IL QUINTO GIORNO

 

Suraj si svegliò all’alba e decise di andare a fare una nuotata. Restavano solo due giorni di lavoro a Jarmuli e non aveva nuotato neanche una volta. Nuotare in ogni mare in cui si imbatteva era uno degli imprescindibili rituali della sua vita, così come costruire una barca ogni anno o aggiungere un goccio d’acqua a un whisky di malto o fare il primo tiro di sigaretta solo dopo aver bevuto un sorso di caffè.

Dalla camera dell’albergo doveva percorrere dieci minuti di viottoli per arrivare al mare. Scaldò i muscoli delle spalle e distese quelli delle braccia, assorbì il grigiore azzurrino d’inizio mattina. Dopo aver scagliato via le ciabatte ed essersi sfilato la t-shirt si ricordò di avere il cellulare nella tasca del costume. Non poteva tornare indietro per lasciarlo in albergo: la perfezione dell’aria e della luce sarebbe durata un’altra mezz’ora al massimo. Scrutò la spiaggia in cerca di un posto sicuro dove nasconderlo. Era troppo costoso per rischiare di lasciarlo sulla sabbia.

Notò che il chiosco del tè preferito da Nomi stava per aprire i battenti. Il vecchio gobbo e pelato sistemava le panche azzurre all’ingresso e si era già messo al lavoro fra bollitori, pentole e barattoli. Un ragazzo camminava verso il chiosco, inclinato dal peso del secchio di ferro che trasportava e poco oltre un monaco meditava in acqua. Non c’era nessun altro. Si diresse al chiosco e chiese all’uomo se potesse dare un’occhiata alle sue cose. Lasciò maglietta e ciabatte ammucchiate sopra la panca, e le usò per coprire il cellulare.

Dapprima Suraj si distese sul bagnasciuga, lasciandosi sfiorare le dita delle mani da quel merletto di spuma bianca. Poi si spinse più avanti, a pancia in giù verso l’acqua, con la sabbia sotto di lui aspirata un po’ alla volta dalla risacca, sempre di più a ogni ondata, fino a spingerlo in acqua e poi al largo. Aveva passato quattro giorni d’intenso lavoro: quella ragazza era una stacanovista, puntigliosa all’inverosimile. Lo aveva trascinato per ogni centimetro quadrato di Jarmuli. Avevano perlustrato l’intera città, percorso ogni singola strada e preso appunti sui possibili set per le riprese; avevano visitato i templi, grandi e piccoli, e gli ospizi per i pellegrini indigenti; avevano girato qualche spezzone nelle cucine delle bettole lungo le strade; erano usciti in barca con i pescatori, li avevano immortalati mentre calavano le reti; avevano scattato fotografie notturne nella zona a luci rosse e, sognando di vincere chissà quale premio, Suraj si era intrufolato in un bordello per scattarne delle altre. Lo avevano buttato fuori, e un paio di volgari magnaccia li avevano inseguiti per strada mentre loro due se la davano a gambe. Una nuotata era quello che ci voleva. Ormai era rimasto da vedere solo un tempio del sole, il loro ultimo incarico insieme.

Mentre nuotava i pensieri gli fluttuavano dentro e fuori dalla testa. Ritornò alla sera prima, a lui e Nomi che bevevano ancora una volta nel giardino privato in albergo, lei che gli raccontava della visita a uno scultore di un villaggio e lui che le riferiva del pomeriggio trascorso con i funzionari governativi che avrebbero concesso i permessi per girare il documentario. Era rimasto seduto con lei a sorseggiare un whisky, a fumare una sigaretta, a giocherellare con la barca non ancora finita e riflettere su quanto fosse piacevole trascorrere una serata così, invece che da solo come cercava di abituarsi a fare. Nomi si era rivelata una compagnia divertente dopo una giornata di lavoro. Era diversa. Faceva battute, chiacchierava del più e del meno, e rideva alle sue barzellette fino alle le lacrime. Gli piaceva. Quel suo modo di ridere, buttando indietro la testa, la rendeva più sexy e indifesa ed esaltava il suo bellissimo collo affusolato. Ma ormai restavano solo un paio di giorni. E poi? Ancora a cercare su internet?

A poco a poco si allontanò dalle onde, ad ampie bracciate. L’acqua non era molto mossa, gli accarezzava la pelle con gentilezza. Ormai piuttosto distante dalla riva, raggiunse quell’assoluta solitudine che bramava fin dall’alba. Era come uno squalo che fendeva l’acqua indisturbato, senza alcun legame con la vita umana. Di là da quell’infinita distesa acquamarina c’era l’arco dell’orizzonte che tratteneva il mare. La sera prima, dopo aver lasciato Nomi nella sua porzione di giardino, si era messo a letto e le aveva scritto un SMS: “La bottiglia è finita, ma la serata no.” Non l’aveva spedito né cancellato, ma ora era contento di non essere stato abbastanza sbronzo da inviarle una banalità tanto sdolcinata. Il futuro era ovvio. Lei sarebbe tornata a casa da chissà quale vichingo e lui alle carte del divorzio da Ayesha.

Mentre galleggiava di schiena, rivolse gli occhi alla luce. Il cielo azzurro cobalto era attraversato da un aereo giocattolo a miglia e miglia di distanza. Una volta finita la barca avrebbe costruito un aeroplano. Non aveva detto a Nomi che in ogni barca infilava una lettera per suo padre. Non lo sapeva nessuno. Scritta a mano, con una grafia a malapena leggibile, su un pezzetto di carta che poi infilava in una pellicola di plastica e arrotolava affinché entrasse nella cabina. La lettera sarebbe affondata senza che nessuno la vedesse, insieme alla barca, da qualche parte chissà dove.

Si sentiva senza peso, gambe e braccia erano leggere e sciolte. Gli tornò in mente la storia di quando Nomi aveva rischiato di perdere il treno. Gli aveva chiesto, “Non ti sembra, a volte, di scomparire dalla tua vita?”

Smise di muovere le gambe, sentì i piedi che affondavano, si sentì trascinare giù anche lui. Qualcosa lo risucchiava e lo risputava su.

Il cane che aveva bastonato era sopravvissuto. Zoppo, cieco da un occhio, ma vivo. Gli aveva dato carne e latte ogni giorno, come forma di espiazione. Il cane si trascinava lontano quando gli portava il cibo nell’angolo di strada dove stava. E tornava timidamente a mangiare solo quando Suraj non si vedeva più.

Non avrebbe più mosso le mani. Non si sarebbe mosso affatto. Il mare poteva prenderselo. Da qualche parte là fuori sua moglie beveva una birra, mangiava un panino, faceva l’amore con il suo amico, e quel cane moriva.

Le gambe seguirono i piedi, i fianchi le gambe. Affondava. Non c’era più nulla che gli importasse se non quella sensazione di lasciarsi andare e non essere più costretto a provarci. La moglie, l’amante, il cane, la prima barca che aveva costruito e messo in mare da solo a sedici anni, dopo che suo padre era morto. Quando l’acqua si richiuse sopra di lui, ogni suono scomparve. Nessuna creatura vivente al mondo: nulla a cui tornare.

Proprio quando gli sembrava che i polmoni sarebbero scoppiati e che avrebbe aperto la bocca per lasciare che l’acqua lo riempisse e lo portasse via, si ritrovò invece a spuntare di colpo in superficie, a boccheggiare, tossire e agitare le braccia. Si sforzò di restare a galla ma colò a picco, emise un soffocato grido di aiuto mentre ingoiava boccate d’acqua salata. Si dimenò con tutte le forze che aveva in corpo e riuscì a riaffiorare in superficie. Da qualche parte era arrivata una barca che ora ondeggiava accanto a lui. Era verniciata di giallo e verde. Dalla sponda lo osservavano quattro pescatori che si dicevano cose che non sentiva. Uno dei pescatori gli allungò un remo. Suraj lo strinse fra le mani.

Lo trascinarono a bordo, cadde sulle latte arrugginite, le reti, le funi. I quattro lo guardarono e cominciarono a remare. Era molto lontano da riva, dissero, e quelle erano acque pericolose, con forti risacche che spesso risucchiavano i bagnanti. I pescatori erano a torso nudo, le braccia erano nervi, muscoli e vene fasciati da pelle di pergamena. Avevano uno straccio intorno alla testa per ripararsi dal sole, che ormai aveva fatto più di metà strada verso lo zenit e aveva bruciato l’alba.

Suraj era seduto sulla barca e cercava di riprendere fiato, ascoltava le chiacchiere dei pescatori che ridevano della loro malasorte e si scambiavano insulti e battute. Dopo un’intera nottata in mare non avevano pescato altro che un uomo! Che ci facevano di un uomo, eh? Si mangiava, un uomo? Si friggeva e serviva ai figli? Di un pesce, invece, si potevano usare tutte le parti, dalla testa alla coda, persino le pinne. Si poteva sgranocchiare anche la lisca. Si potevano friggere le uova e con l’olio ci si condiva il riso. I pesci piccoli, poi, si potevano mangiare tutti interi: testa, spine, occhi e compagnia bella, in una bella frittura saporita e croccante. I pesci sapevano nuotare, cantare, volare e addirittura uccidere. Se proprio non c’erano pesci, meglio pescare una donna. Se tiravi fuori dall’acqua una donna almeno potevi andarci a letto, venderla, o farla lavorare. Ma a che serviva un uomo? Se pescavi un uomo, tanto valeva ributtarlo in mare.

Uno dei pescatori lo indicò e disse, “Nella tua prossima vita sarai un grosso pesce. E ti prenderemo.”

La barca puzzava di pesce e cherosene. Suraj guardava le assi bagnate, le lattine e gli stracci, un calamaro morto fra le maglie di una rete. I remi tagliavano l’acqua in lenti affondi. Uno dei pescatori aprì la bocca piena di denti gialli e disse, “Volevi morire? Ci sono modi migliori.” Suraj sentiva le loro parole come da molto lontano. Aveva la testa colma d’acqua fino all’orlo.

Quando raggiunsero la riva, i pescatori si dimenticarono di lui, impegnati come erano a tirare la barca in secco e scaricare le reti. La spiaggia era più affollata, ora. C’erano gli amanti delle passeggiate mattutine e le pescatrici. Suraj doveva trovare il chiosco del tè, ma non sapeva da che parte andare. Vedeva solo sabbia in entrambe le direzioni, una distesa infinita che si incurvava di qua e di là. Dov’era l’albergo? Gli sembrava di aver nuotato sempre dritto, ma doveva essersi allontanato in diagonale. Non c’era niente di familiare, in quel tratto di spiaggia. Si sedette a terra, molle come un burattino senza fili. Non riusciva a muoversi, non ancora. Osservò i pescatori. Era un lavoro duro, trascinare a riva le reti e quelle funi pesanti, tirare e arrotolare allo stesso tempo. I denti sporgevano dai visi smagriti che si torcevano per lo sforzo. Erano come le loro barche, una spina dorsale al posto della chiglia, un telaio di costole.

Rimase a osservarli finché il sole non condensò l’acqua di mare che aveva addosso in scintillanti e pruriginosi cristalli di sale. Quando avevano ormai finito di lavorare e stavano per andarsene, Suraj si avvicinò a uno di loro e disse, “Non ho soldi con me adesso, ma ditemi la strada per l’albergo e se uno di voi mi accompagna vorrei… sì, insomma…” Aveva solo il costume, senza vestiti né cellulare si sentiva menomato. Se solo avesse avuto il portafogli avrebbe potuto dare loro tutti i soldi che c’erano dentro.

Quando uno dei pescatori lo riaccompagnò al chiosco del tè, Suraj ritrovò il mucchio dei vestiti sulla panca, proprio dove li aveva lasciati. Il telefono era sparito. Johnny Toppo disse, “Che ne so, babu? Io non ho toccato niente. Sei tu che ce l’hai lasciato, ero impegnato con i clienti. Il tuo mucchio di roba era lì, non ci si è avvicinato nessuno.” Ma poi sembrò che gli tornasse in mente qualcosa, e gridò “Raghu!”

In lontananza, in direzione opposta, Suraj riconobbe il ragazzo che quella mattina aveva visto arrancare con un secchio di ferro e che ora parlava con un uomo – non ne era sicurissimo, ma gli sembrava che fosse la guida con quella lunga unghia rossa, il tipo scontroso che gli aveva fatto fare il giro del tempio. Non prestarono la minima attenzione al grido di Johnny Toppo. Suraj fu colto da un’improvvisa e profonda stanchezza e si sedette sulla sabbia ad aspettare.

Johnny Toppo si allontanò con passo deciso, avvicinò le mani alla bocca e gridò con tutta la voce che aveva in gola. “Raghu! Brutto coglione. Sei sordo? Giuro che oggi è l’ultimo giorno che lavori per me. Adesso basta.”

Questa volta Raghu fece segno di aver sentito la voce di Johnny Toppo. Interruppe la conversazione con la guida e corse verso il chiosco, arrivò col fiatone. Johnny Toppo gli ringhiò, “Prendila con calma, avrai un sacco di tempo adesso che sei licenziato. Questo babu ha lasciato il suo telefono qui insieme ai vestiti, l’hai visto?”

Raghu alzò le spalle e rispose, “Ho di meglio da fare che tenere d’occhio gli stracci di qualcun altro.” Johnny Toppo allungò di scatto un braccio e gli diede una botta in testa. “Bastardo maleducato” gli disse. “Di meglio da fare, eh?”

Prese il ragazzo, lo girò di spalle e gli tastò i vestiti. La mano si fermò su una tasca dei pantaloncini.

Il ragazzo esclamò, “Non ho preso io, il telefono! Questo è mio! L’ho appena ricevuto, in questo istante.”

Johnny Toppo prese il mestolo di ferro dalla pentola piena di tè fumante. Il chiosco era torrido e fumoso, i fornelli lo facevano sudare.

“Il tuo telefono, eh?” disse. “Ma per chi mi hai preso? Un vecchio somaro? Il tuo telefono, coglione buono a nulla? E dove li hai presi, i soldi per un telefono?”

Lo prese a mestolate sulla schiena. “Hai rubato i soldi a me o il telefono a lui?” gridò. “Qui non c’è posto per i ladri.”

Il ragazzo urlava per il dolore. “Non l’ho preso io, non l’ho preso io! Questo è il mio telefono! Me l’ha regalato il babu del tempio!” E lo tirò fuori dalla tasca. “Guarda, babu,” disse a Suraj, gli allungò il telefono e lo supplicò, “è tuo, questo?”

Johnny Toppo afferrò il ragazzo per i capelli. Lo colpì di nuovo. Più Raghu gridava, più mestolate riceveva, finché Suraj non si riscosse dallo stordimento e riuscì ad alzarsi. Trattenne le braccia di Johnny Toppo e gridò, “Basta! Smettila. Non è il mio telefono! Lascialo stare! È solo un ragazzo!”

Si allontanò dal chiosco e si diresse verso l’albergo, ma le ginocchia cedevano, aveva i crampi allo stomaco, e i piedi non smettevano di affondare nella sabbia.

Vidya e Gouri erano ancora preoccupate per aver dimenticato il digiuno di Maha Shivaratri del giorno prima. Una giornata che le loro madri, e prima ancora le madri delle loro madri, avevano sempre trascorso senza toccare cibo né acqua fino alle preghiere del tramonto, un digiuno per invocare innanzitutto l’arrivo di un bravo marito, poi la sua buona salute e, dopo la sua morte, il benessere dei figli. “E invece abbiamo mangiato montagne di cibo! E in un ristorante pieno di pellegrini, come se non bastasse!” esclamò Vidya.

Com’era possibile che avessero dimenticato la fede di un’intera vita?

“Oh, la brezza marina l’ha spazzata via. Ma in vacanza è tutto concesso!” Latika mal sopportava la discussione che non accennava a terminare. Erano partite dall’albergo in auto, dirette al Tempio del Sole. L’autista era un bell’uomo e non aveva per niente “l’aria dell’autista”: così aveva sussurrato Latika quasi subito dopo essere salita a bordo. L’uomo aveva da poco superato i quarant’anni, non indossava abiti dozzinali, e non mostrava alcun segno di asservimento. Era garbato ma non ossequioso, cortese senza essere servile. Un principe in borghese, non un autista a noleggio. Nel formulare questo pensiero, Latika si nascose la bocca con la mano e sorrise tra sé e sé. Si era sempre vergognata di quei denti sporgenti.

Viaggiarono per due o tre ore su strade ombreggiate dagli alberi, prima con l’oceano a destra, poi schermato dalla vegetazione, e infine a riempire l’orizzonte di un azzurro miracoloso. A metà pomeriggio raggiunsero il Tempio del Sole. Si guardarono come per cercare conferma. Vidya assunse il tono di voce più appropriato all’occasione – né troppo zelante né troppo perentorio – e disse all’autista, “Le andrebbe di vedere il Tempio del Sole con noi?” Era un tempio in rovina, un’attrazione turistica più che un luogo di culto, e dunque sembrava educato proporlo. L’uomo acconsentì con un sorriso, e Vidya capì di aver fatto un buon lavoro, di aver usato il tono e le parole giuste. Gli comprarono un biglietto e un cocco verde da bere prima di iniziare la camminata fino alle rovine.

Il sole si avvicinava con ferocia, il calore bianco sembrava deciso a bruciare e distruggere ogni cosa. Lungo il corridoio delle bancarelle per turisti che costeggiavano i lati della strada, Vidya e Gouri si comprarono un cappello di paglia e rivolsero un’occhiata dubbiosa a Latika, che scosse la testa. “Te ne pentirai di sicuro” disse Vidya. “Due minuti e il sole ti farà venire il mal di testa.” Indossarono i cappelli e assicurarono l’elastico tra le pieghe del mento. Poco oltre, sulla strada per le rovine, Latika fece dietrofront e s’incamminò a passo spedito verso le bancarelle che avevano superato. “Non aspettatemi,” gridò, “vi raggiungo.” E scomparve tra la folla di turisti e negozi.

Vidya scrollò le spalle, esasperata. Considerata la solenne andatura di Gouri, pensò, non sarebbe stato difficile raggiungerle, per nessuno. Ripresero a camminare. L’autista le seguiva a debita distanza, per farsi vedere ma senza essere invadente.

Superati i negozi, si aprì davanti a loro uno spiazzo delimitato da un recinto che le proteggeva da decine di metri di precipizio verso il mare che s’infrangeva con violenza contro gli scogli. Quando si sporse per guardare giù, per un momento a Gouri parve di volare sulle ali di un aquilone, una sensazione già provata anni addietro, o forse solo qualche giorno prima. Difficile dirlo, tra quelle eterne rovine.

Il santuario principale del tempio si ergeva dalla scarpata come una roccia monumentale. Si erano appena fermate a guardare verso la torre quando Latika le raggiunse con in mano un ombrellino rosso orlato di giallo. “Non è carino? Così giapponese!” esclamò, roteando il bastone che aveva appoggiato sulla spalla da una parte all’altra e facendole sembrare ridicole nei loro goffi cappelli di paglia. “Si comporta come se avesse diciotto anni,” disse Vidya a Gouri sottovoce quando Latika non era a portata d’orecchio. “Fa sempre così, quando c’è un bell’uomo nei paraggi. Le storie che ripete di continuo sulle conquiste ai tempi del liceo. I complimenti quando le dicono che dimostra la metà degli anni.”

“Ma se ne ha quasi settanta!” disse Gouri. “Da non credere!”

I loro timori trovarono conferma nel bel mezzo della visita al tempio. A ogni santuario dovevano salire dei gradini scavati nella roccia per ammirare le sculture. E il sole continuava imperterrito ad ardere, furioso e accecante, irradiando calore dalle pietre. Di fronte ai gradini più ripidi che conducevano al più alto dei santuari, Gouri si lasciò cadere su una panchina all’ombra di un albero e disse, “Oh no, quello è davvero troppo, il sole scotta. Mi spaccherà la testa in due.”

“Dopotutto è il Tempio del Sole, è impossibile evitarlo” disse l’autista che intervenne così per la prima volta nella conversazione del pomeriggio.

“Lei vada pure avanti a dare un’occhiata” gli disse Vidya, e si sedette accanto a Gouri. “Noi ci riposiamo qui e la aspettiamo.”

“Io non ho bisogno di riposare,” disse Latika e fece girare il manico dell’ombrellino. “Non voglio andare via senza aver prima esplorato tutto!”

Vidya emise un sospiro sfinito e disse, “Latika…” Fece per alzarsi dalla panchina e si tenne un ginocchio con una mano. Quella fitta era forse il mal di schiena che tornava a farsi sentire?

“Perché ti alzi?”

“Be’, non puoi mica andare da sola, no? E se cadi?”

“Sciocchezze, non cadrò affatto. Se ti fa stare più tranquilla, andrò con… lui.” Latika scoccò un’occhiata all’autista. “Tu rimani qui con Gouri.”

Prima che Vidya potesse aggiungere altro, Latika si era già incamminata dietro all’autista verso il santuario più alto. Rimasero a guardarla filare via. Da dietro le si davano al massimo quarant’anni, tanto era snella e agile con la salwar kameez dai colori vivaci e le scarpe da ginnastica. L’ombrellino dondolava accanto alla spalla dell’autista. Gli rivolse lo sguardo e gli disse qualcosa: era molto più alto di lei e dovette chinarsi per risponderle.

Vidya sospirò. “Hai visto quante creme e quanti sieri anti-invecchiamento ha sul comodino? E il fondotinta! In tutti questi anni ha sempre detto che non metteva niente sul viso!”

“Sono andata a trovarla una volta, sua figlia era tornata dall’estero quel giorno” disse Gouri. “Avresti dovuto vedere la montagna di creme idratanti che le aveva portato.” Sorrise. “Chi non è mai stato carino, neanche da giovane, non si agita davanti a qualche ruga e a un po’ di grasso.” Rifletté su quanto stava per dire e aggiunse, “Sono contenta di trascorrere i miei ultimi giorni tra nipoti e preghiere. Ma un buon tè è importante. Voglio un buon tè, non chiedo altro.”

“E un po’ di crema per il viso” disse Vidya, e scoppiarono a ridere. I nipoti di Gouri amavano pizzicarle le guance e la pelle floscia delle braccia. Soffice come un soufflé, diceva sempre la nipotina.

Latika e l’autista avevano cominciato a salire i gradini verso il tempio principale, con i cavalli rampanti e i carri del dio del sole. La vigilia della prima cerimonia al tempio, secoli addietro, uno scalpellino era morto precipitando dalla torre; poco tempo dopo, il re era stato colpito dalla lebbra. A causa di quei cattivi presagi, il tempio non era mai stato consacrato e continuava ad avere un’aria minacciosa, sinistra. Man mano che salivano, la pendenza dei gradini diventava pressoché impossibile. Da quella distanza, le persone già arrivate in cima sembravano formiche che spuntavano e scomparivano tra angoli e colonne. Vidya vide che l’autista offriva a Latika la mano nel punto più ripido e lo fece notare anche a Gouri. Rimasero tutte e due a osservare Latika che prendeva la mano per poi sparire insieme all’autista dalla visuale, dentro al santuario.

Vidya sbuffò rassegnata. “Adesso staranno via per Dio solo sa quanto, e a noi toccherà aspettare qui in questo caldo mentre le spiega tutte quelle sculture di cento posizioni del Kama Sutra.” Risero e l’irritazione si stemperò. Vidya raccontò a Gouri di quando era stata al tempio, decine di anni prima, insieme al marito e altri parenti. L’avevano visitato in lungo e in largo senza fare una piega, ed erano rimasti colpiti solo dall’esuberanza artistica delle grandi ruote scolpite, dei leoni di pietra, e dall’espressione mistica del Dio Sole. Zii, nipoti, zie e cugini, avevano tutti finto di ignorare le coppie scolpite sulle pareti del tempio che s’intrecciavano da migliaia di anni in complicate varianti di amplessi. Un suo zio, maleducato, si era fermato a lungo davanti a un particolare bassorilievo. Vidya se lo ricordava con estrema chiarezza: era la scultura di un uomo che accarezzava i seni a una donna mentre lei gli stringeva il pene, grosso e oblungo come una zucca, e un’altra gli sedeva ai piedi e gli toccava i testicoli giganteschi. Lo zio si era lasciato andare a un commento sulle abilità che gli indiani dei tempi antichi dimostravano in fatto di yoga, atletismo e libertà di spirito, ma il resto del gruppo era andato avanti come se d’un tratto fossero tutti diventati misteriosamente sordi.

“Sul serio,” disse Gouri, “Latika riesce ancora a comportarsi da ragazzina… ti immagini che imbarazzo, se avessimo dovuto guardare quel genere di sculture davanti a un estraneo? Un autista!”

“Ho i brividi” disse Vidya tremando. “Questo posto è pieno di misteri. Ho sentito dire, sai, di un passaggio sotterraneo che va da qui fino al mare. Lo usavano per annegare i nemici.”

“Non ci pensare,” disse Gouri. “Ti farà stare male di nuovo.” Posò una mano sul braccio di Vidya. “Sembri accaldata, ti senti bene?”

Vidya prese un giornale dalla borsa e si sventolò. Si tamponò la fronte con il sari. Non girava neanche un soffio d’aria sotto quel cielo implacabile. Sentivano le voci lontane degli altri turisti, ma le parole erano indistinguibili. Un bulbul solitario beccava i fichi sull’albero sopra di loro, e faceva cadere di tanto in tanto qualche foglia rinsecchita. Vidya aprì il giornale. Era l’edizione del mattino, e aveva fatto bene a infilarlo nella borsa, portava sempre con sé qualcosa da leggere, nell’eventualità di un’attesa imprevista come quella a cui erano costrette.

Gouri osservò la sua bottiglia d’acqua e riferì a Vidya che proveniva da una sorgente himalayana, pura come l’acqua del sacro Gange. Poi affermò che la purezza della dea Ganga era statadistrutta proprio da coloro che dicevano di venerarla. Al fruscio del giornale di cui Vidya sfogliava le pagine si accompagnò il canto del bulbul sopra di loro. “Un altro incidente d’autobus” esclamò Vidya. “Venticinque morti, questa volta. Ma che differenza fa?” Gouri chiuse gli occhi e cercò di ascoltare solo il bulbul. Non voleva sentire le notizie. Non voleva pensare a nulla. Poi qualcosa tra le pagine del quotidiano catturò l’attenzione di Vidya. Avvicinò il giornale a Gouri, per mostrarle una fotografia. “È quel santone criminale. Notevole, eh? Ha un fascino inquietante. Guarda che occhi: hanno qualcosa di ipnotico.”

“Non voglio guardare un uomo del genere.” Gouri si voltò dall’altra parte. “Ti rubano la pace. Quanto era dolce, il canto di quell’uccellino. Chissà dove è andato.”

“Oh, andiamo, Gouri” disse Vidya e scosse la testa. Ma non aggiunse altro e tornò a leggere.

“I giornali sono pieni di brutte notizie” disse Gouri. “Per questo cerco posti tranquilli come questo, lontani dalla carta stampata.”

“Be’, è successo proprio da queste parti, sai” riprese Vidya. “Poco più avanti sulla statale…”

“Guarda” disse Gouri. “Pellegrini. Giapponesi, credo. Buddisti.” Non voleva che qualcosa rovinasse la purezza del mare e del cielo, quella serenità azzurra che aveva assorbito dopo un’ora abbondante di preghiera sulla veranda dell’albergo, alle prime ore del giorno.

Vidya piegò il giornale e riprese a sventolarsi. “Che schifo” disse. “Incredibile.” Teneva le labbra strette, quasi serrate, come se si sforzasse di non aggiungere altro. Sopra le loro teste si accese una battaglia gracchiante fra cornacchie che le costrinse ad alzare gli occhi verso l’albero. Uno svolazzare di piume cineree e una pioggia di foglie. Dovevano spostarsi da lì.

Quell’imprevisto diede a Gouri l’occasione di cambiare argomento. “Pensiamo a cosa fare stasera. Magari torno al tempio.”

“Stasera vorrei andare a quell’altra spiaggia dove fanno il mercato. Non c’ero quando ci siete andate voi due. Voglio comprare un souvenir, bere il tè di cui mi hai parlato.”

Gouri ricordò qualcosa e si riaccese. “Sai chi abbiamo visto sulla spiaggia mentre bevevamo il tè?”

“Chi?”

“Suraj! Abbiamo visto Suraj!”

Appena pronunciò quelle parole, Gouri si tappò la bocca con la mano. Non avrebbe dovuto dire a Vidya di suo figlio. Certo che no! Suraj non avrebbe dovuto essere lì, tanto per cominciare. Latika si sarebbe arrabbiata a morte con lei.

“Suraj?” chiese Vidya. “E come è possibile? È a Hyderabad per lavoro. Perché mai avrebbe deciso di raggiungermi qui?”

“Oh, no” fece Gouri con un sorriso forzato. Le mancava il fiato, farfugliava, “Quanto sono stupida, non faccio altro che confondere le persone. Volevo raccontarti del chiosco del tè nelle tazze di terracotta, ma poi…”

“Ma cosa dici? Non hai visto Suraj?” Vidya si alzò, in palese agitazione. “L’hai visto sì o no?”

“No, in effetti, mi riferivo al marito di Parul: ti ricordi, mia nipote Parul? Oh, credevo l’avessi conosciuta. Be’, il marito assomiglia moltissimo a Suraj e ho creduto…”

Arrivò Latika, con il pieno di notizie. “Non è un autista. È il direttore dell’albergo. Ci ha accompagnato lui solo perché, all’ultimo momento, l’autista non si è presentato al lavoro. Sa così tante cose sulle sculture antiche! Le conosce una a una, mi ha spiegato il loro vero significato. Poi vi racconto tutto.”

Vidya non aveva la minima intenzione di ascoltarla. Affrontò Latika di petto, con le mani sui fianchi. “Ieri Suraj era qui in spiaggia, a quanto dice Gouri. L’hai visto anche tu? Perché non me l’hai detto?”

Mentre Vidya pronunciava queste parole, suo figlio era molto più vicino di quanto potesse immaginare: tra quelle stesse rovine, impegnato a salire una rampa di gradini di pietra sormontata da una coppia di grifoni. Suraj scelse una sporgenza in ombra per sedersi. Aveva con sé una manciata di brochure turistiche e un taccuino. Vide che Nomi era poco lontano, accovacciata, a cambiare la lente della macchina fotografica. Poi la vide stiracchiarsi, adocchiare qualcos’altro e chinarsi fin quasi a terra, in equilibrio sulle ginocchia. Indossava un kurta blu scuro troppo largo per lei, uno degli abiti indiani che si era comprata per mescolarsi alla gente del posto. Aveva tagliato le maniche per il caldo e lo indossava insieme a degli informi pantaloni bianchi che le arrivavano alle caviglie. Ai piedi scarpe da tennis rosse.

Era la sua idea di decoro indiano. Il pigro sorriso che si schiuse sulle labbra di Suraj gli fece quasi cadere la sigaretta, così la strinse fra pollice e indice, aspirò e osservò la ragazza. Il kurta le cadeva addosso, morbido come una sottoveste e le scivolava di continuo sulle spalle. Spalle ossute che si trasformavano in braccia snelle ma muscolose. I suoi bicipiti si erano ammosciati da un pezzo, lei invece era giovane, e si vedeva che si teneva in forma.

La vide puntare l’obiettivo su un fregio di elefanti in processione. Lavorava. Lui no. Doveva ancora riprendersi dallo spavento di essere quasi affogato, quella mattina. Gli faceva male il petto, aveva lo stomaco teso come una pelle di tamburo. Non sarebbe andato al tempio, se Nomi non glielo avesse chiesto con un impersonale tono assertivo, come se la donna della sera prima che sembrava pendere dalle sue labbra non fosse mai esistita.

E così aveva obbedito, anche se non era andato oltre la fatica di rollarsi una canna e fare un tiro. Si sentiva troppo vecchio per quel genere di cose. A un uomo che cominciava ad avere i capelli grigi non si poteva chiedere di correre qua e là per i monumenti a prendere appunti e scattare foto, c’erano cose da cui doveva essere esonerato una volta per tutte. Si appoggiò all’indietro, chiuse gli occhi, assaporò il fumo e ascoltò la voce penetrante della guida di un gruppo di turisti occidentali. Dopo un po’ sentì una delle donne del gruppo che chiedeva con tono accusatorio, “Quello è un bambino? Quello lì che…”

Qualche passo indietro rispetto al gruppo, Nomi si fermò a guardare il bassorilievo indicato dalla signora. C’era una donna nuda, formosa ma dalla vita sottile, stretta in un abbraccio estatico con un uomo, labbra contro labbra, le gambe cinte intorno ai fianchi. Ai loro piedi, ad accarezzare una gamba dell’uomo, c’era una figura così piccola che avrebbe potuto essere scambiata per un bambino.

“Non è un bambino, signora, no. Non ci sono bambini in questo genere di sculture. Non nella cultura indiana” disse la guida.

“Be’, c’è tutto il resto, no?” La donna si voltò in direzione di Nomi con un luccichio negli occhi grigi. “Ce ne sono di cose strane, qui: uomini e cavalli, donne e cammelli, orge a quattro e a otto! Li avete visti?”

“Niente bambini, signora” ripeté agitato la guida. “Guardi.”

Non osava descriverli, ma indicava i seni tondi della figura più piccola. Era una donna, non un bambino, e su quello non c’erano dubbi.

“Una nana, allora” disse uno del gruppo, un uomo con un cappello di paglia. “Non è un bambino ma una nana che deve averne viste di tutti i colori.” L’intero gruppo ridacchiò e la donna dagli occhi grigi aggiunse, “Di sicuro ne hanno viste tutti più di noi due!”

“Ci sono dei bassorilievi che raffigurano bambini, ma sono bambini che giocano.” La guida era infastidita dalla loro superficialità e indicò le sculture puntando il dito con forza e convinzione. “Nell’antica India non ci sono barriere tra la vita e l’amore. L’erotismo è creazione, per questo è celebrato nei nostri templi. Non c’è niente di male. Cercate di capire!” Dal gruppo si sentì borbottare, “Come no!”

La voce della guida si affievolì man mano che si allontanava con il gruppo. Nomi s’inginocchiò a guardare la piccola figura alla base del bassorilievo. No, non era un bambino, la guida aveva ragione. Ma potevano esserci, dei bambini, in quelle raffigurazioni libidinose? Si spostò di scena in scena, osservò uno dopo l’altro gli spasmi dell’estasi. Nonostante fosse circondata da tanta fornicazione si sentiva calma. Forse la certezza di rimanerne disgustata la rendeva più forte. Non c’erano bambini in quel tempio, la guida aveva ragione, né di certo bambine palpeggiate da uomini anziani. E se forse uno era un bambino, stava fra le braccia di una donna dallo sguardo materno.

Si chiese cosa avrebbe pensato la sua madre adottiva di quel tempio. Fu colta da un’improvvisa fitta di rimorso. Due madri. Una l’aveva persa, e il bisogno di ritrovarla la tormentava da sempre; l’altra era una donna che aveva trovato ma alla quale non aveva mai concesso di avvicinarsi.

Poco prima del viaggio in India, era andata dal suo monolocale a casa della madre adottiva per prendere alcune cose. L’aveva trovata sola, seduta in soggiorno davanti alla tv senza audio. Non si era mossa dalla poltrona. Era rimasta a guardare Nomi che saliva le scale, ad ascoltare il suono dei mobiletti e degli sportelli che si aprivano e chiudevano, ma non aveva fatto domande e Nomi sapeva che se non parlava era per il terrore che lei tornasse in India a seguire qualche traccia di cui non voleva rivelare nulla. Andava dalla famiglia naturale? L’aria era tesa, troppe le domande non fatte.

Allora Nomi fu travolta da un’improvvisa ondata di compassione per la donna seduta nella poltrona, e si sentì sfinita dal fardello di tutte le cose che non avrebbe mai potuto raccontare a nessuno. Andò verso il mobile bar e versò per sé e per sua mamma adottiva due bicchierini di acquavite e due boccali di birra mentre la madre adottiva la guardava attonita. Non avevano mai bevuto insieme se non per circostanza, a Natale. Continuò a rabboccare i bicchieri finché la donna non cominciò a sorridere, disse che forse avrebbero fatto meglio a mangiarci sopra qualcosa, e riscaldò una montagna di polpette che servì sui loro vecchi piatti bianchi e blu. Dopodiché preparò il caffè e lavò i piatti. Quando se ne andò non si abbracciarono, ma Nomi fece lo sforzo di allungarsi verso sua madre, stringerle il braccio e pronunciare un goffo “a presto” prima di caricarsi lo zaino in spalla e uscire sotto la pioggia scura.

Era tutto così lontano, ormai: quella pioggia fredda, il buio a mezzogiorno, la madre adottiva. Qui il sole le cuoceva la testa e c’erano ancora molti santuari da visitare. Decise di andare a cercare Suraj, era tempo di ritornare professionali. Eccolo lì, ancora appisolato. Quando lo chiamò, si svegliò a fatica. Ci fu un momento di vuoto tra la decisione di aprire gli occhi e l’atto vero e proprio.

“Ehi, perché dormi? Alzati! Prendi appunti. Vieni con me.”

Capire il significato delle parole: anche per quello gli servì qualche istante in più, come in una telefonata intercontinentale con la linea disturbata. Le disse, “Tutte cose già viste e riviste.” In preda a un’infinita lentezza. Osservò un uccello che li sorvolava. Una nuvola bianchissima scivolava obliqua nel cielo azzurro.

“Tirati su.” Gli porse una mano. Lui la guardò. “Dai, andiamo.” Mise la mano nella sua e lei lo issò, poi gli lasciò la mano e si incamminò, chinandosi a studiare più da vicino una scultura all’altezza del ginocchio. “Riesci a capire di che si tratta?”

“Direi un animale” rispose Suraj con uno sbadiglio. “Con un pallone al posto della pancia e un paio di baffi. Non che io abbia mai visto un animale del genere.”

“È un leone, non vedi? Ne ho visto uno così… cioè non proprio, ma molto simile. L’ho visto ieri, da quello scultore. Allora diceva la verità!”

Suraj rimase sorpreso da tanto entusiasmo. Rimase ad ascoltarla quando gli spiegò che il leone sulla parete confermava la tesi per cui lo scultore discendeva dalla famiglia di artisti che avevano lavorato al tempio. Sarebbe tornata da lui, disse con fermezza, e avrebbe comprato uno dei suoi lavori per dimostrargli che gli credeva. Suraj capì che non sarebbe servito a nulla farle notare che quel posto era pieno di artigiani capaci di sfornare riproduzioni artistiche delle sculture del tempio. Possibile che fosse così ingenua da credere a tutto ciò che le dicevano?

Scesero i gradini e attraversarono il cortile, verso la torre più alta. Ai suoi occhi fumosi, i visitatori già arrivati in cima sembravano un esercito di topi che sgambettavano su un’enorme montagna di pietra. Ebbe un giramento di testa. Borbottò, “Oh… lascia perdere. L’ho già vista. Non è niente di che.”

Una guida che accompagnava un gruppetto di turisti giapponesi lo guardò di traverso e gli disse, alzando la voce, “È una delle grandi meraviglie del mondo, questo rinomato tempio dedicato al sole.” Poi proseguì con i clienti e Nomi lo spronò, “Forza, Suraj, è un tempio dedicato a te. Andiamo a vederlo. Ti chiami come il sole.”

“Ci sono stato con i miei. Se ti dico che l’ho già visto è la verità.”

Sulla torre correvano alti gradini di pietra ricavati dai fianchi della parete, senza balaustre o corrimano di alcun tipo. Nomi li affrontò intimorita, con gli occhi piantati sui piedi. “Dev’essere stato molti anni fa” gli disse. “Di certo non ti ricordi niente. O comunque non abbastanza da scriverci un resoconto per la casa cinematografica.” Suraj non aveva idea di cosa risponderle, preso com’era da un vago e pericoloso senso di vertigine, una sensazione che sentiva di dover combattere, perché gli diceva di lasciarsi cadere proprio come aveva fatto in mare al mattino: lasciarsi andare, fluttuare e precipitare da una grande altezza. Si fermò e si schermò gli occhi dal sole. Se si girava a guardare Nomi, che lo seguiva gradino dopo gradino, vedeva la terra in lontananza e il cielo a distanza incommensurabile. I gradini erano ripidi, Nomi faceva fatica, l’attrezzatura fotografica era pesante. Avrebbe dovuto darle una mano. Poi vide che il kurta le scivolava sulla spalla di nuovo. Fu allora che, sulla pelle nuda, notò un neo scuro. Minuscolo. Forse in rilievo: difficile dirlo senza toccarlo.

Si protese verso di lei e allungò un dito.

In quel preciso istante, mentre lui si sporgeva e Nomi gli dava la mano pensando che volesse aiutarla a superare quel tratto ripido, Suraj vide un’amica di sua madre, Latika, che saliva anche lei i gradini un po’ più indietro. Un uomo alto e molto più giovane di lei le teneva la mano, come se si conoscessero da anni. Suraj chiuse gli occhi, li riaprì. Erano ancora nello stesso punto. Doveva aver fumato troppo. Era strafatto. Aveva le allucinazioni. Per caso aveva preso anche qualche pasticca, quella mattina?

Poi gli tornò in mente – come un ricordo molto lontano – che sua madre gli aveva detto che voleva andare in vacanza con le amiche. Non l’ascoltava mai quando gli parlava al telefono, le sue chiacchiere gli arrivavano a malapena all’orecchio. Di solito navigava su Internet e percepiva la voce di sua madre in sottofondo, come una musica a cui non era particolarmente interessato. Una volta aveva persino mollato il telefono nel bel mezzo di una chiamata, il tempo di cercare il pacchetto di sigarette e accendersene una. E non si era sbagliato: non si era neanche accorta che non ci fosse più nessuno all’altro capo.

Si affrettò a ritirare la mano e Nomi disse, “Che fai? L’imitazione del soffitto della Cappella Sistina?” Salì di un altro gradino.

Suraj invece cominciò a scendere di corsa. Inciampò, rischiò di cadere, ma ritrovò l’equilibrio e proseguì la discesa a tutta velocità.

“Ehi, così cadi, attento!” Lo guardò sgomenta. “Dove vai? Cos’è successo?”

“Devo andare via. Subito. C’è stato un imprevisto” le gridò Suraj da dietro le spalle. “Ti aspetto in macchina, ok? Vieni giù quando hai fatto.” Scomparsa ogni traccia di vertigine, scese la scalinata e attraversò il cortile così in fretta che Nomi non riuscì a chiedergli altro. Si guardò intorno confusa: da che cosa stava scappando? Non le sembrava che qualcuno lo inseguisse

Nomi lo vide infilarsi tra la folla. Lo osservavano anche due uomini snelli con grandi cinture in vita, occhiali a specchio e pantaloni attillati. Quando Suraj uscì dalla loro visuale, posarono lo sguardo su di lei. Uno fischiò piano e l’altro disse, “Sexy, sexy.” Nomi si allontanò, salì i gradini che portavano al livello superiore e incontrò lo sguardo di un altro uomo, che la fissava. La affiancò in un baleno e con una voce stridula le disse, “Servizio guida, signora! Guida autorizzata. Cento per cento, signora. Questo Tempio del Sole fu costruito nel…”

Lo ignorò e fece per imboccare la successiva rampa di gradini quando d’un tratto le sembrò tutto inutile e le sculture di uomini e donne che si contorcevano sulla pietra le apparvero oscene. Non sopportava più di trovarsi in mezzo a quei personaggi che si accoppiavano, si accarezzavano, e si mettevano in verticale per fare sesso. Faceva così caldo che la testa era come sul punto di aprirsi in due. Perché il cielo era così spaventosamente azzurro? Perché indossavano tutti sari di quell’arancione color bile? Possibile che in quel paese non ci fossero colori tenui? Le girava la testa, quando chiuse gli occhi vide stelle azzurre, rosa e viola. Era su una spiaggia sabbiosa. Un cane le andava incontro. L’immagine della barca si diradava e il sole era un fuoco acceso. Aveva fame e sete, era sola, e quando gridò non arrivò nessuno.

Più tardi, quel pomeriggio, Badal parcheggiò il motorino e s’incamminò verso il chiosco di Johnny Toppo, con una mano infilata in tasca ad accarezzare il cellulare. Gli ultimi due giorni erano stati un inferno, passati a chiedersi se Raghu sarebbe mai tornato. Badal era andato a cercarlo in spiaggia due, persino tre volte al giorno, per dirgli che non gli importava con chi usciva a bere una birra, ma ogni volta aveva trovato solo Johnny Toppo che imprecava perché Raghu non si era presentato al lavoro. Quella mattina, però, aveva intravisto la t-shirt rossa che conosceva bene ed era andato di corsa da lui. Finalmente aveva regalato a Raghu il telefono: poteva chiamarlo quando voleva. Da quel momento in poi, niente più incertezze.

Badal fu percorso da un fremito di felicità. Un istante dopo si ricordò di non aver trascritto il numero di telefono del cellulare. E s’incupì ancor di più ripensando alla goffaggine con cui aveva messo il telefono nella mano sudata di Raghu, dopo aver interrotto le sue flessioni. Avrebbe voluto che quel momento esprimesse tutto ciò che desiderava dire a Raghu e per cui non aveva mai saputo trovare le parole. E invece?

“Cos’è?” gli aveva chiesto Raghu in tono sospettoso.

Badal si sforzò di mettere insieme le parole ma in quel preciso istante, prima che potesse dire qualcosa di sensato, Johnny Toppo aveva chiamato il ragazzo gridando, e poi di nuovo, sempre più impaziente. Badal avrebbe voluto ricacciargli la lingua in quella vecchia gola arrugginita e farlo stare zitto per un po’.

Si disse che era un regalo costoso per il quale non servivano spiegazioni. Raghu sapeva cosa significava e proprio per questo l’aveva accettato.

Ma avrebbe preso qualsiasi cosa, da chiunque.

Badal intravide un accenno di rosso e grigio che poteva appartenere a Raghu, e di nuovo i passi si trasformarono senza volerlo in una corsa. Il ragazzo era piegato sul secchio di ferro pieno di tazze d’argilla. Man mano che assorbivano l’acqua del secchio rilasciavano morbide bolle. Se non si immergevano le tazze di terracotta per ore, prima di usarle, quando si versava il tè rischiavano di gonfiarsi. Così gli aveva insegnato Johnny Toppo. Raghu le prendeva dal secchio e le impilava con cura su un tavolo vicino. Quando Badal gli disse all’orecchio, “Sei tornato! Dov’eri finito?” Raghu trasalì spaventato e lasciò cadere le quattro tazze che aveva in mano, rompendole. Alzò lo sguardo per vedere se Johnny Toppo se ne fosse accorto e brontolò, “Come diavolo ti viene in mente di sussurrare in quel modo?”

Si alzò, sistemò le tazze lavate sul carretto e segnò l’ordine di una coppia che voleva del tè, uno con lo zucchero e uno senza, e sì, magari anche un paio di quei biscotti… anzi no, tre. Johnny Toppo era sul lato opposto, impegnato con dei bambini e i loro genitori che chiedevano “Bibite al latte, al latte e cioccolato. Non ne avete?”

“C’è una cosa che…” bisbigliò Badal a Raghu. “Vieni via solo un minuto. Johnny Toppo ce la fa da solo.”

Johnny Toppo ce la fa da solo” lo imitò Raghu. Ma si allontanò dal chiosco.

“Volevo solo chiederti…” cominciò Badal. Ma non era mai stato bravo a parlare e persino ora che si era lì proprio per quello, non trovava le parole. Fu distratto da Raghu che si grattava qualcosa sul braccio – forse la crosticina di un’altra ferita: ma come se le procurava? Sembrava quasi che si tagliasse di proposito, per avere poi una crosta da tormentare. Eppure era così bello, di una bellezza impossibile in quei suoi stracci rossi e grigi e quelle ciabatte di plastica azzurra. Avrebbe voluto chiedergli, ti è piaciuto il telefono? Ti sei accorto che ci ho salvato il mio numero? Sai cosa significa? Capisci la portata della cosa?

E invece si ritrovò a dire, “Quel pomeriggio… vicino alla barca… sei scappato… hai per caso preso il mio motorino e poi me lo hai riportato a casa? Mi hai sfilato le chiavi del motorino dalla tasca?”

Non poteva pronunciare parole più sbagliate ovviamente. Cercò tuttavia di mostrarsi divertito dal fatto che le chiavi e il motorino erano scomparse. Accennò un sorriso.

“Mi dai pure del ladro? Prima mi dicono che ho rubato un telefono, adesso… Che vi prende, a voi vecchi rincoglioniti? Che c’è tanto da ridere, poi? Non ruberei quel catorcio neanche se mi pagassero.”

“Non urlare” lo supplicò Badal. “Non intendevo questo, per niente. Credevo che volessi farmi uno scherzo… che volessi prendermi in giro.” Non aveva intenzione di porre la domanda in quel modo. Voleva solo ricordare a Raghu quel pomeriggio, e quello che era successo prima che il motorino scomparisse. Ma forse, in realtà, voleva chiedere del monaco in occhiali da sole e della sera in cui aveva visto Raghu con quegli stranieri.

No, quello non voleva chiederlo, non ce n’era bisogno.

Raghu tornò al chiosco e si chinò di nuovo davanti al secchio. Badal gli si accovacciò accanto. Raghu si girò dall’altra parte e si mise a lavare la pila di tazze d’argilla. Ne prese altre quattro e le immerse nell’acqua. “Sparisci” disse. “Non ho tempo per queste cose, adesso.” Curvo sulle tazze, i capelli come un nido secco e sbiadito dal sole, aveva un’aria infantile così vulnerabile che Badal avrebbe voluto abbracciarlo e dirgli, Non dovrai più lavorare, penserò io a te.

“Credevo solo che avessi preso il motorino per farti un giro” disse Badal con un bisbiglio incalzante. “Cosa credi che pensassi, eh? Altrimenti perché ti avrei fatto un regalo? Ti ho preso quel telefono per…”

“Per quel telefono ho rimediato un sacco di botte, ecco a cosa è servito.”

“Ma non capisci…?” lo implorò Badal.

“Che cosa? Cos’è, che non capisco?” Raghu parlava lentamente, mordeva ogni singola sillaba. Aveva un tono bellicoso nella voce. L’aveva alzata, troppo. Badal si guardò intorno nella speranza che nessuno li ascoltasse.

“Non vedi cosa c’è tra noi?” sussurrò. “Lo capisci di sicuro come lo capisco io, che tra noi è successo qualcosa. Ecco perché ti ho comprato quel telefono. Così, ogni volta che…”

Mentre parlava sentiva la bocca asciugarsi, le mani sempre più sudate e appiccicose. Si sentì risalire da dentro un buio che gli toglieva il respiro, eppure in quel momento vedeva tutto con una chiarezza angosciante.

La folla li schermava. Si trovavano nell’occhio di un ciclone tutto loro. Avevano intorno il ronzio e il ruggito delle altre persone. Non era così che sarebbe dovuta andare, ma bisognava rassegnarsi. Succede sempre con le cose importanti, con le cose che ti realizzano o ti distruggono la vita.

Johnny Toppo gridò, “Arre, Raghu, muoviti con quelle tazze. C’è gente che aspetta.”

Raghu rivolse a Badal una smorfia divertita e disse, “Ah è così, eh? Ma non mi dire!”

Johnny Toppo si precipitò verso di loro. “Adesso basta, mascalzone. Ti ho detto che ti avrei licenziato” gli disse. “Mi hai supplicato di tenerti. O lavori come si deve o prendo qualcun altro. Non c’è scritto da nessuna parte che devo sfamarti gratis.”

Raghu si alzò e disse, “Tranquillo, zio, sto solo intrattenendo uno dei tuoi clienti. Anche questo è lavoro, o no?”

Fece a Badal un altro mezzo sorriso prima di tornare ai fornelli. Spostò appena il coperchio della pentola e ne uscì una nuvola profumata di tè: un tè scuro, corposo, gorgogliante, dolce e speziato. Ne versò una tazza, con la stessa tecnica di Johnny Toppo per riempirla a metà di schiuma, poi la porse a Badal. C’era qualcosa di malizioso nel modo in cui la tenne sospesa sopra la pentola per qualche istante, prima di consegnargliela. La tazza era bollente e Badal non capiva perché Raghu gliel’avesse data. Non beveva mai quel genere di tè, e lui lo sapeva. Erano mesi che gli serviva tè al limone non zuccherato, senza bisogno di chiedere. Fissò il ragazzo oltre la nuvola di vapore. Non voleva nessun tipo di tè. Visto che Raghu non si degnava di guardarlo, Badal si allontanò dal chiosco e versò il contenuto della tazza su un granchio grigio dall’aria preistorica e spenta di un sasso, poi lo osservò sgambettare sotto la sabbia che assorbì il liquido caldo.

Ruppe la tazza con un calcio. Le creste affilate delle onde increspavano la superficie di quel mare color granito a perdita d’occhio. Pensò che avrebbe potuto entrare in quella distesa smisurata fino a diventare un puntino a malapena riconoscibile e sempre più distante. Intorno a lui gironzolavano i turisti in vacanza, con amici o parenti, impegnati a fare shopping, ridere, chiacchierare, scoprire cose, correre verso l’acqua. C’era anche una giovane coppia. Badal capì che vivevano in un mondo in cui non esisteva altro che loro: niente lavoro né famiglia, niente ieri né domani. Non si guardavano, non parlavano né si tenevano per mano, ma erano uno accanto all’altra e si toccavano all’altezza dei fianchi e delle spalle, come se una momentanea interruzione di quel contatto potesse riscuoterli da un fragile incantesimo.

Badal tornò a casa in motorino in meno di dieci minuti. Nessuno lo aspettava per quell’ora. Sapevano che di solito restava fuori il più possibile. Sentì la voce roca di suo zio gridare dal balcone, “Chi c’è di sotto? Jadu? Jadua!” Badal non rispose, e non andò neanche al rubinetto per lavarsi la faccia. Puntò dritto in camera sua e si lasciò cadere sulla branda. Gli facevano male le ossa per la stanchezza, un dolore che riempiva la stanza e gli svuotava i polmoni.

Provò a dormire. Dopo un po’ si rese conto che stava guardando un chiodo nel muro sopra la porta. Era un chiodo di ferro, enorme. Badal fu scosso da un brivido freddo e profondo. Gli faceva male la testa, come se quel chiodo gli perforasse il centro della fronte, lo stesso dolore che aveva provato mentre guardava un parente conficcarlo nel muro a martellate, dopo la cremazione di suo padre. Non ricordava la faccia di quel parente, ma conservava il ricordo sfuocato di un altro uomo, gobbo e rinsecchito, che era venuto al funerale. “Si usa così” aveva spiegato l’uomo accarezzando la testa di Badal, che allora aveva nove anni, mentre battevano il chiodo nel muro. “Serve a proteggere dagli spiriti maligni una stanza in cui è morta una persona.” Non sapeva chi fosse quell’uomo, ma quando Badal appiccò la pira funebre accostando la torcia alla testa di suo padre, come prevedeva il rituale, gli si avvicinò e insieme osservarono il corpo ardere, un bambino e un anziano avvizzito. Gli aveva messo una mano sulla spalla e aveva cercato di consolarlo dicendo che un corpo che si trasforma in una manciata di cenere non è altro che carne. L’anima è eterna, aveva detto, tu non l’hai perso, sarà sempre con te anche se non lo vedrai.

Un singhiozzo asciutto gli scappò di bocca come un rantolo improvviso. La massa compatta e rassicurante di un corpo. Il corpo che abbracciamo, stringiamo, accarezziamo: cosa resta quando il corpo non c’è più? Nessun altro avrebbe dormito dove avevano trovato morto suo padre. Badal non avrebbe dormito da nessun’altra parte.

Pensò al suo unico amico di quei tempi, un bambino che abitava in fondo alla via. Andavano a scuola, studiavano e giocavano insieme. Una volta, per strada, si erano infilati per gioco in un vecchio condotto delle fognature e si erano trovati faccia a faccia con la testa di una capra appena sgozzata che qualcuno all’estremità opposta teneva penzoloni. Aveva denti grandi e occhi sporgenti. Il pelo era intriso di sangue fino al collo. La testa ciondolava perché la persona che la teneva rideva così tanto da non riuscire a farla stare ferma. Quando i due bambini avevano cercato di scappare all’indietro lungo il condotto, si erano fatti prendere dal panico ed erano rimasti incastrati dentro. Badal non ricordava più come fossero riusciti a liberarsi e a uscire. Ma ricordava la gentilezza con cui la madre del suo amico gli aveva lavato la faccia, quel pomeriggio, se l’era messo a sedere in grembo e gli aveva dato da mangiare paratha morbide e calde con lo zucchero, prima di rimandarlo a casa.

Ripensare a quelle paratha gli fece venire una gran fame. Non mangiava dalla mattina. Si alzò a fatica dalla branda e raggiunse la cucina dall’altra parte del cortile. Aprì la porta e vide una pila luccicante di pentole capovolte. Nel cesto dove la zia teneva le verdure c’erano tre patate e una cipolla. La stanza sapeva di guaiava troppo matura. Seguì l’odore e trovò un frutto, ormai morbido come una banana e chiazzato di nero. Lo mandò giù in due bocconi prima che la puzza lo assalisse. Si guardò intorno. Oltre la reticella della dispensa nell’angolo vide tre ciotole di cibo, coperte. Il mobile era chiuso a chiave. Strattonò il lucchetto nel caso cedesse. Il martello riprese a conficcargli in fronte il chiodo rovente. Il lucchetto non si apriva. Si spostò verso la fila di barattoli sulla mensola e li scoperchiò uno a uno: riso, farina, dal, coleotteri che sgambettavano tra i chicchi di riso. Una bottiglia d’olio.

Vide la propria mano versare l’olio sul pavimento, svuotare i barattoli di riso e di farina, e spingere la pila di pentole pulite che cadde a terra in un assordante clangore metallico. Tornò sui propri passi e lo zio gridò, “Jadua, il gatto! Non è il gatto! Ladri! Fermate i ladri!” Badal sapeva che se avesse trovato una scatola di fiammiferi avrebbe rovesciato la stufa a cherosene e gli avrebbe dato fuoco.

Tornò nella sua stanza giusto il tempo di prendere le chiavi del motorino e la scatola di metallo in cui, anni prima, aveva nascosto gli occhiali e il rosario di suo padre, un coltellino svizzero multiuso e un modellino di vetro del Taj Mahal. Un ripensamento lo condusse all’armadio, da cui prese qualche vestito, i documenti e il libretto degli assegni del conto corrente di cui lo zio non sapeva nulla.

Uscendo sradicò da terra quel che restava dello shiuli che aveva piantato.

Si precipitò fuori dalla porta, se la sbatté alle spalle, infilò tutto quello che aveva nel cestino del motorino e lo mise in moto con un calcio. Il rombo del vecchio motore sgangherato gli fece tremare i muscoli fino alla punta delle dita.

Aveva percorso poche centinaia di metri quando gli balenò in mente qualcosa e inchiodò.

Sollevò altra polvere mentre invertiva la marcia e ripercorreva la strada a ritroso, questa volta più piano. Si fermò vicino al tempietto custodito dalla vecchia signora. Dall’incenso acceso si allungava un filo di fumo. Badal abbassò la testa davanti ai piccoli idoli dentro al tempietto e vide che quel giorno erano attorniati da rose rosse.

La vecchia guardiana del tempietto era raggomitolata nel solito posto sul marciapiede, all’ombra dell’albero di neem. Aveva gli occhiali storti sulla testa, si era addormentata senza toglierli. Un filo di bava riluceva nella piega tra le labbra e il mento e si raccoglieva in una macchia umida sul fagotto che usava come cuscino. Sul mento spuntavano tre peli bianchi e spessi, simili alle radici di una cipolla. Aveva accanto il piattino d’acciaio, anch’esso al solito posto. C’erano cinque petali di rosa e una rupia.

Badal tirò fuori il portafoglio dalla tasca sinistra del kurta. Conteneva centocinquanta rupie. Tenne per sé qualche banconota da dieci e da venti e lasciò il resto del denaro sul piattino. Poi gli venne in mente che mentre la donna dormiva, qualcuno avrebbe potuto rubarle i soldi. Sentì un bisogno improvviso e irrazionale di svegliarla, caricarla sul motorino e portarla via con sé. Invece prese il piattino e lo spostò dentro il tempietto, affinché lo trovasse una volta sveglia.

Il parcheggio del Tempio del Sole era uno spiazzo grigio di cemento cocente, presidiato da un custode consumato dal sole, che smise di guardare Suraj con aria eloquente non appena capì che le prime occhiatacce lanciate al pacchetto di sigarette erano passate del tutto inosservate. Lì, il clamore eccitato dei turisti e delle guide era poco più che un mormorio distante. Suraj si appollaiò su un muretto all’ombra di un massiccio quattro per quattro. Si mise a contare le ammaccature sull’auto e provò a indovinarne le cause. I proprietari dovevano essere parecchio trasandati: l’auto era lurida dentro e fuori, schizzata di fango e piena di graffi. La sua macchina, quando si fosse potuto permettere di comprare qualcosa di più di uno stupido giocattolino coreano, sarebbe stata scintillante, con il profumo dei sedili in pelle. Non ci avrebbe mai fumato. Aveva sempre desiderato una quattro per quattro, una di quelle jeep grosse e rombanti con il tettuccio apribile, da guidare con il vento in faccia. Ci sarebbe andato da Bangalore fino a Ladakh, in un mese o più di viaggio, magari perdendosi tra le coste e le foreste disseminate lungo il tragitto, avrebbe mangiato nei dhaba a bordo strada, avrebbe dato passaggi agli autostoppisti e si sarebbe fermato quando era stanco per poi riprendere il cammino, filmando l’intero viaggio.

Se ne avesse parlato con Ayesha, lo avrebbe liquidato come un altro dei suoi progetti per scappare dalla vita: come se la vita fosse qualcosa per cui bisognava solo stringere i denti e sopportare in silenzio. Lei gli dava dell’escapista, ma in realtà Suraj voleva solo essere libero, andare e venire senza sentire centinaia di domande accusatorie poste da mogli martellanti e madri ansiose. A volte mentiva loro senza motivo, solo per il gusto di sentirsi libero. Perché non avrebbe dovuto dire a sua madre che si trovava a Hyderabad, quando invece era a Jarmuli?

Si rese conto d’un tratto che forse avrebbe dovuto telefonare a Nomi. L’aveva abbandonata così all’improvviso lassù, lungo la salita verso la torre più alta, era schizzato via come un proiettile nell’istante in cui aveva visto zia Latika che teneva per mano uno sconosciuto. Forse Nomi non l’aveva sentito quando le aveva detto che l’avrebbe aspettata in macchina. E se invece era convinta che sarebbe tornato alle rovine? Infilò la mano in tasca per prendere il cellulare.

Non c’era. Ma certo. Gliel’avevano rubato quella mattina in spiaggia.

Si alzò dal muretto e trovò il suo autista che chiacchierava lì vicino con un gruppetto di colleghi. Prese in prestito il telefono dell’uomo ma si bloccò all’istante, nel vano tentativo di ricordare il numero di Nomi. Non aveva mai avuto bisogno di impararlo a memoria.

Ritornò all’ombra calda dell’auto a noleggio e ci entrò, a sudare e chiedersi se non fosse il caso di tornare indietro a cercarla: tornare, però, significava con molta probabilità incontrare sua madre con le amiche. Decise di aspettare. Era agitato, irrequieto. Bevve dell’acqua, fumò una sigaretta. Pensò che avrebbe potuto allungarsi sul sedile e fare un pisolino, ma c’era roba ovunque. Scansò un tubetto di crema solare di Nomi e diverse bottiglie d’acqua. Sul sedile c’era anche uno dei tanti elastici che usava per legarsi i capelli. Era decorato con una margherita di plastica. Se lo infilò sul polso a mo’ di braccialetto: glielo avrebbe restituito poi.

E si ritrovò in mano il computer di Nomi. L’aveva lasciato in macchina. Suraj si sedette con il portatile in grembo, le dita tamburellavano sul coperchio e lui ascoltava il suono metallico delle unghie sulla superficie. Era liscio, leggero, sottile. Non aveva mai visto un computer come quello, erano usciti da poco. Sollevò il coperchio. Lo richiuse. Doveva farlo?

E se fosse arrivata proprio in quel momento e l’avesse visto? Sapere che aveva sbirciato tra le sue cose l’avrebbe fatta infuriare. Ma lui voleva sbirciare. C’era qualcosa che doveva sapere: dov’era scomparsa la mattina che l’aveva lasciato da solo al tempio di Vishnu? E il giorno prima, quando lui credeva che sarebbero andati insieme a ottenere i permessi per girare il documentario, aveva trovato una scusa e non era tornata prima di sera, con quella baggianata della visita a uno scultore.

Sollevò di nuovo il coperchio del portatile. Lo schermo era illuminato – Nomi non aveva spento il computer e non servì digitare la password per accedere ai file. Sul serio, quelli sbadati come lei si meritavano tutti i guai a cui andavano incontro con la loro superficialità. Le dita riassaporarono il piacere di muoversi su tasti e trackpad. Si mosse sicuro e agile tra le funzioni della macchina. Ci sapeva fare con i computer, gli bastava qualche secondo per orientarsi anche con quelli che non conosceva. Aprì l’applicazione delle fotografie e vide che era vuota. Strano. Non aveva mai conosciuto nessuno che non salvasse almeno una foto sul proprio computer. Avviò la posta elettronica: non era configurata. Accedeva alla posta solo dal browser. Ma non c’era connessione e quindi Suraj non poteva vedere niente.

Si mise a cercare tra le cartelle. Un gran numero di appunti e vari file di scrittura, ma non aveva tempo da perdere con quelli: Nomi sarebbe potuta tornare da un momento all’altro. C’era anche una cartella che si chiamava come lui. Decise di aprirla, ma conteneva solo copie delle mail che si erano scambiati.

Suraj sentì aprirsi con uno scatto lo sportello dell’auto e chiuse il portatile all’istante, la mente che già correva a cercare una possibile spiegazione da dare. “Stavo cercando il tuo numero di telefono” avrebbe detto. Era la cosa più plausibile.

Ma non era Nomi. Era l’autista. “Dovremmo andarcene” disse. “Si sta facendo tardi, la strada è lunga e farà buio. Non possiamo più aspettare. Da qui ci sono anche degli autobus, di sicuro sarà salita sul primo per Jarmuli.”

Suraj la pensava come l’autista: doveva aver frainteso quello che si erano detti e aveva preso un autobus. Altrimenti perché ci metteva tanto? L’auto sfilò via dal proprio posto nel parcheggio, l’aria condizionata si riattivò e riuscì, con la sua frescura, a far tirare a Suraj un sospiro di sollievo. Riaprì il portatile, questa volta senza fretta né senso di colpa. Le dita picchiettarono sulla tastiera.

Latika fu preda di una curiosa euforia per diverse ore dopo la visita alle rovine del Tempio del Sole. Si sbarazzò delle insistenti domande di Vidya riguardo a Suraj. “Sai quanto facilmente Gouri confonda le facce! Le è sembrato di vederlo ma era un’altra persona. Chi era, Gouri?” Latika pretese di sedersi davanti durante il viaggio di ritorno, perché nel tragitto dall’albergo si era sentita schiacciata tra le due amiche. Ignorò gli sguardi preoccupati di Vidya e continuò imperterrita a chiacchierare con l’autista che era in realtà il direttore dell’hotel. Non era taciturno come qualche ora prima e dal sedile posteriore Vidya colse stralci della conversazione, amabile e rilassata come tra vecchi amici. Di tanto in tanto la sentiva persino canticchiare “Are you lonesome tonight” con quella sua voce roca che una volta, un ammiratore, aveva descritto come un misto di sabbia e fumo. Quando si fermarono a metà strada per guardare il fiume che sfociava nel mare, Latika entrò nell’acqua calma e piatta come uno specchio, incurante di bagnare sandali e vestiti. Non sarebbe più uscita se Vidya non l’avesse chiamata, “Latika, sii ragionevole, avanti. Si sta facendo buio.”

Il resto del tragitto lungo la statale fu pervaso dalla malinconia delle cose che finiscono. Vidya era già in tensione per la bolletta della luce. Di certo doveva essere arrivata, e se non la pagava in tempo, c’era il rischio che le staccassero la corrente. E poi? In pochi minuti la sua mente si trasformò in una matassa di lana senza capo né coda: impossibile trovare il bandolo della bolletta non pagata. L’auto filò lungo l’ultimo tratto di strade semibuie e alberi misteriosi. “Sul finire del giorno, con un sussurro di rugiada arriva la sera” mormorò Gouri tra sé e sé. “L’aquilone si scrolla dalle ali il profumo di luce.” Non riusciva a ricordare i versi successivi, né dove avesse letto la poesia. Forse a scuola. Dopo qualche istante le tornarono in mente altri brani, e sussurrò, “Gli uccelli, i fiumi, tutti fanno ritorno a casa, tutte le fatiche della vita si concludono, e resta solo il buio.” Guardò fuori dal finestrino e disse con aria triste, “Finisce tutto così presto.” I lampioni, le auto, le case e il mercato di Jarmuli si avvicinavano.

“Invece no! Scendiamo al bazar! Non mi va di tornare in albergo.” Latika si girò a guardare le amiche. “Forza, voi due, divertiamoci un po’.”

“Ma non sei stanca?” chiese Vidya. “Possiamo andarci domani. Ci siamo già state ieri.” La diffidenza che si era insinuata in lei dopo che Gouri aveva avvistato suo figlio ora la appesantiva e affaticava. Prima i problemi di salute, poi quel sole incandescente che le aveva fuso la testa tutto il giorno, e adesso Suraj. Provò a ricordare a se stessa tutte le volte che Gouri aveva scambiato una persona per un’altra. Ma aveva in testa sempre lo stesso pensiero, che continuava a girare in una spirale, fino a formare un terribile cappio. Perché suo figlio l’aveva seguita fino a Jarmuli? Aveva forse bisogno di parlarle di qualcosa? Ma avevano parlato al telefono proprio la mattina in cui era partita. Se l’era forse immaginato, il fastidio che aveva percepito in lui, quasi volesse riattaccare dopo un minuto? Erano mesi, ormai, che le sembrava vago e brusco, c’era quasi da ringraziare se si degnava di rispondere al telefono, cosa che invece sua nuora Ayesha proprio non si scomodava di certo a fare.

Latika cercava ancora di convincerle a fermarsi e scendere per visitare il bazar. “Avanti, per favore!” cominciò a supplicarle, neanche fosse una bambina. “Possiamo tornare in albergo con i risciò, da qui sono solo dieci minuti. È una serata così bella.” Vidya prese fiato per risponderle male, poi contò piano fino a quindici, come aveva imparato a fare. “Benissimo” disse dopo quella pausa forzata. “Benissimo, faremo come vuoi tu.”

A quel punto il dilemma era quanta mancia lasciare all’autista e sottovoce si misero a discutere. Come ci si doveva comportare, considerato che non era un autista ma il direttore dell’albergo? Difficile parlarne con lui che le ascoltava a pochi centimetri di distanza. Alla fine Latika bisbigliò, “Regalo, regalo” e scesero dall’auto. Ora che la visita al mercato aveva uno scopo ben preciso, Vidya cominciò a sentirsi meno intrattabile, e dopo una lunga sorsata a una bibita gassata le sue ansie riguardo a Suraj e alla bolletta della luce scomparvero.

Dopo aver lasciato per l’ultima volta la casa dello zio, Badal si diresse con il motorino fuori città, verso il Tempio del Sole. Percorse la Marine Road all’ombra degli alberi di casuarina che la fiancheggiavano. Era un tratto isolato, lontano sia da Jarmuli che dai mucchi di terra e paglia di cui erano fatti gli squallidi villaggi che sopravvivevano grazie al tempio. A un certo punto intravide un varco tra la vegetazione, e una pallida striscia di sabbia, lasciò il motorino e s’incamminò verso la spiaggia. Onde increspate di bianco si rincorrevano fino a riva, nel cielo arancio si era alzato il vento.

Perché Raghu non aveva dato nessun segno – neanche il minimo accenno – che quel pomeriggio vicino alla barca avesse significato qualcosa anche per lui? Quell’indifferenza crudele squarciò un abisso dentro Badal. Non si trattava solo d’indifferenza, era anche una presa in giro. Non riusciva a smettere di pensarci. Rivide ogni secondo dei loro momenti insieme, come in una proiezione di diapositive, come se bastasse a non perderli. Avrebbe voluto gettarsi in un cespuglio di spine, tagliarsi con una lametta, schiacciarsi le dita dei piedi con un sasso: qualsiasi cosa pur di scacciare quel dolore con un altro. Si fermò in riva al mare e gli si riaccese in testa la canzone che Johnny Toppo aveva canticchiato quella mattina:

Dov’è la mia capanna di fango scuro?

Il mio giovane albero di guava?

Dov’è la mucca nera

che al mio richiamo sempre arrivava?

Dov’è quel bel ruscello,

limpido come i cieli più celesti?

Gli unici ruscelli che conosco ora

scorrono dai miei due occhi mesti.

Si sedette sulla sabbia, con la testa fra le mani che stringevano i capelli, cercò di liberarsi di quella canzone e del mal di testa. Una volta aveva chiesto a Johnny Toppo, “Non puoi cantare una canzone allegra? Perché le tue canzoni sono tutte così tristi?” E lui aveva risposto, “Per me non sono tristi. Sono tutto quello che resta del mio mondo. Non ho una macchina fotografica come i turisti, che non fanno altro che scattare di qua e di là. Sorridi, sorridi! Click!” Si era toccato la fronte con un dito. “Io conservo tutto qui dentro. Ricordare mi rende felice.”

“E com’era, il tuo mondo?” gli aveva chiesto Badal. “Perché non me lo racconti?” Johnny Toppo gli aveva dato le spalle. Dopo un po’ aveva detto, “Vendo il tè. Sono nato dieci anni dopo il grande terremoto di Bihar, vivo in una baracca di tela cerata, non ho niente e nessuno di cui preoccuparmi, niente da perdere. Sono contento di essere tra acqua e cielo, ho sigarette da fumare e mezza bottiglia da bere. Dalle canzoni che ho in testa so che tanto tempo fa avevo un’altra vita. Questo è tutto quello che c’è da dire su di me, babu.”

In lontananza, oltre la distesa d’acqua, scintillava una fila di luci. Pescherecci che vivevano le loro segrete esistenze. Le luci si tuffavano, scomparivano, tornavano. Le reti scendevano fino al fondale. Avrebbero continuato a lavorare tutta la notte, intrappolando e uccidendo migliaia di creature boccheggianti.

Fin da bambino, Badal giocava a sedersi in riva al mare di schiena all’acqua. Si sistemava abbastanza vicino perché le onde lo bagnassero con i loro spruzzi, sapendo che se ne fosse arrivata una più grossa avrebbe potuto trascinarlo via. Era esperto di onde e correnti, di risacche formate dai venti a centinaia di chilometri di distanza, capaci di risucchiare un nuotatore o di trascinare via i bagnanti. Se ti opponevi alla corrente e cercavi di nuotare in senso contrario, annegavi di sicuro. Non bisognava contrastare la corrente ma aggirarla, nuotando in diagonale. Badal aveva visto i cadaveri ributtati a riva di quelli che avevano lottato e perso. Eppure rimaneva seduto con le spalle all’acqua, come sull’orlo di una scogliera a giocare con la morte.

Un’onda s’infranse sulla spiaggia e Badal si spostò di scatto. Dalle onde vicine riusciva a capire quali si sarebbero fatte più avanti sulla terra ferma. Ma quella era riuscita a bagnargli i vestiti. Ne seguirono altre due, che lo lambirono appena. A volte avrebbe voluto fermarne la corsa ruggente, immobilizzarle per un istante di quiete. Per capire che suono aveva il silenzio assoluto.

Si stancò di quel gioco e si girò a guardare il mare. Ci era cresciuto vicino, eppure non riusciva a capacitarsi di quella immensità. La costa su cui era seduto – il tratto che proseguiva verso il Dolphin Hotel, lo Swirling Sea Hotel, oltre Vishnupada Road e il tempio di Vishnu, e poi ancora avanti fino alla Grand Road e il mercato e Matri Mandir e la statale per Kanakot – quella costa si allungava e curvava voluttuosa oltre le tigri e i labirinti delle Sundarbans verso Burma, e poi giù a Pondicherry, dove scorreva la stessa acqua e soffiavano gli stessi venti che sospingevano quell’acqua fino a creare le onde, verso la punta meridionale di quel paese a forma di lingua per poi piegare di nuovo a nord nel loro viaggio oltre Bombay e Goa fino a Karachi e l’Iran, l’Arabia e l’Egitto, nomi dei sogni e dei libri di testo.

Jarmuli s’irradiava verso l’Asia, il mondo, il sistema solare, l’universo: era il ritornello cantato da ogni bambino a scuola, e anche in quel preciso istante in cui non voleva altro che sfuggire al controllo degli zii, fantasticava di vivere su Giove e di dormire sotto le sue tante lune. Quando la maestra aveva detto alla classe che quel pianeta aveva sedici lune, avrebbe voluto chiederle se allora, su Giove, c’era luna piena ogni notte. O magari, in quell’altro cielo, c’erano lune a spicchi, a metà e intere tutte insieme?

Se metteva i piedi nell’acqua della spiaggia di Jarmuli, era come immergerli nell’universo. Se solo fosse potuto entrare in mare, nuotare senza sosta e arrivare a Zanzibar. Non ne sapeva niente, non aveva mai avuto alcun interesse a riguardo, a parte dove si trovava sull’atlante, ma adorava il suono di quel nome: Zanzibar.

Badal si alzò, senza sapere dove andare. Arrancò fino al motorino. Dove abitava Johnny Toppo? si chiese. In tutti quegli anni a bere tè non lo aveva mai scoperto: dov’era quella baracca di tela cerata?

Dove doveva andare adesso? Cosa doveva fare?

Armeggiava con la chiave del motorino quando sentì una voce di donna.

“Di chi è quel cammello?” chiedeva. “Voglio slegarlo.”

Badal notò i cinturini di pelle con le nappe alle caviglie, le treccine colorate tra i capelli. La ragazza con i vestiti sbagliati che doveva accompagnare al tempio. In effetti era vestita ancora in modo strano, un kurta extralarge a cui sembrava avesse strappato le maniche. Le svolazzava attorno mosso dal vento. Una nuvola di pantaloni. Scarpe da ginnastica rosse. Ma si era sforzata, doveva ammetterlo: erano vestiti indiani, tutto sommato.

La ragazza indicava un grosso cammello, legato a un palo vicino a un chiosco di souvenir ormai chiuso. Aveva la gobba afflosciata, gli occhi vitrei. Il manto era mangiato dalle tarme e gli si contavano le costole. La ragazza gli accarezzò un fianco. Guardò Badal come se le fosse appena venuta un’idea geniale e disse “Lo sleghiamo? Dai, facciamolo!”

“E poi?” le disse. “Non ha un posto dove andare. E cosa mangerà?”

“Almeno sarà libero per un po’. Qui vivrebbe senza aver mai conosciuto nient’altro. No?”

Il suo era solo un capriccio, come per molti dei turisti che aveva visto incontrato? O invece era abbastanza stordita da pensare che il cammello avesse delle emozioni e trascorresse tutta la vita a bramare la libertà? A Jarmuli i cammelli c’erano sempre stati, arrivavano da migliaia di chilometri di distanza perché i turisti potessero cavalcarli in spiaggia. Quando crepavano, li sostituivano con degli altri. Erano così eterni, nella loro solitudine, che Badal non aveva mai riflettuto su quanto quei poveri animali fossero lontani da casa.

E lui? Sarebbe riuscito a vivere se qualcuno avesse tagliato i fili invisibili che lo legavano al grande tempio? Il tempio che per lui era stato vita, cuore e anima da che aveva dei ricordi.

La ragazza disse, “Io lo slego.”

Jarmuli era parecchio lontana, pensò Badal all’improvviso, e il sole era quasi tramontato. “Che ci fai qui?” le chiese. “Non è sicuro. Una donna è stata…” Si trattenne dal dirle che poco distante, un mese prima, una donna era stata aggredita e lasciata per strada a morire.

“Troviamo qualcosa per tagliare la fune” disse la ragazza. “A meno che non riusciamo a scioglierla.” Cominciò a tirare e forzare i nodi.

Badal prese dal cestino del motorino la scatoletta di metallo con il coltellino svizzero di suo padre. Non l’aveva mai usato, si era arrugginito. Le molle erano rigide. Con un po’ di fatica riuscì ad aprire la lama e porse il coltellino alla ragazza. Che coincidenza, farsi trovare con quel coltello, pensò, come se avesse sempre saputo che si sarebbero incontrati di nuovo e che lei ne avrebbe avuto bisogno.

Gli chiese, “Preferisci tenerlo fermo o tagliare la fune?” Aveva un viso minuto, a punta, e sorrideva come un personaggio dei fumetti che mostra tutti i denti e un po’ di gengive.

Badal prese la fune. Il cammello puzzava di pelo, sterco e muffa, un tanfo animalesco che gli fece venire il voltastomaco. Aveva gli occhi lacrimosi e le palpebre cadenti orlate di lunghe ciglia. Gli tremavano le narici mentre la ragazza segava la fune facendo su e giù con il coltello, sfilacciando la corda fino a spezzarla.

Gli diede una pacca sul fianco ed esclamò, “Vai! Scappa! Lontano! Adesso sei libero!”

Il cammello non si mosse. Abbassò la testa, troppo stanco per muovere un passo.

La ragazza lo spinse, “Sciò, vai… prima che tornino!”

Il cammello rimase immobile. Non aveva mai sentito quelle parole né quel tono di voce. La ragazza lo spinse con tutta la forza che aveva, come se il cammello fosse una macchina in panne. “Muoviti!” Poi un po’ ridendo e un po’ infastidita, sbuffò. “Ok. Ci rinuncio. La vita è la tua.”

Al che il cammello fece un timido passo a sinistra, poi un altro.

“Bene!” esclamò Nomi. Si allontanò e si mise a scrutare il panorama con le mani sui fianchi. “Brutto, eh? Questo posto, intendo. Non è tra i percorsi guidati, vero?” Armeggiò con un accendino e tirò fuori una bottiglia d’acqua dalla borsa. Parlava in inglese ora, dando per scontato che Badal capisse. E tutto sommato la capiva anche se rispondeva a rilento.

La ragazza abbassò il viso per riparare la sigaretta dal vento. Era proprio il tipo di persona che di solito Badal trovava rivoltante. Con tutti quegli orecchini. I capelli assurdi. E poi una donna che fumava? Se ne sarebbe dovuto andare, avrebbe dovuto lasciarla al suo destino – certa gente se li cercava i guai. Si girò verso il motorino e infilò la mano in tasca per prendere le chiavi. La ragazza riparò la sigaretta per accenderla. Con la fiamma ancora viva, agitò l’accendino in faccia a Badal e gli chiese, “Ne vuoi una?”

Lui rispose, “Non fumo, lavoro al tempio” e allungò la mano per farsela dare. Quando gli si avvicinò con un sorriso per accendergli la sigaretta, Badal notò che anche lei, come Raghu, aveva una fossetta. Lei sulla guancia destra, Raghu sulla sinistra, come due metà dello stesso viso. Gli salì in gola una nuvola nera di dolore, che per poco non lo soffocò.

Nomi scrollò le spalle e disse, “In realtà non fumo neanche io. Queste le ho rubate a un amico. Mi ha scaricato al Tempio del Sole e se n’è andato. Senza uno straccio di spiegazione.”

“Non si fa così” borbottò Badal. Aveva capito a chi si riferiva, a quell’ubriacone sgarbato e irrispettoso, il genere d’uomo al quale non voleva pensare. Lo aveva rivisto quella mattina presto in spiaggia, con Johnny Toppo. Era per lui che Raghu era dovuto scappare quando gli aveva regalato il telefono.

“Mi sono dovuta far dare un passaggio in autobus. Si è fermato in un villaggio non so dove e mi hanno detto, Scendi. Punto e basta. Gli starebbe proprio bene, a quell’autista, se mi ritrovassero a pezzi tra i cespugli. Meno male che ti ho incontrato. Ti ho riconosciuto subito. Tu non mi riconosci?”

Si sedettero sulla sabbia. Lei si voltò a guardare dove fosse andato il cammello. Si era mosso a malapena. “Hai mai visto gli occhi di un asino?” gli chiede. “Sono bellissimi. Quel cammello ha gli stessi occhi di un asino. Mi sarebbe piaciuto, avere occhi come quelli, sai?”

“No” disse Badal. “Non ho mai guardato gli occhi di un asino.”

La sua domanda lo lasciò perplesso. I suoi occhi, non li aveva neanche notati prima. Notò che avevano ciglia lunghe ed erano grandi e scuri, come quelli di Raghu.

Nomi disse, “Gli asini sembrano sempre tristi. Come se non avessero una madre né un padre, e neanche degli amici. Le mucche non sembrano mai così sole.” Fece scattare l’accendino, lo spense, lo riaccese. Passò un dito sulla fiamma, poi disse, “Non è incredibile che non ci si bruci, quando si fa così?”

Badal non riusciva a trovare il senso di quelle parole. E il suo inglese, quando parlava veloce, era faticoso da capire, nonostante ogni tanto infilasse qualche frase in hindi. Eppure riusciva a seguire i ragionamenti senza mancare un passaggio, come un cieco che ha contato i passi tra una stanza e l’altra e non ha più bisogno di vederci.

Quando Nomi si rese conto che Badal non capiva bene l’inglese, smise di parlare. Il mare si affrettava verso la spiaggia, poi si ritraeva con un ruggito, come a scusarsi di quel passo falso. C’era umidità nell’aria. Badal se la sentiva addosso. Odorava di pesce e acqua salata. Qualcosa poco lontano emise un suono strano: doveva essere il cammello, pensò Badal. Poi si chiese che verso facciano i cammelli. Muggiscono forse come le mucche?

Nomi guardava verso il mare e pensava che ne aveva il suono nelle orecchie da sempre. Il primo ricordo del mare era di lei sola, a riva, quando sua madre se ne era andata. Si era avvicinato un cane ad annusarla. Quanto si era sentita sola, affamata. Mamma: aveva trascorso gli ultimi dieci anni della sua vita a cercare il mare dove aveva perso sua madre. Era stata nel mare della Grecia, lì l’acqua era viola, verde e azzurra. Aveva visto il Mar dei Sargassi, il Mare del Cile, il Mare del Nord, lo Stretto di Bass, il Mar Cinese Meridionale. Aveva persino sentito con un piede l’acqua del Mar Baltico: ghiacciata e grigia come l’ardesia. Durante la Seconda Guerra Mondiale nel Mar Baltico erano affondate navi piene di bambini. Dovevano essere morti congelati. E poi c’era il Mar Morto: quello non l’aveva visto, ma sapeva che si galleggiava senza bisogno di nuotare. A ogni nuovo mare che incontrava, si sedeva e aspettava che le dicesse qualcosa, non sapeva cosa, ma l’avrebbe capito quando fosse successo. Si sarebbe seduta di fronte al mare dov’era stata abbandonata, quello che percepiva dalla gabbia di cemento dell’ashram.

Badal sentì il vento alzarsi. Non c’erano nuvole, ma il cielo era vecchio e impacciato, troppo pesante per reggersi. Avvertì un temporale imminente. Presto sarebbe arrivata anche l’alta marea e l’indomani le spiagge sarebbero state una distesa di spazzatura fradicia. Una volta aveva trovato un’armonica arrugginita ed era riuscito a tirarne fuori qualche melodia.

Nomi appoggiò il mento sulle braccia. Aveva scambiato le luci dei pescherecci sull’acqua per quelle dei palazzi di una città dall’altra parte del mare. Non parlava a nessuno dei luoghi incantevoli in cui s’imbatteva, come se esistessero solo per lei. Lì, adesso: quella spiaggia, quei pescherecci, il temporale in arrivo. Non era forse uno spettacolo di magia, una scena teatrale? Una volta finito avrebbero asciugato il vento, ripulito la sabbia, spazzato via il mare, ripiegato il cielo, riposto il cammello e sciolto quella fila di luci, e nessuno avrebbe più ritrovato quel posto.

Badal tracciò delle linee sulla sabbia con un bastoncino. Quando Raghu gli aveva dato quel tè al latte, denso, aveva capito che tra loro era tutto finito. Anzi peggio: aveva capito che non c’era mai stato nulla. Il pomeriggio vicino alla barca, le labbra su quelle di Raghu, era una fantasia soltanto sua e ora che lo sapeva si sentiva come se qualcuno gli avesse ficcato un braccio in gola, gli avesse afferrato l’ammasso viscido e sanguinolento di cuore e intestino e l’avesse strappato via dalla bocca, proprio come i pescatori quando pulivano il pesce. Si sentì risalire da dentro un verso strozzato, incontrollabile. La ragazza sembrò non accorgersene, prese altre due sigarette e le accese, mettendole in bocca entrambe come una fumatrice incallita. Gliene passò una e Badal la prese con naturalezza, quasi fosse un’abitudine.

Nomi giocherellava con gli orecchini. Aveva diversi cerchietti d’argento. Due minuscoli rubini in cima all’orecchio sinistro. Un anello d’oro su entrambi i lobi.

Badal non si era accorto di fissarla finché lei disse, “Strano, no? Averne così tanti. Non l’ho fatto di proposito. Li ho solo aggiunti con il passare degli anni.”

Badal inghiottì l’informazione con un sorriso e un cenno del capo. Nomi non si aspettava niente di più.

Finito di fumare, rimasero a lungo seduti a guardare l’orizzonte. Lei canticchiava una canzone, una di quelle di Johnny Toppo. Badal non ricordava quale fosse. Come faceva a conoscerla? Le canzoni di Johnny Toppo non riprendevano melodie di film famosi, e le parole non erano versi di poesie. Gli venne in mente che Raghu non canticchiava mai le canzoni di Johnny Toppo, anche se le ascoltava di continuo; in realtà non l’aveva mai sentito canticchiare nulla. Ma non doveva pensare a Raghu. Non doveva pensare.

Poi, quando d’improvviso calò il vento, nell’aria cambiò qualcosa, come se il temporale trattenesse il fiato prima di esplodere. Le luci dei pescherecci si erano spente.

La ragazza frugò nella borsa ed estrasse una scatola di mentine. Gliela porse. “Ti conviene prenderne una” gli disse. “Così nessuno saprà che hai fumato.”

Aveva uno sguardo incerto: stava per chiedergli un favore. Badal sapeva già di cosa si trattava.

“Mi dai un passaggio?” disse. “Fino a dove preferisci?”

“Ti lascio vicino al mercato di Jarmuli. Da lì puoi prendere un risciò fino all’albergo” le disse. “E poi me ne vado. Non tornerò mai più.”

Si mise in bocca la mentina, la sua sferzata fresca cancellò ogni altro sapore.

Mentre cercavano un regalo per l’autista che non era un autista, Latika ebbe una folgorazione. Erano in una stradina poco illuminata, con una serie di negozi che assomigliavano a credenze arrugginite e traballanti. La folla dei clienti serali si accalcava a guardare la mercanzia in esposizione: vestiti a basso prezzo, borse, conchiglie e statuette. E poi, su un muro tappezzato di manifesti stracciati delle precedenti elezioni, in disparte rispetto agli altri negozi, quasi avesse bisogno di nascondersi, c’era una vetrina protetta da una grata. La manciata di uomini che fino a quel momento erano incollati lì davanti si allontanarono furtivi, si infilarono nella cinta dei pantaloni le bottiglie di alcolici mezze vuote e si affrettarono a coprirle con la camicia.

“Prendiamo una bottiglia di vodka.” A Latika brillavano gli occhi.

“Sei impazzita?” Questa volta Vidya non contò fino a quindici e la domanda le uscì dalla bocca come un ringhio furioso.

“È impazzita eccome. Che ti prende, Latika? Torniamo indietro a bere del tè caldo. Da quell’uomo in spiaggia.” Perché sentisse un tale bisogno di quel tè, Gouri non riusciva a spiegarlo. Eppure era così.

“Tè, tè, tè! Sono stufa del tè. Sono cinque giorni che non bevo una tazza di caffè come si deve. Voglio comprare della vodka. Aspetta qui, Vidya.”

“Aspettare qui? E cosa penseranno quei…fannulloni del negozio, eh? Tre anziane rispettabili che fanno la fila con quella marmaglia per comprare alcolici, niente di meno!”

“Non ho mai bevuto alcol in vita mia” disse Gouri arricciando le labbra e distogliendo lo sguardo.

“Neanch’io.” Le parole di Vidya uscirono in un lampo, come se il solo pensiero la innervosisse. “Che idea assurda. Guarda come ci fissano quegli uomini. E se gli venisse in mente di seguirci? Andiamocene via subito.” Tirò Latika per il braccio sottile.

“Non li rivedremo mai più. Andiamo! Non ci capiterà più di uscire insieme così, lontano dai figli, dalla famiglia.”

“La vecchiaia ti sta giocando brutti scherzi, Latika. Da quando hai cominciato a bere?” Gouri avrebbe voluto fare del sarcasmo, ma non riusciva mai a essere ironica e anche in questo caso, le sue parole suonarono come una domanda vera e propria. Che mandò Latika su tutte le furie. “Oh, la vecchiaia! La vecchiaia! Sono stufa marcia.” S’incamminò decisa verso la vetrina.

“Ma che le è preso…. Latika? Oh, questa non ci voleva proprio, dopo il viaggio in macchina e il sole cocente tutto il giorno…” Vidya la seguì, chiamandola “Latika! Non correre.”

Gouri rimase dove l’avevano lasciata, in mezzo al mercato con le sue montagne di ghirlande, la frutta, le verdure marce sotto i piedi, il caos degli ambulanti che gridavano sotto le lampade a gas che sembravano fare più ombra che luce. Si chiese se non dovesse seguire anche lei Latika e provare a fermarla. Sbirciò di nascosto il negozietto come se anche solo uno sguardo, per quanto rapido, potesse contaminarla. “ALCOLICI STRANIERI PRODOTTI IN INDIA” diceva un’insegna impastata di vernice rossa sul muro intorno alla vetrina. Bastò quello a farla decidere. Rimase dov’era.

Fuori dal caos dei risciò, della gente con le buste della spesa e dei carretti carichi di merci spinti in mezzo alla folla, Gouri vide una giovane che si avvicinava. Il viso sembrava familiare ma non riusciva a inquadrarla. La donna – anzi, la ragazza – la guardava. Gouri si girò dall’altra parte. Voleva evitare di incrociarne lo sguardo.

La ragazza le andò incontro come se la conoscesse. “Si ricorda di me? È proprio piccolo, il mondo, vero? Sono contenta di vederla qui. Il mio amico mi ha abbandonato al Tempio del Sole, poi ho preso un autobus e mi sono fatta dare un passaggio in motorino, ma adesso c’è qualcuno che mi segue. Un monaco… lo vede? Dietro a quel negozio che vende sari? Quello con i capelli lunghi. Non l’ha visto in mare, con il rosario? M’insegue da quando sono arrivata.”

“Figliola, un monaco non può mai farti del male. È un uomo di dio. Perché mai dovrebbe seguirti?” La ragazza sembrava sconvolta, e i capelli impiastrati e i vestiti strani contribuivano a dare quell’impressione.

“Per favore.” La ragazza guardò un gruppo di persone in lontananza e si rivolse di nuovo a Gouri. “Non devo guardare da quella parte, altrimenti mi vede. Se solo… potessimo allontanarci da qui insieme, eh? Non chiedo altro. La prego.” Allungò una mano e Gouri si scansò all’istante. “Se lei prende un risciò possiamo dividerlo. Dov’è diretta?

Le tremava la voce. Gouri capì che era terrorizzata – ma per quale motivo? Un monaco? I monaci erano buoni. Non avrebbero mai torto un capello a una ragazza. C’era un gran numero di monaci al tempio: uomini pii, santi, venerati.

“Sto aspettando” spiegò Gouri. “Non posso andarmene.”

“Che cosa aspetta? Per quanto ancora?”

Gouri dovette pensarci: che cosa aspettava? Per qualche istante non riuscì a ricordare con esattezza cosa aspettasse. Poi, come sempre, se lo ricordò: aspettava la guida per il tempio di Vishnu. Vidya e Latika erano già partite con il risciò. La guida le aveva detto che l’avrebbe portata con il motorino. Le aveva chiesto di aspettarlo mentre andava a prendere il motorino al parcheggio, ma non si era più fatto vedere. Aspettava già da un po’, glielo confermavano le gambe stanche. Le sentiva pesanti come se avesse camminato tutto il giorno, quando invece non aveva fatto altro che riposarsi in albergo, pregando e preparandosi per la visita serale al tempio.

Tanto valeva prendere un risciò con quella signorina, e già che c’era farle anche un favore. Magari la guida non riusciva a trovarla in mezzo a tutta quella gente. Che senso aveva preoccuparsi tanto? Sarebbe andata come doveva andare. Dovevano solo arrivare al tempio, e da lì sapeva come muoversi. Sarebbero arrivate in tempo per le preghiere della sera e il cambio delle bandiere. Era un vero spettacolo. I giovani amavano quel genere di cose. Avrebbe spiegato alla ragazza il senso della cerimonia.

Agitò il dito con aria solenne in direzione della fila di risciò fermi. Uno dei veicoli ruppe le file e frenò cigolando accanto a loro. Si appoggiò al sedile, salì a bordo e gesticolò alla ragazza perché la seguisse. Così fece. “Al tempio” ordinò Gouri.

Al negozio indiano di alcolici stranieri, gli uomini vicino alla vetrina si scansarono per far passare Latika senza che dovesse chiederlo, troppo stupiti per azzardarsi a fischiarle dietro o fare versi di disapprovazione. Latika si affacciò alla grata, aprì la zip della borsa, pescò dei soldi e disse con autorevolezza, come se fosse ordinaria amministrazione e stesse comprando patate o cipolle: “Una bottiglietta di vodka.”

Rimase di sasso quando si sentì chiedere, “Di che marca, signora? Cosa beve di solito?” L’uomo dagli occhi suini che era dietro la grata sorrideva beffardo mentre sottolineava la parola “signora”. Aveva un filo di baffi sulle labbra gonfie e si stuzzicava i denti con una forcina per capelli. Anche gli altri uomini ridacchiavano.

D’un tratto Latika decise che avrebbe smesso di tingersi. Basta nero o castano, basta andare dalla parrucchiera ogni mese. Si passò le dita tra i capelli scompigliati dal vento. Desiderò che diventassero bianchi o grigi all’istante. Guardo l’uomo dritto in quegli occhi da maiale, si spinse gli occhiali sul naso e disse, “Smirnoff, ovvio, sempre che ce l’abbiate.” La borsa era abbastanza grande per contenere la bottiglia che il venditore le passò oltre la grata. La osservò metterla via e prese i soldi senza aggiungere altro.

Quando Latika e Vidya tornarono dove avevano lasciato Gouri, di lei non c’era traccia. Doveva essersi infilata in chissà quale negozio, attirata da chissà quali cianfrusaglie. Proprio come la mattina in cui era scomparsa dall’albergo e l’avevano ritrovata dopo un’ora d’inutile panico, seduta sulla chiglia di una barca.

Più esasperate che preoccupate, si divisero e cominciarono a cercarla in direzioni opposte. Chi delle due l’avesse trovata per prima avrebbe telefonato all’altra e poi sarebbero tornate in albergo con il risciò. E non avrebbero mai più perso Gouri di vista per il resto del viaggio.

Dopo un quarto d’ora, non l’avevano ancora trovata. La strada era gremita di persone ma Gouri non c’era.

Quando Nomi bussò alla portafinestra e s’infilò nella stanza non appena Suraj ne aprì uno spiraglio, si rese conto che era piuttosto tardi. Doveva essersi addormentato. Lei gridava, “Perché te ne sei andato via così di corsa dal Tempio? Come credevi che sarei tornata?”

Si era alzato così di scatto che gli girava la testa e dovette tenersi alla portafinestra per non cadere. La voce della ragazza era fin troppo acuta. Se non ci pensava, il capogiro non era poi così forte, ma di sicuro lei doveva smettere di urlare. Si coprì le orecchie con le mani. Il mare gli risaliva dentro in un’onda di liquido amaro e rancido.

“Mi senti o no?”

Riuscì solo a farfugliare qualcosa. “Perché non sei venuta alla macchina? Ti ho aspettato. Poi me ne sono andato… perché non… sto davvero male.”

“Non l’ho trovata, la macchina! Ho cercato dappertutto. Non era dove l’avevamo parcheggiata.”

“L’autista l’ha dovuta spostare… troppo sole. Si è spostato all’ombra, giusto qualche metro.” Suraj doveva sedersi. Si buttò sul letto. Gli faceva male la testa. Gli occhi non sopportavano la luce. Era tornato in albergo ormai da un po’… ma quando? Non se lo ricordava più. Poi aveva saccheggiato il minibar, aveva finito la scorta di fumo, e si era addormentato. Aveva mangiato? Forse qualche nocciolina.

Lei era immobile accanto al letto e lo guardava con aria impietosa. “Perché non hai risposto al telefono, cazzo? Come hai potuto?”

“Il telefono me l’hanno rubato. L’ho lasciato in spiaggia quando sono andato a fare una nuotata e me l’hanno portato via.” Parlava come se ogni parola fosse una frase chiusa da un punto.

Per un po’ nessuno dei due disse nulla. Di certo lei non poteva incolparlo se gli avevano rubato il telefono, e quindi di nient’altro, pensò Suraj. La ragazza si lasciò cadere su una poltrona e disse, “Almeno dammi qualcosa da bere.”

“Abbiamo finito tutto ieri sera. Ricordi?” Indicò la bottiglia di whisky vuota sul tavolo vicino al letto.

E ricominciò la lagna stridula. “Allora perché non hai comprato qualcos’altro? Hai avuto la macchina per tutto lo stramaledetto pomeriggio!” Suraj sentì che quel rimprovero risvegliava l’antica rabbia che aveva dentro. Una voce chiedeva, “Perché tocca a me riparare le prese? Riesci a fare almeno una faccenda, in questa casa?” Una voce gridava, “Che vuol dire che non hai comprato le uova mentre tornavi? Non te l’avevo chiesto, eh?” E ancora, “Perché cazzo non hai risposto al telefono?”

“Mi dispiace tanto” disse Suraj, e si sforzò di restare calmo. “Le mie prestazioni professionali sono in ribasso, a quanto pare. Ma c’è sempre il minibar… non credo di averlo finito.”

“Lascia perdere.” Si infilò le dita fra i capelli, e li attorcigliò più del solito, quasi non sapesse che pesci prendere. Poi adocchiò il pacchetto di sigarette illuminato dal cerchio di luce della lampada sul tavolo. “Ok, se non posso bere niente, vorrà dire che fumerò.”

Dovette litigare un po’ con il pacchetto, prima di tirare fuori una sigaretta. Si allungò a prendere l’accendino di Suraj. Le labbra si chiusero intorno alla sigaretta con una smorfia imbronciata. Come già altre volte, si era infilata i piedi sotto il sedere e aveva trasformato la poltrona in una conchiglia in cui si sentiva al sicuro.

Suraj era ancora disteso a letto con le mani a supporto della testa. “Mi godrò lo spettacolo” disse. Sembrava così diversa, con la sigaretta in bocca, che Suraj non riusciva a staccarle gli occhi di dosso. Si distese tra i cuscini, come per prepararsi a guardare un film. Che importanza aveva, se di solito non gli piaceva avere gente in camera? Stavolta ne valeva la pena.

Nomi espirò il fumo dalle narici. “Sono distrutta. Fa troppo caldo. E mi ci è voluta una vita a tornare. Sai chi ho incontrato? La vecchia grassa del treno. L’ho lasciata al tempio. Si era messa in testa di trascinarmi dentro con lei, ma sono riuscita a seminarla.”

Suraj aveva la gola secchissima. Gli prudeva la pelle. Recitò “Quando Nomi si fa una sigaretta, sembra una cazzo di barzelletta”, quasi tra sé e sé. “Una poesia.” La rima non era poi così male, pensò. Funzionava. Aprì la bocca per ripeterla, ma quelle parole le avevano scatenato dentro qualcosa, di nuovo. “Sai quant’è stato pericoloso lasciarmi lassù da sola? Anche la guida del tempio me l’ha detto. Sono stata inseguita per quasi tutto il tempo da un monaco albino con i capelli lunghi. Credevo che mi avrebbe aggredito.”

“Un monaco albino. Un albino…” Cominciò a ridere, prima uno sghignazzo, un altro, poi una risata fragorosa. “Sei strana, sai? Scommetto che stai scrivendo un romanzo. ‘Il Guru e le bimbe schiave’. Chi è Piku, dimmi? C’è roba sconcia nel tuo computer, eh!” C’era qualcosa di davvero erotico nel suo sdegno, in quella sigaretta tra le labbra, nel kurta che continuava a scivolarle sulla spalla.

Nomi si alzò, si guardo intorno in cerca di un posto dove spegnere la sigaretta. Suraj glielo indicò mentre rideva. “Il posacenere è lì, davanti a te. Vedi? Sul tavolo?”

“Hai ficcato il naso nel mio computer” disse, e schiacciò la sigaretta. Balbettava, le tremava la voce. “Mi abbandoni in mezzo al nulla, non te ne frega un cazzo di come torno indietro, non rispondi al telefono, e adesso fai anche il saccente.”

Quelle parole gli trasformarono il sangue in acido. Saltò su dal letto come una molla. “Non sono la tua guardia del corpo, cazzo. Mi sono stufato.” Gli pulsava una vena sulla fronte. Aveva il viso bollente. Gli fischiavano le orecchie. Le si lanciò addosso prima che lei potesse muoversi e la prese per un braccio. Era sottile, ossuto. Avrebbe potuto spezzarlo in due come una sigaretta, un esile rotolo di carta pieno di foglie sminuzzate. Lo strinse più forte, la tirò verso la porta. L’avrebbe buttata fuori dalla stanza e non l’avrebbe mai più rivista.

“Ehi, mollami! Mi fai male!”

La voce era davvero troppo alta. Doveva fermarla, quella voce.

Nomi agitò il braccio per liberarsi, e il kurta scese oltre le spalle. Qualcosa catturò l’attenzione di Suraj. Allentò la presa e la voce si trasformò in un sussurro. “Devo controllare una cosa… quella cosa sulla spalla destra. Quel neo… è per caso…?

“Fatti una dormita, Suraj.” Le dita di Nomi facevano leva su quelle di Suraj perché la lasciasse andare. “Ci vediamo domattina. Siamo qui per lavorare e tu dovresti fare quello che ti chiedo. Me ne vado. La colazione è alle otto domani. Dov’è il mio portatile?” Non le tremava più la voce, ora il tono era asciutto, superiore. Ma quell’accento indefinibile cominciava a dargli sui nervi. Voleva sbatterla fuori dalla stanza, non sentirne mai più la voce, ma la spalla – quella manica tagliata, non vedeva che quella – la manica era scesa del tutto e ora, chissà come, le aveva quasi tolto anche l’altra. Non sapeva come o perché il kurta si era strappato. Lui non aveva tirato, era stata lei a muoversi troppo in fretta. E poi… com’erano finiti sotto la doccia? Entrambi nella cabina, lui aveva aperto il rubinetto al massimo, l’acqua usciva a fiotti. La teneva sotto il getto, l’acqua le schiacciava le treccine sulla testa. Le passava il bagnoschiuma su tutto il corpo, e lei si divincolava per liberarsi della presa, il corpo scivoloso di sapone, non riusciva a stare ferma neanche mentre la scuoteva e la prendeva a schiaffi. E allora gli era sfuggita dalle mani – era scivolata e aveva sbattuto contro la porta della cabina, che si era aperta di colpo e lei era schizzata fuori. Era caduta sul pavimento duro e lucido. Lui rideva. “Ehi, mi sa che ti sei fatta male, cazzo!” Aveva le gambe spalancate, guardava in alto verso il lavandino.

Da dietro alle orecchie, apparve un lento rivolo rosso. Scorreva sulla pietra beige del pavimento del bagno, diretto allo scolo sotto il lavandino. C’era una vasca color panna con un asciugamano bianco e pulito appeso al bordo. Suraj voleva metterlo sulla macchia di sangue per assorbirne il rosso. Per prenderlo avrebbe dovuto scavalcarla.

Suraj era fradicio. Un’aria fredda, artificiale, attraversava il bagno. Tremava.

Lei no. Non si muoveva.

Ora che era distesa a terra e il kurta non copriva quasi più niente, Suraj pensò che i seni sembravano due frittelle con un bottone di cioccolato. Erano piccoli. Sarebbe bastato metà palmo della mano a contenerne uno.

Si accorse che si fissava le mani. Tremavano. Tutto il corpo tremava.

Non c’era alcun suono tranne il ronzio sordo dell’aria condizionata.

Doveva fare qualcosa. Ma che cosa? Barcollò in camera, verso il telefono, doveva chiamare la reception per far venire un medico. Ma gli avrebbero chiesto cos’era successo. Non aveva idea di cosa fosse successo.

Sentì bussare a una porta lungo il corridoio, e poi una voce che diceva, “Ha bisogno che le sistemi il letto, signore?” Arrivavano ogni sera a tirare le tende, accendere le candele profumate nelle stanze, sprimacciare i cuscini con la delicatezza che si riserva a un neonato. Nel giro di pochi minuti i passi degli addetti al servizio camere si sarebbero avvicinati. Aveva bisogno di tempo per pensare. Chiuse la porta a chiave. A doppia mandata.

Un suono gli disse che nella stanza c’era qualcun altro. Si girò di scatto. Nomi, con addosso quel che rimaneva del kurta, perdeva sangue dalla testa, gocciolava acqua sul pavimento. Suraj avrebbe voluto lanciare un grido di sollievo. Non era morta. Non l’aveva uccisa.

Si strinse attorno i vestiti bagnati. Batteva i denti per il freddo. Suraj li sentì suonare come nacchere.

“Dirò tutto” disse Nomi. Lo guardava dritto negli occhi. No, non proprio lui, ma oltre, verso la porta. Stringeva in mano qualcosa, ma non riusciva a vedere bene cosa.

Avrebbe risolto tutto, l’importante era calmarla. Si trattava di uno stupido malinteso, non l’aveva capito anche lei? Avevano giocato un po’ e la cosa era sfuggita loro di mano. Doveva farglielo capire. Le si avvicinò appena. “Ascolta, è stato un incidente, ero ubriaco, è stato orribile, ma…”

I passi degli addetti al servizio in camera si avvicinavano. Li sentiva sulle piastrelle. Se non lasciava sulla porta il cartellino che chiedeva di non disturbare, di solito bussavano due volte, poi aspettavano un po’ ed entravano. Potevano entrare anche se la porta era chiusa a doppia mandata?

“Ascolta…” riprese.

“Non mi fai paura” disse Nomi. Guardava ancora dietro di lui, come se vedesse qualcos’altro. Quello sguardo lo spaventò come non mai. Era intrappolato con una pazza.

“Non credo alle tue stronzate” gli disse. “Basta.” Alzò le mani come se tenesse una pistola. Schiacciò. Lui si mise d’istinto le mani sugli occhi, ma era troppo tardi. Sentì qualcosa arrivare in un occhio, fu accecato da un dolore lancinante. Lo coprì con il palmo. Il dolore gli attraversò l’occhio fino alla nuca. Sentì l’odore dello spray antizanzare. La bomboletta in bagno. Che stronza. Gli lacrimava l’occhio, riusciva a malapena a vedere. Era come se si fosse bruciato del tutto.

“Non mi fai paura. Non credo alle tue stronzate.” Le parole uscivano da Nomi in un tono cupo e uniforme che non le apparteneva.

Suraj sentì un dolore acuto e penetrante all’avambraccio. Con un solo occhio vide una pozza rossa sul lenzuolo bianco. Abbassò lo sguardo: aveva un taglio sul braccio. Il sangue si diffondeva caldo e scarlatto su tutto il braccio, la mano, il letto. E lei stava per affondare di nuovo il coltello. Il coltello da intaglio, preso dal set di attrezzi sul comodino.

Provò a puntare agli occhi, lui schivò il colpo e il coltello gli aprì la pelle della guancia. Sentiva il sapore salato del proprio sangue che gli scorreva sul viso. Aveva la camicia intrisa di rosso. Cercò di spostarsi ma lei gli scagliò contro la pietra per affilare, e lo ferì sulla fronte. Suraj cadde in ginocchio, Nomi non accennava a fermarsi, continuò a lanciargli contro tutti gli scalpelli e gli attrezzi, uno dopo l’altro, come se fosse un bersaglio. Suraj si accucciò, provò a proteggersi con le braccia, e lei lo colpì con un calcio tremendo al fianco. Lui si piegò in due e gemette mentre lei gli diede un calcio sulle palle.

Suraj riuscì ad alzarsi nonostante il dolore straziante. Armeggiò con la portafinestra che dava al giardino privato sul retro, barcollò fuori. Si issò a fatica oltre il muretto che separava il giardino dall’area abbandonata dove muggiva il bufalo eterno. Rantolava, ma arrancò via il più veloce possibile. Gli sanguinava il braccio, la faccia, gli faceva male lo stomaco, ci vedeva appena. Non aveva idea di dove andare, l’importante era andare via. Si fece largo oltre la boscaglia, tra alberi, arbusti e giunchi, si strappò i vestiti, si sentì tagliare la pelle.

Il terreno erboso si trasformò in sabbia, il buio rischiarò. Era arrivato in spiaggia, nella parte più lurida del lungomare. Puzzava di fogna, c’erano resti di cibo sparsi dappertutto: bottiglie d’acqua vuote, cucchiai di plastica, piatti d’alluminio, buste della spesa. Scivolò su qualcosa, calpestò delle schegge di vetro e finì in una pozzanghera. Poi vide il mare. Corse verso il bagnasciuga. Le ciabatte galleggiavano, via sulla corrente: o forse se ne era andato a piedi nudi? Da qualche parte non troppo lontano sentì dei cani abbaiare, un branco di randagi. Le onde gli andavano incontro impetuose. I cani abbaiavano sempre più vicino. “Che cosa ho fatto!” si disse tra i singhiozzi. “Che cosa ho fatto?” Una fila di luci al neon illuminava la spiaggia di un verde acido, malato. Si mise a correre senza guardare, andò a sbattere contro un uomo che innaffiava un ramoscello infilato nella sabbia. L’uomo lo spinse e continuò a innaffiare il ramo.

Suraj avrebbe voluto strapparsi l’occhio, doveva farlo smettere di bruciare così tanto. Riprese a correre, cadde, si rialzò, imprecò, corse ancora. Si fermò quando sentì che le onde gli lambivano insistenti i piedi. Si strinse la testa fra le mani, crollò in ginocchio nell’acqua, soffocato dalla salsedine e vomitò.

Qualcosa spuntò dai vortici d’acqua verde. Una colonna si muoveva verso di lui. Nel bagliore sinistro della luce verde sembrava un fantasma uscito da un incubo. Quando gli fu di fronte divenne un uomo. Una tunica gialla gli cingeva le spalle possenti. Aveva una cascata di capelli bianchi. Nonostante il buio, portava gli occhiali da sole. Suraj si inginocchiò tra la schiuma, pietrificato, mentre l’uomo si avvicinava.

 

Ti ho promesso che sarei tornata a prenderti, Piku.

Provai a spiegarti allora, senza successo. Ci riprovo adesso.

Mi avevano rinchiuso insieme ai cani perché avevo cercato di liberarti. Rivivo nella mente ogni dettaglio di quei giorni da tredici anni, ormai. Quando uscii dal capanno mi ritrovai in un silenzio fitto e denso. Era come se la paura si fosse trasformata in un mostro in carne e ossa che mi stava con il fiato sul collo. In quei tre giorni di reclusione avevo mangiato poco o niente. Avevo gli occhi incrostati di terra, i vestiti sporchi e sudati. Non riuscivo a trovarti. Ma c’era Champa. Quando uscii dal bagno mi aspettava. Si guardò intorno per controllare che non ci ascoltasse nessuno, poi mi chiese se sapevo cosa aveva fatto Guruji mentre ero rinchiusa.

Sputò sul pavimento e mi chiesi cosa le desse il coraggio di compiere un gesto simile. Qualche mese prima era scomparsa per due settimane ed era tornata smagrita, con gli occhi scuri e infossati. Le ragazze mormoravano che l’avevano mandata via perché era incinta e avevano dovuto uccidere il bambino e toglierglielo da dentro. Qualcuna diceva che era stata con l’autista del furgone della scuola. Altre che l’aveva fatto con una delle guardie. Nessuno aveva alzato un dito per aiutarla. Da quel momento in poi, Champa era diventata più temeraria.

“È entrato nel refettorio ed è andato dritto da Minoti” disse. “Le ha sbattuto la testa contro il muro. Le è uscito il sangue e lui si è messo a ridere.”

“Non dirmi più niente. Lasciami in pace.”

“Non è finita” continuò in un sussurro affannoso. “L’ha buttata per terra, davanti a tutte. Le ha sollevato la gonna e le ha tirato giù le mutande… perché ti tappi le orecchie con le mani? Stai solo ascoltando, non l’hai vissuto in prima persona. E non l’hai visto. Pensa a Minoti. Urlava a più non posso, lui invece rideva a crepapelle. Allora le ha infilato dentro un grosso cucchiaio. L’abbiamo visto tutti. Le ragazze piangevano. Lei perdeva sangue. C’era cibo ovunque perché avevano buttato per terra i piatti e i vassoi.”

Sai cosa ho pensato in quel momento, Piku? Che avrei trascorso tutta la vita in quell’inferno, dove non c’era inizio né fine. Dall’età di sette anni non avevo vissuto altro. E non avrei vissuto in un mondo diverso da quello. E neanche tu.

“Dobbiamo scappare. Non abbiamo niente da perdere” sussurrò Champa. Così mi disse, Piku.

Io risposi, “Sei già scappata due volte. La polizia ti ha sempre riportato indietro.”

“Questa volta non andrò dalla polizia. Ormai ho imparato.”

“Non c’è posto per noi, là fuori. Dobbiamo rimanere nascoste o ci metteranno in prigione.”

“Scordatelo, ci hanno raccontato solo bugie in tutti questi anni. Se fossimo scappate tempo fa, non ci sarebbe successo niente. E la prigione è sempre meglio di qui, fidati. Ad ogni modo, guarda…”

Entrò Joba. Io e Champa facemmo finta di niente, come se non avessimo parlato fino a un secondo prima. Non sapevamo da quanto tempo era rimasta ad ascoltarci in corridoio, né se avesse sentito qualcosa. Joba mi guardò, arricciò il naso e disse, “Puzzi.”

Si sorrise allo specchio, si riaggiustò il fermaglio sui capelli e disse, “Puzzi proprio come un cane.”

Non avremmo fatto scappare Joba con noi. No. Ma chi altra?

“Non fare la stupida” mi disse Champa due giorni dopo, quando avemmo di nuovo occasione di parlare. “Non verrà nessun’altra.”

“Piku. Non ho intenzione di lasciarla qui.”

“Ci farà scoprire. Non ha cervello. Non sa parlare. Non fa altro che sbattere dappertutto e blaterare cose senza senso.”

Ecco cosa pensavano di te, Piku. Ma io sapevo che non era così. Avevamo un linguaggio segreto, noi due, e lo parlavamo da cinque anni.

“Piku non è così” le sussurrai con tutta la forza che avevo. “È solo lenta e parla poco, ma capisce tutto quello che dico. So come calmarla.”

“Ssssh! Non alzare la voce!”

“Non me ne vado senza di lei. Senza di me per lei sarà la fine. Sono l’unica che capisce cosa dice quando parla!” Avevo le lacrime agli occhi. Ma a Champa non le feci vedere.

“Puoi tornare a riprenderla. Non c’è abbastanza spazio nel furgone del letame. È troppo piccolo. E se si mette a strillare? Se Bhola ci sente? Che facciamo allora?” Non serviva una risposta a quella domanda, Piku.

Champa disse, “Senti, l’unica ragione per cui ti ho detto di questo piano è perché mi sei simpatica. E ho bisogno che mi aiuti a salire su quel furgone. Ma se hai intenzione di fare la furba con me, troverò un altro modo per andarmene. Ricorda che ci sono già riuscita due volte. Senza il tuo aiuto. Puoi restare qui con la tua Piku.”

Non risposi. Non sarei mai riuscita a scappare senza Champa, non conoscevo nessuno fuori. Champa era più grande. Siccome era già scappata e l’avevano ripresa, ora sapeva cosa non bisognava fare. Disse che durante il periodo passato in ospedale aveva saputo di una casa per ragazze come noi, orfane o abbandonate. Avrebbero mantenuto il segreto, si sarebbero presi cura di noi.

Ora che la libertà era a portata di mano, Piku, non potevo farmela scappare. Cominciai a pensare che la nostra unica possibilità di sopravvivenza dipendeva dal fatto che io riuscissi ad andarmene. E poi sarei tornata a prenderti.

“Ho sentito dire che in queste case trovano dei genitori per i bambini orfani, genitori ricchi. Genitori all’estero. Sarà una vita diversa” mi disse Champa una sera in cui ci sedemmo vicine a fare ghirlande con un mucchio di gelsomini. Era quasi il momento della puja e dovevamo finire tutte le ghirlande entro mezz’ora. Il filo rosso entrava e usciva dai fiori bianchi di gelsomino che infilzavo con un ago spesso mentre Champa mi bisbigliava all’orecchio i particolari della fuga.

Dissi, “Quelle adozioni saranno per i bambini piccoli. Io ho dodici anni. Tu quindici. Chi pensi che ci voglia adottare? Ci beccheranno e dovremo tornare indietro.”

“Se non vuoi venire, non venire. Troverò un altro modo per andarmene.”

Il furgone del letame arrivava da lontano, una decina di volte all’anno. Non ricordo con che frequenza. Mi sembra che passasse poco meno di un mese tra le consegne, di sterco di mucca e foglie fradice. Da quando Jugnu se ne era andato, toccava a me scaricare il furgone. Travasavo il letame con una pala in un contenitore più piccolo che mi caricavo in testa come faceva lui, e poi lo svuotavo in una montagnola vicino al capanno. Ci avrei impiegato due giorni. Verso le sei di sera del secondo giorno di lavoro, l’autista del furgone mi si avvicinò e si mise a guardarmi. “Quanto deve durare, ancora? È secca come un bastone e prova a fare il lavoro di un uomo” disse. “Quel bastardo di Bhola non capisce niente. Me ne sarei dovuto andare ore fa.” Sputò un rivolo rosso verso il catino che stavo riempiendo.

Poi andò alla baracca dove Bhola e gli altri fumavano e bevevano. “Chiama qualcuno che la aiuti” gridò. “Tra un’ora me ne devo andare.”

Era proprio come aveva pianificato Champa. Aspettai che Bhola mi dicesse che potevo farmi aiutare da qualcuno.

Pochi secondi dopo Bhola mi fece: “Trovati una aiutante. Muovi quel culo pelle e ossa.”

Gridai, “C’è qualcuno? Champa, sei tu? Puoi venire ad aiutarmi? Mi serve una mano.” Lei era appostata nei paraggi.

Corse verso il furgone e disse, “Cosa vuoi? Non pensare che farò tutta la fatica al posto tuo!”

Ci mettemmo al lavoro per svuotare prima possibile il furgone. C’erano ancora cinque sacchi da scaricare. Le gambe e le braccia mi tremavano mentre faticavo su e giù con il catino. Puzzavamo di letame dalla testa ai piedi. Avevo gli scarafaggi tra i capelli.

Prima che l’autista tornasse, io e Champa ci nascondemmo sotto il mucchio di sacchi vuoti sul retro del furgone, in mezzo alle sue cose. C’era una gomma di scorta, delle bottiglie di alcolici vuote, dei vasi da giardino da consegnare altrove. Sotto quei sacchi ruvidi mi sentivo soffocare. Puzzavano di sterco marcio. Le cimici e le formiche mi camminavano addosso. Mi prudeva dappertutto, ma dovevamo restare immobili. L’attesa durò qualche minuto, ma sembrarono giorni. Pensavo che avrebbero cominciato a cercarci in giro per l’ashram. Ci fu un momento di disperazione, durante l’attesa, in cui valutai di correre indietro a prenderti e infilare anche te nel furgone, Piku. Lo spazio c’era, ne avresti occupato pochissimo. Ma era troppo tardi: ormai sentivamo l’autista avvicinarsi. Arrivò da dietro. Poi lo sentimmo barcollare verso il davanti del furgone e salire a bordo. Lo sportello si chiuse con un colpo secco. Il furgone scattò in avanti. Passarono lunghissimi minuti e si fermò. Sentimmo un cigolio metallico, il clangore di chiavistelli e catenacci. Una voce disse, “Ancora qui? Mica ci vorrai passare la notte, no?”

L’autista disse, “Certo che no. Posso trovare di meglio in città. Qualche pollastrella un po’ più in carne.” Ridacchiarono e da fuori diedero un colpo sulla fiancata del furgone. Fu come se dentro, dove eravamo noi, fosse scoppiata una bomba. Tu ti saresti di sicuro messa a urlare, Piku. Hai sempre avuto paura dei rumori forti. Il furgone riprese ad avanzare incerto. Le buche e le curve ci facevano scontrare l’una con l’altra.

Dentro quel furgone piansi per tutto il tempo, pensando al sorriso che avevi la sera prima, mentre ti accarezzavo le braccia e le gambe ossute per calmarti. Ti ripetevo che sarei tornata a riprenderti. Mi avevi capito? Ero l’unica persona che sapeva quello che cercavi di dire con i tuoi mugolii e i tuoi versi. Quella sera non avevi emesso un suono.

Il furgone si fermò dopo un bel pezzo. Non sapevo perché né per quanto tempo si sarebbe fermato, ma la testa di Champa sbucò dai sacchi, poi mi pungolò con un dito tra le costole e disse, “Fuori. Scendiamo.” Eravamo appena riuscite a rotolare fuori dal retro quando il furgone si rimise in marcia. Arrancò lungo la strada e scomparve. Fu una questione di secondi.

Avevo le ginocchia deboli. Gli occhi accecati dal suono intermittente dei clacson. La voce stridula di una donna usciva da un altoparlante. I fari bianchi e accecanti delle auto. E poi la gente: non avevo mai visto tanta gente. Non sapevo che il mondo contenesse tutte quelle persone. Nessuno si fermava a guardare due ragazzine ossute che arrancavano lungo una strada.

Champa mi prese per mano e mi trascinò verso una fila di risciò a motore. Mi spinse a bordo e disse all’autista dove andare. Il risciò cominciò a muoversi. Poi sempre più veloce. Respiravamo aria fresca, aria aperta. Dei lampioni a gas pullulanti d’insetti gettavano la loro luce su dei carretti che vendevano di tutto, dalle uova sode alle paratha bollenti. E lontano, dopo la strada, c’era una frangia di schiuma bianca su un tessuto nero: quel mare che Jugnu ci aveva descritto, così vicino.

Il mare in cui l’avevano gettato.

Champa mi istruì su cosa dire una volta raggiunta la casa per bambine. Eravamo cugine. Non avevamo genitori. Nostro zio ci picchiava e così eravamo scappate. Avevamo abbastanza cicatrici, lividi e bruciature di sigarette per risultare credibili. “Non fare una parola dell’ashram” disse Champa. “Tutti i ricchi e i famosi sono suoi discepoli, pensano che sia un dio. Non crederanno a niente di male su di lui. Ci riporteranno subito indietro e allora saremo morte, come Jugnu.”

“E Piku? E le altre ragazze? Non possiamo lasciarle là. Dovremmo dire la verità.”

“Smettila di fare la santa” ringhiò Champa. “O ti butto giù dal risciò all’istante.”

Allora cominciai a parlarti nella mia testa. Ti parlo di continuo nella mente. Sai che sapore ha il tradimento? E come potresti? È come avere i vestiti pieni di sabbia, così pieni di sabbia che i granelli mordono, graffiano, feriscono. Provi a scrollarti i vestiti di dosso, li lavi, lavi tutto il corpo, eppure anche a distanza di giorni, di anni, negli spazi minuscoli tra le dita dei piedi, dentro la fodera delle tasche, quei granelli continuano a tormentarti. Sono insopportabili, quei granelli che non vanno via qualsiasi cosa tu faccia. Non riesci più a distinguere la realtà dall’incubo. Il cuore, la mente, la bocca: è tutto pieno di sabbia.

Per un mese, forse tre o forse sei, rimasi in quella casa per bambine. Appena arrivammo, trasferirono Champa da un’altra parte. Non so dove sia andata, forse in un’altra struttura o da una famiglia. Lì alla casa non dicevano mai dove mandavano i bambini. Non l’ho più rivista. Mi dissero che presto sarei partita anch’io. Speravano di trovarmi dei genitori adottivi. Nessuno mi avrebbe mai più rivista. Neanche tu, Piku.

Non raccontai niente dell’ashram, ma scrissi. Scrivevo tutto il giorno. Fino a sera. Riempii tutte le pagine di un quaderno. Consumai intere matite. Cominciai con il giorno in cui avevano ucciso mio padre e scrissi tutto quello che riuscivo a ricordare. Scrivevo soprattutto di te. Scrivevo che per com’eri fatta, saresti morta se fossi rimasta all’ashram.

Quando finii di scrivere, nascosi il quaderno finché non arrivò il momento. Sarei stata mandata nella mia nuova casa: prima a Delhi, poi in un altro paese. Un futuro felice, mi dissero, con una donna che aspettava da tanto di adottare un bambino.

Uscii di nascosto dalla casa per bambine il giorno prima di essere mandata a Delhi. Mi ero segnata l’indirizzo di un giornale dalla copia che ci arrivava tutti i giorni. Lo stesso giornale che aveva pubblicato un articolo su di noi, con una foto di me e altre bambine insieme a Guruji. Avevo incollato dei fogli per confezionare una busta, indirizzata al giornale, poi ci avevo infilato il quaderno e l’avevo richiusa con la colla. Camminai per più di un’ora, chiedendo a ogni metro indicazioni ai passanti, e così riuscii a trovare la sede della redazione. Dopo un momento di panico, perché avevo paura che se avessi lasciato il quaderno lì l’avrei perso per sempre, lo infilai nella buca delle lettere ai cancelli dell’ufficio. Cadde dentro con un tonfo sordo.

L’avevo scritto per te, Piku, perché lo leggessero e ti portassero via da lì, e anche le altre. Avrebbero finalmente saputo cosa succedeva davvero nell’ashram, e sarebbero andati a indagare.

Là fuori, lontano, a distanza di anni, trovai un’immagine di Guruji su internet e la appiccicai al muro. Lo guardavo negli occhi ogni giorno. Gli infilavo le puntine da disegno in faccia. Non mi avrebbe più fatto paura, non da lontano, non se potevo stargli di fronte, faccia a faccia, e dirgli che io c’ero: c’ero dall’inizio, e so tutto. Nei miei sogni racconto a tutti la verità, non tralascio niente, anche se mi dà il voltastomaco.

Tu sei accanto a me. Non sei cambiata affatto. Non puoi parlare, ma continui a sorridere nello stesso modo.

Latika si era scolata ormai metà bottiglia di vodka quando, da qualche parte, una radio cominciò a suonare una vecchia canzone di Geeta Dutt, “Piya aiso jiya mein samae gayo re, ki main tun-mun ke sudh-budh gawa baithee” cantava quella voce tanti anni prima. “Il mio amante si è sciolto così dentro me / Che ho perso ogni controllo sulla mente e sul corpo.”

Era seduta da sola in veranda. Sotto la veranda c’erano le chiome giovani delle palme da cocco e più avanti il mare, che ansimava e sospirava. Il vento crescente agitava le fronde delle palme. Dopo la calura del giorno, quella mite aria notturna le inondava le membra di un delicato languore. Provava una strana sensazione alla testa, come se qualcuno, molto, molto piano, la riempisse di nuvole. Il fruscio del mare si trasformò in un ruggito nelle orecchie.

Erano tornate dal mercato senza Gouri. Il giorno si era concluso in un disastro. Latika provava a mantenere la calma ma continuava a vagare con il pensiero, e quando le arrivò la voce di Vidya, giungeva da molto lontano. Cosa diceva? Qualcosa riguardo al riprendere il controllo della situazione, organizzare una squadra. Il direttore dell’albergo era già partito in macchina con qualche uomo, in cerca di Gouri. Jarmuli era una piccola cittadina, di certo l’avrebbero trovata, dopotutto si era solo persa al mercato ed erano trascorse poche ore. Certo, il buio complicava le cose, ma non si sarebbero arresi. Se non l’avessero trovata entro mezzanotte, si sarebbero rivolti alla polizia. Vidya approvò il piano. Era già riuscita a trovare la sua segretaria latitante molti anni prima, e in quel caso si trattava di una grande città. Qui, invece, si sviluppava quasi tutto attorno a un’unica strada. Avrebbero perlustrato ogni angolo.

“Sono così disperata che ho persino cercato in camera sua, Latika. Non si sa mai… ma ovviamente non c’era. Ho detto al direttore di andare al tempio di Vishnu. Ti ricordi che diceva di volerci tornare? Se c’è un posto dove potrebbe essere… ma è un vero labirinto… come faranno a trovarla se è davvero là dentro? Ho chiamato la guida, Badal, per aiutarci, visto che conosce il tempio come il palmo della sua mano. Ma è stato maleducatissimo. Ha detto che era troppo lontano e non poteva venire! Latika? Latika! Mi ascolti?”

Vidya si sedette accanto all’amica e fissò la terza sedia. Vuota. Com’era stato tutto perfetto e tranquillo fino al giorno prima: le serate in veranda, le chiacchiere fino a notte fonda, il mare, il viaggio, l’albergo, la vita. Ogni cosa al suo posto. Sembrava come se, da un giorno all’altro, un tornado avesse squarciato quella perfezione. Suraj era a Jarmuli, forse nei guai, e avevano perso Gouri. Avrebbe dovuto telefonare al figlio borioso di Gouri per dirgli che non la trovavano. Perché Latika era di certo troppo brilla – possibile? – per fare una telefonata difficile come quella. Non era proprio di nessun aiuto. Latika sbronza. C’era forse qualcosa di più assurdo?

“Oh, Latika, che cosa diremo al figlio!” gridò disperata.

Latika aprì gli occhi a fatica. “Il direttore la troverà. Vedrai. È un uomo… proprio in gamba.”

“Ma non è Dio. Come fai a essere così, Latika, mentre va tutto a rotoli?”

Latika prese un altro sorso di vodka. Si tolse gli occhiali, chiuse gli occhi, e appoggiò la testa al muro. Quando parlò, la voce era così lieve che Vidya dovette sporgersi per carpire le parole prima che il vento se le portasse via.

“Quando andavo al college mi innamorai di un uomo che viveva dall’altra parte della strada. Proveniva da una famiglia konkani tradizionale, molto religiosa. Era bellissimo, alto, con gli occhi verdi e un’aria greca, come sono spesso i konkani. La sua famiglia aveva una bella casa con antichi alberi di tamarindo, sculture in giardino, colombe addomesticate. Erano molto ricchi. Ci incontrammo perché veniva ogni giorno a prendere sua figlia alla scuola media vicino al mio collegio, a bordo di un’auto grigia. Un giorno mi diede un passaggio a casa insieme alla bambina. Nel giro di qualche settimana divenne un’abitudine e nessuno ci vide niente di male, perché lui era un uomo sposato e un vicino di casa, e sua figlia era in macchina con noi. Poi cominciammo a incontrarci di nascosto – saltavo una lezione e lui arrivava prima a scuola, in modo da poter avere un’ora insieme da soli in macchina, senza la figlia. Sapevo che era una follia, ma non riuscivo a resistere. Ci amavamo. Non ci vedevamo niente di male né di sbagliato. Ma naturalmente non era possibile continuare e poi cominciarono a circolare dei pettegolezzi… qualcuno mi vide salire in macchina da sola, qualcun altro mi vide con lui lontano da casa. Quando presero in giro mio fratello a scuola per questo motivo… fu la fine. Mi spedirono a vivere da mia zia a Bhopal. Dovevo prendere un treno notturno e mandarono mio fratello a farmi compagnia e a vigilare sulla mia castità. Quelle vecchie carrozze di seconda classe. Le cuccette superiori erano separate da divisori così bassi che se volevi potevi toccare chi dormiva dall’altra parte. In qualche modo il mio konkani era riuscito a prenotare un posto nella cuccetta accanto. Ci tenemmo per mano tutta la notte attraverso quel divisorio traballante. Lo sentii piangere. Non singhiozzava, ma aveva il respiro corto, tirava su con il naso, come se avesse il raffreddore. Mi faceva male il polso, si era arrossato per quanto dovevo tenerlo storto. Mi sembrava di sentire il cuore che si spezzava in due. Ero molto giovane, sai. Mio fratello dormiva appena qualche centimetro più sotto e non si accorse di nulla.”

“E poi?”

“Poi… niente. Il mio konkani scese dal treno prima dell’alba. La sua famiglia si trasferì armi e bagagli in un’altra città, così non potevamo incontrarci neanche quando tornavo a casa per le vacanze. Non lo rividi mai più.”

L’albergo era immerso nel buio, e ora che la radio aveva smesso di suonare, sentirono in lontananza i cani che abbaiavano agitati.

“Erano anni che non ci pensavo più” disse Latika. “Chissà perché ho tirato fuori queste sciocchezze?”

Vidya aprì la bocca per rispondere, ma Latika proseguì, “È il mare. Il suo rumore. Mi ha riportato in mente tante cose che credevo di aver dimenticato. Avrei dovuto pensare a Gouri, non a me stessa.”

“Credi che la troveremo?” Vidya era ormai troppo stanca per disperarsi.

“Certo che sì” rispose Latika. “Domani sorgerà di nuovo il sole e tutto cambierà.”

Non avevano altro nelle orecchie che il ruggito cupo dell’oceano.

Latika guardò oltre la ringhiera della veranda, verso il cielo. C’era un bagliore rosso chiaro che preannunciava un temporale. Luna e stelle, così nitide la sera prima, erano nascoste da nuvole basse.

“Andiamo a fare una passeggiata?” propose.

“Buona idea. Tanto dobbiamo restare sveglie fino a quando il direttore e la squadra non tornano.”

Il personale dell’albergo aveva chiuso e legato i grandi ombrelloni a righe sparsi qua e là sul prato. Nel giallo chiarore delle luci subacquee, la piscina s’increspava di forme azzurre e verdi. A Latika sembrò di vedere una rana nuotarci dentro. L’erba del prato era già rorida, sentivano il sale sulle labbra. Percorsero il camminamento fino al cancello sul retro del giardino e lo aprirono.

Dal buio uscì di corsa un custode che gridò, “Signore, signore! Dove andate?”

“A passeggiare verso il mare.”

“Non è sicuro a quest’ora di notte. È in arrivo un temporale, non vedete? Non posso lasciarvi andare. Perderò il lavoro se il mare vi trascina via. È troppo pericoloso.”

Latika proseguì e aprì la serratura del cancello. Il mare palpitava all’orizzonte. Le onde azzannavano il cielo prima di scagliarsi sulla sabbia a schiaffeggiare le barche capovolte. Non c’era anima viva laggiù, niente a parte le ombre di due uomini più in là sulla riva, uno che pareva in ginocchio nell’acqua, l’altro che ne usciva. L’uomo che camminava fuori dall’acqua era molto alto. Quello inginocchiato cercava di alzarsi.

“Guarda! Dall’altra parte della spiaggia. Che strano, in acqua…” disse Vidya e li indicò .

“Quel tizio cerca di ammazzarlo o di salvarlo?”

“Credo che quello alto stia spingendo il più basso in acqua.”

“No,” disse Latika, “penso che quello alto stia impedendo all’altro di morire annegato. Non vedo bene, con questo buio. Ma guarda, laggiù. Le luci.”

Vidya rivolse lo sguardo verso le luci di una nave al largo. Poi tornò a guardare i due uomini, solo che non c’era più nessuno. Nient’altro che il buio rarefatto, e il mare che ingoiava la sabbia.

Il vento soffiava dietro di loro e le sospingeva. Arrivarono fino al bagnasciuga. Persero di vista le luci della nave, poi le ritrovarono dove cielo e mare s’incontravano, mentre affondavano e s’immergevano nell’acqua per poi scomparire per sempre.

Rimasero con le caviglie in acqua, la sensazione della terra che scompariva sotto i piedi nudi, risucchiata ogni volta che un’onda si ritraeva. Latika prese Vidya per mano. Ogni volta che un’onda le colpiva, sentivano affondare le caviglie e si stringevano più forte.

“Pensi davvero che la troveranno?”

“Sì, certo. Dobbiamo resistere. Domani sarà tutto risolto. Aspetta e vedrai.”