Adela lasciò la casa di calle del Regomir un paio di minuti dopo che il suo padrone e la signorina Urbach erano montati sulla carrozza della scrittrice. Era la prima volta da diverse settimane che la ragazza usciva per strada senza portarsi dietro una lista della spesa, un pacchetto avvolto in carta da imballaggio o un mucchio di lettere da consegnare all’ufficio postale del porto. Ed era passato ancora di più dall’ultima volta che si era mostrata in pubblico senza il grembiule da domestica.
Con il suo abitino dai colori vivaci, il fazzoletto legato al collo e il cuore traboccante di tutte le parole gentili che la signorina Urbach le aveva rivolto, Adela si sentiva come una di quelle ragazze che dopo una giornata di lavoro in fabbrica o al mercato passavano il loro tempo a passeggiare sulla Rambla o sul paseo de la Muralla. Ragazze umili, orgogliose e un po’ sboccate, che nessuno avrebbe mai scambiato per signorine, ma che non sprecavano neanche la loro giovinezza soddisfacendo capricci altrui nelle dimore dei potenti o maltrattando il corpo e la salute nelle strade della miseria. Né domestiche né signore, né damigelle né meretrici: ragazze libere che spesso Adela invidiava dalla doppia distanza della sua origine e della sua posizione attuale.
La nebbiolina serale aveva già cominciato a posarsi sul quartiere, ma l’aria era ancora respirabile. Il leggero odore di fumo che persisteva ancora al mattino presto si era ormai dileguato, e adesso un intenso aroma salmastro copriva il resto degli effluvi abituali di quella parte della città. Adela girò in calle del Correo Viejo e imboccò la strada per il Born seguendo una pittoresca successione di vicoli stretti, passaggi coperti e piazzette piene di bambini che giocavano a fare canestro o inseguivano un gomitolo di lana tra grida di entusiasmo. Le facciate antiche dei conventi e le dimore delle vecchie famiglie barcellonesi si alternavano a modeste abitazioni con i negozi più svariati al pianterreno, dalla latteria al calzolaio, dal negozio di candele e stoppini alla trattoria a buon mercato.
Anche i dintorni di Santa Maria del Mar brulicavano di attività commerciali. Dozzine di bancarelle di vestiti, alimentari e ninnoli si ammucchiavano lungo i muri della chiesa, e attorno si affollava una gran quantità di gente variopinta. Arrotini, lustrascarpe e rigattieri, indovine e venditrici di basilico, amanuensi con piume d’oca, mendicanti con la tonaca, erboriste e guaritrici, suonatori d’organetti stonati, artisti dello sparto e del fil di ferro, ragazze con il grembiule carico di pagnotte e frutta e contadini vestiti alla maniera di Tarragona: un generoso campionario della variegata fauna umana che conviveva a qualsiasi ora per le strade di Barcellona.
Adela si fermò ad annusare delle mele sotto il passaggio coperto costruito sull’antico fossato parrocchiale, schivò le mani un po’ troppo lunghe di una zingarella sudicia come un maiale e proseguì fino all’abside della chiesa. Qui esitò un istante se prendere calle de Montcada e curiosare di persona nel magazzino dove il suo padrone aveva visto entrare l’Uomo in Nero. Alla fine però riuscì a trattenere la tentazione di infrangere i suoi stessi piani e proseguì fino al Born.
Centinaia di persone si accalcavano dentro quella piazza stretta e lunga che un tempo era stata scenario di giostre medievali. Adela non aveva dimenticato la sera in cui il suo padrone le aveva confidato le immagini che gli invadevano la mente ogni volta che entrava in quella zona della città. Lo scalpitare dei cavalli, lo scintillio delle lance e delle armature, il clangore del metallo contro il metallo, i visi antichi e trepidanti, l’odore dolce del sangue, la musica e le voci d’altri tempi che riverberavano in eterno tra le mura di quell’elegante anfiteatro urbano che adesso, in pieno Ottocento, sopravviveva degradato all’umile condizione di mercato rionale. Riusciva quasi a vederli anche Adela: i cavalieri in armatura con le lance in resta, i destrieri con i finimenti di gala, le trombe che davano inizio al combattimento, e lassù, alle finestre dei palazzi, le belle dame del passato che assistevano allo spettacolo con il fiato sospeso.
«Adela?»
La domestica tornò bruscamente alla realtà e si ritrovò di fronte proprio il viso che andava cercando.
«Ciao, Patricio, che ti è capitato?» Il ragazzo la guardava sorpreso con un occhio solo, mentre l’altro era pesto e tumefatto.
«Cosa, questo?» Patricio si indicò l’occhio e fece una simpatica smorfia di disprezzo che mise in mostra la sua dentatura malandata. Era un ragazzino sui dodici anni, bruno e slanciato, con i capelli dritti come le setole di una spazzola e le guance solcate da una brutta collezione di cicatrici di vecchia data che gli davano un’aria da sopravvissuto vagamente tenera. «Uno scambio di opinioni con un bottegaio, niente di che.»
«Uno scambio di opinioni», ripeté Adela, sorridendo.
«I miei argomenti erano migliori dei suoi. Ma lui aveva il piatto di una bilancia in mano.»
«Capisco.» Adela allungò la mano verso il viso del suo amico e tastò con delicatezza la carne gonfia della sua palpebra violetta. «Cosa gli volevi rubare?»
«Oh, solo un pugno di mandorle. Ma alla fine gli ho rubato anche il piatto della bilancia.» I denti di Patricio si affacciarono di nuovo alla sua bocca. «Che ci fai qui a quest’ora?»
«Venivo a cercarti. Ho bisogno di un favore.»
Il ragazzo divenne serio all’istante.
«Ti sei già stufata di quel matto?»
«Non chiamarlo così», lo rimproverò Adela. «Il signor Palafox non è matto.»
«Non è quello che si dice da queste parti.»
«Da queste parti si dicono un mucchio di fesserie. Io conosco il signor Palafox, e so che non è un matto. E neanche un assassino.»
Patricio si strinse nelle spalle.
«Non è un assassino perché l’hanno fermato in tempo», le fece notare. «E questo sei stata tu a raccontarmelo.»
Adela si maledisse mentalmente ricordando i primi giorni della sua nuova vita al servizio di Andreu Palafox, quando la riconoscenza per l’anatomista non l’aveva ancora portata a troncare del tutto i legami che la univano alla sua vita precedente.
«Commettere una follia non vuol dire essere matti. E stare per uccidere qualcuno in un accesso di follia non vuol dire essere un assassino.»
«Un accesso di follia», ripeté Patricio, sorridendo di nuovo. «Scambiare una paziente sdraiata su un tavolo operatorio per un cadavere da dissezionare...»
«Vedo che mi sono sbagliata», esclamò Adela, scrollando la testa. «Lascia stare il favore.»
La domestica si girò e fece per tornare indietro, verso Santa Maria del Mar, le cui torri cominciavano a confondersi nella nebbia che calava sui tetti del Born.
Patricio la fermò all’istante, prendendola per un braccio senza troppo garbo.
«Non fare la stupida», le disse in tono conciliante. «C’è qualcuno che si preoccupa per la tua sicurezza, lo sai?»
Adela si voltò verso il ragazzo e attese che le lasciasse il braccio.
«Qualcuno», ripeté.
Patricio abbassò con fare teatrale la sua palpebra sana.
«Non tutti si sono dimenticati di te facilmente come tu ti sei dimenticata di noi.» E subito dopo, chiese con la massima naturalezza. «Allora, che favore ti serve?»
E così la domestica di Palafox superò quel breve attimo di commozione, si schiarì la gola e cominciò a parlare.
Erano passate da pochi minuti le sette di sera, quando l’ispettore Reigosa uscì dai locali assegnati al Corpo di Vigilanza all’interno della grande caserma degli Arsenali. L’imponente baluardo del Re proiettava un’ombra scura sul patio d’armi, e nei pressi della porta di Santa Madrona era già pieno di vetture ufficiali che ben presto, al tramonto, avrebbero cominciato le ronde per tutta la città. La sua carrozza era rimasta bloccata tra due mezzi dell’esercito e un veicolo con lo stemma del Consiglio municipale, e il cocchiere, un galego sui sessant’anni con cui Reigosa non era mai riuscito a scambiare più di due frasi di seguito, era seduto a cassetta con un pezzo di pane in mano e un’espressione assente negli occhi. Dopo un istante di esitazione, l’ispettore rinunciò a pretendere la sua attenzione. Tutto sommato aveva voglia di fare quattro passi, e forse l’esercizio gli sarebbe servito a rasserenare lo spirito e a mettere da parte la riunione da cui era appena uscito. E così infilò le mani nelle tasche della finanziera e si avviò verso la Rambla, sentendo le tempie palpitargli come rulli di tamburo.
Nei pressi del convento di Santa Monica, un gruppetto di bambini che correvano urlando attirò la sua attenzione verso uno dei vicoli che si inoltravano nella parte inferiore del Raval. Calle de Trentaclaus, intuì ancora prima di verificare che gli schiamazzi provenissero davvero dall’altro lato dell’arco che si apriva accanto al vecchio teatro della Santa Cruz. La strada più malfamata del quartiere più malfamato di Barcellona. La strada delle prostitute più tristi, dei borseggiatori più incalliti e dei commercianti di carne, alcol e disgrazie più spietati di tutta la città. Anche quello l’avrebbe aiutato a schiarirsi le idee, si disse l’ispettore per farsi coraggio; o come minimo l’avrebbe costretto a dimenticare per un momento Juan Carlos Ollero e la sua crescente megalomania. Reigosa inalò un paio di generose boccate di aria salmastra, diede un’ultima occhiata alle acacie allineate lungo la Rambla e con un sospiro di rassegnazione fece per inoltrarsi a Trentaclaus.
Proprio in quell’istante, un ragazzino di sei anni sbucò di corsa dall’arco d’ingresso della strada e andò a sbattere contro le sue gambe.
Dopo l’impatto, il piccolo rimase seduto a terra con aria confusa.
«Voi siete un poliziotto», affermò un paio di secondi dopo.
«Ti sei fatto male?»
Anziché rispondergli, il bambino si alzò in piedi e indicò con un ditino sudicio verso l’interno della strada.
«Laggiù c’è del lavoro per voi!» esclamò, prima di rimettersi a correre a perdifiato verso la Rambla.
L’ispettore si riavviò per Trentaclaus e provocò un istantaneo fuggi fuggi tra i vari gruppi di uomini, donne e bambini che erano ancora riuniti in strada. Qualche finestra si chiuse sonoramente sopra la sua testa, e in fondo alla strada un carretto carico di paglia accelerò il passo in direzione degli orti di San Beltrán. A Reigosa non servì andare oltre per comprendere il significato delle ultime parole di quel bambino: un paio di porte dopo l’arco coperto, accanto alle mura dal lato del mare, la sagoma scura di un corpo era distesa sul selciato in una posizione che suggeriva qualsiasi cosa, tranne un sonno naturale. In ogni altra parte della città, poteva essere un ubriacone che smaltiva la sbornia o un oppiomane buttato fuori dall’ultima fumeria in cui aveva perso tutti i suoi soldi. Ma Reigosa sapeva fin troppo bene che per le strade della parte bassa del Raval nessun ubriacone sarebbe mai riuscito a conservare le scarpe per più di cinque secondi dopo aver perso i sensi.
Quando si chinò sul corpo, la prima cosa che vide fu il taglio nella gola. Un taglio netto, profondo e senza tracce di sangue. Poi vide gli occhi aperti del cadavere e i suoi baffetti sottili, curatissimi, perfettamente perpendicolari al naso più grande e aquilino che l’ispettore avesse mai visto. Un vago ricordo gli affiorò per un istante alla memoria, ma sfumò prima che potesse arrivare ad associarlo a niente e a nessuno in particolare. Non era la prima volta che vedeva quell’uomo, pensò, o forse aveva letto o ascoltato la sua descrizione durante una delle sue indagini. Gli abiti che indossava erano di buona qualità, e il cappello che gli copriva la testa stempiata aveva un taglio moderno che sembrava suggerire un gusto straniero. Avrà avuto sui quarantacinque anni, era bruno e magro, e il suo viso, in qualunque altra situazione, gli sarebbe parso gradevole e persino attraente.
Reigosa frugò nelle tasche del cadavere e le trovò vuote. Non vide neppure altre ferite, né tracce di sangue attorno al corpo. Non era lì che lo avevano assassinato. Qualcuno gli aveva tagliato la gola, l’aveva lasciato dissanguare chissà dove e poi aveva abbandonato il cadavere sul selciato di Trentaclaus, davanti alle dozzine di persone che vivevano per strada ma non avrebbero mai aperto bocca con la polizia. Doveva essere successo da poco: lo scompiglio improvviso, la corsa sfrenata dei bambini, i capannelli di uomini e donne che aveva disperso al suo arrivo...
E allora ricordò il carretto carico di paglia che aveva visto dirigersi verso gli orti di San Beltrán.
«Maledizione!»
Coprendo la gola tagliata del cadavere con il cappello, l’ispettore si alzò in piedi e corse in fondo alla strada, sentendosi osservato da centinaia di occhi sornioni dietro le tende di tutte le finestre.
Cinque minuti dopo, con le mani vuote e il fiatone si appoggiò al tratto di mura che chiudeva la strada nella sua estremità sud e decise che quello minacciava di essere davvero il più brutto pomeriggio che ricordasse di aver vissuto da tanto tempo a quella parte.
Un vecchio con le bretelle e un papillon rosso faceva il giocoliere con una manciata di arance nel Llano de las Comedias, di fronte alla porta del teatro della Santa Cruz, quando Adela e Patricio imboccarono la Rambla da calle de Escudilleros. La ragazza rallentò il passo e fece per fermarsi ad assistere allo spettacolo, ma il suo amico non glielo permise. Prendendola per un braccio, Patricio la trascinò verso l’arco di Trentaclaus senza cancellare dal viso l’espressione di efficienza adulta che aveva assunto dal momento stesso in cui Adela lo aveva messo al corrente della situazione.
«Una ragazza bionda, sui quindici o sedici anni, con gli occhi azzurrissimi e la pelle bianchissima?» aveva chiesto alla domestica, ancora nel Born, quando lei gli aveva riferito l’avventura capitata al suo padrone la sera prima nei sotterranei del convento di Santa Clara. E qualcosa nel tono di voce del suo amico le aveva suggerito che la domanda dovesse avere una ragione ben precisa.
«La conosci?»
Patricio aveva fatto una smorfia strana e le aveva chiesto di proseguire il racconto; ma sul suo viso si era dipinta un’ombra scura che non se n’era più andata per tutta l’ora e mezzo in cui avevano girato insieme per la città antica. Prima si erano intrufolati nell’antico palazzotto di calle de Montcada e avevano verificato che i magazzini ospitati nell’edificio appartenessero davvero alla fabbrica tessile di Eliseo Urbach, una delle più grandi della città, la cui produzione si era vista paralizzata nelle ultime due settimane per colpa degli scioperi. Poi erano andati a trovare alcune celebrità del malaffare della Ribera – due mendicanti quasi ottuagenari, un lustrascarpe prestigiatore, una fiorista di dieci anni con la lingua più sudicia di tutto il quartiere e una fiammiferaia che vendeva la sua merce in calle de las Moscas – nella vana speranza di identificare con il loro aiuto il misterioso Uomo in Nero che quel mattino si aggirava in zona. Nella chiesa de la Merced, di fronte al portico affollato di vagabondi, Patricio si era inginocchiato accanto a un’anziana sdentata e aveva intrattenuto con lei una conversazione lunghissima che a Adela era parsa incomprensibile dall’inizio alla fine. Eppure il ragazzo sembrava soddisfatto, tanto da convincersi finalmente ad abbozzare un sorriso che Adela non era riuscita in nessun modo a decifrare. E alla fine, un oste di calle de Escudilleros aveva rivelato ai due giovani il nome, la professione e una descrizione sommaria dell’attuale inquilino della casa di Trentaclaus dove si stavano dirigendo.
Il suo nome, sconosciuto a entrambi, era Leandro Moreira. Di professione, come tanti in quella parte del Raval, faceva il protettore. Quanto alla sua descrizione, poi, comprendeva un naso di proporzioni considerevoli e un paio di baffetti tagliati alla maniera delle checche che giravano ogni sera per il porto alla ricerca di marinai muscolosi.
«Sicura di voler entrare?» le chiese Patricio sul Llano de las Comedias, lasciandole il braccio e guardandola con i suoi occhi asimmetrici.
Adela fece segno di sì con forzata convinzione. Si trovavano a pochi passi dall’arco di Trentaclaus, e la vicinanza di quello scenario così carico di brutti ricordi cominciava a suscitarle un pizzicorino di inquietudine allo stomaco. Ma la possibilità di presentarsi quella sera davanti al signor Palafox con una tessera dello strano rompicapo che l’anatomista voleva ricomporre aveva la meglio nell’animo della ragazzina sul timore dei fantasmi del passato.
«Bussiamo solo alla porta», disse.
«E se ci aprono?»
«Se ci aprono, mi verrà in mente qualcosa da dire.»
Patricio guardò Adela con ammirazione.
«Ma certo», disse, per poi aggiungere subito dopo: «Quella ragazzina che il tuo padrone ha visto nel sarcofago... Forse so chi era».
Adela non dissimulò la sua sorpresa.
«La conoscevi?»
«C’è stata una ragazzina così in strada in queste ultime settimane. Bionda, occhi azzurri, molto giovane e molto chiara di pelle. Avrà avuto sedici anni. Andava vestita come tutti gli altri, ma riesco a immaginarmela avvolta in un sudario come quello che ha visto il tuo padrone.»
«Una tunica», lo corresse Adela. E poi, anche se sapeva già la risposta, gli chiese: «Quando dici ‘in strada’ intendi...»
Il ragazzo annuì.
«L’ho notata perché era diversa da tutti quanti noi.»
«Sembrava straniera?»
«O straniera, oppure ricca.» Patricio si strinse nelle spalle. «Non sembrava abituata alla strada. E di sicuro non era abituata al mestiere.»
Adela provò un’ondata istantanea di compassione per la Dama del Pozzo.
«Da quanto non la vedi?»
«Da tre o quattro giorni. Anche se in effetti non è che la vedessi tutti i giorni. Non posso garantire che fosse lei, certo, ma c’è una cosa interessante che mi ha detto la signora Leonor, l’anziana che abbiamo visto alla Merced.»
Adela capì al volo cosa stava per dirle il suo amico.
«La ragazza bionda lavorava nella casa di Trentaclaus.»
Patricio annuì di nuovo.
«La vecchia vive in cima alla strada. Dice che l’ha vista entrare e uscire parecchie volte da quella casa nelle ultime settimane. Ma sono giorni che non la vede.»
«Non ne sapeva nulla?»
«Dice che non le ha mai parlato. Le ragazze vanno e vengono in continuazione da quella casa, come da tutte le altre, del resto. Magari ha solo cambiato protettore. O forse ha avuto un colpo di fortuna, come è capitato a te.»
Adela si sentì avvampare, ma la sua voce non ebbe un tremito.
«Se lei non era la Dama del Pozzo, come mai l’Uomo in Nero stamattina bussava alla porta del suo protettore?»
Patricio non rispose, ma si girò verso l’arco di Trentaclaus e aggrottò la fronte.
«Non ti sembra strano?»
«Che cosa?»
«Il silenzio. In quella strada c’è sempre un gran chiasso. E sotto l’arco c’è sempre qualcuno.»
Adela seguì lo sguardo del suo amico e notò che in effetti l’arco era deserto e i dintorni perfettamente silenziosi.
«Il coprifuoco?» azzardò.
«Qui?»
«Forse i militari hanno deciso di fare le cose sul serio...»
«I militari non entrano a Trentaclaus», obiettò Patricio, prendendo di nuovo Adela sottobraccio e avviandosi con lei verso l’arco d’ingresso della strada. «Se bisogna correre, seguimi senza fare domande.»
Per la prima volta da quando aveva abbandonato la vita di strada, la domestica di Palafox provò quella strana euforia irrazionale che precede qualsiasi incontro con l’ignoto. L’odore della nebbia carica di sale, il rumore ritrovato dei suoi passi su quel selciato, la pressione della mano di Patricio sul suo braccio: per un attimo, anche lei ebbe l’impressione di viaggiare nel passato con la mente e la memoria e che il tempo le si fosse ripiegato attorno per mostrarle, anche solo per un istante, le forme di una vita che non era più la sua.
In effetti, la strada così deserta Adela non l’aveva mai vista. Le ombre del passaggio coperto non rivelavano, come d’abitudine, sagome dalla forma umana impestate di vino e sudiciume. Le porte delle case erano sbarrate, le tende alle finestre erano tirate, ai muri non erano appoggiati giovinastri sfaccendati né mocciosi urlanti, e neppure anziani guastati dall’età e dalla miseria o sventurate in cerca di un paio di monete con cui scacciare la fame almeno per un altro giorno. Per un attimo i due ragazzi pensarono che potesse essere qualsiasi altra strada anonima della città, magari San Pedro o Santa Ana, sul lato sicuro di quella spietata frontiera che era la Rambla.
Ma in quel momento videro il corpo buttato a terra e cominciarono a capirci qualcosa.
«È morto», disse Patricio, con la sicurezza di chi ha già visto parecchi cadaveri nella sua vita.
Adela lasciò il suo braccio e fece un passo avanti.
«Magari è solo...»
«È morto», ripeté il ragazzo. «Andiamo via di qui!»
Adela ignorò quest’ultima frase. Si chinò sul cadavere, sollevò il cappello che gli copriva la testa e vide tutto quanto insieme. La gola tagliata, il naso grande e aquilino, i baffetti da checca che l’oste di Escudilleros aveva descritto con l’aria disgustata.
«È il protettore», disse. «Leandro Moreira. Gli hanno tagliato la gola. Come a quell’inglese che il signor Palafox...»
Adela non riuscì a completare la frase. Patricio in quell’istante sollevò lo sguardo verso la parte sud della strada, mormorò un’imprecazione e si mise a correre verso la Rambla.
«Scappiamo!» le gridò mentre cominciava a fondersi con le ombre del passaggio coperto.
Adela non gli diede retta. Anche lei aveva visto la sagoma scura che si avvicinava per Trentaclaus in direzione del corpo che giaceva a terra.
Adesso viene il bello, pensò mentre tornava a coprire il viso del cadavere con il cappello e si alzava in piedi lisciandosi la gonna con inconsapevole civetteria.
«Buonasera, ispettore.»
Octavio Reigosa le andò incontro con le sopracciglia pericolosamente unite sopra gli occhi da vecchio segugio.
«Ci mancava solo questa!» urlò. «Il tuo proprietario lo sa che sei tornata alla tua vecchia vita?»
Adela non si lasciò intimidire.
«Il signor Palafox non è il mio proprietario, è il mio padrone», osservò. Poi, senza dare il tempo all’ispettore di aprire bocca, aggiunse: «Il morto si chiama Leandro Moreira. Faceva il protettore e svolgeva la sua attività dietro quella porta laggiù. La stessa in cui stamattina il signor Palafox ha visto entrare l’Uomo in Nero. Una delle sventurate che aveva al suo servizio era una giovane sui sedici anni, bionda, con gli occhi azzurri e la pelle chiarissima. Come la ragazza che voi e il signor Palafox avete visto ieri notte nel convento di Santa Clara».
L’ispettore ascoltò in silenzio la tirata di Adela, e si concesse un paio di secondi di riflessione prima di chiederle:
«C’è dell’altro?»
«Quella giovane è scomparsa da qualche giorno. Forse se entrate lì dentro», suggerì la domestica, indicando di nuovo la porta sotto il passaggio coperto, «scoprirete qualcosa di interessante su di lei, e su come ha fatto a finire dentro un sarcofago romano. Se l’Uomo in Nero non si è già portato via tutto, certo.»
Reigosa guardò ora la porta chiusa, ora il cadavere con il cappello sul viso, ora la ragazza che aveva di fronte.
«Finalmente riesco a capire cos’ha visto in te il signor Palafox», mormorò. E prima che Adela finisse di abbozzare un timido sorriso orgoglioso, ordinò: «Vai sulla Rambla, cerca uno dei miei uomini e mandamelo qui. E poi torna a casa e di’ al signor Palafox di raggiungermi subito».
Adela si mise sull’attenti come una soldatina di fanteria e guardò Reigosa con gli occhi luccicanti.
«Ai vostri ordini, ispettore.»
Tre secondi dopo, lo scalpiccio dei suoi piedi sulla strada si perdeva già dall’altro lato dell’arco di Trentaclaus.