24

Quella notte, Andreu Palafox sognò che alla fine la Dama del Pozzo tornava in vita.

La ragazza era distesa dentro il sarcofago e indossava, come quella prima sera, la sua tunica da fanciulla romana. Sfoggiava anche i sandali e i gioielli che in quella occasione adornavano il suo corpo, ma le tre monete d’oro non le sigillavano più occhi e labbra e la ghirlanda di fiori sulla fronte conservava i petali ancora intatti. I suoi occhi adesso erano aperti, e non erano azzurri ma neri. Anche i suoi capelli erano neri. E sulle sue labbra era dipinto un sorriso che somigliava enormemente a quello di Teresa Urbach.

Anzi, era il sorriso di Teresa Urbach.

Quando la Dama del Pozzo parlò, anche la sua voce era quella di Teresa Urbach.

«Finalmente cominci a capire», fu ciò che gli disse.

La Dama del Pozzo si alzò a sedere all’interno del sarcofago e allungò verso Palafox due braccia nude del colore della calce viva. Il giovane rispose all’abbraccio come un automa senza volontà, e chinò anche il capo verso il viso della donna quando le labbra di lei si socchiusero e lasciarono affiorare una doppia fila di denti bianchi e umidi e la punta di una lingua bluastra. Il bacio che seguì fu lo stesso che Palafox non aveva avuto il coraggio di dare a Teresa quel pomeriggio sul paseo de la Muralla. Lo stesso che si erano dati tre anni prima, a Londra, nei primi giorni di quell’estate straordinaria che Palafox riusciva ormai a stento a recuperare solo nei sogni e nelle allucinazioni. La pelle della donna era gelida, ma il suo fiato era caldo e la sua saliva aveva il sapore di qualcosa di vivo e di profondamente condannato insieme.

Il bacio si prolungò per dieci, quindici, venti secondi, e l’abbraccio della Dama del Pozzo – di Teresa – riportò Palafox a un passato illusorio i cui dettagli cominciavano a sfumarsi per sempre nel groviglio di luci morte e di visi spenti che la sua malattia convocava ogni giorno dinnanzi a lui. La carne fredda della donna, il calore del suo fiato, il contatto familiare con i suoi denti e le sue labbra: Andreu registrava ogni sensazione, ogni accenno di ricordo recuperato, e li archiviava nella stessa regione segreta del suo cervello in cui convivevano tutti i fantasmi.

Finalmente cominci a capire.

Le sue mani scomparvero tra i capelli neri di Teresa, e in quell’istante un odore chimico gli impregnò le narici e un brivido lo percorse da capo a piedi.

E allora si svegliò.

Una nebbiolina strana appannava i contorni della stanza quando l’anatomista aprì gli occhi e cercò di ricordare dove si trovava. Il bagliore della finestra proiettava ombre confuse contro le pareti nude della stanza, e ai piedi del letto, incorniciata nel rettangolo della porta, un’ombra più grande e più nitida si ergeva, immobile, dinnanzi a lui. Palafox cercò di alzarsi, ma sentì il corpo insolitamente pesante, come immerso nell’acqua e paralizzato dalla sua pressione. Anche la sua mente sembrava lenta e pesante. Quando notò la sagoma ritagliata nello specchio della porta, impiegò diversi secondi a comprendere che quella porta avrebbe dovuto essere chiusa, come ogni notte. E impiegò ancora altri secondi a percepire che la sagoma non era immobile.

Qualcuno o qualcosa era sulla soglia e gli veniva incontro.

Palafox riuscì finalmente ad alzarsi a sedere e scostò il lenzuolo. E d’un tratto, la stanza intera cominciò a girargli attorno a tutta velocità.

Come negli episodi più gravi di quella che il dottor Carrera gli aveva insegnato a chiamare «malattia», il tempo e lo spazio si ripiegarono su se stessi e la realtà si fuse in un’unica massa vischiosa, indistinta, impossibile da afferrare o distinguere. Luce e buio, rumore e silenzio, realtà e fantasia: la danza infinita del tempo si riversava sullo spazio come una pioggia di sabbia sparata in tutte le direzioni.

La lanterna magica del suo cervello cominciò a proiettare fantasmi attorno, ma stavolta i volti erano tutti riconoscibili. La Dama del Pozzo e Teresa Urbach. Oliver Manning, Leandro Moreira e la donna dissepolta nel cortile di Trentaclaus. Adela. L’ispettore Reigosa e la sua defunta moglie. Il vescovo Riera ed Eliseo Urbach. Il dottor Carrera. Quella novizia di Santa Clara con la cicatrice in faccia e Alicia Ferrer, la donna a cui tre anni prima aveva rovinato la vita per sempre con il suo bisturi. I genitori morti e di nuovo, una volta ancora, la Dama del Pozzo e Teresa Urbach.

Fantasmi vicini e familiari sbucavano dal nulla, si mostravano per un secondo e svanivano all’istante sotto i suoi occhi, come vani lampi di luce nella nebbia.

«Andreu», disse d’un tratto una voce che forse proveniva dall’ombra ritagliata nella porta o forse esisteva solo nella sua immaginazione.

«Non avere paura.»

E anche: «Finalmente cominci a capire».

Palafox posò i piedi a terra e la stanza smise di girare, ma le immagini non fecero altrettanto. La moglie dell’ispettore Reigosa gli sorrise dallo spazio vuoto che aveva appena lasciato nell’aria il viso di Adela, e anche quella donna morta si dileguò all’istante per fare spazio a suo padre, Martín Palafox, l’illustre anatomista di cui il figlio non aveva saputo seguire le orme. Lo stesso odore chimico che aveva avvertito in sogno mentre affondava le mani nei capelli di Teresa persisteva ancora nelle narici di Andreu. Una parte del suo cervello ebbe come l’impressione di riconoscerlo. Reggendosi al capezzale del letto, strinse forte gli occhi e contò fino a dieci.

Quando li riaprì, tutti i volti erano scomparsi e l’ombra della porta aveva acquisito definitivamente la forma di una sagoma umana.

«Andreu», sentì di nuovo Palafox, e stavolta capì che quella voce non esisteva solo nel suo cervello.

La sagoma fece un passo indietro e scomparve nell’oscurità. Palafox cercò di pronunciare il nome di Teresa, ma le sue labbra riuscirono a emettere solo un gemito inarticolato. Al primo passo che tentò di fare, la stanza riprese a girare in senso orario e le gambe per poco non gli cedettero. L’anatomista pensò allora ai congegni meccanici che aspettavano di essere aggiustati nel suo laboratorio. Immaginò gli ingranaggi all’interno, i complessi meccanismi di metallo e argento, l’ingegno umano che nutriva le loro vite artificiali. E poi immaginò se stesso come una di quelle creature: una precisa opera di orologeria composta da migliaia di pezzi perfettamente coordinati per ottenere il miracolo del movimento.

Quando fu in grado di raggiungere la porta, il suo corpo funzionava come un vero e proprio automa: rigido, con movimenti bruschi e secchi, ma senza pausa né esitazione.

La sagoma del suo visitatore era scomparsa dal pianerottolo antistante, ma la scia del suo odore guidò Palafox giù per le scale. Una luna giallastra era appesa nel rettangolo di cielo nero che copriva il patio interno, e il suo riflesso illuminava fiocamente il portico e la scalinata che univano il piano nobile al portone esterno. La nebbiolina spettrale si era un po’ dispersa, ma il cervello di Palafox continuava a proiettare ombre attorno a sé.

Di nuovo cercò di pronunciare il nome di Teresa, e di nuovo fu tutto inutile.

Arrivato ai piedi della scalinata, due dettagli in serie catturarono la sua attenzione. Il primo fu che il portone esterno era socchiuso, e il secondo fu che a terra, accanto alla porticina di servizio, era disteso un corpo avvolto in una stoffa scura.

Un corpo di donna.

Palafox fece un paio di passi avanti e vide il corpo riverso a pancia ingiù in una pozza di sangue, con la testa girata verso il muro di pietra. Alla luce della luna, il sangue che sgorgava ancora dal suo collo sembrava scuro e denso come l’inchiostro. Aveva il capo scoperto, e i suoi capelli neri disegnavano un’altra macchia di inchiostro denso sulla stoffa scura.

Buttato a terra lì accanto c’era un coltello con il manico lavorato a forma di serpente e la lama insanguinata.

«Teresa», riuscì a mormorare Palafox.

E in quell’istante, un miscuglio di ombre, volti e odori familiari si chiuse di nuovo su di lui, e stavolta le gambe non riuscirono a sorreggere oltre il peso del suo corpo.

Adela si svegliò dal suo sonno senza sogni quando Baffetto si agitò accanto a lei nel letto ed emise un mugolio nervoso. La ragazza tastò alla cieca il dorso del gatto e si rigirò tra le lenzuola, ma l’animale gemette ancora e si rotolò sul materasso. Sorpresa, Adela allungò di nuovo la mano e lo sentì tremare, così aprì gli occhi e attese che la vista si adattasse alla penombra.

«Che succede, Baffetto?»

Il gatto miagolò ancora e inarcò il dorso sotto la mano della sua padrona.

Adela si alzò a sedere sul letto e cercò con lo sguardo la porta della stanza. E fu allora che sentì i rumori.

Due persone che scendevano lungo le scale del patio. Prima dei passi veloci, leggeri, seguiti da altri più lenti e pesanti.

Adela rimase seduta sul letto per alcuni istanti. Non sapeva che ore fossero, ma il buio pesto indicava che non era ancora sorta l’alba. E l’idea che due persone scendessero le scale a quell’ora era così assurda che la domestica non sapeva come reagire. Il suo primo pensiero fu che l’ispettore Reigosa fosse venuto a prendere il suo padrone e lo stesse portando a esaminare un nuovo cadavere. Un attimo dopo, tuttavia, si disse che non l’aveva sentito bussare al portone di casa e che se anche la serratura era rotta da settimane e il chiavistello si poteva forzare senza fatica, l’ispettore non si sarebbe mai intrufolato dentro casa senza prima far suonare il batacchio. Prese allora in considerazione l’ipotesi che il signor Palafox avesse invitato qualcuno a casa nel cuore della notte. Chissà, magari proprio la signorina Urbach. L’idea sembrava piuttosto assurda, certo, ma era sicuramente preferibile a qualsiasi altra supposizione.

Il rumore di passi si spense, e per qualche secondo la domestica non sentì altro che il proprio respiro.

Fu allora che la voce del suo padrone pronunciò in lontananza il nome di battesimo della signorina Urbach.

Sempre più confusa, Adela accese la lampada a olio e si alzò dal letto. Uscì con aria circospetta dalla stanza, che confinava con l’ingresso del piano di servizio, e si sforzò inutilmente di sentire altri rumori. Scalza e in camicia da notte, con la lampada in una mano e Baffetto stretto al seno, la domestica si avvicinò alla soglia del patio e incollò un orecchio contro il legno della porta. Sulle prime non sentì nulla, poi un rumore brusco la fece sobbalzare.

«Teresa», ripeté ancora la voce del suo padrone, in un tono che le strinse il cuore.

La ragazza posò a terra la lampada e prese un paio di respiri profondi. Poi diede un bacio sulla testolina di Baffetto, afferrò la maniglia e la girò con forza.

Quando finalmente riuscì ad abbracciare il corpo senza vita di Teresa Urbach, Palafox sentì di nuovo quell’odore acuto che gli si insinuava nei sensi e nella coscienza smuovendo un ricordo dai contorni poco definiti. Era un odore chimico, penetrante, che rievocava nella sua immaginazione il tavolo di marmo di una sala operatoria e chissà perché anche la penombra di una notte d’amore. Le sue mani si macchiarono del sangue che sgorgava dalla gola tagliata della donna, come poco prima gli si erano macchiati i pantaloni del pigiama e le piante dei piedi. Non cercò il battito e non tentò alcuna manovra di salvataggio. Il corpo di Teresa era ancora caldo, ma la quantità di sangue sparso a terra e l’abbandono dei suoi muscoli non lasciavano molti dubbi sul suo stato. Seppure nelle brume che offuscavano ancora il suo cervello, Palafox era consapevole che quello tra le sue braccia era il corpo di una donna al di là di qualsiasi possibile aiuto da parte della scienza medica.

Una nuvola solitaria coprì per qualche istante la luna e oscurò il patio. Palafox chiuse gli occhi, inalò l’odore familiare dei capelli di Teresa e il mondo riprese a girargli attorno con la velocità e la precisione degli strumenti ben congegnati. Lo spettacolo della lanterna magica riprese da capo. Il viso di sua madre morta si fuse sotto i suoi occhi con quello della Dama del Pozzo, e questo con quello di Teresa Urbach, e questo con quello della novizia che custodiva il convento di Santa Clara. E una voce conosciuta gli disse allora che forse solo la magia poteva ottenere il miracolo che la sua povera coscienza non era più in condizioni di operare.

Che forse le favole non dicevano bugie.

Che forse un bacio poteva risvegliare dal suo sonno una bella dama insanguinata.

Finalmente cominci a capire.

Andreu girò verso di sé il corpo che teneva tra le braccia e si chinò sul viso senza vita di Teresa.

Le labbra della donna gli si offrirono come una rosa dai petali esangui e avvizziti. Non c’era traccia di fiato, ma l’anatomista le baciò con la convinzione di chi esegue un rituale sacro.

Il rituale definitivo.

Il rituale per riportare i morti in vita.

Come nel sogno che aveva sognato prima di risvegliarsi in quell’incubo, Palafox strinse forte gli occhi e baciò le labbra di Teresa per dieci, quindici, venti secondi, mentre il mondo gli girava velocemente attorno e dentro le sue palpebre si proiettava lo spettacolo senza fine della sua follia.

E allora una voce familiare alle sue spalle pronunciò il suo cognome e l’incantesimo si frantumò in mille pezzi.

«Signor Palafox!»

Adela gridò il nome del suo padrone mentre vedeva richiudersi il portone del patio, e per un attimo non seppe quale di quei due misteri affrontare per primo: perché il suo padrone se ne stava a terra con un corpo insanguinato fra le braccia e perché un’ombra nera era uscita di corsa appena l’aveva vista affacciarsi alla porta di servizio?

L’anatomista si girò verso di lei e la guardò neanche fosse un fantasma.

Non indossava gli occhiali, e le sue labbra tremavano come quelle di un bambino sul punto di scoppiare a piangere.

«Teresa», mormorò, con una voce che a Adela sembrò lontanissima.

La domestica lasciò Baffetto a terra e corse verso il portone. Uscì in strada in tempo per vedere la sagoma di un carro diretto verso plaza de San Jaime. Un carretto basso, scoperto, tirato da un unico cavallo e guidato da un solo conducente, con una specie di bara sul retro. Non cercò di inseguirlo. Dare l’allarme a quell’ora, si disse, sarebbe servito solo a richiamare i soldati preposti al coprifuoco, e lo spettacolo del famoso medico caduto in disgrazia abbracciato a un cadavere li avrebbe interessati certamente più di un misterioso Uomo in Nero in fuga per la città. L’unico uomo in uniforme libero di entrare in casa loro quella notte, decise Adela, sarebbe stato l’ispettore Reigosa. Ma doveva essere lei a farsi carico della situazione.

La ragazza tornò nel patio, accostò il portone d’ingresso e guardò il padrone con un nodo in gola.

«Va bene, padrone», disse, avvicinandosi a lui con cautela e registrando mentalmente alla prima occhiata tutti gli elementi principali della scena: il corpo senza vita che il signor Palafox teneva stretto, il lago di sangue che si espandeva a terra, i due sandali caduti accanto ai piedi del cadavere e la lampada a olio che lei stessa aveva lasciato vicino alla porta di servizio, alla cui luce tremula si riflettevano le lacrime negli occhi dell’anatomista. «Ormai potete lasciarla, non c’è più niente da fare.»

Andreu scrollò la testa e si aggrappò ancora più forte al cadavere che aveva tra le braccia.

«Teresa», ripeté.

Adela girò attorno ai due corpi abbracciati e osservò il taglio profondo che aveva squarciato da parte a parte la gola della vittima. Un brivido le percorse la schiena per intero, dalla nuca ai reni, e un primo conato le riportò il sapore del riso che aveva preparato per cena. Distolse lo sguardo dalla ferita e lo posò sull’abito insanguinato, sulla pelle esangue, sulle rughe e sulle macchie che riempivano il viso di quella povera donna.

«Ma questa non è la signorina Urbach, padrone.»

Il signor Palafox tornò a guardare la sua domestica come se non vedesse lei, ma una di quelle visioni che risalivano dal pozzo del tempo o dalle brume della sua immaginazione malata. Adela si asciugò con il dorso della mano le lacrime che cominciavano a rigarle le gote e ripeté:

«Non è la signorina Urbach, padrone. È una monaca». La domestica notò allora la croce appesa al collo della defunta e si segnò d’istinto in fronte. «Mi sa che è la madre superiora di Santa Clara.»

Andreu Palafox non pronunciò una sola parola dinnanzi a quella rivelazione. L’unica cosa che fece fu continuare a fissare in silenzio il viso della monaca morta che teneva tra le braccia e alla fine, dopo un paio di minuti, abbozzò qualcosa di simile a un sorriso. Un sorriso così triste, così disorientato, così sofferente e sollevato insieme che Adela si costrinse a distogliere lo sguardo dal suo padrone e a concentrarlo su Baffetto, che nel frattempo si era messo ad annusare la pozza di sangue fresco con i peli ancora dritti e la schiena inarcata come il giogo di una bestia da soma.

Nei secondi che seguirono, fuori dal portone chiuso si sentì uno scalpiccio di passi marziali che scendevano lungo la strada e subito si fusero nel silenzio perfetto della notte estiva.

Lassù in alto, una luna gialla si affacciò e si nascose un paio di volte tra le nubi che cominciavano a coprire il cielo di Barcellona.

Quando Adela si girò di nuovo, vide che il padrone si stava liberando dall’abbraccio che lo univa alla madre superiora del convento di Santa Clara. Lo faceva con cautela, quasi con tenerezza, ma nel posare a terra la testa della donna la ferita del collo si lacerò ancora ed espulse un improvviso fiotto di sangue nero e denso.

Adela chiuse gli occhi, si girò di lato e vomitò con violenza la cena contro il muro del patio.