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La riunione improvvisata che gli ispettori Reigosa e Ollero organizzarono con il capitano dell’esercito Alcaraz quel mattino nella stanza numero 26 della Locanda del Nuovo Mondo si rivelò, con grande sorpresa di tutti i presenti, ragionevolmente utile e civile. Alla sua conclusione, il corpo attorno a cui i tre uomini si erano riuniti aveva smesso di essere motivo di conflitto tra uniformi e si era trasformato in un’imprevista merce di scambio che Reigosa e Ollero, per una volta, avevano saputo sfruttare in maniera coordinata.

«Allora, voi vi tenete il caso dell’inglese e lasciate a noi gli assalti alle fabbriche e gli incendi al porto», fece il punto il capitano Alcaraz, tastandosi con soddisfazione l’addome prominente e guardando a turno i due poliziotti che aveva davanti. «Se dalle vostre indagini si viene a sapere che questo signore era implicato nella faccenda delle fabbriche o delle navi assaltate, me lo comunicherete subito. Allo stesso modo, se noi scopriremo qualcosa di simile, lo comunicheremo a voi. Quanto poi al coprifuoco, i vostri uomini collaboreranno con i miei per farlo rispettare alla lettera. Affare fatto?»

L’ispettore Reigosa gli porse la mano e annuì con aria seria.

«Nessuno vuole un conflitto tra giurisdizioni, capitano. Siamo tutti sulla stessa barca e nessuno deve remare contro. Abbiamo nemici a sufficienza là fuori per non metterci a litigare anche tra di noi.»

Il capitano Alcaraz strinse forte la mano di Reigosa e ricambiò il suo sguardo con un’intensità che all’ispettore parve leggermente fuori luogo. Ma non aggiunse altro, perché in fin dei conti aveva ottenuto quello che voleva.

«In ogni modo vorrei che i vostri uomini rimanessero a mia disposizione in caso di emergenza», aggiunse il militare lasciando la mano di Reigosa e stringendo quella di Ollero, che ostentava un sorriso congelato di difficile interpretazione. «Una situazione come quella di ieri sera non tornerà a ripetersi, ci mancherebbe altro, ma dobbiamo tenerci pronti alla prossima mossa di quegli schifosi operai.»

«Ma certo, capitano.»

«Allora vi lascio al vostro caso. Buona fortuna.»

Il capitano Alcaraz si calcò con enfasi il cappello in testa, accennò a un saluto militare e uscì dalla stanza, lasciandosi alle spalle un penetrante aroma di tabacco di qualità.

Quando rimasero soli, l’ispettore Ollero si tolse subito dalla faccia il sorriso e guardò il suo collega con aria preoccupata. Era un trentenne di bell’aspetto, ambizioso, molto più intelligente della media degli uomini in uniforme che lo circondavano in quella città, ma falso e traditore – agli occhi di Reigosa – almeno quanto un serpente travestito da canarino. I suoi occhi avevano lo stesso colore azzurro di quelli della ragazza morta nei sotterranei del convento di Santa Clara, ma i capelli radi e sempre spettinati ricordavano la terra bagnata.

«E così avete avuto quello che volevate, giusto, Reigosa?»

«Prego, Ollero?»

«Proteggere il vostro amico assicurandovi le indagini su questo caso, in cambio di consegnare all’esercito il controllo sui disordini cittadini, che sono, come sapete bene, questione di nostra competenza.» L’ispettore Ollero si avvicinò all’unica finestra della stanza e guardò per un istante il panorama: il paseo de la Aduana, la plaza del Palacio e la facciata laterale dell’antico palazzo reale, da cui spuntavano sul retro, ormai nel cuore della Ribera, le due torri ottagonali di Santa Maria del Mar. «È questo che volevate, no?» chiese dopo un po’, girandosi di nuovo verso il collega.

Reigosa non ebbe un attimo di esitazione.

«L’esercito ha già il controllo sui disordini cittadini, Ollero. Ero convinto che ve ne foste accorto anche voi ieri sera, quando non siete riuscito a farvi rispettare giù al porto. Ma noi adesso abbiamo il controllo su quest’uomo.» L’ispettore indicò con la destra il corpo che giaceva sulla brandina. «Un omicidio sarebbe di nostra competenza, ma il capitano Alcazar avrebbe potuto togliercelo appellandosi alla ragionevole relazione che si potrebbe stabilire tra questo caso e gli incendi di ieri sera.»

«Io non vedo nessuna relazione», obiettò Ollero. «L’unica cosa che vedo, Reigosa, è un inglese morto con un biglietto da visita in cui è segnato il nome del vostro amico Palafox. Un dato, tra l’altro, che non vi ho sentito menzionare in presenza del capitano.»

Due colpi secchi alla porta risparmiarono a Reigosa l’incombenza di rispondere al suo collega.

I capelli rossi di Antúnez si affacciarono con cautela all’interno della stanza.

«Scusate, ispettori, la carrozza dell’obitorio è arrivata. Cosa devo...?»

Anziché completare la domanda, il ragazzo divise uno sguardo sottomesso tra i suoi superiori e attese che uno dei due si decidesse a rispondere.

«Fateli salire», ordinò Reigosa. «Ditegli di portare il corpo nella camera mortuaria e di prepararlo per l’identificazione.» L’agente chinò la testa e fece per girarsi su se stesso, ma l’ispettore lo trattenne con un gesto. «Quando si saranno portati via il corpo, non fate avvicinare più nessuno a questa stanza. Nessuno deve pulire, nessuno deve toccare niente, nessuno deve entrare senza il mio benestare o quello dell’ispettore Ollero. Mi avete capito?»

«Alla perfezione, ispettore.»

«L’ispettore Ollero sarà a capo delle indagini», aggiunse Reigosa guardando di sbieco il collega. «Ovviamente, adesso la priorità è stabilire l’identità del defunto e ricostruire i suoi movimenti degli ultimi giorni. Con chi si è incontrato, dove ha pranzato, per quale ragione è venuto a Barcellona. Su quale nave è venuto in città e con quale nave prevedeva di tornare nel suo paese. L’ispettore organizzerà le indagini.»

L’agente chinò di nuovo la testa e borbottò un «ma certo», che suonò allo stesso tempo dovutamente sottomesso ma anche abbastanza dubitativo da strappare un lieve sorriso a Reigosa.

Quando il suo corpo allampanato scomparve di nuovo dietro la porta, Ollero affrontò l’ispettore con il viso contratto come quello di una maschera da guerra.

«Siete davvero gentile, Reigosa», disse, pronunciando ogni singola parola con deliberata lentezza. «A cosa devo un simile onore, si può sapere?»

«Questo caso è vostro, a essere onesti. Siete stato voi il primo ad arrivare. E poi io da ieri sera ho un altro caso per le mani», aggiunse Reigosa, dando un’ultima occhiata al corpo dell’inglese. «Vi chiedo solo...»

«Volevo ben dire...»

«Vi chiedo solo di lasciare a me la faccenda del biglietto da visita.»

L’ispettore Ollero abbozzò un sorriso sgradevole.

«Avete paura che io scopra qualcosa di scomodo per il vostro amico, Reigosa?»

«La cosa di cui ho paura, Ollero, è che i vostri ben noti pregiudizi sul signor Palafox possano sviare le vostre indagini in maniera controproducente.»

I due uomini si osservarono con aria di sfida, senza dire niente.

«Non mi piace che coinvolgiate un pazzo negli affari del Corpo, Reigosa», disse alla fine Ollero. «Avete ragione. Non mi piace che voi ci rendiate lo zimbello delle forze dell’ordine della città con la vostra mania di aggirarvi per le scene delle nostre indagini con un tipo che ha le allucinazioni, che è stato radiato dalla professione medica per aver mutilato la sua prima paziente e che è rimasto diversi mesi rinchiuso in un manicomio, dal quale, a mio modesto avviso, non avrebbero mai dovuto farlo uscire. Lo stesso manicomio, tra l’altro, che compare accanto al nome di Palafox nel biglietto che ho trovato vicino a questo poveraccio assassinato.»

L’ispettore Reigosa annuì con aria seria.

Neothermas, il sanatorio psichiatrico di calle de la Canuda in cui lui stesso, tre anni prima, aveva fatto rinchiudere Andreu Palafox dopo gli eventi che ne avevano troncato la carriera di medico.

«E a me, Ollero, non piace che voi facciate di tutto per negare i servigi che il signor Palafox ha reso al nostro Corpo negli ultimi anni. Se voi conoscete un altro anatomista competente disposto a farsi coinvolgere nei casi della polizia, sarò ben felice di lavorare con lui. E non mi riferisco a quei ciarlatani che figurano nell’organico, ma a un anatomista capace di rivelare sul serio le cause e le circostanze della morte delle vittime su cui dobbiamo investigare. Nel frattempo, Palafox continuerà a collaborare con il Corpo ogni volta che lo riterrò necessario.»

L’ispettore Ollero fece un gran sorriso sprezzante.

«Perché voi siete l’ispettore capo del Corpo.»

«Esatto.»

«Anche se forse tra poco non lo sarete più.»

Reigosa si strinse nelle spalle con assoluto distacco.

«Il futuro è un mistero per tutti noi, Ollero: l’unica certezza è il presente. E nel presente, finché nessuno dirà il contrario, io continuo a essere il vostro superiore.»

Ollero annuì con lentezza.

«Allora a occuparsi del biglietto da visita sarete voi. Io cerco di riscostruire gli ultimi spostamenti del morto. E nel caso che gli spostamenti del morto mi portino ai nomi o ai luoghi del biglietto da visita...»

«In questo caso, voi e io organizzeremo un’altra riunione amichevole come quella di oggi e decideremo insieme come agire», concluse Reigosa porgendogli la mano con aria conciliante. «D’accordo, ispettore?»

«D’accordo, ispettore», rispose Ollero di getto, stringendogli la mano. «Ma vi prego, accettate un consiglio da amico.»

Reigosa represse all’ultimo la smorfia di fastidio che gli stava per affiorare in viso sentendo quella parola in bocca al collega.

«Ma certo.»

«Non legate il vostro futuro a quel ragazzo, Reigosa. Avete già fatto tutto il possibile per lui: Palafox non ha altro futuro che una cella o un manicomio, e anche voi lo sapete bene.»

L’ispettore Reigosa non lasciò che il suo viso riflettesse la profonda impressione che quelle parole gli avevano suscitato. Si infilò in tasca la mano che Ollero gli aveva appena stretto e tastò il biglietto da visita dell’inglese. Poi la tirò fuori, salutò sfiorandosi la tempia con due dita e borbottò un «Arrivederci, Ollero», a cui l’ispettore rispose in maniera altrettanto formale.

Sulle scale della pensione, la lettiga incastrata degli uomini dell’obitorio lo costrinse a ritardare la sua fuga di un altro paio di minuti.

Le campane della chiesa di San Justo y San Pastor avevano appena suonato le undici quando Palafox uscì dal cancello di casa Urbach. Un nugolo di storni sorvolava i giardini abbandonati del Palazzo della Contessa, e sotto le sue mura alcuni ragazzini ammiravano la sciabola del militare che era rimasto appostato di fronte alla residenza della famiglia Urbach dopo l’incidente con gli operai. Una macchia scura sul lastricato e un leggero odore di spazzatura bruciata erano le uniche tracce che restavano del piccolo incendio che gli scioperanti avevano appiccato davanti alla porta del loro datore di lavoro. Per il resto, la bajada de los Leones aveva lo stesso aspetto di sempre, affollatissima di gente umile, e nulla lasciava presagire la crescente marea che avrebbe scosso la città dalle fondamenta.

Prima di avviarsi verso casa, Palafox lanciò uno sguardo al drago araldico che presiedeva il portone di casa Urbach e cercò anche, inutilmente, la sagoma di Teresa in una delle finestre affacciate sulla strada. Solo allora si mise a camminare svogliatamente verso calle del Regomir.

Era già a un paio di isolati da casa, quando si rese conto che per quel mattino non sarebbe riuscito a lavorare. Con la prospettiva imminente di una visita alla Neothermas in compagnia di Teresa, non esisteva congegno o orologio al mondo capace di attirare la sua attenzione, meno che mai se continuava a pensare agli eventi della sera prima. E così, anziché condannarsi a una mattinata di vani tentativi e rimorsi nel suo laboratorio meccanico, il giovane risalì calle del Regomir e calle de la Ciudad fino a plaza de San Jaime. Qui imboccò calle de la Libreteria e svoltò in calle del Veguer verso plaza del Rey, che adesso aveva un’aria molto diversa dalla sera prima.

Senza più fumo e nebbie, colpita in pieno dalla luce del sole e invasa dai carretti dei venditori ambulanti e da decine di donne vestite da contadine, la piazza di fronte al convento di Santa Clara sembrava un posto come un altro, una piazza come un’altra, e di certo non l’epicentro sinistro di tutti i misteri che era parsa a Palafox poco più di dodici ore prima.

Le scale di accesso al portale del convento erano deserte, ma l’anatomista non ebbe il coraggio di salire. Invece si mise a passeggiare tra i carretti dei venditori ambulanti, cercando di ignorare il più possibile le visioni – o allucinazioni, come le avevano sempre chiamate gli infermieri e il direttore della Neothermas, il dottor Carrera – che subito cominciarono a offuscare la realtà dell’umile mercato. Un cerchio di lanterne accese nella gelida notte visigota. Due bimbi arabi che danzavano sotto la pioggia, nudi e felici, ai piedi di una fontana di pietra. Uomini dai lineamenti africani e mendicanti con le mani nere di fuliggine. Ragazze, bambine e anziane dai volti sfocati che gli correvano incontro per poi dissolversi all’istante nella calda luce color cenere del 1854. Un sabba di visi, voci e momenti consumati dalla ruota del tempo e dal cancro dell’oblio che neppure le acque sulfuree della Neothermas, neppure i trattamenti sempre più aggressivi del dottor Carrera, neppure i suoi beveroni dal sapore strano erano riusciti a estirpare dal cervello di Palafox nei tre mesi che era rimasto rinchiuso nel sanatorio di calle de la Canuda.

Dinnanzi alla porta chiusa del Palazzo del Luogotenente, un giovane con l’abito di un ordine mendicante si materializzò per un istante e attraversò tranquillamente con la mano destra il muro dell’edificio prima di scomparire per sempre.

Nello spazio che quel fantasma aveva appena lasciato libero, una bella fanciulla dai capelli ricci si girò verso Palafox e lo fissò per un secondo prima di sfumare a sua volta nel nulla.

L’anatomista chiuse gli occhi e respirò profondamente una, due, tre volte, come faceva ogni volta che le visioni – le allucinazioni – lo aggredivano senza ragione apparente. Poi riaprì gli occhi e concentrò la sua attenzione su un crocchio di donne che commentavano le ultime novità accanto a un carretto che vendeva angurie.

Palafox si sedette sul muretto che proteggeva la base della colonna del tempio di Ercole e passò qualche minuto ad ascoltare quell’animata conversazione. Lo sciopero operaio, assicuravano soddisfatte le donne, aveva paralizzato le principali fabbriche tessili della città e aveva fatto chiudere un’infinità di laboratori e negozi. Il porto non era ancora tornato alla normalità dopo gli incendi della notte prima, e i sabotaggi non sarebbero finiti neanche nei giorni a venire. Le pareti di San Pedro, il Raval e la Ribera si erano svegliate di nuovo ricoperte di manifesti che incitavano alla ribellione contro i telai automatici, e neanche il coprifuoco imposto dai militari la sera prima era riuscito a evitare che i volantini continuassero a diffondere per tutta la città il loro messaggio di rivolta. E come se non bastasse, due indiscrezioni dell’ultim’ora parlavano di un’epidemia di colera scoppiata proprio quella settimana nel quartiere di Santa Ana, accanto a Canaletas, e della firma imminente dell’ordine di demolizione delle mura che asfissiavano Barcellona sin da tempi immemori...

«Mi sa che noi ce la perderemo», concluse una delle donne, la più anziana del gruppo, con una smorfia di scetticismo dipinta in faccia. «Le mura cadranno il giorno che cadranno i Borboni. E i Borboni cadranno il giorno che si ghiaccerà l’inferno.»

«Non si sa mai cosa ci riserva il futuro», obiettò una giovane lì accanto con un forte accento di provincia, mentre guardava con la coda dell’occhio Palafox e gli mostrava un sorriso seducente, o almeno così gli parve. «Il passato è già scritto, ma il futuro è un libro con tutte le pagine ancora bianche.»

L’anatomista si alzò in piedi, stirò con discrezione i muscoli intorpiditi e fece per andarsene.

Sulla porta della casa in rovina del boia, una giovane con una tunica molto simile a quella della Dama del Pozzo si accovacciò a terra e accarezzò il dorso di un gatto nero. Il suo viso si fuse all’istante con quello di una donna a lutto che osservava il cielo con gli occhi socchiusi, e lì accanto, davanti ai muri d’argilla di un edificio che Palafox non seppe identificare, un bambino di tre o quattro anni scoppiò a ridere felice, si mise a correre verso il carretto con le angurie e fuse violentemente il suo corpo con quello della giovane di provincia.

Palafox chiuse gli occhi, respirò tre volte e tornò ad aprirli.

E fu allora che vide l’Uomo in Nero.

All’inizio Palafox la prese per una delle sue solite visioni: una sagoma alta e incurvata, dalle forme poco definite, con abito e cappello nero, furtivo nei movimenti quanto un inquisitore medievale. Poi ricordò gli eventi della sera prima e capì che l’uomo che stava scendendo la scalinata d’accesso alla cappella di Santa Agueda era lo stesso che dodici ore prima, nella galleria sotterranea del convento, era in compagnia delle due clarisse che avevano interrotto la loro visita alla Dama del Pozzo.

Lo vedo anch’io, l’aveva rassicurato l’ispettore quando Palafox, esattamente come adesso, aveva dubitato d’istinto dell’esistenza di quell’individuo con il viso nascosto che gli mostravano i suoi occhi.

Ed eccolo di nuovo, che scendeva gli ultimi gradini della scalinata semicircolare e percorreva a passi rapidi plaza del Rey con il mantello nero al vento e il viso coperto. Si dirigeva verso la bajada de Santa Clara senza prestare la minima attenzione allo scompiglio che lo circondava.

Per la prima volta dopo tanto tempo, Palafox non ebbe alcun dubbio su quello che doveva fare.