Nel paseo de la Aduana, di fronte alla porta della Locanda del Nuovo Mondo, l’agente Lafita riuscì a raggiungere Octavio Reigosa proprio nel momento in cui questi stava per dare ordine al cocchiere di partire. Il viso butterato del poliziotto si affacciò tra le tendine dello sportello e pronunciò cinque parole che l’ispettore, per sua stessa soddisfazione, ascoltò senza la minima sorpresa.
«Il vescovo vuole vedervi, ispettore.»
Reigosa aprì la tendina e guardò il suo subordinato.
«Il vescovo vuole vedermi», ripeté.
«Un uomo con la tonaca è andato al commissariato e ha lasciato il messaggio. Me l’ha appena riferito l’agente Pagès. Vi aspettano prima delle dodici al palazzo episcopale.»
«Devo andarci da solo?»
«Non me l’hanno specificato», rispose l’agente con aria perplessa. «Con chi dovreste...?»
Reigosa interruppe la domanda del giovane con un cenno del capo.
«Non importa, grazie, agente. Date istruzioni voi al cocchiere?»
Lafita si mise sull’attenti dinnanzi al superiore e un attimo dopo si diresse a cassetta. Reigosa richiuse le tendine, si tolse il cappello e si accomodò con un sospiro sul sedile imbottito della carrozza. Quando i cavalli si misero in movimento, chiuse gli occhi e cercò di immaginare i suoi prossimi passi, ma fu tutto inutile: riusciva a pensare soltanto alle ultime parole che l’ispettore Ollero gli aveva rivolto nella pensione e alla sua aria convinta mentre le pronunciava.
Palafox non ha altro futuro che una cella o un manicomio, e anche voi lo sapete bene.
Reigosa estrasse il biglietto da visita dalla tasca e lesse una volta ancora l’indirizzo di Londra, i due nomi propri e il nome del sanatorio più famoso di Barcellona. 18 Berkeley Square, Mayfair, London. Neothermas. Mrs Felicia Dedéu. Mr Andreu Palafox. Poi prese il suo taccuino e riguardò gli appunti, uno per uno, soffermandosi sulle date e i nomi e anche sugli schemi che aveva scarabocchiato della scena del crimine. Alla fine, nei dintorni di calle de la Tapineria, riaprì le tendine e lasciò vagare lo sguardo nella confusione della città.
Quando la carrozza si fermò all’imbocco di calle del Obispo, l’ispettore aveva cominciato a ideare un piano d’azione per il resto della giornata: un piano che lasciò parcheggiato in un angolo della sua mente per concentrarsi sull’altra grande questione che aveva per le mani.
«Tornate pure al paseo de la Aduana», ordinò al cocchiere dopo essere sceso. «I miei prossimi spostamenti saranno brevi.»
La carrozza si avviò verso plaza de San Jaime inseguita da una banda di monelli scalzi e urlanti, mentre Reigosa si diresse all’ingresso del palazzo episcopale schivando le torte fumanti che i cavalli avevano lasciato in mezzo alla strada.
Come aveva già fatto la sera prima, si identificò con il militare che montava la guardia alla porta del patio e penetrò nell’ala medievale dell’edificio, sentendo il rumore dei suoi passi sulle maioliche del pavimento. La nebbia, il fumo e l’oscurità che la volta precedente appannavano i profili del palazzo avevano ceduto il passo a una luce pallida e densa, quasi masticabile, che riverberava dall’alto e si spandeva come una pioggia ostinata sulla superficie di tutte le cose. Il caldo era molto intenso: mentre seguiva all’interno dell’edificio il giovane con la tonaca che era andato a prenderlo ai piedi della scalinata, Reigosa si accorse che stava cominciando a sudare.
Anche il vescovo Riera aveva la fronte imperlata di sudore quando gli diede il benvenuto sulla porta del suo ufficio privato.
«Grazie per essere venuto, ispettore.» Il religioso gli porse la destra e attese che Reigosa gli baciasse l’anello. «Ho saputo che siete reduce da una mattinata piuttosto complicata.»
«Di certo non più complicata della sera e della notte scorse, Vostra Eccellenza. E neppure più strana.»
Con un cenno, il vescovo Riera invitò Reigosa a prendere posto sull’unica sedia che c’era di fronte allo scrittoio, e andò a sedersi dall’altro lato del grande scrittoio di mogano.
«Andrò dritto al punto, ispettore. Il vostro tempo è prezioso quanto il mio, e tra uomini seri non c’è ragione di perdersi in convenevoli e inutili giri di parole.» Il vescovo unì i polpastrelli e lo guardò in maniera ancora più intensa. «In primo luogo, desidero ringraziarvi per aver mantenuto la parola ieri sera. Vi siete recato al convento di Santa Clara in compagnia del signor Palafox, avete evitato di interrogare le sorelle e il personale di servizio, e ve ne siete andato all’ora stabilita senza cercare di portarvi via una cosa a cui per giurisdizione non avevate diritto. Non mi avete deluso, ispettore. Il che non è poca cosa di questi tempi.»
«Non volevate andare dritto al punto, Vostra Eccellenza?» gli fece notare Reigosa scrollando la testa.
Un sorriso sdentato si aprì sul viso dell’anziano.
«In questo caso, devo dirvi che il corpo di quella fanciulla riposa adesso in terra consacrata», annunciò. «So che questo non vi piacerà.»
«No, infatti non mi piace», confermò l’ispettore.
«Perché voi non credete che quella fanciulla sia ciò che noi crediamo che sia.»
«Un miracolo? Il corpo incorrotto di una fanciulla romana? Un fantasma che le monache del convento sentono piangere da più di un secolo dal fondo di un pozzo? No, non lo credo possibile», affermò Reigosa scrollando di nuovo la testa.
«Non credete forse nei miracoli, ispettore?»
«Io credo solo in quello che vedo, Vostra Eccellenza. Con tutto il rispetto.»
«E allora che cosa avete visto ieri sera?»
Anche Reigosa unì i polpastrelli delle mani.
«Ieri sera io ho visto una ragazza morta dentro un sarcofago di pietra», rispose. «Una ragazza con indosso una tunica romana logora, tre monete romane sugli occhi e la bocca, uno scheletro di ghirlanda di fiori in testa e monili altrettanto antichi al collo e ai polsi.»
Il vescovo fece un’aria perplessa.
«Ebbene?»
«Quella ragazza non era morta da duemila anni. Quella ragazza era morta da meno di settantadue ore.»
«E questo lo sapete perché...?»
«Perché la scienza medica, Vostra Eccellenza, è molto meno impressionabile dell’immaginazione umana. Con tutto il rispetto.»
«Dunque il signor Palafox ha decretato che il nostro miracolo non è tale?»
Reigosa rimase sorpreso dalla disinvoltura con cui il vescovo pronunciò questa frase.
«Così temo, Vostra Eccellenza.»
«Nonostante tutto quello che vi ha detto la madre superiora.»
«Così temo», ripeté Reigosa.
«Le circostanze straordinarie del ritrovamento di quella sventurata hanno dunque per voi meno valore delle certezze apparenti che la scienza medica del signor Palafox ha potuto desumere dal suo corpo in appena dieci minuti di esame.»
Se l’esame del corpo è durato appena dieci minuti – rispose Reigosa nella sua testa – è stato per una sola ragione che voi e io conosciamo bene.
«Le prove che il signor Palafox ha potuto ottenere dal corpo sono state abbastanza convincenti», rispose invece, «da farmi sospettare che le circostanze del suo ritrovamento non siano state così straordinarie come sembrano credere le sorelle di Santa Clara.»
Il vescovo Riera aggrottò la fronte sentendo quelle parole.
«Pensate dunque che qualcuno abbia ucciso quella povera ragazza e in un secondo tempo l’abbia travestita da fanciulla romana, rinchiusa in un sarcofago di pietra e infine abbia orchestrato il suo ritrovamento nel convento.»
«Non sappiamo se sia stato qualcuno a ucciderla», precisò Reigosa, «e forse a questo punto non lo sapremo mai, a meno che voi non cambiate idea e diate il permesso ai miei uomini di riesumare il cadavere per sottoporlo a un esame completo.»
«Questo non accadrà mai.»
«In tal caso, Vostra Eccellenza, lasciate che vi dica quello che penso. Penso che qualcuno si sia preso il disturbo di mettere in scena un miracolo troppo assurdo perché vi si possa credere al di fuori del convento. Un miracolo di cui nessuno verrà a conoscenza e che non gioverà a nessuno. Un miracolo che voi stesso avete fatto seppellire questa mattina, e che nel giro di pochi giorni verrà dimenticato da tutti.» Reigosa si chinò verso lo scrittoio che lo separava dal vescovo. «Per quale ragione?»
Anziché rispondergli, l’anziano si chinò a sua volta sulla superficie in mogano dello scrittoio e fissò con i suoi occhi piccoli e acquosi gli occhi immobili del poliziotto.
I visi dei due uomini erano separati adesso da un palmo scarso di aria carica di particelle di polvere in sospensione.
«Ormai lo sappiamo che non credete nei miracoli, ispettore. Ma cosa mi dite dei segnali? Non credete neppure nei segnali?»
Reigosa si concesse un paio di secondi prima di rispondere.
«Credo in realtà di non comprendervi, Vostra Eccellenza.»
«Guardatevi attorno, ispettore. Guardatevi attorno e ditemi cosa vedete.» Il vescovo Riera si girò verso la finestra aperta del suo ufficio. «Inquietudine e malessere. Disordini sociali. Mancanza di fede ed eccesso di ambizione. Questa città va a picco, e noi non facciamo che contribuire alla sua distruzione. Siete stato informato della demolizione imminente delle mura?»
Reigosa si strinse nelle spalle.
«Le mura di Barcellona stanno per cadere da cinquant’anni, ma rimangono sempre al loro posto.»
«Questa volta non è una fandonia. Madrid ha già dato il consenso e il governo municipale è ben deciso a cominciare le opere di demolizione nei prossimi giorni. In questo modo sperano di mettere fine agli scioperi e allo scontento generale. Migliaia di operai stipendiati dall’erario pubblico, messi a spaccare pietre per liberare la città dall’oppressione delle mura. Ecco la retorica di quei dannati miscredenti che ci governano.» Dalla smorfia di disgusto del vescovo, Reigosa intuì che se fossero stati all’aperto avrebbe volentieri sputato a terra. «La demolizione delle mura è la fine per Barcellona. La morte dello spirito profondo che ha nutrito la sua esistenza da tempi immemori. La fine della sua condizione di città sacra.»
A Reigosa sfuggì un sorriso.
«Barcellona, città sacra?» ripeté con un filo di voce.
«Per caso ne dubitate? Qualsiasi città millenaria è una città sacra, ispettore. Niente in essa è casuale. Il tracciato delle strade, l’ubicazione dei templi e delle piazze, la distribuzione dei pozzi, i nomi dei quartieri e le attività che vi si svolgono. L’orientamento degli edifici. Lo spirito della gente che vi abita.» Il vescovo scrollò la testa. «Niente è casuale in una città con la storia di Barcellona. Tutto in essa è sacro. Persino gli incendi che ciclicamente radono al suolo le sue chiese e i suoi conventi sono sacri, come quelli che adesso inceneriscono le sue fabbriche e le sue navi mercantili. La folla inferocita di Barcellona fa parte anch’essa dello spirito profondo della città, della sua anima inalterabile.»
L’anziano si chiuse in un silenzio che Reigosa, nel giro di qualche secondo, si sentì obbligato a interrompere.
«Un’idea interessante.»
Un bagliore indecifrabile illuminò gli occhi umidi del vescovo.
«Ieri voi siete stato nel convento di Santa Clara, giusto? Bene, considerate per un momento le continuità che aleggiano in ognuna di quelle pietre. Ville romane, palazzi barbari e residenze reali. Il tribunale della Santa Inquisizione. Un convento di clarisse e, nelle sue viscere, l’avete visto con i vostri occhi, le rovine nascoste di un mondo pagano che, nostro malgrado, non ha mai smesso di esercitare il suo influsso su questa città.» Un’altra breve pausa, gli occhi del religioso fissi in quelli del poliziotto, un sottile rivolo di sudore sulla testa calva. «Oppure, se preferite, pensate alla residenza della famiglia Urbach, i protettori del signor Palafox. Le mura di quell’edificio crescono sui torrioni dell’antica cinta di mura romane; le maioliche che formano il pavimento del patio provengono dall’antico ghetto e sono piene di iscrizioni in lingua ebraica; e le sue fondamenta, come quelle di tanti altri edifici di Barcellona, penetrano nelle fosse di un cimitero medievale. Esattamente come la chiesa di San Justo y San Pastor sorge nel luogo dove un tempo si ergeva il tempio di Mitra, e Santa Maria del Mar sulle sabbie del circo romano, mentre plaza de San Jaime occupa oggi lo spazio del foro di Barcino e conserva sotto il suo moderno lastricato la traccia della trama ininterrotta di chiese, cimiteri e residenze ufficiali esistiti in questo luogo sin dai tempi di Augusto. È la cima del monte Taber, la collina sacra di Barcellona, dove si riuniscono ancora i centri di potere della città attuale.» Il bagliore negli occhi dell’anziano si intensificò. «O pensate semplicemente, ispettore, allo stesso signor Palafox.»
Reigosa perse il sorriso.
«Non credo, Vostra Eccellenza, che la peculiarissima condizione del signor Palafox abbia alcuna attinenza con la nostra conversazione», affermò. «Ma giacché siete stato voi a menzionarlo, vi dirò che ieri sera il signor Palafox è rimasto dieci minuti in presenza di quella povera ragazza e non ha avvertito nella sua immaginazione nessuna di quelle... continuità, come le chiamate voi.»
L’anziano non parve sorpreso.
«Se menziono il nostro comune amico, ispettore, è solamente per illustrare l’argomento che sto sottoponendo alla vostra considerazione. La sensibilità particolare del signor Palafox, quel dono meraviglioso che il Signore gli ha concesso, non è che un’altra manifestazione della natura sacra di questo suolo millenario che ci ospita.»
Quel dono meraviglioso, pensò Reigosa. Un modo curioso di definire la malattia di cui soffriva lo sfortunato anatomista.
«Temo di non vedere la relazione tra...»
Il vescovo Riera lo interruppe con un gesto spazientito.
«Il signor Palafox, ispettore, vive in contatto diretto con il tempo sacro. Un tempo fuori dal tempo che è vietato agli uomini, e che è proprio unicamente del Signore.» Il religioso rimase a fissare Reigosa con aria di sfida. «Sorridete pure, caro ispettore, ma in fondo sapete bene quanto me che il signor Palafox non abita nel nostro stesso mondo. I suoi sensi non sono soggetti ai medesimi vincoli imposti a noi dal nostro manchevole involucro carnale. Ed è l’energia di questa città, la sua forza sacra, a mantenere il suo spirito in contatto con... l’altrove.»
Reigosa sostenne lo sguardo febbrile del vescovo per qualche secondo.
«Mi permettete di porvi una domanda vagamente temeraria, Vostra Eccellenza?»
Le gengive dell’anziano si affacciarono ancora tra le sue labbra.
«Ma certo, ispettore, fate pure.»
«Non vi hanno mai detto che queste vostre idee sembrano alquanto pagane? Spiriti del luogo, terre sacre, continuità tra il nostro tempo e quello dei romani... Non credo proprio che siano in molti all’interno della Chiesa a esprimersi in questi termini.»
Il vescovo Riera unì di nuovo i polpastrelli delle mani e vi appoggiò il mento.
«Lo scorrere del tempo e il suo influsso sulla materia non sono questioni pagane, ispettore», ribatté. «Non esiste niente di più sacro del tempo.»
Reigosa ci pensò su qualche istante.
«Capisco», disse alla fine.
«Non credo. Ma la nostra vita, per fortuna, è solitamente abbastanza lunga perché domani possiamo comprendere quanto oggi ci sfugge.» E subito dopo, quasi volesse riassumere quello strano argomento in cui i due uomini si erano andati a impantanare, aggiunse: «Lo spirito della città, la sua natura profonda e immutabile, non aleggia solo nelle sue pietre, ma si rivela anche in ognuna delle manifestazioni della sua vita quotidiana, in ognuno degli eventi che segnano la sua piccola o grande storia. E adesso lo stiamo vedendo con estrema chiarezza».
Reigosa si strinse involontariamente nelle spalle.
«In tal caso, Vostra Eccellenza, se davvero alla fine cadranno le mura della città, sarà perché così ha deciso lo spirito di Barcellona.»
«Osservate i segnali, ispettore», sbuffò il vescovo. «Sono tornati gli incendi e le folle inferocite. È tornata la piaga della rabbia. I cadaveri cominciano a impilarsi attorno alla parrocchia di Santa Ana, e ben presto l’epidemia si estenderà a tutta la città. Voi lo sapete quanto me.» L’anziano non attese che il suo interlocutore annuisse: la polizia, come la Chiesa, era la prima a essere informata delle periodiche epidemie di colera che affliggevano la città ogni pochi anni e mietevano solitamente migliaia di vittime prima di spegnersi così come erano scoppiate. «E adesso i morti della città originale sono tornati per annunciarci che il tempo sta per esaurirsi. Il nostro tempo. Il tempo di Barcellona.»
A queste parole, l’ispettore Reigosa intuì che quello che stava davvero per esaurirsi era la sua pazienza.
«Capisco. Quella povera ragazza, allora, è apparsa ieri nel suo sarcofago di pietra per annunciarci che il ciclo si sta chiudendo. Che il tempo di questa città fondata dai romani giungerà al termine quando i picconi dei liquidatori demoliranno le mura. È così?»
Per tutta risposta, il vescovo Riera si alzò in piedi e porse la mano all’ispettore.
«Non vi chiedo di crederci, ispettore, ma solo di rifletterci.»
E così si alzò anche l’ispettore, baciò l’anello senza dilungarsi e lasciò l’ufficio con la testa più carica che mai di parole, di interrogativi e di idee assurde impossibili da verbalizzare.