo distante che aveva allora era lo stesso che Nomi aveva letto sul viso di Johnny Toppo quel giorno. Nessuno dei due voleva avere a che fare con gli altri. Che diritto aveva, lei, di costringere un uomo a ricordare ciò che voleva dimenticare?

Una spossatezza improvvisa invase ogni osso, muscolo e tessuto del suo corpo. Era inutile. Non sarebbe mai dovuta venirci. Le strade che attraversavano la città erano sempre più strette e sconnesse. Benché fosse vicino all’ampia passeggiata che costeggiava il mare, qui i camion s’incrociavano a tutta velocità e i pulmini scarcassati azzardavano sorpassi millimetrici. Non sentiva più il profumo del sale e del pesce. I gas di scarico le facevano bruciare gli occhi. Chiese all’autista di accendere l’aria condizionata e presto il finestrino si rivestì di una pellicola di polvere grigia. Fissò le case e i mercati che oltrepassavano e sperò, come durante il primo tragitto in macchina dalla stazione di Jarmuli, di riconoscere qualcosa.

Dopo un po’, le distanze tra una casa e l’altra aumentarono e gli edifici scomparvero del tutto. Accanto a sé, sul sedile, aveva una cartina, ma come quasi tutte le mappe non aveva la minima attinenza con ciò che vedeva. L’autista fece una brusca curva verso la statale. Qui la strada corrispondeva a quella tracciata sulla carta, almeno per un particolare: mentre procedevano riusciva di tanto in tanto, sul lato opposto, a scorgere il mare dietro gli alberi e i cespugli. Non era sicura che fosse la direzione giusta, ma si allungò verso l’autista e gli disse, “Prenda a sinistra all’incrocio.”

Riguardò la cartina. Ormai era stropicciata, quasi trasparente lungo le ripiegature. Ci aveva scritto sopra, disegnato frecce. Non c’era nulla che collegasse ciò che vi era rappresentato con la realtà, il presente con il passato, di certo per quanto riguardava i nomi delle strade. Ma dalle ricerche che aveva fatto, sapeva che il posto che cercava era da qualche parte lungo la statale che collegava Jarmuli a Kanakot.

Il sole pendeva ormai come un’arancia tra rami e foglie quando l’autista fermò la macchina, due ore dopo. Nomi capì di essere partita da Jarmuli troppo tardi, non sapeva che il tragitto sarebbe durato così tanto. Le ombre degli alberi si allungavano già sulla strada come un codice a barre, da quelle parti la notte arrivava in fretta. Avvertì un brivido di paura lungo il collo, ebbe la tentazione di mettere la sicura agli sportelli e tornare indietro senza neanche scendere. Erano davanti a un doppio cancello di metallo. L’autista si voltò a guardarla, Nomi annuì suo malgrado, e l’uomo spense il motore.

Il silenzio fu improvviso. Sembrava non si muovesse nulla, l’aria era umida e pesante. Quando aprì lo sportello, fu come se l’autista lottasse contro il caldo per spingerlo fuori e guadagnare spazio. Poi scese, si stiracchiò e guardò dentro l’abitacolo. Nomi era ancora lì seduta e non accennava a muoversi.

Si avvicinò al finestrino. “Allora, signora? Qui è tutto chiuso. Non c’è nessuno. È il posto giusto?” Si asciugò la nuca e fece una smorfia. Dopo solo qualche istante senz’aria condizionata, aveva la camicia bagnata di sudore.

Nomi sedeva immobile. Come se fosse piena d’acqua, pensò l’autista. O forse si aspettava che le aprisse lo sportello per scendere? Guardava i cancelli incrostati di ruggine. Uno era storto, come se avesse un osso rotto. C’era sopra un cartello che diceva: SEDE DELLA PEACOCK AYURVEDIC SPA. Le disse: “Questo posto è in rovina da anni. Se mi avesse detto prima dove voleva andare, l’avrei avvisata. L’ha abbandonato anche la ditta di costruzioni. È un posto dimenticato da Dio. Dicono che ci siano successe cose brutte, molto tempo fa.”

Quelle parole la spinsero a prendere una decisione. Scese dalla macchina e si limitò a dire, “Aspetti qui.” Il sentiero sterrato che dal cancello s’inoltrava nella proprietà era coperto di foglie secche. L’autista la osservò avanzare a fatica, sembrava malata. Quando raggiunse i cancelli, vi sbirciò attraverso come una bambina che ha paura dei fantasmi.

L’uomo chiuse l’auto a chiave e la seguì. Non era sicuro andarsene in giro per una proprietà abbandonata, in quella zona deserta vicino alla statale. Cos’avrebbe fatto se fosse scomparsa là dentro?

S’incamminò dietro di lei a qualche passo di distanza, tra il crepitio delle foglie secche. Nomi si fermò a una specie di capanno vicino al sentiero. Le pareti erano ricoperte da una spessa coltre di muschio. Le finestre da cui guardava erano rotte, la porta non c’era più. L’interno non era altro che un cubo di cemento. Lungo la parete c’era una fila di ripiani che assomigliavano a dei letti, sormontati da minuscole finestre con le inferriate. Trovarono altre costruzioni abbandonate come quella, nella proprietà, circondate da ringhiere di ferro storte, resti di muratura e piastrelle rotte. Alcuni edifici erano stati demoliti e trasformati in mucchi di mattoni ammantati da una peluria erbosa. Riverso sul terreno c’era un vecchio tronco d’albero ormai grigio, la corteccia plissettata di funghi velenosi.

Attraversarono macchie di vecchi alberi storti, spezzati, vandalizzati. Dai melograni pendevano frutti aperti dal tempo, come organi spaccati a metà. Alcuni avevano dei fiori rossi. La ragazza si accovacciò davanti agli alberi e si strinse le braccia intorno al corpo, in un abbraccio solitario.

Arrivarono in quello che sembrava il cortile principale su cui si trovavano i resti di una struttura imponente, una pila di mattoni e materiale da costruzione alta come una casa. Più avanti il muro esterno delimitava il confine della proprietà. Nomi ripercorse il tragitto in direzione opposta e andò quasi a sbattere contro l’autista. “Vede un albero di jamun, da qualche parte?” gli chiese. “Lo saprebbe riconoscere?”

L’autista scacciò le zanzare di inizio sera e disse, “Metà di questi alberi sono stati tagliati, non vede signora?”

Nomi tornò verso il confine della proprietà e passò le dita sul muro divisorio, che era crollato. Vi erano incastonate schegge di vetri rotti e chiodi appuntiti.

“Dall’esterno sembrava grande, ma da dentro non è così” si arrischiò a dire l’autista. “Penso che non ci sia altro da vedere.” La ragazza era una squilibrata, ne era certo, e ormai il suo inspiegabile interesse per quei calcinacci cominciava a inquietarlo.

Nomi mormorò, “Infatti. Ho sempre detto a Piku che non ce l’avrebbe fatta ad arrivare fino ai cancelli. Ma non era vero.”

Si avvicinarono a quella che era stata la soglia di un altro cancello, più piccolo e divelto dai cardini. Su un lato, nel punto in cui il muro curvava in una piccola insenatura, un gigantesco banano sovrastava lo spiazzo sottostante. Delle campanelle di ottone ormai ossidato pendevano dalle radici aeree dell’albero, che si avvitavano intorno al tronco. Tra la polvere si scorgevano brandelli di stoffa, nastri, pezzetti di latta, segni di una devozione remota e ormai morta. Nomi si chinò ed estrasse dal terreno un oggetto che l’autista scorse a malapena: una croce di metallo arrugginito che riuscì poi a vedere quando la ragazza ne ripulì la superficie con le dita. Una croce con una freccia su uno dei bracci. Un oggetto di nessun valore, eppure lei lo strinse forte e se lo rigirò tra le mani.

“Ora dobbiamo andare, signora” le disse con voce insistente. Non gli piaceva guidare con il buio. L’albero formava un’ampia volta sotto cui si riparavano alcune capanne con il tetto d’erba intrecciata, immerse in un’oscurità ancora più profonda di quella della strada poco lontano. Tutto intorno al cortile c’erano sagome informi che assomigliavano a cadaveri avvolti in sudari.

La ragazza si voltò a guardarlo, poi sembrò spaventarsi. Gli si avvicinò di corsa. “Ha visto qualcosa? Non c’è un uomo, là… dietro quei cespugli? Là, guardi. Con una tunica?”

L’autista sforzò gli occhi. “Non vedo nessuno.”

“Sono sicura di aver visto qualcuno. Un uomo alto con una tunica? Meglio andare via.”

“È quello che dico già da un po’… da quando siamo arrivati” le rispose l’autista con il fiatone, mentre cercava di tenere il suo passo. Camminava troppo veloce per lui. Poi si accorse che non era più buio. C’era una luce che guizzava tra gli alberi e regalava ai loro corpi ombre lunghe e interrotte. Dietro di loro si era materializzato un uomo che ora bloccava la strada. Una sagoma alta e ingobbita, avvolta in chissà quanti metri di tessuto – un lungi dalla cintola in giù e uno scampolo di stoffa intorno alla testa e sulle spalle. Dalle pieghe dell’abito spuntava un braccio sottile come una canna di bambù, che sorreggeva una lanterna antivento. La teneva proprio davanti alla faccia della ragazza e illuminava i fili colorati che aveva tra i capelli e tutto l’oro e l’argento sulle orecchie. La spostò di colpo verso l’autista e disse. “Venite. Da questa parte.”

Quando i loro occhi si abituarono a quel nuovo bagliore luminoso, Nomi notò che nel cortile c’era una congregazione di figure di pietra, alcune molto piccole altre così grandi che era impossibile riconoscerne i visi. Grifoni, elefanti, raffigurazioni del Buddha, apsaras. Erano perlopiù figure definite, anche se alcune erano ancora come intrappolate nella materia. L’uomo avvicinò la lanterna a una delle statue. Una donna dai tratti morbidi, con gli occhi ciechi, quasi pronta per la nicchia di un tempio.

L’uomo si trascinò ancora un po’ e oscillò la lanterna vicino a un’altra scultura, un cavallo alato. Poi una bambina danzante. Un leone con baffi e pancione. Ma non teneva mai la luce ferma abbastanza perché potessero osservare bene le figure.

“La mia è una famiglia di scultori, al servizio degli imperatori di questa terra fin dai tempi del Buddha” disse l’uomo. Aveva una voce stridula e risucchiava la saliva tra una parola e l’altra. “Erano scultori quando furono costruiti i grandi templi antichi, e che rimanga tra noi, la mia famiglia tiene nascosto uno scalpello che ha lavorato le pareti di quei templi, ottocento anni fa. In un posto così segreto che nessuno lo conosce.”

L’uomo s’interruppe per avvicinare la lanterna a una gargolla. “Questo non vale niente.” Aggiunse dei colpi di tosse alle parole. “Gli occhi non vanno bene. Lo capisco subito quando c’è qualcosa che non funziona.”

“Vive qui da molto tempo? È sempre stato qui?” chiese Nomi.

“Sempre. Siamo qui da generazioni. Se fosse arrivata cento anni fa, avrebbe sentito rimbombare il suono del martello sullo scalpello. Eh già, era un paese dove si viveva bene, tutta gente della nostra stessa casta. Adesso siamo rimasti in pochi, e moriamo di fame. Chi le vuole più, queste statue? Oggi si preferiscono gli oggetti fatti in fabbrica. Di plastica.”

Nomi esitò, trattenne il fiato. “Questo posto abbandonato qui accanto a casa sua… che cos’era, prima?”

“Cos’era prima?” L’uomo posò a terra la lanterna. “Non lo so. Non conosco nient’altro che il mio lavoro. Mi facevo i fatti miei, non ci sono mai entrato.”

Riprese a camminare. “Volete comprare qualcosa? Date un’occhiata in giro, un regalo per un amico, direttamente dalla Baia del Bengala. Ce ne sono anche di più piccoli, che si possono mettere in valigia.” Passava di statua in statua e le illuminava a una a una. “Quella è di arenaria… quella è in puro marmo… quella invece è di granito nero, è il Buddha, vedete? Agli stranieri piacciono le statue del Buddha. Ci sono anche elefanti di tutte le misure.”

“Io voglio solo sapere… Sa che fine hanno fatto le persone che vivevano nel complesso qui accanto? Le bambine?”

“Questa, vedete? È una riproduzione del carro nel Tempio del Sole. Ci siete stati, al Tempio del Sole?”

L’autista disse, “Signora, sarebbe meglio andare, adesso.”

Qualcosa catturò l’attenzione di Nomi. “Quella, voglio vedere quella statua là.”

L’uomo si incamminò e illuminò il punto che lei gli indicava, una statua posta in un angolo di una veranda, quasi messa da parte. Accanto c’era un vaso di terracotta con una pianta di tulsi, davanti a un piatto di frutta incisa nella pietra, a mo’ di offerta. Era una scultura diversa dai grifoni, dagli apsaras e dai Buddha che avevano visto. Alta una trentina di centimetri, in marmo nero e avvolta in morbide pieghe di tessuto che ne seguivano la forma, la scultura ritraeva una bambina accovacciata, con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani a sorreggere il mento. Le orecchie spuntavano in fuori come due piattini da una testa grossa, con i capelli scolpiti in due trecce ai lati del viso. Aveva il naso schiacciato e gli occhi di pietra appena storti. Le sopracciglia si congiungevano a formare una ruga sulla fronte, come se la modella fosse stata troppo impaziente per restare ferma a farsi ritrarre, quando invece avrebbe voluto correre via a giocare.

L’uomo allontanò di scatto la luce dalla statua, che ritornò a nascondersi nel buio. “Quella non è in vendita” disse.

Ricordo lo scultore che venne a scolpire un idolo all’ashram. Doveva essere una scultura enorme. A poco a poco la roccia cominciò a riprodurre i tratti di un viso, poi un collo, un braccio. Ma non finì il lavoro. A un certo punto lo scultore se ne andò e non lo vedemmo più. Ci domandammo per un paio di giorni che fine avesse fatto, ma non chiedemmo mai spiegazioni. Erano tante le cose che succedevano intorno a noi e di cui non chiedevamo nulla. E a chi avremmo dovuto chiedere, poi? Anche quel mezzo idolo se ne stava sotto un albero senza dire nulla, incompleto, con la testa a metà, un occhio cieco, un braccio e un accenno di spalla, ma il resto era un blocco di pietra grigia e ammuffita.

Ricordo molte altre cose, cose di cui non potevamo parlare. Piku che piangeva tutta la notte a letto. Quando la bastonavano non sapeva perché, quando la lasciavano sola non aveva idea di quale fosse il motivo. Era anche vittima delle ragazze più grandi. A volte le agganciavano il vestito al letto e così, alzandosi, lo strappava. Le rubavano il cibo e i ninnoli che metteva da parte di nascosto. Le porgevano quegli oggetti come se volessero restituirglieli, ma quando correva loro incontro per riprenderli li lanciavano lontano, fuori dalla sua portata, e ridevano di gusto di fronte alle sue lacrime. Era sempre per lei che facevo a botte. Non riuscivo mai a difendermi a parole, non conoscevo quelle giuste, e così mi scagliavo anche contro le ragazze più grosse e più grandi di me. Urlavo, sanguinavo, ma non mi arrendevo, strappavo ciocche di capelli dalle teste di quelle che se la prendevano con Piku. Lei mi seguiva come un’ombra, si fidava solo di me. Ero la sua protettrice.

Ricordo un gatto. Col muso ficcato nella pancia di un piccione. Quando si accorse di me, sollevò la testa dal corpo dell’uccello. Era una maschera appiccicosa di sangue e piume. Gli occhi come ambre scintillanti.

Ricordo Jugnu, in mezzo al cortile all’alba, che gridava, “Il male vi risucchia. Ha risucchiato tutti! Svegliatevi, stolti! Guardatevi intorno! Svegliatevi!” E poi gemeva, “Piangete, bambini, piangete per non essere morti.”

Jugnu mi diceva che il mare era vicino, indicava l’orizzonte e mi sussurrava, “Ascolta e vedrai che lo senti.” Ci provavo, ma non riuscivo a sentirlo. La banderuola era arrugginita ormai e non si muoveva quasi più. Eppure credevo ancora che una mattina mi sarei svegliata, avrei trovato la freccia puntata verso nord e allora saremmo partiti, avremmo preso il largo.

Ricordo la barca che ci aveva portate all’ashram, un motoscafo con la stiva incatramata dove ci eravamo nascoste, una appiccicata all’altra perché non c’era spazio. La barca aveva oscillato parecchio ma poi si era stabilizzata e così era rimasta per un bel po’, finché non aveva ripreso a dondolare. Il giallo crema del vomito che scivolava sul fondo della stiva unto di nero. Il puzzo. Le bambine che gridavano “Ma-go, ma-go”, come se piangere potesse restituirci le nostre madri.

Ricordo quando ci diedero lo stufato di montone per pranzo. Perché? Non lo chiedemmo. Il sugo era marrone scuro e denso. Nella mia porzione c’era un osso che mi tenni per ultimo. Ne succhiai tutto il midollo. Mi scivolò in bocca e poi giù in gola, prima ancora che ne gustassi il sapore. Non mangiammo mai più carne, e così dimenticai il gusto che aveva.

Ricordo quando la polizia riportò Champa all’ashram. Era andata in un commissariato al suo secondo tentativo di fuga, e quelli l’avevano riportata indietro perché era sotto la tutela dell’ashram. La trascinarono dentro tenendola per le trecce e la chiusero in una casetta. Ricordo il ramo di rosa pieno di spine che Bhola tagliò e si portò dietro quando entrò lì dentro. Come rideva rivolto a noi che aspettavamo fuori, prima di entrare e chiudere la porta a chiave. Restammo lì immobili, a fissare la casetta. Sentimmo colpi e tonfi. Urla, poi grida di aiuto così forti che sembrò non ci fosse altro al mondo che il terrore di Champa.

Ricordo i silenzi tra le grida che non facevano che renderle ancora più terribili. Quando Bhola uscì dalla casetta il lungi bianco era screziato di rosso. Il ramo di rosa era piegato e insanguinato.

Ricordo quando rinchiusero Jugnu per una settimana senza fargli toccare cibo. Quando lo liberarono non riusciva a stare in piedi, gattonava. Cercava di proteggersi la testa con le mani mentre Bhola lo prendeva a calci. Quando ci vide, Bhola gridò, “Venite tutte qui, venite a giocare a pallone con questo bastardo.” Restammo immobili dov’eravamo, vestite con le nostre gonne e le camicette color panna e caffè, le trecce ordinate. Piantate a terra mentre Jugnu gemeva di dolore. Bhola strillò di nuovo, “Venite qui, è un ordine!” Gli diede un altro calcio per mostrarci cosa intendeva. Ricordo che Minoti, una bambina con una gamba deforme, gli pungolava la pancia con la stampella. Che Jui lo colpiva con l’astuccio di metallo in cui teneva gli strumenti di geometria, che sferragliavano mentre gli sbatteva in testa l’astuccio, come un sasso che picchia sul legno. Che una bambina gli pestava una mano, una, due volte, e mostrava i denti. Ricordo Bhola che diceva, “Così, brave, così! Ancora! Rompetegli le ossa a questo stronzo.”

Ricordo la prima volta che entrai in una chiesa, non so dove in Italia. Le vetrate sgargianti, il tanfo mortale dell’incenso e le enormi statue in pietra di Cristo che stillava sangue, i preti con le loro tonache. Corsi lungo la navata e uscii sulla piazza, sotto la luce dura e accecante del giorno, e cominciò a girarmi la testa, mi si annebbiò la vista e vomitai vicino alla fontana. Il fazzoletto con cui mia madre adottiva mi asciugò il viso profumava di lavanda.

Ricordo le mie prime mestruazioni, all’ashram. Avevo da poco compiuto dodici anni. Avevo le gambe appiccicose di sangue e sulle lenzuola c’era una macchia rossa e umida. Mi rinchiusero nella capanna in cui finivano tutte le ragazze al loro primo ciclo. La pancia, la schiena, le gambe, mi faceva male tutto. Vomitai per il dolore. Mi venne la diarrea. Rimasi seduta tutto il giorno a guardare fuori da una minuscola finestra in attesa che arrivasse qualcuno, mi sentivo disperatamente sola.

Non dimenticherò mai cosa vidi quando rimasi chiusa lì dentro. L’odore di fumo. L’immensa fiammata che saliva in cielo dal boschetto di palme da cocco. Un trapestio di piedi, Jugnu davanti alla finestra della capanna che gridava, “Liberate la bambina! Fate uscire quella bambina, date fuoco a tutto! Il fuoco brucia il male!” Le altre mi dissero in seguito che, dopo avermi visto rinchiusa lì dentro, Jugnu era impazzito dalla rabbia. Aveva cercato di aprire la porta di nascosto per due notti e farmi uscire, ma l’avevano scoperto e picchiato quasi a morte. Non appena era riuscito ad alzarsi e camminare, si era spostato di albero in albero con una torcia accesa in mano. Era bastato sfiorare le fronde secche del cocco perché prendessero fuoco.

Ero rannicchiata accanto alla finestra a guardare l’oscurità, quando arrivarono Bhola e gli altri trascinandosi dietro Jugnu. Lo legarono a un albero. E poi lo presero a calci e a pugni. Alla luce arancione delle fiamme riconobbi i bastoni, i sassi, i piedi, le cinture e i pugni che si abbattevano su di lui.

Ricordo che alla fine vidi Guruji dare un calcetto a Jugnu. Ricordo la faccia di Guruji alla luce del fuoco. Non aveva alcuna espressione, come se scalciasse un sacco di fango.

Jugnu fu portato via. Forse continuò ancora a difendersi, o forse era solo un peso morto su cui gli uomini sputavano le loro luride imprecazioni. Li avevo sentiti davvero? Avevo sognato tutto o l’avevo visto? Non posso aver visto tutto, qualcuno deve avermi raccontato degli uomini grigi e bianchi al chiarore della luna, che correvano sulla sabbia verso il mare in tempesta. Il mare da dove Jugnu era arrivato, e da cui eravamo arrivate tutte noi, nascoste nella stiva di una barca. Nessuno sapeva che lui era lì. Nessuno poteva sapere che se ne era andato per sempre.

Il settimo giorno di reclusione mi fecero lavare i capelli con lo shampoo e mi diedero una saponetta nuova per fare il bagno. Era una saponetta rosa e tonda. Padma Devi mi tracciò il contorno degli occhi con il kajal, e chiese, “Riconosci i colori, con quegli occhi neri? O vedi tutto nero?” Mi diede degli abiti nuovi. Una lunga gonna azzurra con i lustrini d’argento e una camicetta più scura con una stampa di fiori scarlatti.

Aspettai come mi era stato detto, aspettai che Guruji arrivasse ed eseguisse i suoi rituali. Le campane della preghiera risuonarono nella sala della puja. Mezzogiorno. Il suono delle conchiglie. La fine delle preghiere. La campanella della scuola. Ora di pranzo.

Avevo le mani gelate e mi tremavano le ginocchia, ricordo, mentre contavo le campane. Non sapevo perché.

Ricordo che Guruji entrò, chiuse la porta a chiave, si sedette e si diede un colpetto sulle ginocchia. Ricordo che mentre parlava mi accarezzava le gambe. Mi disse che ero una suora al servizio di Dio. Ero la prescelta. Aveva sempre saputo che c’era qualcosa di speciale in me, mi disse, e così mi preparava per quel giorno da quando avevo sette anni. Disse di nuovo che era Dio in terra e che offrendogli i miei servizi mi sarei purificata. Mi tenne il viso fra le mani e appiccicò le sue labbra unte alle mie, mi infilò la lingua in bocca. Sembrava un serpente bagnato. Ricordo che continuò ad accarezzarmi, prima sopra i vestiti, poi mise le mani sotto. Ricordo di essermi divincolata, di aver cercato di scappare, di essere arrivata alla porta, aver preso uno sgabello per arrivare alla serratura e aprirla, e ricordo che quando si alzò, era così grosso da schiantarmi contro il muro.

Fu come se il mio corpo si spezzasse in due, quando mi costrinse ad aprire le gambe, le spalancò. Mi infilò un pezzo di stoffa in bocca per farmi smettere di gridare aiuto. Ricordo che le mie urla non avevano suono. Ci fu sangue. Un bruciore tra le gambe. La sensazione che il mio corpo venisse aperto, spaccato.

Ricordo che ogni notte correvo a sedermi sotto un rubinetto, con ancora addosso i vestiti, per lavare via tutto: gli odori, le impronte delle mani, il saporaccio che mi lasciava in bocca Guruji quando mi convocava nella sua stanza.

Ricordo che punirono Piku per non essere andata da Guruji. Le legarono un grosso sacco di sterco a una caviglia e dovette trascinarselo dietro ovunque andasse. Non aveva il permesso di entrare a scuola o nel refettorio. Mangiava fuori, legata a quel sacco puzzolente, con le mosche che le ronzavano intorno. Ricordo che mi punirono quando cercai di slegarlo: tre giorni nel canile, niente cibo. Nel canile c’erano sei cani, che avevano un odore acre, asfissiante. In un primo momento mi ringhiarono contro. Si avvicinarono ad annusarmi con le orecchie basse e le mascelle serrate. Ma finii a dormire in mezzo a loro, a mangiare gli avanzi dalle loro ciotole e quando mi leccavano la faccia sentivo la loro lingua ruvida e il fiato caldo. Uno dei cani si chiamava Pinto. Era fulvo come una volpe, con il naso appuntito. Il pomeriggio dormiva assieme me, con il didietro contro la mia pancia.

A volte arrivavano dei giornalisti per intervistare Guruji. Pubblicavano degli articoli sull’ashram, che poi si affiggevano alle pareti della scuola. Una volta una mia fotografia finì sul giornale. Eravamo una fila di bambine in piedi davanti a un albero, nello spiazzo tra le classi e i dormitori. Ero la terza da destra. Avevo due codini legati con dei nastri, l’aria imbronciata, gli occhi sporgenti, le gambe storte. Guruji era dietro di me. Con un sorriso paterno stampato in faccia. Ricordo che ne sentivo la pancia molliccia e il tronco che aveva in mezzo alle gambe poggiato fra le scapole. Ma dalla fotografia non si poteva capire.