Aquilino Carrera era calvo ma aveva la barba sulle guance cadenti, era bassino, panciuto, vestiva con eleganza ricercata e dimostrava almeno una dozzina d’anni in più. L’ispettore Reigosa lo conosceva sin dall’inizio della sua carriera come agente semplice del Corpo, e l’aveva sempre visto con quell’aspetto da anziano prematuro un po’ rivoltante che adesso esibiva nel suo ufficio di direzione del sanatorio Neothermas. C’era qualcosa nella sua carnosità, nella mollezza delle sue forme, nella sua eleganza forzata e superflua che gli risultava estremamente sgradevole. Persino la sua stretta di mano era languida e svogliata, come quella di un bambino o di un damerino dell’alta società. Solo il luccichio intenso dei suoi occhi rivelava l’intelligenza di prima categoria che si occultava dietro le forme e le maniere del povero dottor Carrera.
«Immagino sappiate, ispettore, che quanto mi chiedete è del tutto impossibile, vero?»
Erano quasi le dieci del mattino del terzo giorno di agosto del 1854. Reigosa era arrivato in clinica da appena dieci minuti e aveva già avuto modo di discutere con tre impiegati diversi: un tizio barbuto all’ingresso con l’aria da servitore di palazzo e lo zelo di un cane da guardia; un’infermiera dalle maniere più dolci, ma altrettanto ostinata, che l’ispettore non era riuscito a distogliere dalla sua predica sulla riservatezza inviolabile dei pazienti della casa di cura; e per ultimo, neanche tre minuti prima, una sorta di matrona in miniatura, la celebre signora Daudí, che pretendeva di negargli l’accesso all’ufficio del dottor Carrera sbandierando non si sa quale autorità immaginaria che l’ispettore, sempre più spazientito, aveva respinto in maniera decisamente impetuosa.
«In altre parole, dottore, quello che vi chiedo non è di vostro gradimento, giusto?»
Il direttore della Neothermas aspirò lentamente il sigaro che teneva in mano e soffiò su Reigosa una nuvola di fumo azzurrognolo.
«La riservatezza, ispettore, è parte essenziale dell’impegno assunto con i nostri pazienti. Rivelare identità o rendere conto delle visite che si ricevono in questo istituto sarebbe un tradimento manifesto del...»
Reigosa interruppe la tirata dello psichiatra con un gesto impetuoso della mano.
«È una questione semplicissima, dottore», disse. «So che giorni fa è venuto qui in visita un uomo che adesso si trova sotto forma di cadavere all’obitorio. Un signore inglese dall’aspetto poco comune di nome Oliver Manning. So che voi stesso l’avete ricevuto. E so anche che siete entrati insieme nella stanza di una paziente di cui non conoscete l’identità.»
Il dottor Carrera abbozzò un sorrisetto sgradevole.
«Se già sapete tutte queste cose, non capisco cos’altro pretendiate da me.»
«Pretendo che mi diciate perché il signor Manning è venuto a trovare quella paziente. Ritengo che lui non si sentirà tradito nella sua fiducia, e quanto all’altra paziente, per quel che ne so, non è in condizione di protestare.»
Una seconda nuvola di fumo sbuffò dalle labbra dello psichiatra, e veleggiò stavolta verso la finestra aperta dell’ufficio.
«Se è già così ben informato, ispettore, saprà anche che qui sono due settimane che cerchiamo di identificare quella paziente», si decise a dire. «Abbiamo avvertito l’autorità militare della sua comparsa, abbiamo scambiato informazioni con le parrocchie e diffuso la sua descrizione attraverso tutti i canali abituali. Come sempre in questi casi, sono venuti in tanti a vederla, sperando si trattasse di un parente scomparso, e altrettanti sono venuti semplicemente a curiosare.» Il dottor Carrera inclinò leggermente la testa sulla sinistra. «In tutta sincerità, non saprei dirvi a quale dei due gruppi appartenesse quel signore inglese.»
«Veniva da troppo lontano per curiosare», osservò Reigosa.
«Veniva da troppo lontano anche per cercare un parente scomparso.»
«Vi avrà pur raccontato qualcosa...»
Il dottor Carrera annuì infastidito.
«Ha detto che sapeva di una donna scomparsa a Londra tre anni fa. Nessuno ne aveva saputo più nulla, ma secondo certi indizi poteva trovarsi a Barcellona. La sua descrizione coincideva con quella della nostra paziente, e così gli ho permesso di vederla. Ovviamente, in mia presenza e sotto la mia responsabilità.»
«E l’ha riconosciuta?»
«Non saprei dirvi.»
«Non sapreste dirmi?»
Lo psichiatra si strinse nelle spalle.
«Ha detto che sarebbe tornato nel giro di un paio di giorni, ma a questo punto temo che non gli sarà possibile.» Sulle sue labbra si dipinse un accenno di sorriso del tutto fuori luogo. «A essere sincero, non mi ha stupito che la paziente potesse essere inglese. Il suo aspetto non è molto mediterraneo.»
«Vi ha detto altro?»
«Il signor Manning? Solo che era a Barcellona per questioni di lavoro e sarebbe rimasto in città ancora qualche giorno. Non abbiamo parlato molto. Il mio inglese, temo, è poco più che elementare, e il castigliano del signor Manning quasi inesistente.»
«Devo vedere la sua paziente», lo incalzò Reigosa.
Per sua sorpresa, il dottor Carrera non protestò.
«Ma certo, la Neothermas si pregia di collaborare con le autorità... purché tale collaborazione non significhi infrangere i nostri principi.»
«Siete stato chiarissimo, sì. Esattamente come i tre impiegati che hanno cercato di impedirmi di arrivare al vostro ufficio.»
Lo psichiatra si alzò dalla sedia abbozzando un sorriso umido e roseo, e Reigosa fece altrettanto senza alterare l’espressione seria che aveva assunto sin dal mattino presto.
«Non badateci, ispettore. I miei impiegati sono preparatissimi nel loro ambito, ma non sanno sempre valutare le situazioni delicate che ci si presentano quotidianamente. Avete conosciuto il signor Morel?»
«Il portinaio all’ingresso?» chiese Reigosa con aria infastidita. «Ho avuto il piacere, sì. E ho anche avuto modo di conversare con la vostra amministratrice, la signora Daudí.»
«Impiegati eccellenti, ispettore, non credo che voi ne abbiate di migliori.»
L’ispettore preferì non mettersi a discutere sulla questione e lo seguì attraverso una serie di corridoi, scale e atri che terminò nel reparto degenti speciali, al terzo piano dell’edificio. Il dottor Carrera si avvicinò a una delle tante porte dipinte di verde che si aprivano sul lungo corridoio e bussò tre volte.
La porta si aprì un paio di secondi dopo, e comparve una ragazza robusta vestita di bianco che Reigosa indentificò subito come Laura, l’infermiera che il pomeriggio prima aveva assistito Palafox e la signorina Urbach.
«Buongiorno, dottore», mormorò la giovane, guardando ora Carrera ora Reigosa, la cui uniforme del Corpo di Vigilanza faceva presagire l’imminenza di una situazione interessante.
«Buongiorno, Laura.» L’infermiera si fece da parte e i due uomini entrarono nella stanza. «Qualche novità?»
«Nessuna, dottore. Le ho dato la colazione, l’ho lavata e messa a sedere in poltrona.» La ragazza fissò il viso del dottor Carrera, che non le dava quasi retta, e poi quello dell’ispettore Reigosa, che aveva notato la donna in un angolo della stanza e osservava la sua schiena dorata con un’espressione intensa. «È una bella giornata per guardare il panorama. Ma il gran caldo non invita ad aprire la finestra.»
Reigosa non attese che il dottore gli desse il permesso di avvicinarsi alla paziente. Lo fece a passo lento, quasi con cautela, come se temesse di spaventare la donna che se ne stava seduta di fronte alla finestra e sembrava davvero ammirare il panorama di tetti e terrazze che si apriva dinnanzi a lei.
«Non toccatela, vi prego», sentì che gli diceva lo psichiatra; ma neppure l’offesa implicita racchiusa in quella richiesta riuscì ad attenuare la strana sensazione che si era impossessata della sua persona. Una sensazione non molto diversa da quella che aveva provato due sere prima, quando si era accostato al sarcofago di pietra del convento di Santa Clara.
La sensazione di stare per assistere a qualcosa di strano e sconosciuto, e anche inquietante.
La donna doveva avere sui trentacinque anni, ma era alta come una dodicenne. Aveva la carnagione chiarissima e i lineamenti delicati, anche se non sembrava fragile: qualcosa nelle forme del suo corpo suggeriva anzi una forza naturale che non quadrava con lo stato in cui si trovava in quel momento. I suoi occhi azzurri fissavano il vuoto dinnanzi a sé con espressione vacua, ma anche decisa. Le sue labbra socchiuse lasciavano intravedere una dentatura forte, la fronte era alta e spaziosa, e persino la rete di vene azzurrate che le percorreva il dorso delle mani faceva pensare alla salute fisica di una donna vera, piuttosto che all’ozio inutile di un’aristocratica. Una donna abituata ai lavori e alle richieste della vita reale.
Una donna come la sua defunta moglie.
«Le pare familiare?»
La voce del dottor Carrera sfiorò appena la coscienza dell’ispettore Reigosa.
Per un istante, anche lui ebbe l’impressione di vivere una di quelle esperienze che il suo amico Palafox sperimentava ogni giorno. L’intrusione dei sogni nella realtà. L’invasione del passato nel presente. La visita improvvisa di un fantasma.
Poi la sensazione si dissolse e la paziente del dottor Carrera tornò a essere quello che realmente era: una donna con lo sguardo perso contro la finestra di un ospedale psichiatrico.
«Non cercherò di togliervi la custodia di questa donna», annunciò, girandosi verso il dottore. «È evidente che nessuno meglio di voi potrebbe prendersene cura. Ma da adesso in poi, questa donna entra a far parte di un’indagine di omicidio. Anzi, gli omicidi sono tre. Perciò nessuno si potrà avvicinare a lei senza il mio benestare. Mi avete inteso?»
L’infermiera Laura fu la prima a reagire alle parole dell’ispettore. Lo fece emettendo un gridolino di sorpresa e coprendosi la bocca con una mano tremante, mentre fissava con gli occhi spalancati la donna e gli altri due uomini con lei nella stanza.
La reazione del dottor Carrera fu molto più misurata.
«Non vorrete suggerire, spero, che questa donna sia sospettata di un delitto, vero?»
«Certamente no.»
«Ma state suggerendo che la sua sicurezza potrebbe essere compromessa, giusto?»
Reigosa annuì con la testa mentre si chinava di nuovo su quella donna che le infermiere della Neothermas avevano battezzato la Dama del Pozzo, come le aveva riferito Teresa Urbach. Lo stesso nome che Palafox aveva scelto due sere prima per la ragazza del sarcofago di Santa Clara.
L’ennesima coincidenza assurda che pareva regnare nella realtà in cui viveva l’ispettore Reigosa.
«Non vi chiederò di accettare la presenza di uno dei miei uomini dentro il sanatorio», concesse. «So bene quale sarebbe la vostra risposta. Ma mi vedo costretto a informarvi, dottore, che da questa mattina in poi vedrete un agente del Corpo di Vigilanza puntualmente appostato sul marciapiede di calle de la Canuda. Spero che la cosa non vi disturbi.»
Le guance carnose dello psichiatra tremarono appena, ma il suo viso non perse il solito mezzo sorriso.
«Fa sempre piacere vedere uomini in uniforme per le strade, ispettore», replicò. «Ancora di più di questi tempi, con tutto lo scompiglio che stanno creando quegli operai con i loro dannati scioperi.» Il dottore strinse le labbra in una smorfia di disgusto. «Barcellona sta diventando una città sempre meno sicura.»
Reigosa non si disturbò neppure a rispondergli. Fissò ancora per qualche istante la donna seduta in poltrona e poi seguì la direzione del suo sguardo perso oltre la finestra aperta. I tetti bassi del quartiere di Santa Ana, i dolci declivi della pianura, la sagoma del Tibidabo in lontananza e un rettangolo di cielo azzurro che riempiva ogni cosa di una luminosità intensa destinata a durare fino all’arrivo della nebbia.
«Sono vere le voci sulla nuova epidemia?» chiese alla fine, senza distogliere lo sguardo dalla finestra.
«Il colera non è di mia competenza», rispose il dottor Carrera, «ma temo proprio che siano vere. E del resto non c’è da stupirsi. Siamo quasi in duecentomila, ammassati dentro le mura di una città dal tracciato medievale, con strade troppo strette, edifici troppo alti e un sistema fognario inesistente, senza ventilazione né impianti sanitari, costretti a bere l’acqua delle nostre fonti arrugginite e a respirare un’aria satura di salnitro e fuliggine. Finché le mura resteranno in piedi, l’unico reale mistero è come facciamo a essere ancora vivi.»
Reigosa si decise a girarsi e guardò il suo interlocutore.
«Se il problema sono le mura, forse presto avremo la soluzione.»
«Così pare. Voi lo saprete meglio di me.»
L’ispettore preferì non condividere con quell’uomo l’autentica posizione che il Corpo di Vigilanza rivestiva nella catena di comando della città. Il giorno che davvero avessero cominciato ad abbattere le mura, Reigosa e i suoi l’avrebbero saputo dalla padrona di qualche latteria o dal lustrascarpe degli Arsenali. Per quel che lo riguardava, l’ordine di demolizione poteva essere già stato firmato a Madrid, convalidato presso il Consiglio municipale e smistato in tutte le caserme e le parrocchie di Barcellona. In ogni caso, nessuno si sarebbe preso la briga di informare il Corpo di Vigilanza e neppure quello di Sicurezza, il cui unico ruolo, agli occhi dell’autorità superiore, era garantire che le strade della città non si trasformassero definitivamente in una giungla infestata di ladri e assassini.
Ma questi non erano fatti del dottore, e neppure della giovane infermiera che continuava a fissare l’ispettore con un lampo di sorpresa felicità nello sguardo.
«La sua diagnosi, dottore?»
Lo psichiatra impiegò qualche secondo a capire di cosa parlasse.
«La paziente? Catatonia», affermò con sicurezza. «Uno stato di stupore profondo che cancella i suoi processi mentali e riduce le sue funzioni alla mera meccanica di un corpo senza volontà.»
«Però è sveglia. Ha gli occhi aperti. Ci può sentire.»
«Ci può sentire, ma non ci può ascoltare», precisò il dottore. «Così come può guardare, ma non può vedere. Il suo corpo è qui, davanti a noi, ma la sua anima, per così dire, si è ripiegata nelle profondità del suo essere e non c’è modo di raggiungerla.»
«E questo stato durerà...»
«Chi lo sa? La catatonia può essere temporanea, ovviamente. Io stesso ho avuto pazienti che ne sono riemersi dopo pochi giorni o dopo qualche mese. Ma potrebbe anche trattarsi di uno stato irreversibile.»
Reigosa guardò di nuovo la donna con uno strano senso di angoscia.
«E la causa?»
«Anche questo è un mistero», rispose lo psichiatra. «C’è chi vede la catatonia come l’effetto di un trauma che l’anima non riesce a sopportare, e che la fa rinchiudere in se stessa come forma di protezione. Altri esperti, invece, la attribuiscono a cause puramente fisiologiche. Questa donna potrebbe aver sofferto un’esperienza terribile che l’ha ridotta in questo stato di isolamento mentale, oppure potrebbe semplicemente essere stata colpita da una strana malattia che ancora non conosciamo.»
«Se è coinvolta in un omicidio, forse...» azzardò l’infermiera.
«Grazie, Laura», tagliò corto il dottore, lanciandole un’occhiataccia. «Sicuramente l’ispettore terrà conto delle tue valutazioni mediche.»
La ragazza arrossì all’istante, ma i suoi occhi, dopo un primo momento di incertezza, non si distolsero da quelli di Reigosa.
«In effetti ci stavo pensando anche io», disse l’ispettore, sorridendo benevolo all’infermiera; in fin dei conti, se non fosse stato per la discutibile passione di quella ragazza per i romanzi a tinte forti di Teresa Urbach, Reigosa sarebbe stato ancora lì a lottare con lo zelo professionale del dottor Carrera e della sua squadra di guardiani. «Considerando cos’è capitato al signor Manning solo poche ore dopo esserla venuta a trovare, non mi sembra affatto improbabile che questa povera donna abbia vissuto o sia stata testimone di un episodio come minimo atroce.»
«In tal caso, non sarò io a interferire nelle vostre teorie con la mia esperienza professionale», disse in tono grave il dottore. «E adesso, se non vi dispiace, dovremmo lasciare che la signorina Laura si occupi della nostra paziente.»
Reigosa diede un’ultima occhiata alla donna, che rimaneva immobile nella sua poltrona con lo sguardo fisso davanti a sé. Un sottile rivolo di saliva le brillava adesso nell’angolo sinistro delle labbra e le colava fino al mento; notandolo, l’ispettore provò una fitta di dolore e di vergogna. Il viso di sua moglie tornò a sovrapporsi al viso di quella donna senza voce e senza memoria, poi sfumò nel nulla. Di nuovo i capelli biondi, gli occhi azzurri, la pelle chiarissima solcata di vene azzurrate. Di nuovo la Dama del Pozzo. Il terzo vertice di un triangolo di cui l’ispettore Reigosa non riusciva a comprendere il significato.
«Chi sei?» le chiese mentalmente prima di uscire dalla stanza.
Ma non ottenne risposta.