L’ispettore Reigosa arrivò in calle del Regomir con dieci minuti di ritardo e una faccia che non incoraggiava a fargli troppe domande. Per fortuna, la domestica di Andreu Palafox lo condusse nel laboratorio meccanico dell’anatomista senza dire niente di sconveniente, anzi limitandosi a pronunciare solo le parole strettamente necessarie.
Agli occhi di Octavio Reigosa, quella ragazzina discutibile che Palafox si ostinava a tenere a servizio aveva scritto in faccia il nome della prigione di Amalia, e se il suo fiuto da poliziotto non sbagliava, nel giro di pochi anni tale destino si sarebbe compiuto nella maniera meno originale. L’ispettore l’aveva visto centinaia di volte nel corso della sua carriera, e ormai aveva smesso di farsi illusioni al riguardo. Con quelle creature di strada la morale era sempre la stessa: per quanto uno si sforzasse di aiutarle, per quante opportunità uno gli offrisse, la loro natura finiva invariabilmente per imporsi e prima o poi si ritrovavano gomito a gomito con tanti altri sventurati a cui la vita non aveva neanche concesso la possibilità di redimersi.
«L’ispettore è arrivato, padrone», annunciò dalla porta del laboratorio, prima di farsi da parte e lasciarlo passare nella sala in cui lo attendeva Palafox. «Se avete bisogno di me, sono in cucina.»
Reigosa entrò nel laboratorio del suo amico e si sforzò di ignorare, per una volta, il campionario di creature meccaniche che l’anatomista teneva esposto sui suoi tavoli da lavoro.
«Scusate il ritardo, Palafox», disse, porgendogli la mano. «E scusate anche la fretta: mi attendono in commissariato tra un quarto d’ora, perciò non ho molto tempo.»
«Non vi invito a sedervi, allora.»
«Mi basta che mi aggiorniate sulla vostra mattinata.»
Senza perdere altro tempo, Palafox riferì all’ispettore la sua visita a casa Urbach e ripeté le poche notizie che Teresa gli aveva messo a disposizione.
«Oggi pomeriggio andiamo alla casa di cura per cercare di scoprire qualcos’altro», concluse. «A meno che non ci siate già andato voi...»
«Andate pure voi due e cercate di capire perché il defunto signor Manning si era annotato il nome di quel sanatorio psichiatrico. La signorina Urbach riceverà un’accoglienza sicuramente migliore di un ispettore del Corpo di Vigilanza.» Il poliziotto fece una breve pausa prima di aggiungere: «Lì, come in qualsiasi altro posto».
Palafox sorrise con simpatia.
«Il peso dell’uniforme, ispettore. Non prendetela sul personale.»
«Il peso dell’uniforme, Palafox, e il valore di un cognome. Se io fossi il figlio di Eliseo Urbach, aprirebbero anche a me tutte le porte di questa città. Persino se il mio nome fosse associato a...»
Palafox interruppe il suo amico con un gesto immediato della mano.
«Capisco, ispettore.»
Reigosa abbozzò un’aria contrita che il suo mezzo sorriso smentì all’istante.
«Scusatemi, vi prego», disse, «alle volte dimentico che la scrittrice più scandalosa di questa benedetta città è anche la donna che fa arrossire il nostro Andreu Palafox.»
L’anatomista chinò la testa.
«Vi attendono in commissariato tra undici minuti, perciò non mi metterò a discutere con voi. La vostra mattinata è stata più produttiva della mia? Avete scoperto qualcosa sul signor Manning?»
«I miei uomini stanno cercando di ricostruire i suoi movimenti da quando è arrivato a Barcellona», rispose Reigosa. «Ollero dirige le indagini. La riunione che mi aspetta in commissariato adesso serve precisamente a mettere in comune le informazioni che i nostri agenti hanno raccolto finora.»
«Ollero?» ripeté Palafox rabbuiandosi in viso.
«Non preoccupatevi. Per il momento, del biglietto da visita mi sto occupando io. Ollero non interferirà.»
«A meno che i movimenti del signor Manning non lo conducano a me...»
Reigosa aggrottò la fronte.
«Pensate che potrebbe succedere?»
«Dobbiamo supporlo, no? Altrimenti, perché mai avrebbe annotato il mio nome e quello della Neothermas?»
L’ispettore chiuse l’argomento con un gesto della mano che faceva spesso.
«Be’, in ogni caso la mia mattinata non è stata noiosa. Ho cercato di far luce sugli eventi di ieri sera: il miracolo della fanciulla romana incorrotta, ricordate?»
«Non date il caso per chiuso, allora», esclamò Palafox con un sospiro di sollievo.
«Certo che no. Le monache ormai hanno sepolto il cadavere di quella povera ragazza, ma questo non significa che noi dobbiamo interrompere le indagini sulla sua identità e sulle ragioni della sua morte.»
«Eccellente. Ebbene, avete avuto fortuna?»
Come risposta, Reigosa infilò una mano in tasca e posò sul tavolo da lavoro di Palafox le tre monete d’oro che la sera prima aveva sottratto dal sarcofago della Dama del Pozzo.
«Per il momento, ho scoperto che le monete sono autentiche. Sono state coniate nel terzo secolo dopo Cristo. E il loro stato di conservazione, come avete detto voi, è straordinario. Straordinario, ma non unico.»
Palafox distolse lo sguardo dalle monete e cercò gli occhi di Reigosa, che era tornato a sorridere con visibile soddisfazione.
«Cosa intendete dire?»
«L’antiquario che ho consultato mi ha detto che è la seconda volta in quindici giorni che vede delle monete simili. Un signore ha cercato di vendergliene due uguali verso la metà di luglio. Anch’esse d’oro, anch’esse lucidissime, anch’esse autentiche. Tuttavia, per le possibilità del nostro amico la richiesta era eccessiva, e così il tizio se n’è andato con le sue monete in tasca e l’antiquario non l’ha più rivisto. Non era uno dei suoi fornitori abituali.»
«Le stesse monete...» mormorò Palafox.
«Non necessariamente.» L’ispettore ne prese una, la girò e ne mostrò il retro all’anatomista. «L’antiquario ricorda che una di quelle monete aveva un segno sulla parte inferiore, un graffio profondo proprio qui. E nessuna di queste tre monete ce l’ha.»
Palafox annuì in silenzio.
«Allora, le monete provenivano dallo stesso luogo, ma non erano le stesse. Un ritrovamento straordinariamente ben conservato che ha cominciato a disperdersi in maniera disordinata.»
Reigosa apprezzò quest’ultima osservazione.
«Sì, certamente disordinata. Due monete vengono proposte a un antiquario senza soldi e altre tre finiscono su un corpo ipoteticamente miracoloso.» L’ispettore si strinse nelle spalle. «In ogni caso, abbiamo una pista da seguire. L’antiquario mi ha fornito una descrizione precisa dell’uomo che ha cercato di vendergli le monete: alto e magro, sui quarant’anni, con la barba e le basette rade, i capelli scuri e la pelle molto chiara. Se riusciremo a scovarlo, sapremo da dove sono uscite le monete e perché tre di esse sono finite dentro un sarcofago nel convento di Santa Clara.»
Palafox prese una di quelle monete, se l’avvicinò al viso e inspirò forte dal naso.
«Forse sono finite lì perché è lì che sono comparse.»
«Come dite?»
«Forse la storia del sarcofago era vera, in fin dei conti.» L’anatomista fece rotolare la moneta tra i polpastrelli delle dita. «Forse quegli operai hanno trovato davvero un sarcofago di pietra mentre facevano i lavori nei sotterranei del convento. Forse al suo interno c’era davvero un cadavere e una manciata di vecchie monete romane. Non ci sarebbe niente di strano. A pensarci bene, le fondamenta di quel convento sono costruite davvero sulle rovine di altri edifici antichissimi. E un sarcofago inviolato è un posto perfetto per conservare intatte delle monete d’oro.»
L’ispettore Reigosa guardò il suo amico con aria scettica.
«Mi state dicendo che adesso credete alla storia del corpo incorrotto?»
«Certo che no! Dico solo che forse in quella bara c’era davvero un cadavere romano», precisò Palafox. «Un cadavere con la sua tunica e i suoi gioielli di cuoio e le sue monete cerimoniali. Un cadavere corrotto che qualcuno ha scambiato, al momento giusto, con il cadavere di quella povera ragazza che voi e io abbiamo visto ieri sera.» Palafox avvicinò la moneta al viso di Reigosa. «Annusate.»
«Sa di metallo antico», disse l’ispettore dopo un po’.
«Sa di decomposizione antica», lo corresse Palafox. «Non è forte, certo, ma abbastanza da farmi pensare che forse ho ragione. Il sarcofago, la tunica, le monete, era tutto vero. L’unica cosa falsa, o meglio anacronistica, era il cadavere.»
Reigosa ci pensò su qualche istante.
«Cioè, secondo voi qualche settimana fa qualcuno dissotterra un sarcofago romano nella galleria sotterranea del convento di Santa Clara e scopre un cadavere con il suo piccolo corredo funebre. A quel punto prende due monete e cerca di venderle...»
«O cerca semplicemente di verificarne l’autenticità», precisò Palafox. «Esattamente come avete fatto voi stamattina.»
«D’accordo», concesse Reigosa. «Prende le monete e le usa per non si sa che cosa, poi si disfa del cadavere corrotto, conserva i suoi vestiti e i suoi gioielli e dopo qualche settimana li fa indossare a un altro cadavere e chiama la polizia, previa mediazione dell’episcopato e della madre superiora, perché il mondo sia testimone del miracolo.»
«Non chiama la polizia», precisò nuovamente Palafox. «Chiama voi e me.»
Reigosa si passò la mano tra i capelli e fissò per alcuni istanti il cigno d’argento che Palafox teneva aperto sul tavolo centrale del laboratorio. Poi si girò di nuovo verso il suo amico.
«Questa mattina, prima di andare dall’antiquario, ho avuto un incontro interessante con il vescovo Riera», raccontò. «In realtà era stato lui a convocarmi.»
Palafox lo guardò incuriosito.
«Ebbene?»
«Dovrete dirmelo voi, se andrete a fargli visita un giorno di questi.» Reigosa raccolse le monete e tornò a infilarle nella tasca della finanziera. «Quanto a me, non riesco ancora a capire perché ci abbiano chiamato ieri sera al convento e che senso avesse la vostra presenza in quel luogo, Palafox, a meno che il vescovo non sperasse che la vostra sensibilità peculiare vi spingesse a dare credito allo spettacolino inscenato per noi dalle monache.»
L’anatomista capì al volo cosa intendeva l’ispettore.
«Eppure il vescovo crede sul serio nel miracolo.»
«Chi lo sa in cosa crede davvero quell’uomo...» L’ispettore riferì a Palafox la sua chiacchierata nel palazzo episcopale. «Chiacchiere e superstizione», sentenziò alla fine. «E un vago sentore di paganesimo davvero curioso, trattandosi di un prete. L’unica cosa su cui non ha lasciato dubbi è la giurisdizione del cadavere: non lo rivedremo più.»
«Gli avete chiesto chi è l’Uomo in Nero?»
«L’Uomo in Nero?» ripeté perplesso Reigosa.
«L’uomo che abbiamo visto ieri sera nel convento. Quello che si è presentato insieme alla madre superiora e alla sorella Olivia quando stavamo esaminando il cadavere.»
«Non mi è venuto in mente di chiederglielo», confessò Reigosa scrollando la testa. «Ma sarà stato un emissario dell’episcopato. I miracoli non si lasciano in mano a delle semplici clarisse, Palafox, meno che mai quando si aspetta la visita della polizia.»
A quel punto Palafox raccontò all’ispettore la sua piccola avventura di quel mattino. Riferì anche l’intenzione della sua domestica di fare qualche domanda al riguardo negli ambienti che frequentava un tempo, e ripeté la sua teoria secondo cui il caso della ragazza morta e dell’inglese assassinato potevano essere collegati in un modo che per il momento ancora non era chiaro.
«Non mi pare un’idea assurda», concluse, aggiustandosi gli occhiali con un dito. «O almeno non mi pare un’idea più assurda delle informazioni di cui disponiamo ora.»
Reigosa diede un’occhiata al suo orologio da tasca e scoprì di essere già in ritardo per la successiva riunione. Calcolò in fretta il tempo che avrebbe impiegato ad arrivare agli Arsenali e si immaginò con fastidio l’espressione di sufficienza dell’ispettore Ollero quando l’avrebbe visto entrare ansimando nell’ufficio del loro comune superiore, Daroca, capo del Corpo di Vigilanza di Sua Maestà.
«Non sarò certo io a mettermi a dire oggi cos’è assurdo e cosa no, caro Palafox», tagliò corto, porgendogli la mano. «Però vi prego di accettare il mio consiglio: se andate alla casa di cura Neothermas con la vostra amica, la signorina Urbach, non lasciatevi suggestionare più del necessario dall’esperienza. E adesso, se volete scusarmi...»
Palafox gli strinse la mano e annuì con aria seria: certo, avrebbe accettato il suo consiglio. Subito dopo lo accompagnò alla porta del laboratorio e gli augurò buon pomeriggio, ma non diede segno di volerlo accompagnare lungo il corridoio o di voler chiamare la domestica, per cui Reigosa si mise il cappello in testa e si avviò da solo per la scala che scendeva nel patio.
Stava già aprendo il cancello esterno, quando Adela si materializzò al suo fianco come una creatura sbucata dal mondo delle fiabe.
«Ve ne andate di già, ispettore?»
«Sì, me ne vado, Adela, buon pomeriggio.»
«Vi posso dire una cosa?»
Reigosa si soffermò sulla soglia e lanciò un’occhiata impaziente alla ragazza.
«Allora?»
«Qualcuno si è messo in mente di fare del male al signor Palafox. Lo sapete anche voi, vero?»
La domestica attese senza battere ciglio una risposta che Reigosa, per un istante, non si sentì in grado di offrirle.
Quando finalmente ritrovò la compostezza, il massimo che riuscì a mettere insieme fu: «Nessuno farà del male al signor Palafox».
La ragazza scrollò la testa senza troppa convinzione.
«Buon viaggio, ispettore», lo salutò con un filo di voce.
Tre secondi dopo, il portone di casa Palafox si richiudeva e le campane di San Justo y San Pastor confermavano che il ritardo di Reigosa era irreparabile.
Quando il viso grigiastro dell’ispettore si fu girato, Adela si affrettò a rimettere il paletto alla porta e salì di corsa all’ultimo piano per affacciarsi discretamente al laboratorio del suo padrone. Il giovane stava lavorando al tavolone a forma di U che occupava il centro della sala, di spalle alla porta, colpito in pieno dalla luce accecante che entrava dalle finestre e avvolto in un silenzio perfetto che neppure gli abituali rumori di calle del Regomir sembravano azzardarsi a disturbare. Dalla sua posizione, Adela non riusciva a vedere gli strumenti che il signor Palafox aveva in mano, né il congegno che adesso attirava la sua attenzione, ma c’era qualcosa nella vista della sua schiena ingobbita sul tavolo da lavoro che riusciva sempre a rassicurarla.
Finché il suo padrone fosse stato occupato con quei marchingegni, pensava oscuramente una parte del suo cervello, non gli poteva capitare niente di male. Non poteva capitare niente di male a nessuno dei due. Adela lo sapeva come sapeva tutte le cose che aveva appreso nei suoi tredici anni di vita: istintivamente, senza poterlo spiegare a nessuno e neppure a se stessa, ma con assoluta certezza.
Dopo un paio di minuti, Baffetto sbucò da dietro la porta del laboratorio e reclamò l’attenzione della ragazza strusciandosi tra le sue gambe e facendo delle fusa che per fortuna il signor Palafox non sentì. Adela si inchinò, prese il gatto in braccio e gli ordinò di star zitto con un’occhiataccia. Il gatto ubbidì all’istante. Anche lui girò la testa verso il centro della sala e parve osservare per qualche istante la schiena ingobbita dell’uomo da quella nuova prospettiva che adesso gli offrivano le braccia di Adela. Poi tornò a guardare la sua padroncina e sbadigliò con aria svogliata.
Cinque minuti dopo, da sola con Baffetto dentro la sua stanza al pianterreno, Adela aprì il baule in fondo al letto e passò in rivista la triste collezione di stracci vecchi che formavano il suo corredo. Rassegnata, scelse un vestito dai colori vivaci e un fazzoletto non troppo logoro e cominciò a svestirsi di spalle al piccolo specchio della toletta. Si lavò con cura il viso, il collo e le ascelle nel catino di porcellana, si sciacquò la bocca con acqua mentolata e dopo una breve ispezione non azzardò altre pettinature con i suoi poveri capelli. Indossò il vestito e si coprì la testa con il fazzoletto, che sapeva leggermente di umido ed era stropicciato come la pelle di un vecchio. Poi si girò verso lo specchio cercandovi la conferma di tutti i suoi timori.
Quello che vide fu, come al solito, una ragazzina di tredici anni con le guance incavate, le labbra screpolate e la fronte imperlata di sudore. Una ragazza seria e altezzosa con gli occhi castani che si guardava allo specchio con una cert’aria di sfida. Il fazzoletto le nascondeva i capelli unti e le modificava leggermente l’insieme del viso, indurendole sensibilmente i lineamenti e rendendoli al contempo meno infantili. Più maturi. Quasi adulti. Per un istante, mentre si chiudeva gli ultimi bottoni della scollatura, Adela si guardò fissa allo specchio e vide riflessa la donna che sarebbe diventata un giorno. Poi chiuse gli occhi, li riaprì e la ragazza allo specchio tornò a essere lei.
«Tu cosa ne pensi, Baffetto?» chiese guardando il gatto, che adesso dormicchiava sul suo letto, accanto all’abito da lavoro che si era appena tolta. «La signorina Urbach mi dirà che sono cresciuta in questi mesi?»
Il gatto non si prese neppure il disturbo di muovere un orecchio.
Nel cervello di Adela, il viso dell’amica del signor Palafox si illuminò come il vetro di una lampada a gas. La sua pelle bianca e radiosa. I suoi occhi gentili, nerissimi, sempre accesi di intelligenza e curiosità. La sua bocca sorridente, padrona di tutte le parole e di tutti i segreti.
La donna più eccezionale che Adela avesse mai conosciuto.
La donna che Adela non si azzardava neppure a sognare di diventare un giorno.
Una persona completamente diversa da quella che lo specchio le aveva appena mostrato.
«Stupido gatto», mormorò, asciugandosi la fronte con uno straccio mentre lasciava la toletta.
Acciambellato in un angolo del lettino, Baffetto aprì un occhio insonnolito per poi richiuderlo l’istante dopo.