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L’imponente edificio in cui la famiglia Urbach abitava sin da tempi immemori in pieno centro di Barcellona occupava uno degli angoli marittimi della città romana. Le sue mura esterne si ergevano sopra il tratto di cinta muraria imperiale, e quattro torri di sorveglianza dell’antica Barcino erano rimaste integrate a loro volta nella fabbrica di un edificio che, stando alle cronache, custodiva quella parte della città dai giorni dell’ultimo re Berenguer. Il disabitato Palazzo della Contessa costeggiava l’ala sud del complesso, mentre la torre in rovina del Castello del Regomir si trovava a breve distanza dal suo portico d’ingresso, che fronteggiava la bajada de los Leones con l’orgoglio tranquillo di chi assiste da secoli al lento sgretolarsi del mondo circostante.

Il cancello che chiudeva l’accesso al patio dell’edificio brillava quel mattino con rinnovata ferocia, come se il fumo e la nebbia della notte prima avessero rivitalizzato per magia il suo ferro pluricentenario. Persino il drago che presiedeva lo stemma di famiglia sembrava contemplare il mondo con particolare orgoglio dalla sua nicchia scolpita nella pietra della facciata.

«Buongiorno, signor Palafox», lo salutò il domestico che venne ad aprirgli il cancello. «Temo che il signor Urbach non sia in casa stamattina...»

«Vorrei parlare con la signorina Urbach, Esteban. Lei è in casa o...?»

Il domestico rispose alla domanda lasciata a metà di Palafox con cortesia squisita.

«La signorina Urbach è in biblioteca. Se volete seguirmi in salotto, le annuncio la vostra visita.»

I due uomini attraversarono il patio d’armi ed entrarono nell’edificio da una delle porte situate sul lato est. Un corridoio tortuoso li condusse alla scalinata principale, i cui gradini erano rivestiti di un tappeto così spesso che i piedi affondavano nella sua trama vegetale come se davvero stessero calpestando rampicanti e fiori selvatici. Giunti al piano nobile, il domestico si diresse verso la biblioteca indicando a Palafox la porta del salotto.

L’attesa durò un minuto scarso. Palafox aveva appena fatto in tempo ad accostarsi alle finestre per ammirare il suggestivo panorama di vicoli e tetti umili digradanti verso il mare, quando Esteban gli comunicò che la signorina lo attendeva in biblioteca.

«Desiderate qualcosa?» aggiunse. «La signorina Urbach prenderà un sorso di sherry. Magari volete farle compagnia.»

«Ma certo, Esteban.»

Il domestico chinò la testa e scomparve dietro una porta laterale, lasciando che Palafox entrasse da solo in biblioteca. Un gesto di familiarità, intuì Palafox, ma anche una fessura nei protocolli sociali, una piccola sfrontatezza che rivelava chiaramente il marchio di Teresa Urbach.

«Finalmente, mio caro», lo salutò la donna quando entrò in biblioteca, alzandosi dallo scrittoio ingombro di carte dietro il quale era seduta e andandogli incontro con il sorriso sulle labbra. «Cominciavo a pensare che ti fossi dimenticato di me.»

Palafox prese le mani che la figlia di Eliseo Urbach gli porgeva e le strinse con delicatezza tra le sue, poi le portò alla bocca e le baciò a lungo.

«Lo sappiamo tutti e due che non succederà mai», le disse alla fine. «Come stai?»

«Intendi adesso? Molto più felice di tre minuti fa.» Teresa Urbach squadrò da capo a piedi il suo ospite. «Hai un bell’aspetto. Per uno che passa tutto il giorno a giocare con i congegni automatici e carica gli orologi altrui, voglio dire.»

Palafox si decise a lasciare le mani della donna e ricambiò il suo sorriso.

«Tu sei stupenda», replicò. «Per una che passa tutto il giorno a scrivere le cose che scrivi.»

Teresa lanciò una breve occhiata al suo scrittoio.

«Avrò l’audacia di chiederti se hai letto qualcosa di quello che ho pubblicato ultimamente?»

«Sei stata sempre una donna molto audace, giusto?»

Le labbra di Teresa disegnarono un angolo divertito.

«Capisco.»

Palafox scrollò la testa da sinistra a destra.

«Scherzavo», disse. «Adela e io abbiamo letto con grande interesse il tuo ultimo romanzo. Un capitolo ogni sera dopo cena, immancabilmente.»

«E...?»

«Pensiamo entrambi che la tua prosa e la tua immaginazione migliorino di giorno in giorno. Anche se devo confessarti che ogni tanto mi sono visto costretto a censurare qualche passaggio a Adela.»

Teresa scoppiò in una risata che le illuminò il viso di un bagliore selvaggio. Aveva una trentina d’anni, folti capelli scuri e la pelle chiarissima, lineamenti delicati e due grandi occhi neri che parevano divorare con ansia tutto ciò che osservavano, e un corpo lungo e ossuto che sembrava in perpetua tensione. Come d’abitudine, quel mattino era vestita con una disinvoltura che rasentava l’esagerazione: il suo abitino leggero non avrebbe attirato l’attenzione sui carretti delle venditrici ambulanti che percorrevano le strade della città, e la scollatura lasciava scoperte porzioni di seno e di spalle che nessuna donna del suo rango si sarebbe mai sognata di mostrare in pubblico dopo la pubertà. Senza bisogno di treccia o chignon, i suoi capelli ondulati le incorniciavano il viso con l’ordine puramente casuale imposto dalle sue mani distratte, nascondendole le orecchie e attorcigliandosi nelle stanghette degli occhiali da lettura che non si era ancora tolta.

Non indossava le scarpe, e i suoi piedi nudi si affacciavano tra le pieghe del vestito come due animaletti curiosi.

«Mi auguro di non averti fatto arrossire troppo con le mie fantasie», disse.

«Non troppo, al massimo un pochino.» Palafox sostenne per un paio di secondi lo sguardo penetrante della sua amica, prima di aggiungere: «Sei davvero una donna audace, Teresa Urbach».

«Mi hanno detto cose peggiori, Andreu Palafox. E qualcuna persino in tua presenza, se non ricordo male.» La scrittrice arricciò il naso in modo incantevole. «Quali parole ha usato quella volta il tuo amico ispettore?»

Palafox scrollò di nuovo la testa.

«Non sarò di certo io a ripeterle», protestò. «Ma non dargli retta. Agli occhi dell’ispettore, una donna come te è un mistero più oscuro di qualsiasi crimine di sangue.»

Il sorriso di Teresa si allargò ancora di più.

«Una donna come me», ripeté. «Lo prenderò come un complimento.»

«È così, lo sai benissimo.»

«Lo so, lo so», ammise in tono dolce la scrittrice. Poi, sfiorato appena il bavero della finanziera di Palafox con l’indice, chiese: «Ci accomodiamo?»

Teresa si diresse verso le due poltrone sistemate in un angolo della biblioteca, e Palafox fece altrettanto. Quando la vide togliersi gli occhiali e lasciarli sullo scrittoio, per poco l’anatomista non la imitò. Poi si sentì ridicolo e si accorse che la vicinanza di Teresa continuava a produrgli lo stesso misto di euforia e inquietudine che gli suscitava sin dagli esordi della loro amicizia, all’incirca cinque anni prima, quando lui era un ragazzino di vent’anni senza nessuna esperienza del mondo, e lei una donna di venticinque che sembrava aver vissuto innumerevoli vite e appreso cose che lui ancora non poteva neppure immaginare.

Quando si furono accomodati in poltrona, Teresa si chinò in avanti e assunse la sua espressione di totale attenzione: gli occhi ben aperti, le labbra strette, le mascelle aguzze sotto la trasparenza iridescente della sua pelle chiarissima. Come al solito, non dovette aprire bocca per dimostrare a Palafox di aver compreso che non si trattava di una semplice visita di cortesia.

«Oggi è successa una cosa strana», cominciò l’anatomista. «E mi vedo costretto a farti delle domande altrettanto strane. Domande che forse potrebbero metterti a disagio.»

Teresa non ebbe un attimo di esitazione.

«Avanti.»

«La questione riguarda proprio l’ispettore Reigosa. Un’ora fa mi ha fatto venire a prendere da uno dei suoi agenti per condurmi al paseo de la Aduana. Avevano trovato un corpo in una pensione vicino alla stazione e voleva che io lo vedessi. È il secondo cadavere che mi chiede di esaminare in appena dodici ore.»

Teresa fece un’aria perplessa.

«Non sapevo che l’ispettore continuasse a richiedere il tuo aiuto così spesso. Mi sembrava di aver capito che i rapporti con il Corpo si fossero un po’ raffreddati negli ultimi tempi.»

«Era dalla fine dell’anno scorso che non mi consultava», le spiegò Palafox, «ma ieri è successa una cosa strana nel convento di Santa Clara, e l’unico modo che la polizia ha trovato per accedere al suo interno dev’essere stato giocarsi la carta del mio rapporto con il vescovo Riera. Si trattava di un affare delicato.»

«Quanto delicato?»

«Delicato quanto un miracolo.» Palafox riferì brevemente gli eventi della sera prima, dalla conversazione con la giovane novizia sulla porta del convento all’ispezione del corpo senza vita della Dama del Pozzo. Le parlò delle tre monete lucidissime che chiudevano gli occhi e le labbra del cadavere, della sua tunica vecchia di secoli e dello strano colore bluastro della sua pelle. Ma preferì evitare di confessare a Teresa l’effetto che quella scena impossibile aveva esercitato sulla sua immaginazione. «L’unica cosa prodigiosa, ovviamente, è la credulità senza limiti di quelle povere monache», concluse, «e anche la malvagità incomprensibile di chiunque si sia preso il disturbo di allestire una sepoltura così assurda. In ogni caso, il mistero è interessante.»

«Certo che lo è», concordò Teresa. «Quasi quanto il fatto che il Corpo di Vigilanza sia stato informato del ritrovamento di quella povera ragazza.»

Palafox annuì con entusiasmo.

«È la stessa cosa che ho detto anche io all’ispettore! Se sono davvero così convinte che si tratti di un miracolo, perché disturbarsi ad avvertire la polizia?»

«Ma a cosa serve un miracolo, se nessuno ne viene informato?» chiese a sua volta Teresa. «Se io credessi nei miracoli, se la mia attività dipendesse da loro e finalmente me ne trovassi uno per le mani, secondo te mi limiterei a seppellirlo nella cripta di un convento senza annunciarlo al mondo intero?»

«Eppure, è esattamente così che hanno fatto. Si sono rifiutate di permettere che la giustizia si facesse carico del corpo, e oggi stesso la seppelliranno in terra consacrata. Salvo l’ispettore e io stesso, nessuno estraneo al convento o all’episcopato ha avuto notizia della sua esistenza.»

«E gli operai che l’hanno trovata? Indossano la tonaca anche loro?»

Palafox si lasciò sfuggire un lieve sorriso.

«No, non credo proprio.»

«Quello che credo io, caro Andreu, è che ben presto comincerà a circolare per Barcellona una nuova storia di miracoli e apparizioni. E quando succederà, la tua testimonianza e quella dell’ispettore Reigosa acquisiranno il valore di una prova decisiva.»

«Anche se sappiamo entrambi che quella povera ragazza non è una fanciulla romana incorrotta.»

«Questa è un’opinione soggettiva che a nessuno importerà più di tanto», ribatté Teresa. «Quello che conta davvero è che voi due siete stati testimoni del prodigio.» E un attimo dopo, avvicinandosi ancora di più alla poltrona del suo amico, chiese: «Il cadavere di questa mattina è collegato alla tua Dama del Pozzo?»

Palafox decise di sorvolare su quell’uso inopinato del pronome possessivo che la donna aveva appena fatto.

«Non credo. O almeno non sembra. In realtà, non avevo nessuna intenzione di raccontarti quello che ti ho raccontato un attimo fa.»

«Allora sono felice che tu abbia cambiato idea.» In quell’istante Teresa si girò verso la porta della biblioteca, dove si era appena affacciato il domestico con un vassoio di bibite in mano. «Grazie, Esteban.»

«Scusate il ritardo, signorina Urbach. Ho dovuto occuparmi di un... incidente all’ingresso.»

«Un incidente?»

«Di nuovo quegli operai. Niente di grave, non vi preoccupate.» L’uomo finì di servire i due bicchierini di sherry con mano tremante e guardò la sua padrona con aria seria. «Un po’ di spazzatura bruciata e uno scambio di parole sgradevoli. Speriamo che non capiti più.»

«Grazie, Esteban, non so come faremmo senza di te.»

Il domestico si inchinò inorgoglito e lasciò la biblioteca con passo leggero.

«Problemi con gli operai?» chiese allora Palafox.

«Sono quasi due settimane che la fabbrica di mio padre è chiusa», rispose Teresa. «Hanno già dato fuoco a parecchi telai e a un paio di capanni, e una delle navi che hanno bruciato ieri sera portava delle forniture che mio padre giudicava fondamentali per riprendere la produzione. Ma non parliamo di cose sgradevoli.» Teresa mise da parte l’argomento con un cenno della mano. «Parliamo piuttosto di quel cadavere che hai esaminato stamattina.»

Palafox prese il suo sherry e si inumidì le labbra nel liquido rossastro.

«Era un inglese», spiegò. «Sui cinquant’anni, biondo, molto robusto, con barba e baffi da leone. Pelle chiarissima e lentigginosa. Si era registrato alla pensione con il nome di Oliver Manning. Ti suona?»

Teresa arrestò immediatamente il movimento del suo bicchiere verso le labbra e aggrottò la fronte.

«Perché dovrebbe suonarmi?»

«L’ispettore pensa che fosse un uomo di un certo prestigio. Non passano molti inglesi da Barcellona, e quelli che si fermano per una settimana intera in città – come intendeva fare questo signor Manning – di solito lavorano nel campo delle fabbriche tessili. Ingegneri, tecnici, commercianti...» enumerò Palafox. «Una comunità piuttosto piccola, in ogni caso.»

Teresa si decise finalmente a bere un sorso del suo sherry.

«Barcellona è piena di fabbriche», obiettò.

«Nella stanza del defunto hanno trovato un biglietto da visita. Non c’era un nome, ma un indirizzo: ‘18 Berkeley Square, Mayfair, London’.»

Calò un breve silenzio sulla biblioteca.

Teresa lasciò il bicchiere sul tavolino che separava le loro due poltrone e si appoggiò allo schienale imbottito.

«Capisco», disse alla fine.

«Non ricordo molte cose di quell’estate a Londra. O, per meglio dire, ricordo solo le cose che nessun uomo potrebbe dimenticare», si corresse Palafox. «So, per esempio, che la casa che occupava la tua famiglia per quei mesi si trovava a Berkeley Square, ma non ricordo se il numero fosse lo stesso.»

«Numero diciotto», confermò Teresa.

Palafox annuì lentamente.

«Non ricordo neppure come avesse fatto tuo padre a trovare quella casa, sempre che l’abbia mai saputo.»

«Era la casa di uno dei suoi soci inglesi, lo stesso che era riuscito a trovargli un posto tra gli espositori del Crystal Palace.» La donna si strinse nelle spalle. «Ma ovviamente io non l’ho mai conosciuto. Non so se fosse biondo e robusto, e neanche se avesse barba e baffi da leone. E non so neanche se mio padre e lui siano ancora in affari insieme. In fin dei conti, per quanto sia la sua unica figlia, io resto solo una donna che passa le sue giornate a espiare vecchi peccati e a scrivere fantasie che farebbero vergognare persino il genitore più tollerante del mondo.»

Il sorriso triste di Teresa fece venire a Palafox un nodo alla bocca dello stomaco. Per un istante, l’anatomista sentì la voglia fortissima di scattare in piedi e pronunciare davanti a lei, una volta per tutte, le parole che tante volte aveva provato nell’intimità del suo cervello. Delle parole inutili che come al solito non arrivarono neanche a sfiorargli le labbra.

«Ma c’è dell’altro», disse invece. «Sul retro di quel biglietto da visita c’erano scritti tre nomi: uno era quello di una donna, ‘Mrs Felicia Dedéu’. Ti dice qualcosa?»

Teresa si prese qualche secondo prima di rispondere.

«Niente, mi dispiace. E gli altri due nomi?»

«Il primo era ‘Neothermas’», rispose Palafox di getto. «E il secondo era ‘Andreu Palafox’.»

Teresa allungò le braccia e prese tra le sue le mani dell’anatomista.

I suoi occhi avevano adesso una luce così intensa che neppure le lenti di Palafox riuscivano ad attenuarla.

«Cos’è capitato a quell’uomo?» chiese.

Palafox non si permise di edulcorare la verità dei fatti per la sua amica.

«Gli hanno dato quasi una ventina di pugnalate. Aveva la gola tagliata e la pancia aperta in due. Era disteso su un letto mezzo nudo. Gli hanno rubato valigie e documenti e hanno lasciato solo quel biglietto da visita. Non c’erano neppure le scarpe, figurati.»

Teresa gli strinse le mani e lo attirò a sé.

«Scopriamo insieme chi era quell’uomo, Andreu», propose. «Scopriamo insieme cosa significa quel biglietto e perché qualcuno ha lasciato scritto il tuo nome accanto a quello della casa di cura. Io parlerò con mio padre, e tu cercherai questa Felicia Dedéu. E se vuoi, stasera potremmo andare alla Neothermas a chiedere se negli ultimi tempi hanno ricevuto la visita di un inglese con la barba da leone.» La donna abbozzò un sorriso che riscaldò all’istante il cuore di Palafox. «Non credo che da quelle parti siano abituati a questo genere di visitatori. Se il signor Manning è stato alla casa di cura, le infermiere se ne ricorderanno di sicuro. E se non avremo fortuna, se non altro rallegreremo loro il pomeriggio con la nostra visita e potremo ricordare insieme i vecchi tempi.»

Palafox si costrinse a ricambiare il sorriso.

«A dire la verità, non sono così sicuro di aver voglia di ricordare quei vecchi tempi», ammise. «Ma non rinuncerei mai alla possibilità di passare un pomeriggio insieme a te.»

Teresa gli lasciò le mani e riprese il suo sherry.

«Allora abbiamo un appuntamento», sentenziò, alzando il bicchiere verso Palafox e aspettando che lui facesse altrettanto. «Sarebbe eccessivamente audace da parte mia se mi presentassi a casa tua alle cinque? Vorrei salutare Adela prima di lanciarci nella nostra nuova avventura.»

«Alle cinque a casa mia.» Il tintinnio del vetro contro il vetro riportò a Palafox il ricordo di un altro brindisi lontano in quella stessa biblioteca, con quella stessa donna, in un’altra vita completamente diversa da quella che oggi entrambi sembravano vivere. «Ma ti avverto che adesso abbiamo un gatto.»

Il sorriso di Teresa divenne incantevolmente sornione mentre si bagnava le labbra nello sherry.

«La cosa si fa sempre più eccitante», bisbigliò.

E come al solito in questi casi, Palafox non seppe come rispondere.