11

La carrozza degli Urbach arrancò pesantemente sull’ultimo tratto della Rambla e imboccò calle de la Canuda tra la curiosità degli sfaccendati che guardavano scorrere il pomeriggio da quell’angolo della città. Non fosse stato per il picchetto di soldati che montava la guardia alla Porta di Isabel II, il coprifuoco non aveva cambiato di una virgola l’atmosfera della zona. Le finestre con le sbarre delle torri di Canaletas proiettavano la loro ombra sinistra sul tratto di mura che custodivano, e i loro merli suggerivano ancora il frastuono e la furia di tante antiche battaglie tatuate a fuoco sulla pelle di Barcellona. Il ricordo della prigione che per secoli aveva occupato l’interno delle tre torri aleggiava come un fantasma sulle teste di chi oggi vagabondava lì attorno.

A Palafox non serviva mettere piede a terra in quella parte della Rambla o sfiorare con le dita la pietra delle costruzioni centenarie che lì si ammassavano per evocare nel suo cervello immagini d’altri tempi. Gli bastava dare un’occhiata fuori per sentirsi all’istante assediato da visioni di dolore e disperazione.

Quando si decise finalmente a chiudere la tendina dello sportello e si girò versò Teresa, il dondolio di un corpo appeso a una forca con il collo spezzato gli aveva appena rivoltato lo stomaco con inusitata violenza.

«Cosa vedi?»

Palafox chiuse gli occhi, li riaprì e cercò di sorridere.

«Vedo una donna bellissima.»

Teresa ricambiò il sorriso.

«Bel tentativo», sussurrò, posando una mano su quella dell’anatomista. «Non se ne vanno, vero?»

Palafox si strinse nelle spalle con finta noncuranza. Certo che non se ne andavano, figurarsi, anzi forse erano addirittura peggiorate. Un paio d’anni prima, potevano passare giorni interi senza che la sua mente lo costringesse ad assistere a uno di quegli spettacoli di fantasmi che gli intralciavano la vita sin da quando aveva l’uso della ragione. Invece adesso, tra una rappresentazione e l’altra passavano al massimo tre o quattro ore. Ma in quel momento non aveva voglia di parlarne con la sua amica.

«La vita sarebbe molto noiosa senza di loro», commentò come se niente fosse. «Tu convivi con i personaggi dei tuoi romanzi, io convivo con i fantasmi delle mie allucinazioni. Non c’è poi tanta differenza.»

Teresa inclinò leggermente la testa.

«Mi fa piacere sentirtelo dire, oppure mi spaventa. Non lo so di preciso.»

«Non intendo dire che anche tu dovresti farti curare dal dottor Carrera, se è questo che ti spaventa...»

«Il dottor Carrera non vedrebbe l’ora di curarmi», ribatté la donna con un sorriso dolce. «E mio padre non vedrebbe l’ora di sentire il verdetto e agire di conseguenza.» Poi, tornando seria, gli chiese: «Sei pronto?»

«A rivedere il dottore?»

«A rivedere il dottore. A tornare nella casa di cura. A scoprire quello che scopriremo.»

Palafox sostenne lo sguardo dell’amica. Aveva approfittato del tragitto da calle del Regomir per aggiornarla sulle ultime novità dopo il loro incontro di quel mattino, e Teresa, dopo averci pensato su, ne aveva concluso che forse Adela non aveva tutti i torti. Le morti della ragazza di Santa Clara e dell’inglese del paseo de la Aduana potevano essere collegate in qualche modo, per quanto sembrasse tutto il contrario. E la chiave di quella relazione poteva essere davvero il misterioso Uomo in Nero che Palafox aveva pedinato quel mattino per le strade di Barcellona.

Perché il vecchio palazzo gotico di calle de Montcada in cui Palafox lo aveva visto entrare non era un edificio qualsiasi. Adela aveva ragione: quel palazzo era uno dei tanti magazzini che Eliseo Urbach possedeva in città, e che servivano come centri di approvvigionamento tra i moli del porto e la sua fabbrica del Raval.

«Questa sera devo fare una bella chiacchierata con mio padre», aveva concluso Teresa. Poi aveva aggiunto: «Forse Adela non diventerà mai una brava cuoca, ma ha un olfatto che l’ispettore Reigosa farebbe bene a invidiarle».

«Non so se sono pronto a vedere il dottor Carrera», ammise adesso Palafox, «ma qualsiasi cosa dovessimo scoprire alla Neothermas, non credo che potrà essere più strana di quello che abbiamo visto l’ispettore e io in quel sotterraneo.»

«La Dama del Pozzo», annuì Teresa. «Sarebbe bello se fosse vero, non credi? Il corpo di una fanciulla romana piange dal fondo di un pozzo per secoli e secoli, finché delle monache non la trovano e le danno finalmente sepoltura cristiana.» Sulle labbra della scrittrice si dipinse un lieve sorriso. «Anche se, in realtà, da un punto di vista teologico sembra tutto un po’ confuso, non credi?»

Palafox non ebbe il tempo di risponderle. La carrozza a cavalli si fermò in quel preciso istante e il cocchiere annunciò da cassetta che erano arrivati a destinazione.

«Calle de la Canuda, ventisei!» gridò con la voce impastata dalla grappa. «Sanatorio Neothermas!»

Lo sportello si aprì prima che Palafox potesse raccogliere da terra la sua valigetta da anatomista, e numerose testoline infantili si affacciarono all’interno del veicolo con un misto di deferenza e rapacità dipinto in faccia. Quando Teresa e Andreu smontarono dalla carrozza, i bambini gli si affollarono attorno, e li lasciarono liberi di camminare solo dopo aver ricevuto qualche monetina di poco valore. Uno di loro, un bambinetto bruno e magrolino di neanche otto anni, si aggrappò al braccio di Teresa e non la mollò finché il cocchiere non gli lanciò un bastone che gli fece volare il berretto di velluto. Una bimba poco più piccola di Adela prese la moneta che gli porgeva Palafox e gli sussurrò all’orecchio delle parole che l’anatomista non riuscì a capire, ma che non si sa come gli fecero arrossire all’istante una parte nascosta del cervello.

Entrati nell’ampio ingresso della casa di cura, Teresa si aggiustò lo scialle che le copriva la schiena e guardò Palafox vagamente a disagio.

«Se la voce che gira è vera, parecchi di quei bambini saranno morti prima che finisca l’estate.»

Si riferiva, intuì Palafox, alla nuova epidemia di colera di cui parlavano quel mattino le donne al mercato di plaza del Rey. «Forse non è stata una buona idea venire da queste parti», sussurrò.

«Se c’è davvero un’epidemia di colera, nel giro di una settimana si sarà diffusa in tutta la città. Le mura servono a questo, no?» commentò Teresa con aria mesta. «A meno che non sia vera anche l’altra voce che gira...»

Palafox non fece in tempo a esprimere le sue riserve sull’altra voce che girava in quel periodo, ossia l’imminente demolizione delle mura. In quella città, lo sapevano tutti, le mura erano diventate da più di un secolo uno strumento di controllo, non di difesa. Non c’erano più nemici esterni da tenere lontani con quell’imponente fortezza di mura, torrioni e baluardi medievali, ma era Barcellona stessa a vivere prigioniera nel suo perimetro di sicurezza, sorvegliata dall’alto del Montjuich e della Ciudadela, e soggetta alla presenza costante di una forza armata che era due volte quella di qualsiasi altra città peninsulare. A giudizio di Palafox, che la Corona e l’Esercito permettessero la demolizione delle mura era improbabile almeno quanto la consegna al governo municipale del controllo sulle decine di caserme militari che definivano la geografia della città.

Ma ormai erano arrivati al bancone d’ingresso della casa di cura, e un signore con la barba li fissava con aria circospetta.

«Sono Andreu Palafox», si presentò l’anatomista, scoprendosi la testa. «E questa signorina è Teresa Urbach. Vorremmo parlare con il dottor Carrera.»

L’uomo non diede segno di riconoscere il nome di Palafox, mentre sbatté gli occhi impercettibilmente sentendo il cognome illustre dell’altra ospite.

«Avevate appuntamento con il dottore?» chiese con la stessa espressione arcigna.

«Temo di no. Ma sono sicuro che il dottore ci riceverà. Ci conosciamo bene.»

L’uomo scrollò appena la testa.

«Il dottor Carrera non è in sanatorio.»

«E quando tornerà?»

«Di sicuro non questa sera.»

Palafox guardò Teresa in cerca di aiuto, e la scrittrice prese la parola.

«Il dottor Carrera è un vecchio amico», spiegò facendogli un gran sorriso. «Ma in realtà non siamo qui per una visita di cortesia. Se il dottore non può riceverci, per noi andrebbe bene anche la signora Daudí. Non sarà fuori anche lei, spero.»

L’uomo ci pensò su. Aprì e richiuse le labbra, si toccò una chiazza glabra in mezzo alla barba e alla fine si decise a dire:

«La signora Daudí è una donna molto impegnata».

«Oh, lo siamo anche noi, non dubitate. E se non può riceverci adesso, dovrà ricevere la polizia nel giro di mezz’ora.» Il sorriso di Teresa Urbach non tentennò. «Sono certa che la signora Daudí apprezzerà che le risparmiate il disturbo di una visita ufficiale. E di sicuro lo apprezzerà anche il dottor Carrera. Non vi pare?»

L’uomo si lisciò di nuovo la barba con aria assorta, quindi prese una delle tre campanelle che teneva sul bancone e la fece suonare brevemente. Quasi all’istante, una giovane vestita di bianco comparve da dietro una porta e guardò i due visitatori con evidente curiosità.

«Accompagna questi signori nell’ufficio della signora Daudí», le ordinò brusco l’uomo.

La giovane chinò il capo e attese che Palafox e Teresa le si avvicinassero; allora abbozzò un sorriso timido e chinò di nuovo il capo, avviandosi per un corridoio che si apriva al di là della porta. L’anatomista e la figlia di Eliseo Urbach non si presero il disturbo di rivolgere un ultimo sguardo all’uomo del bancone. Quando furono a distanza di sicurezza, Teresa raggiunse la giovane e osservò:

«Un signore davvero gentile, eh?»

Le guance della giovane avvamparono istantaneamente.

«Chi, il signor Morel? Non sapete quanto, signora.»

Teresa la guardò con simpatia.

«Ci ha detto che il dottor Carrera non è in sanatorio. È vero?»

«Sì, oggi è fuori Barcellona, non tornerà prima di domani», annuì la ragazza.

Proseguirono in silenzio lungo una serie di corridoi che circondavano il grande patio centrale della casa di cura, i cui alberi da frutto si affacciavano con regolarità alle anguste finestre e costringevano Palafox a ricordare i pomeriggi interminabili che lui stesso aveva trascorso alla loro ombra durante la primavera del 1851. A quei tempi se ne stava seduto su una poltroncina di vimini, a veder sfilare le nuvole sopra la testa, cercando di ricostruire nella memoria il viso della giovane paziente che stava per rovinare in un accesso di quello che il dottor Carrera di fronte al tribunale della Reale Udienza aveva definito «raptus di alienazione transitoria». Un arancio, due limoni, un nespolo alto quanto un palazzo di due piani. Un melo e un pesco. Un mandarino pieno di rami.

Dopo un paio di minuti, quando la solidità di Palafox cominciava a vacillare in mezzo a ricordi poco graditi, si fermarono finalmente davanti a una porta chiusa e l’infermiera si girò verso di loro con la stessa espressione incuriosita di poco prima.

«Dovreste dirmi i vostri nomi.»

«Io sono il signor Palafox, e lei è la signorina Urbach. La signora Daudí ci conosce, anche se sono più di tre anni che non ci vediamo.»

La giovane non parve ascoltare l’ultima frase. Appena Palafox ebbe pronunciato il cognome di Teresa, il viso della ragazza avvampò di nuovo e i suoi occhi si spalancarono.

«Teresa Urbach?» chiese con voce tremante. «La scrittrice?»

Teresa si dichiarò colpevole con un leggero cenno del capo.

«Ho l’onore di avervi come lettrice, signorina...?»

«Laura. Mi chiamo Laura.» L’infermiera porse la mano a Teresa, ma la ritrasse all’istante, vergognandosi della sua sfacciataggine. «Sono una grande ammiratrice dei vostri libri, signorina Urbach. Voi mi sembrate davvero... ammirevole.»

Teresa fece una smorfia divertita, borbottò un ringraziamento e porse la mano alla giovane, che la strinse tutta emozionata.

«Ma inventare storie e riportarle su carta non è una cosa particolarmente ammirevole», si schernì. «Il vostro lavoro è molto più ammirevole del mio, Laura. E anche più utile, ovviamente.»

L’infermiera scrollò vigorosamente la testa, facendo tremolare la cuffietta bianchissima insieme alle sue gote carnose.

«Non dite così, signorina. Senza i vostri libri, io non...»

La giovane non terminò la sua frase. La porta di fronte a cui si erano fermati si spalancò all’improvviso, e sulla soglia comparve una donnina sui sessant’anni, molto bassa e molto magra, vestita a lutto, che Palafox riconobbe all’istante come Benedicta Daudí, la temibile vedova che amministrava la Neothermas e a cui il dottor Carrera – suo direttore nominale – aveva affidato la piena gestione di tutti gli aspetti pratici del sanatorio.

«Signor Palafox, signorina Urbach... Mi era sembrato di riconoscere le vostre voci.» La donna non si sforzò di abbozzare un sorriso, né parve sorpresa di quella visita. Senza cambiare espressione, guardò l’infermiera e le sussurrò: «Grazie, Laura».

La giovane chinò il capo e si dileguò di buon passo lungo il corridoio.

Quando furono rimasti soli, la signora Daudí rientrò nel suo ufficio e invitò con un cenno i suoi ospiti a seguirla. Lei prese posto dietro lo scrittoio in fondo alla stanza, mentre Palafox e Teresa si accomodarono sulle due sedie di rovere sistemate davanti.

La scrittrice fu la prima a parlare.

«È un piacere che vi ricordiate di noi, signora Daudí. Sono passati già tre anni, ma sono certa che tutti e quattro conserviamo molto vivo il ricordo di quei mesi in cui le nostre strade si sono incrociate qui alla Neothermas.»

La donna annuì leggermente, poi chiese:

«Tutti e quattro?»

«Certo, anche il dottor Carrera. Abbiamo saputo che oggi non c’è. Pensavamo di parlare con lui, ma sono certa che anche voi potrete aiutarci.»

«Vediamo.»

Teresa guardò Palafox, e questi comprese che era arrivato il suo turno.

«Questa mattina», cominciò, «il Corpo di Vigilanza mi ha chiamato per avere la mia opinione professionale su un caso di omicidio. Ricordate l’ispettore Reigosa?» La signora Daudí serrò le labbra impercettibilmente, e Palafox prese quel cenno per un sì. «La vittima era un inglese che alloggiava in una pensione del paseo de la Aduana, il signor Oliver Manning. Era arrivato a Barcellona quattro giorni fa, e il suo programma era di rimanere in città almeno altri tre giorni. Invece l’hanno trovato morto stamattina nella sua stanza, pugnalato e con la gola tagliata. La ferocia delle ferite inferte suggerisce che non si sia trattato di un semplice furto o di una lite tra ubriachi. Gli avevano rubato tutti i suoi beni, compresi gli abiti, ma non sembra essere questo il movente dell’omicidio.»

La signora guardò prima Palafox, poi Teresa.

«E voi me lo state riferendo perché...»

«L’assassino aveva lasciato una sola cosa nella stanza, a parte il cadavere. Un biglietto da visita. Con scritto il nome di questo sanatorio.»

Il viso serio della donna non subì la minima alterazione.

«Neothermas è un sanatorio molto famoso a livello internazionale», fece notare.

«Il signor Manning era per caso un vostro paziente?» chiese Teresa.

«Non ho detto questo.»

«Ma lo era?»

La signora Daudí guardò Palafox, che le aveva appena posto la domanda.

«Voi dovreste sapere meglio di chiunque altro, signor Palafox, che alla Neothermas ci pregiamo di osservare una politica molto rigida in materia di riservatezza riguardo ai nostri pazienti.»

«In questo caso, signora Daudí, non credo che al defunto signor Manning possa dare fastidio che ci diciate se era o no un paziente del sanatorio, oppure se è stato qui almeno in visita.»

«Persino gli inglesi defunti hanno diritto alla riservatezza, signor Palafox», replicò brusca la donna. «Ma non mi riferisco in particolare a questo signor... Manning... Quello che sto dicendo è che gli archivi della Neothermas sono strettamente confidenziali. Come pure i nostri registri dei visitatori.»

«In altre parole, non potete confermare né smentire che il signor Manning sia stato qui, perché non potete condividere con noi nessuna informazione legata alle visite ricevute in sanatorio?»

«Mi dispiace.»

Palafox guardò Teresa e attese che gli desse manforte.

Per sua sorpresa, sulle labbra della scrittrice cominciò a dipingersi un sorriso soddisfatto.

«Il dottor Carrera ci dirà esattamente lo stesso.»

«Ma certo.»

«E l’ispettore Reigosa non avrà miglior fortuna quando verrà qui domani con i suoi uomini.»

La signora Daudí sostenne con risolutezza lo sguardo di Teresa Urbach.

«Non sarà la prima volta che una forza armata cerca di ottenere informazioni sui nostri pazienti. Lo stesso ispettore Reigosa ha già esperienza al riguardo. Come del resto anche voi», aggiunse, rivolgendosi a Palafox. «Voi, signor Palafox, dovreste apprezzare più di chiunque altro la fermezza dei nostri principi.»

La stretta di Teresa sul suo ginocchio lo dissuase dal cercare una risposta adeguata a quel colpo basso che l’amministratrice della Neothermas gli aveva appena assestato.

«Allora non vi faremo perdere altro tempo, signora Daudí», concluse la scrittrice. «Grazie per averci ricevuto. Conosciamo la strada, non vi disturbate.»

La donna sollevò dalla sedia il suo minuscolo corpo da bambina sessantenne, ma non diede segno di volerli accompagnare alla porta.

Stavano varcando già la soglia, quando Teresa si girò di scatto.

«Per favore, abbiate la bontà di porgere i nostri saluti a Felicia Dedéu», disse, e richiuse la porta senza attendere risposta.

Teresa prese Palafox sottobraccio e si avviò per il corridoio con il viso illuminato da un sorriso radioso che la ringiovaniva di almeno dieci anni. I suoi occhi neri brillavano come pezzi di carbone gettati nel fuoco, e la stessa cadenza dei suoi passi ricordava quasi il ritmo di una marcia trionfale.

«Mi sa che mi sono perso qualcosa», confessò alla fine Palafox, quando si trovarono a sufficiente distanza dall’ufficio della signora Daudí.

«Hai visto la sua faccia quando ho pronunciato il nome di Felicia Dedéu?»

«Hai chiuso la porta prima che potesse reagire», obiettò Palafox scuotendo la testa.

«Non sei stato l’unico a sorprendersi. La signora Daudí conosceva quel nome, e conosceva anche il nome di Oliver Manning. O almeno era al corrente di un uomo inglese collegato alla Neothermas.»

«Allora vorrà dire che tu sei riuscita a leggere più cose di me in quegli occhi di ghiaccio», ammise Palafox. «Confesso che quella donna rimane un mistero per me. Indovinare i suoi pensieri è un po’ come sapere cosa succederà domani.»

«Ecco perché sono al tuo fianco», replicò Teresa. «Tu sei bravissimo a leggere i corpi dei morti o dei malati. Invece io sono bravissima a leggere i visi e le emozioni dei vivi. Insieme formiamo la squadra perfetta.»

L’anatomista fu percorso da un leggere brivido nell’ascoltare queste parole. Guardò Teresa con aria seria, e la donna gli rivolse un sorriso che al solito Palafox non seppe interpretare.

«Allora...»

«Allora, andiamo a salutare Laura.»

Trovarono l’infermiera in una sala accanto all’ingresso principale dell’edificio. Era china su un tavolinetto pieno di strumenti medici, che riportarono all’istante Palafox ai suoi giorni da paziente della Neothermas. Quando li sentì entrare, Laura si girò verso di loro con un catetere dall’aspetto sinistro in una mano e una bacinella dorata nell’altra.

«Signorina Urbach!»

Teresa lasciò il braccio di Palafox e andò incontro all’infermiera.

«Volevamo salutarti, Laura», le disse. «È stato un piacere conoscerti.»

Laura posò all’istante il catetere e la bacinella e guardò la scrittrice con aria speranzosa.

«Tornerete presto?»

Teresa scrollò tristemente il capo.

«Temo che la signora Daudí non ci veda di buon occhio.»

L’infermiera si incupì all’istante.

«La signora Daudí è una stupida.»

«Non ha apprezzato le domande che volevamo farle. Speravamo che potesse aiutarci con un’indagine, ma non è stato possibile.»

«Un’indagine?» Gli occhi di Laura tornarono a illuminarsi. «Per un libro?»

Teresa si strinse nelle spalle.

«Non tutti sono disposti ad aiutare una povera scrittrice come me.»

«Cosa volete sapere, signorina Urbach?» La giovane abbassò la voce e le rivolse uno sguardo incoraggiante. «Se si tratta della Neothermas, magari io posso aiutarvi.»

Teresa scrollò la testa.

«Non voglio metterti nei guai.»

Come risposta, Laura andò alla porta della sala, si affacciò sul corridoio e la richiuse con circospezione.

«Chiedete pure», disse, tornando accanto a Teresa con il respiro agitato.

Teresa si intenerì visibilmente.

«Sei una ragazza coraggiosa: ricordi per caso se negli ultimi giorni è venuto un signore inglese? Biondo, con una bella barbona folta. Si chiama Oliver Manning.»

Laura non ebbe un attimo di esitazione.

«È stato qui proprio ieri.»

Teresa guardò Palafox con la coda dell’occhio.

«Ne sei sicura?»

«Non so come si chiamasse, ma di certo era inglese», affermò la giovane. «Aveva la barba e le basette più folte che avessi mai visto. Parlava spagnolo a stento. Aveva con sé un mucchio di biglietti con delle frasi scritte e li mostrava quando voleva dire qualcosa.»

«E cosa ci faceva qui?»

«Io mi sono limitata a riceverlo al bancone d’ingresso e ad accompagnarlo nell’ufficio del dottor Carrera. Poi li ho portati entrambi nella stanza di una delle nostre pazienti. Sono rimasti dentro meno di cinque minuti e poi sono usciti. A quel punto, il dottore mi ha chiesto di accompagnare il signore all’uscita, e io ho ubbidito.»

Teresa Urbach annuì con la testa e guardò di nuovo Palafox.

L’anatomista fissava ostinatamente la punta delle scarpe dell’infermiera e sembrava trovarsi molto lontano da lì.

«La paziente che hanno visitato si chiama per caso Felicia Dedéu?»

Laura aggrottò la fronte.

«Felicia Dedéu?»

«Non ti suona familiare?»

«No, per niente», rispose la giovane dopo averci pensato su, «però magari si chiama così.»

Palafox si decise finalmente a sollevare lo sguardo dalle scarpe bianche dell’infermiera.

«Cosa vuoi dire?»

«La paziente che sono andati a trovare ieri non ha nome. Per meglio dire, nessuno sa il suo nome. E lei non è in condizioni di dircelo.» Laura fece una smorfia di compassione. «Quella poveretta non ha aperto bocca da quando l’hanno ricoverata, e nessuno è ancora riuscito a identificarla.»

«Qual è il suo stato?» si informò Teresa.

«Secondo il dottor Carrera, soffre di una specie di catatonia, forse dovuta a un forte trauma. Sembra una bambola, poveretta. Passa tutto il giorno seduta in poltrona, a guardare fisso davanti a sé.» L’infermiera sfiorò il catetere che teneva poco prima in mano. «Bisogna aiutarla a fare tutto.»

Nella stanza calò un breve silenzio, che Palafox ruppe per primo dopo aver scambiato un’occhiata con Teresa.

«Da quanto tempo è ricoverata qui questa paziente?»

«L’hanno portata un paio di settimane fa. Posso controllare il giorno esatto sul registro, se volete.»

«E la visita di ieri del signore inglese è stata la prima che ha ricevuto in tutto questo tempo?»

«No, sono venute a trovarla parecchie persone. Almeno dieci o dodici. È la prassi quando arriva un paziente che non riusciamo a identificare», spiegò. «Si segnala il fatto, e chi ha un familiare scomparso viene qui nella speranza che si tratti di lui. Arriva anche gente dalle parrocchie e dagli ospizi, e alle volte si coinvolge persino la polizia.»

«Ma non sai per quale ragione il signor Manning sia venuto a trovare la paziente, giusto?»

Laura si strinse nelle spalle.

«Ho pensato che forse aveva letto la descrizione della paziente e si era detto che poteva essere una sua parente. In realtà, se fosse inglese si spiegherebbe il suo aspetto.»

Palafox e Teresa si guardarono di nuovo. Stavolta, a formulare la domanda fu la figlia di Eliseo Urbach.

«Il suo aspetto?»

«I suoi capelli e i suoi occhi. E la sua pelle. Non avevo mai visto una persona così chiara in tutta la mia vita.» L’infermiera sorrise ammirata. «Quando è sotto il sole, i suoi capelli sembrano quasi bianchi. E lo stesso le sopracciglia: sono così bionde che quasi non si vedono. Quanto alla sua pelle, è persino più bianca della vostra, signorina Urbach. Quando la lavo, le restano addosso le impronte delle mie dita per un bel po’, e le linee blu delle sue vene si potrebbero seguire lungo tutte le braccia. È stupefacente. Ma pare che nessuno abbia ancora identificato una donna con questo aspetto.»

Per un attimo, inevitabilmente, le retine di Palafox gli restituirono l’immagine della Dama del Pozzo, con i suoi capelli biondi e la sua pelle bianca, e quel bagliore bluastro che rendeva lucido il suo corpo senza vita. Rivide se stesso chino su di lei con il fiato trattenuto, che le toglieva le monete dagli occhi, le apriva le palpebre chiuse e guardava per la prima volta il profondo vuoto azzurro delle sue pupille morte.

«Hai parlato dei suoi occhi», disse con un filo di voce, scacciando dalla mente quell’immagine e concentrandosi di nuovo sul viso rubizzo della ragazza che aveva di fronte.

«Gli occhi più azzurri che abbia mai visto in vita mia», garantì Laura. «Una donna bellissima, poveretta. Sembra quasi un personaggio dei vostri romanzi.»

Teresa la ringraziò per quella osservazione con un sorriso incerto. Anche lei, intuì Palafox, aveva notato il legame tra quella donna senza voce né nome e i due cadaveri delle ultime ore. Il terzo vertice del triangolo assurdo che adesso vedevano profilarsi sotto i loro occhi. Una ragazza bionda con gli occhi azzurri trovata senza vita nel sottosuolo del convento di Santa Clara; una donna bionda con gli occhi azzurri ricoverata in stato catatonico nella casa di cura Neothermas; un uomo biondo – a lui Palafox non aveva aperto gli occhi – assassinato nella stanza di una pensione poche ore dopo essere andato a trovare proprio questa donna alla Neothermas.

Un triangolo all’apparenza privo di senso.

E anche uno splendido problema che la leggendaria curiosità di Teresa Urbach non era disposta a lasciare senza soluzione.

«Secondo te, quanti anni potrebbe avere quella donna, Laura?»

L’infermiera si morse il labbro inferiore e fece un’aria dubbiosa.

«Non saprei, signorina Urbach. Qualcuno più di voi, forse?»

«E come ha fatto ad arrivare fin qui? Dove l’hanno trovata?»

«L’hanno portata le monache di Santa Teresa. Il loro convento è qui vicino, lungo la strada, un po’ più giù. L’avevano trovata un mattino nel chiostro, seduta accanto al pozzo con lo sguardo sperduto. Nessuno ha capito come avesse fatto a entrare. Le monache erano così spaventate che l’hanno portata alla caserma del Buensuceso, e i militari gli hanno consigliato di portarla qui in sanatorio.» A questo punto Laura abbozzò un sorriso sornione e, per orrore di Palafox, aggiunse a voce bassissima: «Noi la chiamiamo la Dama del Pozzo».

Per un istante, l’anatomista pensò che una nuova fessura si fosse aperta nella sua percezione della realtà. Una fessura ancora più strana e inquietante di quelle che già normalmente lo affliggevano. Una fessura attraverso cui i suoi stessi pensieri, le sue stesse parole, uscivano adesso dalle labbra di altre persone che non sospettavano neppure il miracolo di cui erano strumento.

Ma in quel momento Teresa gli posò una mano sulla schiena per rassicurarlo e si affrettò a chiedere, senza tradire alcun tipo di emozione:

«La Dama del Pozzo?»

«Una delle infermiere è stata novizia per sei mesi nel convento di Santa Teresa», spiegò la giovane. «Lì c’era una leggenda a cui tutte le monache credevano ciecamente. Dicevano che il pozzo del chiostro era incantato, e che nelle notti di luna piena di sentiva cantare una donna all’interno. La chiamavano la Dama del Pozzo, e giuravano che sentire le sue canzoni portava sfortuna. Nessuno si avvicinava al chiostro nelle notti di luna piena, ma certe monache erano convinte di averla sentita cantare dalle proprie celle. Ecco perché si sono spaventate così tanto quel mattino quando hanno trovato lì quella donna.» Laura forzò una smorfia di scetticismo che non nascose del tutto il leggero brivido che le provocava quella storia. «Quella notte c’era la luna piena, le porte del convento erano rimaste chiuse sin dalla sera prima, e nessuna delle monache aveva mai visto in vita sua una donna con l’aspetto di quella poveretta.»

«Non mi stupisce che siano corse in caserma», ammise Teresa. Teneva ancora la mano posata sulla schiena di Palafox, e adesso gli faceva una specie di massaggio terapeutico. «Anche io mi sarei spaventata, se credessi nei fantasmi.»

«Qui dentro ci sono delle infermiere che non vogliono neppure avvicinarsi a quella stanza. Dicono che è colpa della Dama del Pozzo se è scoppiata un’altra epidemia di colera a Barcellona, e proprio in questo quartiere. Qui c’è gente molto superstiziosa, e non solo tra le infermiere. Ecco perché sono io a occuparmene. Vi porterei anche a vederla, ma...» esitò Laura.

Teresa scrollò subito la testa.

«Hai già fatto abbastanza per noi, Laura. Non vogliamo che rischi il posto infrangendo le norme del sanatorio. Però mi piacerebbe poter contare su di te nei prossimi giorni, se sei d’accordo.»

L’infermiera sorrise soddisfatta.

«Quando volete e qualsiasi cosa volete, signorina Urbach. Non dovete far altro che chiedere.» E dopo una breve pausa aggiunse: «Felicia Dedéu, avete detto? È un bel nome».

«Non sappiamo se sia il suo», rispose Teresa. «Probabilmente non lo è. Ma il signor Palafox e io siamo decisi a scoprire l’identità di quella povera donna. E questo forse ci costringerà a disturbare il dottor Carrera e la signora Daudí. Perciò vedi di non dire a nessuno che hai parlato con noi.»

Laura strinse a lungo la mano che le porgeva la scrittrice e promise di mantenere il segreto. Poi riprese la bacinella dorata dal tavolino pieno di strumenti, se la strinse al petto e seguì con lo sguardo Palafox e Teresa mentre si dirigevano alla porta della stanza.

«È stato il pomeriggio più emozionante di tutta la mia vita, signorina Urbach», sussurrò mentre si allontanavano lungo il corridoio. E le sue guance avvamparono ancora un’ultima volta.