Il corteo funebre lasciò il palazzo episcopale l’ultimo giorno di agosto, alle cinque in punto del pomeriggio. Dalla torre della casa dell’Arcidiacono, Octavio Reigosa vide la carrozza avanzare lenta per calle del Obispo in testa a una lunga processione composta dalle principali autorità religiose, civili e militari di Barcellona, e anche da diverse centinaia di frati, monache, sacerdoti e chierichetti che chiudevano il corteo con la lugubre severità dei loro abiti e tonache. File su file di laici a lutto coprivano le facciate laterali della cattedrale e del Palazzo dell’Udienza, e tutti osservavano il passaggio della carrozza in un silenzio così rispettoso che Reigosa, dall’alto della torre, riusciva a sentire con chiarezza lo sferragliare delle ruote e il ritmico scalpiccio degli zoccoli sul lastricato.
«Con questa le ho viste proprio tutte», sbottò l’ispettore Ollero lasciando il davanzale con aria sprezzante. «Quello sbruffone del capitano Alcaraz che si sottopone senza battere ciglio a una simile umiliazione. Dal capo Daroca non mi aspettavo niente di diverso, ma da lui...»
Reigosa rimase a fissare lo spettacolo ancora per qualche minuto, finché gli ultimi membri del corteo non furono scomparsi dalla sua vista. A quel punto si ritrasse anche lui e guardò con occhi rassegnati il collega, che si era seduto a un capo del tavolo ovale al centro della sala.
«Alcaraz sa cosa gli conviene fare», disse. «La Chiesa, la Corona e l’Esercito sono i tre pilastri di questo paese. Non vale la pena mettere a rischio questo equilibrio solo per un vescovo morto.»
Ollero si alzò in piedi e fece un gesto vagamente osceno con le mani.
«Questo lo so, ispettore. Ma so anche che quel dannato vecchio si meritava di finire appeso a una corda nel cortile della prigione, invece di essere esibito come un santo per tutta la città.»
Reigosa non ebbe nulla da obiettare a quella osservazione di Ollero.
«Il popolo ha bisogno di modelli da ammirare, ispettore», si limitò a fargli notare. «Non facciamoci il sangue amaro. Sarebbe ancora peggio se...» Reigosa non completò la frase: non gli venne in mente cosa poteva essere peggio di quella farsa a cui avevano appena assistito. E così concluse dicendo: «Stanotte, Sua Eccellenza dormirà sottoterra, e il destino che lo aspetta da adesso in poi riguarda solo il suo Dio».
I due uomini abbandonarono in silenzio la torre romana, uscirono dalla casa dell’Arcidiacono e si separarono di fronte al portone della cappella di Santa Lucia. Ollero si diresse verso calle del Obispo, dove il cancello del patio del palazzo episcopale era ancora sorvegliato da due militari agghindati alla maniera delle guardie vaticane, mentre Reigosa si avviò dalla parte opposta, verso la piazzetta della cattedrale. Costeggiò la chiesa lungo calle de los Condes e seguì per alcuni istanti lo stesso tragitto che aveva percorso con il suo amico Andreu la sera del primo di agosto. Arrivato in plaza del Rey, stavolta non girò verso il convento di Santa Clara, ma imboccò calle del Veguer, oltrepassò la bajada de la Prisión e attraversò la città antica in parallelo al corteo funebre.
Quando giunse alla bajada de los Leones, la carrozza con il corpo del vescovo stava già percorrendo il tratto finale di calle del Regomir e si avvicinava alla casa di Andreu Palafox. L’ispettore Reigosa si immaginò il suo amico chiuso nel laboratorio all’ultimo piano, circondato di orologi e congegni automatici, con le lenti scivolate sul naso e le guance rasate male, che vedeva sfilare sotto la sua finestra il corteo funebre in onore dell’uomo che una volta, in un’altra vita, era stato per lui come un secondo padre. E si rallegrò che non fosse possibile. Poi si sentì di nuovo mancare il fiato e scacciò Palafox dai suoi pensieri.
Il cancello di casa Urbach era spalancato. Reigosa entrò nel patio e salì la scalinata d’ingresso, dove trovò Esteban, il maggiordomo, che lo fece accomodare in biblioteca e gli servì un generoso bicchiere di anice prima di andare a chiamare il padrone.
L’ispettore aveva appena avuto il tempo di prendere un sorso di liquore, quando l’industriale lo raggiunse in biblioteca.
«Ero convinto che steste facendo il giro della città dietro una carrozza funebre, ispettore.»
Eliseo Urbach indossava una vestaglia di seta verde, pantofole di feltro e nel complesso aveva l’aspetto di un malato rassegnato a un epilogo imminente. Eppure la mano che gli porgeva non aveva perduto un briciolo della serena fermezza che l’ispettore aveva apprezzato in lui nel corso di quelle ultime settimane.
«Non sono riuscito a impedire il funerale», si scusò. «E non sono neanche riuscito a far prendere sul serio le conclusioni della nostra indagine. Quando ho sostenuto davanti alle autorità che tutti gli omicidi erano stati commessi da Carrera e da Morel, hanno smesso di ascoltarmi.»
Eliseo Urbach annuì serio.
«Niente che non ci aspettassimo, in definitiva», concluse. «E forse è addirittura meglio così. Adesso che le acque si sono calmate, non serve agitarle di nuovo.»
Reigosa bevve un altro sorso di anice e si disse che forse l’industriale aveva ragione. Meglio onorare per qualche ora la memoria di un vecchio demente, piuttosto che mettere di nuovo a repentaglio la pace di una città sull’orlo del baratro.
«Avete avuto notizie di vostra figlia?» si informò.
Il viso di Eliseo Urbach si illuminò all’istante.
«Ho ricevuto una sua lettera proprio stamattina», disse, andando allo scrittoio e aprendo un cassetto. «Lei e Andreu si sono già sistemati. Pare che la casa non sia propriamente una reggia, ma se non altro la vista sul fiume è stupenda.»
Reigosa prese la busta che l’uomo gli porgeva e riconobbe l’elegante calligrafia di Teresa Urbach. Non gli passò inosservato che l’industriale si fosse finalmente deciso a usare il nome di battesimo di Palafox. Con un leggero sorriso sulle labbra, il primo dell’intera giornata, aprì la busta e cominciò a leggere la lettera di tre pagine contenuta all’interno.
Quando ebbe finito, guardò il signor Urbach e gli chiese:
«Voi cosa ne dite? Torneranno presto?»
L’industriale non rispose. Si era accomodato in poltrona mentre Reigosa leggeva le prime notizie che i suoi amici mandavano da Londra, e aveva appena acceso un sigaro che dall’aroma pareva carissimo.
«Sedetevi un momento qui con me, ispettore», ordinò, indicandogli con un unico gesto la scatola di sigari e la poltrona accanto alla sua. «Avete molte cose da raccontarmi.»
L’ispettore non se lo fece ripetere due volte. Prese un sigaro, lo accese e inspirò una lunga boccata di fumo di prima qualità. Poi si mise la mano in tasca ed estrasse il rapporto che aveva letto dinnanzi alle autorità cittadine durante la riunione di quel pomeriggio.
«È tutto scritto qui», disse porgendolo al suo ospite. «Quando l’avrete letto, potete spedirlo a vostra figlia. Che giudichi lei se conviene condividerlo con Palafox o se è meglio lasciar passare ancora un po’ di tempo.»
Eliseo Urbach prese il sottile fascio di documenti piegati in due che Reigosa gli porgeva e diede un’occhiata al frontespizio, ma non parve voler andare oltre.
«Preferisco sentirlo raccontare dalle vostre labbra», obiettò. «So che dovrò farvi delle domande. E so anche che voi, ispettore, cercherete di rispondermi nel modo migliore che potrete.» L’uomo lasciò il rapporto sul tavolino di cristallo tra le due poltrone e si sporse in avanti. «Scegliete voi l’inizio della storia, e cominciamo da lì.»
E così l’ispettore prese una seconda boccata di fumo, si inumidì le labbra con un goccio di anice e cominciò a spiegare al signor Urbach i dettagli della fitta trama di crimini, inganni e prodigi intessuta attorno ad Andreu Palafox in quegli ultimi tre anni. Se non altro, fin dove lui stesso era riuscito a capirli.
Quando ebbe finito di leggere il rapporto dell’ispettore Reigosa, Andreu Palafox ripiegò i fogli e li porse a Teresa Urbach, che gli stava seduta accanto e lo guardava con la stessa espressione severa che aveva assunto annunciandogli l’arrivo della busta.
«Tu l’hai letto?» le chiese Palafox.
«No, ho guardato solo il biglietto di mio padre», scrollò la testa Teresa. «Ho pensato che dovessi leggerlo prima tu.» E dopo un attimo di esitazione, chiese: «Ho fatto bene?»
Era un pomeriggio di ottobre insolitamente caldo a Londra. Decine di coppie passeggiavano sottobraccio lungo la riva del lago di Hyde Park, gruppi di bambini giocavano sull’erba sotto lo sguardo attento delle tate e alle loro spalle, su Rotten Row, i cavalli dell’aristocrazia sfilavano eleganti lungo l’antico viale reale. Un venticello leggero portava la musica di una banda militare dai giardini di Kensington, e per Palafox quelle note allegre erano esotiche almeno quanto i capelli color paglia dei bambini che gli giocavano attorno.
«Il rapporto non dice nulla che non avessimo già capito», rispose. «O che non avessimo sospettato, se non altro. Eppure...»
«Eppure, leggere l’intera storia nero su bianco, scritta dall’ispettore in persona, le conferisce una concretezza che prima non possedeva», proseguì Teresa. «Vuoi leggere il biglietto di mio padre?»
«Aggiunge qualcosa di nuovo?»
«Sua Eccellenza è morto.»
Palafox guardò Teresa con aria incredula.
«Il vescovo Riera è morto?»
«L’hanno trovato nel suo ufficio del palazzo episcopale il ventinove di agosto, appeso a una trave del soffitto. Ma la versione ufficiale è che sia morto di colera.» Teresa si strinse nelle spalle. «Hanno approfittato del suo funerale per celebrare una specie di esorcismo popolare contro l’epidemia, e pare che abbia funzionato. Dice mio padre che da quel momento in poi non ci sono più stati casi di colera.»
La magia postuma del vecchio ciarlatano, pensò Palafox. Capace di guarire la sua città dalla tomba grazie a un estremo sacrificio.
Condannare l’anima all’inferno dei suicidi per evitarle l’umiliazione del tribunale.
«Torniamo a casa», disse, alzandosi in piedi.
Un’ordinata fila di carrozze a noleggio attendeva i clienti di fronte al cancello di Hyde Park Corner. Palafox e Teresa montarono sulla prima e diedero al cocchiere l’indirizzo della casa di Chelsea che avevano preso in affitto. Quando si furono accomodati, Teresa si strinse ad Andreu e gli diede un rapido bacio sulle labbra, poi gli posò la testa sulle spalle e sussurrò:
«Raccontami tutto».
Un solitario capello bianco si affacciava nella chioma nerissima della donna, come un filo d’argento posato su un piatto d’ebano. Palafox lo baciò alla radice e, come già gli era capitato nelle ultime settimane, pensò di trovarsi finalmente in presenza di un autentico miracolo.
«È cominciato tutto all’inizio del 1851», prese a raccontare, mentre la vettura viaggiava tra le strade di Londra. «Quando il dottor Carrera ha conosciuto il vescovo Riera. Carrera voleva a tutti i costi ottenere il permesso di entrare nei conventi femminili della città, e nel gennaio di quell’anno è andato al palazzo episcopale per chiedere udienza al vescovo. La sua intenzione, stando agli appunti che l’ispettore ha trovato nei suoi archivi, era studiare gli effetti della vita monastica sulla salute mentale delle monache. Nel frattempo, stava conducendo uno studio parallelo di identica natura sulle prostitute del Raval.»
«Al vescovo l’avrà venduto in maniera diversa, immagino», azzardò Teresa.
«A lui aveva fatto credere che cercava la conferma fisiologica della realtà delle esperienze mistiche che certe monache sostengono di sperimentare. Carrera era al corrente delle idee del vescovo, e non ha fatto fatica a guadagnarsi la sua fiducia. Dal canto suo, avere dalla sua parte uno psichiatra di prestigio doveva essere sembrata a Sua Eccellenza una buona occasione per dare maggior credibilità alle sue teorie. Gli ha aperto le porte dei conventi, ha dato ordine alle madri superiore di ubbidire a tutte le sue richieste e, nel caso di Santa Clara, ha approfittato della relazione che lo univa alla madre Pietà per implicarla attivamente nella sua causa.»
«E questa relazione era...?»
«L’ispettore ha scoperto che il vescovo Riera e la madre Pietà si conoscevano sin da bambini. Lei si è fatta suora nello stesso anno in cui lui ha preso i voti, e da allora le loro strade non si sono più separate.»
«Perciò lui sapeva fin dall’inizio chi fosse Felicia Dedéu», concluse Teresa, «e se ha cercato di tenerlo nascosto all’ispettore quando il suo nome è comparso sul biglietto da visita di Oliver Manning, è stato perché era al corrente di quello che stava succedendo.» La donna scrollò ripetutamente la testa. «Ma torniamo al gennaio del 1851...»
«Durante uno dei loro primi incontri, il vescovo Riera deve aver parlato a Carrera della mia condizione. A suo modo di vedere, le mie visioni erano una prova dell’esistenza di quello che lui chiamava il tempo sacro. La continuità perfetta di tutto ciò che è stato e che sarà. L’eternità in cui solo Dio abita, e che l’uomo può percepire unicamente in stato di trance mistica, oppure, come nel mio caso secondo lui, per effetto di un dono divino. Sua Eccellenza avrà pensato di offrire al dottor Carrera un nuovo elemento di giudizio per il suo studio sulla realtà dell’esperienza mistica. Invece non ha fatto altro che risvegliare la sua curiosità professionale.»
«Per uno psichiatra, un caso come il tuo doveva avere un interesse enorme», annuì Teresa. «Molto più dei deliri di quattro monache denutrite.»
«Carrera ha cercato di organizzare un appuntamento con me attraverso il vescovo, ma lui gli ha risposto che io non avrei mai accettato di farmi intervistare. La mia condizione era un segreto che a quei tempi conoscevate solo tu, l’ispettore e il vescovo. Renderla pubblica equivaleva a compromettere la mia futura carriera di medico. Se Carrera voleva studiare il mio caso, doveva cercare il modo di rendermi per forza un suo paziente. E in pratica è quello che ha fatto.»
«Corrompendo quell’uomo, Daniel Carcasona.»
«Carrera lo conosceva già da prima, e sapeva qualcosa che io ignoravo: il suo rapporto lavorativo con mio padre era finito all’improvviso. Mio padre l’aveva congedato come assistente diversi mesi prima di morire, e da allora stava attraversando un periodo difficile. Quando Carrera gli ha proposto di rendergli un servizio in cambio di una bella quantità di denaro, Carcasona non ha saputo dire di no. Così si è offerto di farmi da assistente nel mio primo intervento, e io ho accettato subito, pensando di onorare in qualche modo la memoria di mio padre. Arrivato il momento, quando l’infermiera è uscita dalla sala operatoria, Carcasona mi ha fatto respirare il composto che il dottor Carrera gli aveva fornito, scatenando il disastro che ha rovinato la vita di Alicia Ferrer.»
La carrozza si fermò a un incrocio nel quartiere di Belgravia, poi riprese la strada verso il fiume.
Teresa sollevò la testa dalla spalla di Palafox, si sedette dritta e posò le mani in grembo.
«Ma è stato premeditato?» chiese.
«Che io ferissi in maniera irreversibile la mia paziente? No, non credo: voglio pensare che Carrera cercasse solo di provocare un attacco di delirio tale da giustificare il mio ricovero alla Neothermas. Con Carcasona e l’infermiera come testimoni, qualsiasi comportamento stravagante in una sala operatoria sarebbe bastato a mettere in discussione la mia salute mentale e a rivelare a tutti la mia condizione. In ogni caso, gli effetti del composto di Carrera si sono rivelati molto più potenti di quanto lui stesso avesse previsto, e il mio bisturi è finito nel lobo frontale di quella povera donna.» Palafox si inumidì le labbra con la punta della lingua. «Alicia Ferrer è rimasta invalida per sempre, e io sono rimasto rinchiuso nella Neothermas, privato del mio titolo di studio e trasformato nel pazzo più famoso di tutta Barcellona, ma libero da accuse penali grazie all’influenza di tuo padre, che ha rimborsato generosamente la famiglia Ferrer per evitare che testimoniassero contro di me in tribunale.»
«Ma a quel punto Mauricio Morel, il fidanzato della signorina Ferrer che la famiglia teneva lontano e che solo mio padre aveva incontrato una volta in quei giorni tremendi, ha deciso che il responsabile di quella disgrazia non poteva rimanere impunito. Ma ha sbagliato l’oggetto della sua vendetta.»
Palafox annuì con aria afflitta.
«Secondo i registri della Neothermas, il signor Morel ha iniziato a lavorare per Carrera nel dicembre del 1851. L’ispettore non sa chi abbia contattato chi, ma in fondo poco importa: speravano entrambi che prima o poi finissi di nuovo rinchiuso nella loro clinica. I tre mesi che ho passato sotto la supervisione del dottor Carrera l’avevano convinto che il mio caso fosse davvero straordinario, e che non potesse trattarsi semplicemente di un raro disturbo mentale. In effetti il dottore si è opposto con tutte le sue forze alle mie dimissioni, ed è stata solo la vostra insistenza nel volermi portare a Londra a costringerlo a darmi il permesso di uscire. Senza dubbio sperava di farmi tornare alla Neothermas un giorno, in maniera naturale, come conseguenza dell’aggravarsi progressivo della mia condizione, oppure forzando di nuovo il mio ricovero come aveva già fatto la prima volta. E tenere al suo servizio un alleato come Morel poteva rivelarsi utile al momento opportuno. Quanto a lui, sapeva che se mi avessero ricoverato di nuovo, sarei stato in suo potere. E quello poteva essere il momento ideale per portare a compimento la sua vendetta.»
«Ma perché aspettare quasi tre anni?» chiese Teresa. «Perché non forzare un tuo nuovo ricovero appena siamo tornati da Londra? Oppure nel dicembre del 1851, quando Morel ha cominciato a lavorare per Carrera?»
«Il dottor Carrera era un uomo paziente», spiegò Palafox. «Ed era anche, soprattutto, uno scienziato meticoloso. Nei tre mesi in cui mi ha sottoposto al suo studio, ha cominciato a sviluppare la sua teoria della memoria della specie: una sorta di archivio comune di ricordi di tutta l’umanità a cui il mio cervello, chissà perché, aveva accesso in determinate occasioni e in circostanze particolari. Quando si è visto costretto a dimettermi, ha continuato a studiare il mio caso attraverso terze persone. Era convinto che se avesse trovato la regione precisa del mio cervello che generava quei ricordi altrui, come lui li definiva nel suo taccuino, e se avesse scoperto il modo di attivare tale regione a comando, poi avrebbe potuto replicare le mie esperienze in qualsiasi cervello umano.»
«Diventeremmo tutti viaggiatori del tempo», sintetizzò Teresa, ricordando cosa le aveva raccontato Andreu al risveglio dal suo letargo alla Neothermas. «La tua condizione particolare sarebbe stata la chiave per ottenere un progresso generale della mente umana. La memoria della specie, grazie alla sua scoperta, sarebbe diventata accessibile a tutti, in maniera non molto diversa dalle nostre piccole memorie personali.»
«Questo era il delirio privato del dottor Carrera, l’unico obiettivo della sua vita. Un po’ come il vescovo Riera, che voleva convincermi a tutti i costi dell’autenticità del suo delirio mistico. In ogni caso, Carrera voleva farsi trovare pronto quando fosse giunto il momento di avermi di nuovo in suo potere. Voleva sapere cosa doveva cercare di preciso dentro di me, e come e dove farlo. In quale parte del mio cervello. Ma soprattutto, voleva sapere quale farmaco doveva somministrarmi per portare a compimento il suo piano.»
«Quel liquido rosso che ti ha iniettato la mattina della sua morte.»
«Secondo i suoi appunti, per tutti quei tre anni ha lavorato ininterrottamente allo sviluppo di un composto chimico che scatenasse a comando le visioni provocate normalmente dalla mia condizione, ma che potesse anche mantenermi in uno stato di coscienza sufficiente per rispondere alle sue richieste. Un composto che attivasse unicamente la regione precisa del cervello che secondo le sue scoperte generava in me quei ricordi altrui. Ci ha provato con ogni genere di soggetto: inservienti della Neothermas, monache di Santa Clara e di Santa Teresa, prostitute di Trentaclaus... Ogni volta si avvicinava di più al suo obiettivo, ma gli esperimenti erano sempre più azzardati, e in almeno due occasioni sono andati a finire male.»
«Già, le due Dame del Pozzo», disse Teresa.
Palafox annuì di nuovo.
«L’ispettore non è ancora riuscito a identificare la donna che Carrera teneva al terzo piano della Neothermas, ma ha scoperto che ci è arrivata la notte prima della sua presunta apparizione nel chiostro di Santa Teresa. La signora Daudí ha confessato di essere stata lei a raccoglierla sulla porta del sanatorio e a portarla nell’ufficio del dottore. In quel momento la donna parlava ancora in maniera normale, per quanto fosse molto nervosa e sembrasse disorientata. Il mattino dopo, invece, il suo stato era quello che conosciamo oggi.»
«Carrera le ha iniettato il liquido, e il suo effetto non dev’essere stato quello desiderato», azzardò Teresa. «E per giustificare la sua presenza in clinica, si è inventato la storia della sua apparizione nel chiostro del convento. Le monache non avrebbero mai avuto il coraggio di contraddirlo: in fin dei conti, consideravano Carrera il loro benefattore e dovevano obbedienza al vescovo Riera. E se non fosse stato per le infermiere della clinica, che l’hanno battezzata subito la Dama del Pozzo e hanno cominciato a diffondere la sua storia in città, nessuno si sarebbe mai preso il disturbo di fare indagini su di lei.»
Palafox posò la mano su quelle di Teresa, che la strinsero con calore.
«Questo succedeva a metà luglio», proseguì. «Pochi giorni prima era comparso il feretro romano a Santa Clara. Il ritrovamento era stato tenuto segreto, ma il vescovo Riera si era già impegnato a verificarne l’autenticità. Forse aveva in mente di approfittare in qualche modo dell’occasione per rinvigorire pubblicamente il discorso apocalittico che predicava ormai da anni, e voleva assicurarsi che il feretro risalisse davvero all’antica Barcino. In quanto uomo di sua fiducia e partecipe della stessa crociata, sicuramente Carrera era stato informato del ritrovamento. L’ispettore è convinto che sia stato Morel a contattare il numismatico e a chiedergli di autenticare quelle due monete. Altrimenti, non si capisce che uso avrebbe fatto il vescovo di quel ritrovamento. Ma a quel punto Carrera ha commesso un nuovo errore con il composto che aveva deciso di destinare a me, e stavolta si è ritrovato tra le mani un cadavere di cui sbarazzarsi.»
«La prima Dama del Pozzo», disse Teresa, mentre la carrozza si fermava nuovamente e si sentiva un breve schiamazzo di voci e nitriti.
«Carrera deve averle iniettato il liquido nella casa di Trentaclaus in cui esercitava come prostituta. La casa di Leandro Moreira, il protettore assassinato.»
«Povera bambina...» sospirò la scrittrice. «Hanno accertato la sua identità?»
«Ancora no, ma l’ispettore crede che lei e la paziente della Neothermas fossero madre e figlia. La somiglianza fisica tra le due era evidente, e secondo quel ragazzino di strada amico di Adela, la ragazza aveva raccontato in giro che a farla prostituire era stata l’improvvisa malattia della madre.»
«In ogni caso, non dovrebbe essere difficile trovare uno che ricordi una madre e una figlia con quell’aspetto», osservò Teresa, ripensando con tristezza ai capelli dorati e agli occhi azzurri di entrambe. «Non posso credere che non le stia cercando nessuno.»
«Chissà, magari non erano di Barcellona. Magari erano appena arrivate in città quando la donna si è ammalata, e il resto della famiglia, sempre che ci sia, non sa che fine abbiano fatto.» Palafox si strinse nelle spalle. «Fossero o no madre e figlia, sono certo che l’ispettore finirà per scoprire la loro identità. E quella povera ragazza alla fine avrà un nome scritto sulla lapide.»
La carrozza si rimise in movimento e proseguì verso Chelsea in mezzo al traffico intenso di Londra. Teresa diede uno sguardo fuori dal finestrino e riconobbe il giardino centrale e le eleganti facciate delle case di Belgrave Square, con i loro portici bianchi e i colonnati dal sapore mediterraneo. Ripensò per un attimo al pomeriggio della sepoltura definitiva della Dama del Pozzo nel cimitero di Pueblo Nuevo, davanti a una decina di persone e senza alcuna cerimonia, e sentì di nuovo ribollirle il sangue per la rabbia e l’impotenza. Poi tornò a girarsi verso Andreu.
«Di chi è stata l’idea di trasformare quella povera bimba nella protagonista di un miracolo?»
«Ormai è impossibile da sapere», scrollò la testa l’anatomista. «Il dottor Carrera doveva disfarsi di un cadavere imprevisto, e il vescovo Riera, dal canto suo, cercava un colpo di scena capace di attrarre l’attenzione popolare su quello che lui vedeva come un momento di crisi definitiva. Le violenze dello sciopero operaio, l’epidemia di colera, le voci sulla demolizione delle mura... Avevano entrambi qualcosa da guadagnare con quella messinscena: ma io scommetterei che è stato Carrera a suggerire l’idea, ben sapendo che Sua Eccellenza non avrebbe saputo resistere.»
«Il dottore deve aver capito che quella era l’occasione che aspettava per farti rinchiudere di nuovo nella Neothermas», annuì Teresa. «E deve aver convinto anche il vescovo che era arrivato il momento di rendere pubblico il tuo dono e metterlo al servizio delle sue idee. Convocando te e l’ispettore quella sera nei sotterranei del convento, non solo si assicuravano due testimoni del loro falso miracolo, ma in più cominciavano a metterti al centro della rete che alla fine ti avrebbe riportato in sanatorio.» La scrittrice fece una breve pausa prima di aggiungere: «E, se non sbaglio, è qui che entra in gioco l’Uomo in Nero».
Per qualche oscura ragione, Palafox fu percorso da un brivido sentendo di nuovo quelle tre parole.
Uomo in Nero.
«Carrera deve aver detto a Morel che era giunto il momento di vendicarsi. Secondo l’ispettore, gli aveva promesso che alla fine sarebbe stato libero di disporre di me a suo piacimento. Ma prima doveva diventare una sorta di fantasma e commettere tre omicidi: due per mettermi sotto gli occhi di tutti e preparare il mio forzato ricovero alla Neothermas, e un terzo per cancellare le tracce dei suoi delitti. Il semplice fatto che Morel fosse disposto a ubbidirgli dà la misura di quanto il suo odio verso di me gli avesse alterato l’equilibrio mentale.»
Calò un breve silenzio. Teresa cercò con la mano il viso di Palafox, lo girò verso di sé e baciò di nuovo le labbra del giovane. Poi gli posò un dito sul ponte degli occhiali e glieli tirò su.
«L’amore è una forza potente», sussurrò.
«Potente e fatale, certe volte.» Palafox sorrise appena. «I tuoi romanzi ce l’avevano già insegnato, ma non avevamo appreso a sufficienza la loro lezione.»
La carrozza si fermò in quell’istante in un altro vicolo, e un bambino si affacciò al finestrino con il berretto girato all’insù, borbottando frasi incomprensibili.
La carrozza ripartì, e il bambino scomparve per sempre dalle loro vite.
«Quella prima sera, Morel si è travestito come il personaggio di un romanzo di Teresa Urbach e ha fatto in modo che tu e l’ispettore lo vedeste nel convento di Santa Clara», proseguì Teresa. «Il mattino dopo, senza sapere che lo stavi seguendo, è andato a Trentaclaus e ha tagliato la gola a Leandro Moreira in casa sua. Eliminava così l’unico testimone della morte della Dama del Pozzo.»
«Uno dei due testimoni», la corresse Palafox.
«E l’altro chi era?»
«La madre Pietà. Niente di quanto accadeva a Santa Clara poteva sfuggire al suo controllo.»
Teresa annuì, pensierosa.
«È per questo che ha ucciso anche lei, secondo te?»
«Così pensa l’ispettore. Serviva una vittima che mi morisse tra le braccia nel mio cortile di casa e mi facesse rinchiudere d’urgenza alla Neothermas. Scegliendo lei, Sua Eccellenza e Carrera si liberavano in un colpo solo anche dell’ultimo testimone del falso miracolo, che tra l’altro avevano deciso di rafforzare con la loro ultima trovata.»
«Già... murare il feretro della Dama del Pozzo nel primo tratto di mura da demolire il giorno dopo.»
«Un gesto che conferma il coinvolgimento del vescovo in tutta questa storia», annuì Palafox. «Quella sera solo le principali autorità della città conoscevano il luogo esatto in cui avrebbero avuto inizio le demolizioni il mattino dopo. Chi aveva scelto proprio quel punto per murare la bara doveva avere per forza delle informazioni privilegiate. Informazioni che il dottor Carrera non avrebbe mai potuto ottenere da solo, ma che il vescovo Riera possedeva di sicuro.»
«E Oliver Manning?» chiese Teresa. «Che senso ha avuto la sua morte?»
«Secondo l’ispettore, ne ha avuti ben due: il primo, il più evidente, è stato mettermi sotto gli occhi di tutti grazie al biglietto da visita. Il mio nome, quello della Neothermas, l’indirizzo di Londra che rimandava al nostro soggiorno qui...»
«E il nome secolare della madre Pietà, Felicia Dedéu.»
«La morte della madre Pietà era già decisa da allora. Mettere il suo nome accanto al mio avvalorava il nostro legame. E in più, prefigurava quello che sarebbe accaduto nel cortile di casa mia.»
Gli occhi di Teresa si intristirono, e Palafox intuì che lo stava rivedendo con il corpo insanguinato della clarissa tra le braccia.
«Sembra incredibile che il vescovo Riera abbia accettato di sacrificare in questo modo una donna che conosceva da tutta la vita...»
«Se l’amore è una forza potente, la fede irrazionale lo è ancora di più.»
«Potente e fatale», mormorò scrollando tristemente la testa Teresa. Poi aggiunse: «Hai detto che la morte del signor Manning ha avuto due sensi. Qual è il secondo?»
«Cercare di coinvolgere anche tuo padre in quello che stava accadendo», rispose Palafox. «Macchiare il suo nome e indirizzare contro di lui le ire degli operai in sciopero che stavano già aggredendo le fabbriche tessili della città.»
Teresa non parve sorpresa.
«Carrera sapeva che il legame tra il signor Manning e mio padre prima o poi sarebbe venuto a galla. A quel punto si sarebbe scoperto che Manning era venuto a Barcellona per riparare i suoi telai automatici, gli stessi che aveva installato per primo in città, provocando il licenziamento di centinaia di operai.»
«L’ispettore è del parere che questa non sia stata un’idea di Carrera, ma di Morel», precisò Palafox. «L’odio che provava verso di me si estendeva anche a chi mi aveva evitato la condanna penale che ai suoi occhi meritavo, assumendo come impiegato e indennizzando generosamente il padre di Alicia Ferrer per non fargli sporgere denuncia. Ecco perché si era lasciato vedere mentre entrava nel magazzino di calle de Montcada. Quando l’Uomo in Nero si è trasformato in una figura mitologica che vagava per le strade di Barcellona, il suo legame apparente con Eliseo Urbach avrebbe dovuto scatenare una rivolta popolare contro gli interessi di tuo padre. Se le cose fossero andate diversamente, forse oggi non avreste più la fabbrica nel Raval e la vostra bella casa nella bajada de los Leones.»
Calò di nuovo il silenzio. Erano quasi giunti a destinazione, e l’odore del Tamigi cominciava a insinuarsi dentro l’abitacolo. Il sole tramontava lento sui tetti a ovest, e il rosso degli edifici tutto intorno ricordò di nuovo a Palafox un fatto straordinario.
Era a Londra.
Era a Londra, e soprattutto era insieme a Teresa.
«Quanto al signor Manning», riprese, «il dottor Carrera ha deciso di fare una mossa che ha finito per costargli molto cara. Non si è limitato a scrivere il nome della sua clinica sul famoso biglietto da visita: ha anche attirato letteralmente il signor Manning alla Neothermas e gli ha fatto incontrare la seconda Dama del Pozzo.»
«È vero!» esclamò Teresa inarcando le sopracciglia. «E secondo te, perché l’ha fatto?»
«La spiegazione proposta dall’ispettore è che volesse fargli conoscere il portinaio della clinica, il signor Morel. Poi, quella stessa sera, quando Morel si è presentato alla pensione, il signor Manning gli ha aperto la porta della stanza e senza saperlo si è condannato a morte. Se non l’avesse conosciuto, forse Manning non l’avrebbe lasciato entrare, costringendolo a trovare un altro modo di agire meno pulito, e perciò più pericoloso per la loro sicurezza.» Palafox si strinse nelle spalle. «A pensarci bene, è una spiegazione ragionevole. E quanto al sotterfugio che Carrera ha usato per attirare il signor Manning, di sicuro doveva avere a che fare con quella povera donna catatonica, ma i dettagli sono impossibili da ricostruire.»
Teresa mormorò tra i denti qualcosa che Palafox non riuscì a capire. Poi chiese:
«Perché dici che quella mossa è costata molto cara a Carrera?»
«Perché grazie alla visita del signor Manning alla Neothermas, tu e io abbiamo conosciuto la nostra infermiera preferita.»
Teresa fece un sorriso incantevole.
«Laura», disse, e si immaginò la ragazza in quello stesso momento mentre percorreva le sale dell’ospedale della Santa Cruz con il suo camice bianco, le gote rosate e il sorriso felice che non aveva più perduto da quando le conoscenze di Eliseo Urbach le avevano procurato un nuovo posto di lavoro nel primo ospedale della città.
Forse, pensò Teresa, Laura si stava prendendo cura proprio adesso di quella povera donna senza nome né memoria che l’ispettore Reigosa stava ancora cercando di identificare con commovente tenacia, e che suo padre era riuscito a far ricoverare nel reparto convalescenti della Santa Cruz. Forse in quel preciso istante era andato a trovarla anche quel brav’uomo dell’ispettore ed erano tutti e tre insieme.
O forse la sua immaginazione da scrittrice stava ricominciando a volare troppo alto.
«In ogni caso, fino al quattro di agosto è andato tutto secondo i piani del dottore e di Sua Eccellenza», stava dicendo Palafox quando Teresa tornò alla realtà. «Dopo la morte della madre Pietà, voi mi avete ricoverato alla Neothermas e mi avete affidato alle cure del dottor Carrera. Quel mattino, la scoperta della bara della Dama del Pozzo ha fatto arrestare le demolizioni e un’ondata di superstizione si è impadronita della città. Il dottor Carrera aveva già quello che voleva, cioè me, e anche il vescovo Riera era riuscito a portare a compimento la prima parte del suo piano delirante. Un piano che aveva come obiettivo...»
«... far recuperare a Barcellona la coscienza della sua condizione di città sacra e farle rifiutare il falso progresso che violava il suo spirito profondo», proseguì Teresa, pronunciando quelle parole in tono declamatorio. «Ecco cosa diceva la sua lettera di addio.»
«Il vescovo ha lasciato una lettera di addio?» chiese perplesso Palafox.
«Una lettera di tre pagine», precisò Teresa. «Dice mio padre che i suoi assistenti l’hanno bruciata all’istante, ma l’ispettore ha fatto in tempo a leggerla. Non confessava in maniera diretta il suo coinvolgimento nel caso, ma lo dava a intendere in maniera piuttosto chiara.» La donna notò l’espressione assorta di Palafox e gli chiese: «Ti sorprende che abbia lasciato una lettera di addio?»
«Sua Eccellenza era un uomo molto debole. Aveva le articolazioni delle dita così deteriorate che riusciva a stento a tenere in mano una penna: erano anni ormai che dettava le sue lettere e i suoi discorsi. Faccio fatica a immaginarlo mentre scrive una lettera di addio prima di suicidarsi. Ma mi stupisce ancora di più che quelle mani fossero in grado di legare una corda a una trave del soffitto per impiccarsi.»
Il silenzio sorpreso di Teresa coincise con l’arrivo della carrozza a destinazione. I cavalli rallentarono nitrendo per il sollievo e la vettura si fermò di fronte alla casa che lei e Palafox condividevano da tre settimane in riva al Tamigi.
«Vuoi dire che...?»
«Non mi interessa com’è morto il vescovo», scrollò la testa Palafox. «E non mi interessa neppure se la sua reputazione da adesso in poi sarà quella di un pazzo o di un santo che fa miracoli. L’unica cosa che mi interessa è il futuro che abbiamo davanti.»
Teresa aprì lo sportello della carrozza e scese d’un balzo. L’anatomista fece altrettanto e, pagato il cocchiere, la raggiunse tenendo il cappello in mano. La donna lo strinse in vita con un braccio e gli accostò le labbra all’orecchio.
«La fine della storia la conosco già», sussurrò. «La sera dell’omicidio della madre Pietà hai riconosciuto l’odore del composto che l’Uomo in Nero aveva usato per drogarti. Allora hai capito che l’incidente del 1851 non era stato un incidente, e hai capito anche che l’unico che ti avrebbe potuto drogare quel pomeriggio era Daniel Carcasona, seguendo gli ordini del dottor Carrera. Hai riferito a Carrera quello che avevi scoperto davanti al signor Morel, che di punto in bianco ha compreso di essere stato usato fino a quel momento. Allora ha rivolto contro il dottor Carrera tutta la rabbia che provava verso di te, e gli ha tagliato la gola mentre Carrera stava cercando di portare a termine il suo esperimento finale con te, e lo stesso voleva fare a Carcasona quando la folla l’ha fermato a Santa Ana.» E dopo una breve pausa, aggiunse: «L’unica parte della storia che ancora non conosco è...»
Teresa non fece in tempo a completare la frase, perché la porta di casa si aprì in quell’istante e sulla soglia si affacciò un viso imbronciato.
«Ah, finalmente siete tornati!» esclamò Adela guardandoli con aria severa. «Lo sapete quanti fattorini ho dovuto mandare indietro oggi pomeriggio perché non capivo cosa volevano da me?»
Teresa si sottrasse all’abbraccio con Palafox e le sorrise.
«Dobbiamo assolutamente fare qualcosa per il tuo inglese», disse.
«Oppure dovremmo deciderci a licenziarti e assumere una buona volta una domestica inglese.»
Adela forzò una smorfia di scherno.
«Ma cosa ve ne fate di una di quelle stupide per casa, padrone?» disse, indicando una ragazzina con la cuffietta e il grembiule che attraversava la strada in quel momento, diretta al fiume. «Be’, almeno vi siete divertiti?»
«Ci siamo divertiti moltissimo, grazie.»
«Bene, sono contenta...»
Adela attese che la coppia entrasse in casa, poi richiuse la porta e prese la finanziera e il cappello che il suo padrone le porgeva. Come al solito, non ebbe il tempo di fare altrettanto con gli abiti della signorina Urbach, che nel frattempo era sparita dentro casa.
«Notizie dei pezzi che sto aspettando?»
«C’è un pacchetto nuovo per voi nel laboratorio. Ma di quello che diceva il fattorino non ho capito una parola, e per me potrebbero benissimo essere una dozzina di uova o una scatola di viti.» Adela fece un bel sorriso. «Quel bambinello di porcellana che tenete sul tavolo mi piace da matti. Mi ci farete giocare quando avrete finito di aggiustarlo?»
«Un congegno automatico non è un giocattolo, Adela», scrollò severamente il capo Palafox.
«Ma certo che no, padrone», rispose la domestica con il suo solito sbuffo. «E adesso, se mi volete scusare, io ho un lavoro vero da sbrigare in cucina...»
Adela chinò il capo e scomparve con aria altezzosa per la scala di servizio, lasciandosi alle spalle un invitante aroma di dolcetti appena sfornati.
«Te la sei cercata, come sempre», lo rimproverò Teresa, sbucando in quel momento dal corridoio con due bicchieri di porto in mano. «Dopo ricordami di dirle che Patricio le manda i suoi saluti.»
«Tuo padre non l’ha ancora licenziato?»
«Gli ho fatto promettere di avere molta pazienza con lui. Ma a quanto pare non se la cava male come fattorino. E poi qualcosa di buono ce l’ha: non c’è un indirizzo di Barcellona che non conosca.»
«Né una porta che non sappia forzare se uno non risponde...»
Sorrisero entrambi, poi fecero tintinnare i bicchieri e bevvero in silenzio.
Palafox fu il primo a parlare di nuovo.
«Prima che Adela ci interrompesse, stavi dicendo che c’è una parte della storia che ancora non conosci.»
Teresa abbassò il bicchiere e lo guardò fisso, rivedendolo riverso su quel divano della Neothermas, pallido e tremante come un motore in avaria, e di nuovo le parve di sentire l’orribile eco sotterranea della sua voce mentre descriveva i paesaggi che i suoi occhi ciechi vedevano davanti a sé.
La città interiore.
La memoria della specie.
Oppure il semplice delirio di un cervello sopraffatto dalle droghe e dallo sfinimento.
«Non ci pensare, adesso non conta più», rispose. E scacciando dalla memoria anche l’immagine fugace delle tredici oche morte nel chiostro medievale, alzò di nuovo il bicchiere e propose il suo brindisi: «Al futuro».
Palafox la imitò senza distogliere gli occhi dai suoi.
«Al futuro», ripeté Andreu. E il tintinnio dei loro bicchieri gli parve il suono più bello che avesse mai udito in vita sua.
Era a Londra. Aveva accanto la sua adorata Teresa. E il passato, per lui, sembrava essersi messo a tacere per sempre.
Octavio Reigosa scese dalla carrozza ufficiale e guardò con aria rassegnata i muri della prigione di Amalia. L’edificio era buio, e solo le lucerne dei due uomini di guardia al portone spargevano un po’ di chiarore tra le ombre di quel lato del Raval. Sopra il tetto della prigione cominciava a indovinarsi appena il profilo del Montjuich, e le torri della vicina porta di San Pablo non erano altro che due sagome nere stagliate contro l’alba imminente.
«Buongiorno, ispettore», lo salutò il direttore, un tipo di mezz’età con la voce da donna e un doppio mento da sessantenne, porgendogli una mano tremante che riuscì nella difficile impresa di peggiorare l’umore del poliziotto. «So che siete già al corrente dell’accaduto. Non ci capacitiamo di come sia potuto accadere: vi assicuro che qui dentro nessuno...»
Reigosa interruppe con un grugnito i balbettii dell’uomo e guardò il poliziotto che era venuto con lui e adesso stava sulla porta.
«Lafita è ancora nella cella?»
L’agente Antúnez annuì vigorosamente.
«La scena non è gradevole, ispettore», precisò, facendosi da parte per far entrare Reigosa. «Nessuno ha toccato nulla. È tutto esattamente come l’ha trovato l’agente Lafita.»
Reigosa grugnì di nuovo e varcò la soglia della prigione di Amalia davanti al direttore e al giovane poliziotto.
Percorsero tutti e tre in silenzio una serie di corridoi deserti prima che l’uomo con il doppio mento riprendesse a parlare.
«Vi garantisco che abbiamo seguito rigidamente il protocollo, ispettore. E i vostri ordini sono stati eseguiti alla lettera. Il prigioniero è rimasto nella sua cella fino alle dieci di ieri sera, poi è stato trasferito nella cella di transito con tutte le precauzioni del caso. Io stesso ho supervisionato il trasferimento, e posso assicurarvi che nessuno si è mai avvicinato, né al detenuto né alla cella. I miei uomini non hanno neanche aperto la porta del corridoio, figuratevi. La cella era stata perquisita prima di farvi entrare il prigioniero, e non c’era alcun oggetto pericoloso.» Il direttore armeggiò con il mazzo di chiavi che teneva legato in vita e ne prese una tutta arrugginita, con cui aprì la porta. «Avete la mia parola, ispettore: nessuno si è avvicinato a questa porta fino a mezz’ora fa, quando il vostro uomo è arrivato per occuparsi del trasferimento.»
La luce fioca di alcune lampade a olio illuminava il tratto di corridoio che si apriva dietro la porta, una stretta galleria con un’unica cella in fondo. Reigosa conosceva bene quel posto: non era la prima volta che visitava la cella dei prigionieri in procinto di lasciare temporaneamente il carcere per rendere conto delle proprie azioni dinnanzi al tribunale della Reale Udienza. Però era la prima volta che doveva andarci per ritirare un cadavere.
La porta della cella era socchiusa, e al suo interno sfarfallava una luce smorta.
«Aspettate qui», ordinò Reigosa.
«Vi ripeto che non ho idea di come sia potuto accadere, ispettore», piagnucolò ancora il direttore, fermandosi di botto e assumendo un tono di voce che a Reigosa ricordò quello di un bambino che tira su col naso prima di scoppiare a piangere. «Questa è opera del diavolo.»
L’ispettore coprì la distanza che lo separava dalla porta della cella con le tempie che gli pulsavano a ritmo di marcia militare. Per un attimo, l’immagine del vescovo Riera appeso a una trave del suo ufficio tornò a visitarlo, mettendogli un leggero brivido che si mescolò quasi subito alla repulsione con cui il suo stomaco riconobbe l’odore di sangue che usciva dalla cella.
Prima di varcare la soglia, Reigosa ebbe la certezza che lì dentro lo aspettava un’altra scena che non sarebbe più riuscito a dimenticare.
«Buongiorno, ispettore.»
L’agente Lafita era seduto sul bordo della striminzita brandina addossata alla parete sud della cella. Tutto sommato, pensò Reigosa in un primo momento, aveva un’aria meno stravolta di quel che credeva. Si era allentato il nodo della cravatta, non indossava il cappello e aveva un’espressione concentrata, ma i suoi occhi non sembravano vuoti e smarriti come ci si poteva aspettare in una situazione del genere. Forse non aveva sbagliato a giudicarlo, forse quell’omuncolo con i baffetti ridicoli e il viso butterato era davvero il più in gamba di tutti gli agenti alle sue dipendenze.
Poi Reigosa notò gli spruzzi brillanti che imbrattavano la finanziera dell’agente, le tracce confuse di impronte che macchiavano il pavimento attorno ai suoi stivali e le sue mani intrecciate sul grembo.
Due mani rosse come due viscere appena strappate.
«Buongiorno, agente», rispose con un filo di voce, distogliendo lo sguardo dalle mani di Lafita e girandosi verso il cadavere riverso a terra sul lato opposto della cella.
Daniel Carcasona.
Il pezzo finale dell’ingranaggio che aveva mietuto così tante vittime in quegli ultimi mesi.
«Quando sono arrivato, era ancora vivo», lo informò l’agente. «Aveva il coltello in mano e la gola tagliata da parte a parte, ma respirava ancora. E si sforzava di parlare.»
Reigosa guardò nuovamente il poliziotto, e notò allora che anche sul suo viso c’erano spruzzi di sangue. Piccole macchioline brillanti impiastricciate nei baffi, incrostate nelle cicatrici che gli solcavano le guance. La luce delle candele strappava fugaci bagliori rossastri dal viso di Lafita e le sue mani immobili tremavano come un doppio cuore palpitante.
L’ispettore si girò a guardare il coltello caduto accanto alla coscia destra del corpo di Carcasona.
«Ho cercato di tamponargli la ferita con le mani», proseguì l’agente, «ma aveva perso troppo sangue. E il resto me l’ha vomitato addosso mentre tentava di parlare. Sembra incredibile la quantità di sangue che riesce a contenere un corpo, vero, ispettore?»
Reigosa annuì serissimo. Sì, sembrava proprio incredibile.
«Non dovreste rimanere ancora qui», ribatté. «Antúnez e io ci occuperemo del caso. Tornate a casa e prendetevi il giorno libero. Ormai non serve che...»
«All’inizio mi sembrava che farfugliasse cose incomprensibili», lo interruppe Lafita, «ma poi ha pronunciato il nome di Palafox, e alla fine ho capito.»
Le mani macchiate di sangue dell’agente si agitarono di nuovo sul suo grembo, e stavolta l’immagine che suggerirono a Reigosa fu quella inquietante di un bambino che veniva al mondo tra spasimi di terrore.
«Palafox», ripeté Reigosa.
«Ha detto che il dottore non era l’unico interessato a Palafox. Solo questo. Che il dottore non era l’unico interessato a Palafox. L’ha ripetuto quattro o cinque volte, sempre più piano, finché non ha perso il fiato.» L’agente Lafita alzò le mani all’altezza del petto e mostrò a Reigosa i palmi rosso acceso. «Forse il vostro amico avrebbe saputo che fare con una gola tagliata, ma io non sono un medico.»
Reigosa riconobbe finalmente il bagliore assente nello sguardo del suo subalterno. Per il momento evitò di riflettere sul significato profondo delle parole che gli aveva appena riferito: avrebbe avuto tempo in futuro di analizzarle. Invece, si avvicinò alla brandina, prese Lafita per un braccio e lo costrinse a mettersi in piedi. Il poliziotto non protestò. Seguì docilmente l’ispettore fuori dalla cella e lasciò che l’agente Antúnez e il direttore della prigione si occupassero di lui, senza aprire più bocca.
Rimasto solo, Reigosa tornò in cella e osservò per alcuni istanti il corpo senza vita di Daniel Carcasona. La gola tagliata da parte a parte. Gli occhi aperti, ciechi, che guardavano inutilmente verso il soffitto in pietra della cella. Il coltello abbandonato a terra e il sangue, tutto quel sangue, versato come un liquore avvelenato in ogni angolo della stanza.
Il ricordo del corpo appeso alla corda del vescovo Riera gli tornò in mente, e l’occhio della sua memoria si concentrò adesso sulle mani deformate dell’anziano.
Un suicidio impossibile.
Due suicidi impossibili.
E un altro processo che non si sarebbe celebrato nel tribunale della Reale Udienza.
Reigosa chiuse per l’ultima volta gli occhi di Daniel Carcasona e pensò oscuramente che l’Uomo in Nero aveva portato a compimento la sua ultima missione. Poi mise da parte quella stupida idea e uscì in fretta e furia dalla cella. Aveva bisogno di aria fresca. L’odore di sangue di Carcasona gli era entrato nei polmoni, e cominciava ad avere la nausea.
«E adesso, ispettore? Ci portiamo il corpo agli Arsenali o preferite che...?»
Reigosa non diede retta all’agente Antúnez e raggiunse quasi di corsa il portone della prigione.
L’alba spandeva sui palazzi una luce grigiastra che all’ispettore, per una volta, parve un dono del cielo. Persino le nuvole di polvere che impregnavano l’aria dall’inizio delle demolizioni avevano quel mattino un che di tranquillizzante. In fin dei conti, respirare la polvere della pietra delle vecchie mura era sempre meglio che respirare gli effluvi del sangue di un cadavere inspiegabile.
«Allora, ispettore?»
Reigosa si riempì i polmoni di quell’aria carica di storia. Un’aria densa, translucida, quasi masticabile, nelle cui particelle aleggiavano forse ancora le anime dei fantasmi che condividevano la vita con Andreu Palafox. Quando si girò di nuovo verso la prigione, vide che l’agente Antúnez lo fissava dalla soglia con aria perplessa.
Non era una cattiva domanda, si disse.
Allora?
«Vi aspetto agli Arsenali nel giro di venti minuti», fu la risposta migliore che trovò. «Voi, Lafita e quel che resta del signor Carcasona. Abbiamo una lunga giornata davanti.»
Poi, alzando per un’ultima volta lo sguardo al cielo, Octavio Reigosa affondò le mani nelle tasche della finanziera e si inoltrò a passo lento nel Raval.