17

Octavio Reigosa abbandonò l’elegante palazzina della Neothermas con l’immagine di quella paziente senza nome ancora impressa a fuoco nella retina. Qualcosa nel viso assente di quella donna smuoveva nel profondo la memoria del poliziotto, qualcosa che neppure lui sapeva identificare, ma che da quel momento in poi gli avrebbe martellato il cervello con la persistenza di un’autentica ossessione.

«Avete una brutta faccia, ispettore.»

Reigosa tornò bruscamente alla realtà e incrociò gli occhi azzurri di Juan Carlos Ollero, che lo fissavano con espressione sarcastica dal finestrino di una carrozza ferma in mezzo a calle de la Canuda.

«Voi invece avete sempre la solita faccia, ispettore.»

Ollero ricambiò la battuta del collega con una risata secca e sonora come lo sparo di una pistola.

«Salite, che devo farvi vedere una cosa», gli disse, aprendo lo sportello e facendogli spazio sulla panca. «Vedrete che vi piacerà.»

Reigosa non protestò. La riunione del pomeriggio prima gli aveva tolto la voglia di ricominciare a litigare con Ollero, almeno per un po’; perciò montò in carrozza, si accomodò accanto a lui e quando i cavalli ripresero la marcia gli disse:

«Alle dodici mi aspettano agli Arsenali».

«Non preoccupatevi: andiamo a Trentaclaus, l’obitorio è lì vicino.»

Il sorriso storto del suo collega non gli piacque per niente.

«Novità a casa del protettore?» chiese.

«I nostri uomini l’hanno messa sottosopra da stamattina presto, come avete ordinato voi. Pare non ci sia nulla di interessante, e nessuno dei documenti trovati sembra collegato alla giovane che state cercando, ma poco fa l’agente Antúnez ha trovato una cosa strana nel cortile sul retro.»

«Una cosa così strana da farvi venire di persona a chiamarmi?»

Il viso di Ollero assunse un’espressione viscida.

«L’avete sentito ieri il capo Daroca, no? Voi e io dobbiamo lavorare in maniera coordinata. È in gioco il prestigio del Corpo.»

«Sì, ricordo benissimo la riunione di ieri», mormorò Reigosa.

«E poi ero ansioso di conoscere l’esito del vostro incontro con il dottor Carrera. Siete riuscito a vedere questa paziente misteriosa?»

Sapendo con certezza che Ollero non avrebbe mai aperto bocca sulla natura del ritrovamento a Trentaclaus finché non fossero giunti a destinazione, Reigosa decise di raccontargli la sua visita alla Neothermas.

Quando ebbe finito, la carrozza era quasi arrivata al pla della Boqueria e gli occhi di Ollero brillavano per la soddisfazione.

«Quindi il biglietto da visita dell’inglese era autentico», concluse. «Oliver Manning è andato davvero al sanatorio. Il che ci porta a pensare che anche le altre annotazioni dovrebbero essere pertinenti.»

«Sì, dovrebbe essere logico», annuì Reigosa facendo finta di niente.

«Ma il signor Palafox sostiene di non conoscere la ragione per cui il suo nome fosse annotato sul biglietto del signor Manning. E quella signorina Urbach...»

«Alla signorina Urbach provvederò io stesso», lo interruppe Reigosa, «di questo non dovete preoccuparvi.»

Ollero alzò entrambe le mani in segno di resa, ma non smise di sorridere.

«Io non mi preoccupo, ispettore, ma converrete con me che i rapporti del signor Manning con la fabbrica degli Urbach risultano sempre più evidenti. Anche io ho fatto i miei compiti, sapete?» L’ispettore infilò la mano nella tasca interna della finanziera ed estrasse un taccuino identico a quello che usava Reigosa. «Ho cominciato a ricostruire i movimenti del signor Manning durante i tre giorni che ha passato in città prima di essere ucciso, e ho diversi testimoni di fiducia che lo collocano nelle immediate vicinanze della fabbrica di Eliseo Urbach, in calle de los Talleres, almeno in tre occasioni diverse. Ho anche altri testimoni che l’hanno visto uscire da uno dei magazzini Urbach la sera precedente al suo omicidio.»

Reigosa guardò il collega con interesse.

«Il magazzino di calle de Montcada?» chiese.

Ollero annuì soddisfatto.

«In un’indagine normale, adesso voi e io staremmo interrogando il signor Urbach senza tanti complimenti. Ne deduco che se ancora non lo abbiamo fatto è unicamente per il vostro coinvolgimento personale nel caso, giusto?»

Reigosa sostenne senza battere ciglio lo sguardo dell’ispettore.

«Voi siete un uomo giovane, Ollero», disse alla fine. «E non crediate che non ammiri il vostro impeto. Ma ci sono volte in cui un po’ di diplomazia si rivela più efficace di qualsiasi altra mossa più diretta. Fidatevi di me.»

«Io mi fido di voi, ispettore», si affrettò ad assicurare Ollero, con un po’ troppa enfasi. «Anche se siete voi a non fidarvi di me.» E prima che Reigosa potesse protestare, il poliziotto gli chiese: «Perché ieri non mi avete parlato di quell’uomo vestito di nero che il signor Palafox ha pedinato per tutta la città? Perché avete tenuto me e il capo Daroca all’oscuro della possibile relazione esistente tra la morte di Oliver Manning e la ragione per cui siete stato chiamato due sere fa al convento di Santa Clara? Perché sono dovuto venire a sapere soltanto ieri sera alle nove che l’omicidio di un protettore all’arco di Trentaclaus vi ha lasciato molto meno sorpreso di me?»

Reigosa non ebbe modo di rispondere a quella serie di domande scomode. La carrozza si fermò in quell’istante nel Llano de las Comedias, e Ollero aprì il suo sportello senza aspettare le spiegazioni del collega.

L’agente Antúnez li aspettava fumando una sigaretta tutto tranquillo sulla Rambla.

«Ispettore. Ispettore», salutò entrambi, chinando rispettosamente la testa. Quindi gettò a terra il mozzicone lasciato a metà e annunciò: «È pronta per andare all’obitorio».

Reigosa si girò di scatto verso Ollero con l’aria perplessa.

«Non vi preoccupate: questa vittima non ci farà penare.»

L’ispettore Ollero e l’agente Antúnez si avviarono verso l’arco di Trentaclaus con il passo deciso e orgoglioso di due giovani guardiani della legge, e Reigosa li seguì avvertendo, non per la prima volta in quelle ultime settimane, che il tempo cominciava a sfuggirgli di mano come sabbia tra le dita di un bambino.

La casa del protettore assassinato era ancora avvolta in una cappa di silenzio quasi inverosimile in quella parte della Rambla, e neppure la luce del sole contribuiva a migliorare l’aspetto dei suoi muri fatiscenti. Le porte di tutte le stanze erano aperte, e all’interno c’era un parapiglia di abiti sporchi e oggetti umili che Reigosa esitò ad attribuire unicamente alla perquisizione eseguita dai suoi uomini. L’odore della casa era lo stesso che la sera prima aveva fatto dedurre a Palafox la presenza di un cadavere precedente a quello del suo proprietario. Ma in realtà l’ispettore faceva una gran fatica a distinguere il fetore della carne decomposta da quello della semplice mancanza di igiene accumulata lì dentro nel corso di anni di miseria e sventura.

Il cortile sul retro che aveva nominato Ollero era un semplice rettangolo di terra incastrato tra quattro muri.

Un fosso largo tre palmi si apriva in un angolo del cortile e lì accanto, in un borsone di tela, c’era un ammasso di ossa giallastre e di carne rinsecchita.

«L’agente Antúnez ha notato che in questo punto il terreno era stato smosso di recente», spiegò l’ispettore Ollero. «Ha scavato un po’ e ha trovato questo.»

Reigosa si avvicinò al borsone e constatò che in effetti si trattava di un cadavere umano. Un cadavere antico. Un cadavere che sulle ossa conservava ancora gran parte di carne e pelle, tramutate adesso in una sorta di pergamena scura che l’ispettore non si trattenne dal toccare con la punta delle dita, e la cui testa dalle orbite vuote era coronata da un bordino di capelli altrettanto scuri e sbiaditi.

«Complimenti, agente», disse ad Antúnez, che guardava soddisfatto i suoi due superiori dalla porta del cortile. «Una scoperta eccellente.»

Ollero si avvicinò a Reigosa e si accovacciò accanto al cadavere.

«Ecco qui l’inquilina originale del sarcofago di pietra, ispettore. Adesso dobbiamo solo scoprire chi ha eseguito lo scambio tra lei e quella giovanetta che avete visto al convento di Santa Clara.» Ollero si rimise in piedi e aggiunse: «Chi, come e perché».

Anziché esprimere il suo accordo con il collega, Reigosa tornò a sfiorare con le dita la pelle rinsecchita di quell’antico cadavere e immaginò per un attimo, senza volere, di sfiorare una certa donna senza voce, senza nome e senza memoria che adesso forse era ancora seduta davanti a una finestra aperta in una stanza della Neothermas.

Una gran folla di sfaccendati brulicavano come formiche distratte sotto i portici di plaza de San Sebastián. Come ogni giorno dell’anno, il mercato aveva quel mattino un aspetto irresistibile per due ragazzini senza un soldo in tasca come Adela e Patricio. Il campionario di cianfrusaglie di ogni tipo che riempivano le decine di bancarelle, bauli e tovaglie stese a terra sarebbe bastato, in qualsiasi altra occasione, ad attrarre come un magnete l’attenzione della domestica di Palafox e a farle scordare per almeno mezz’ora tutti i suoi obblighi. Questa volta, invece, Adela non si concesse neanche una rapida occhiata alla bancarella del suo venditore preferito di oggetti di fil di ferro.

«Eccolo lì!» esclamò Patricio indicandole un punto sull’altro lato della piazza, a un passo dalle mura dell’antico convento di San Sebastián. «Lo sapevo che voleva parlarti!»

Adela non fece domande. Continuò a camminare accanto a Patricio in mezzo alle bancarelle, e solo dopo qualche istante le parve di individuare tra la folla il viso che stavano cercando.

«È molto bello», sussurrò. «E molto giovane.»

Il ragazzo stava in piedi accanto alla pietra chiara del convento, all’angolo tra la piazza e calle del Consulado. L’abbigliamento e l’espressione del suo viso non suggerivano nulla di indecente, ma c’era qualcosa nel suo atteggiamento che rivelava in maniera sottile la natura del commercio che l’aveva portato sin lì. Il braccio sinistro su un fianco, il piede destro leggermente avanzato, la schiena appoggiata al muro: il triste linguaggio universale della carne in vendita. Era un ragazzo dalla pelle olivastra, non molto più grande di Adela, con i capelli lunghissimi, quasi da donna, e due occhi grandi che guardavano davanti a sé con espressione ostinata. I tratti del viso erano dolci e attraenti, il corpo piccolo e magro. Indossava abiti modesti e dai colori spenti, un po’ come tutti i ragazzini della città: pantaloni arrotolati al ginocchio, camicia sbottonata sul petto e un paio di sandali che mettevano in mostra due piedi di dubbia igiene.

Senza sapere il perché, Adela provò un’istantanea simpatia per quel ragazzo, e anche, in fondo al cuore, una profonda compassione.

«Boris, lei è Adela», li presentò Patricio quando lo raggiunsero. «Adela, lui è Boris.»

Il ragazzo non porse la mano a Adela e non cambiò espressione.

«Non voglio parlare con la polizia», dichiarò con una voce profonda che sorprese anche la domestica di Palafox.

«Non devi farlo.»

«Non voglio neanche parlare con il tuo proprietario. Io conoscevo la signorina Alicia, sai?»

«La signorina Alicia?»

«La donna che il tuo proprietario ha quasi ammazzato.»

Adela ebbe l’impressione di ricevere uno schiaffo in piena faccia. Era abituata a sentire ogni genere di allusione sgradevole sul signor Palafox nelle circostanze e dalle persone più inaspettate, ma quella era la prima volta che uno sosteneva di avere conoscenza diretta del famoso incidente che aveva rovinato per sempre la carriera e la reputazione del suo padrone.

«Non è il mio proprietario, è il mio padrone», protestò comunque, ricomponendosi in fretta. «E quello è stato un incidente.»

«Un incidente.» Le labbra di Boris si inarcarono in un modo che risultò fascinoso e impertinente insieme. Un bel sorriso che rivelava un sentimento sgradevole. «È quello che hanno detto alla signorina Alicia quando si è svegliata e ha scoperto cos’era successo. Io vivevo nella sua stessa strada, sai?»

Il ragazzo si interruppe, lasciando intendere che stavolta la domanda non era retorica. Fu Patricio a rispondergli.

«Davvero?»

«Era una signorina molto simpatica. Tutta la sua famiglia lo era. Ogni tanto mi affidavano a lei quando ero piccolo, prima che mio padre morisse e buttassero fuori di casa me e mia madre.» Il viso di Boris si indurì. «Adesso non le affiderebbero neanche un geranio.»

«Vuoi dire che risente ancora delle conseguenze di... quello?»

Boris guardò Patricio con i suoi grandi occhi grigi.

«Senza il girello non riesce quasi a camminare. Il proprietario della tua amica le ha distrutto non so cosa in testa e non riesce più a controllare le gambe. Ma questo non è il peggio. Il peggio», sentenziò il ragazzo, voltandosi verso Adela e colpendosi due o tre volte la tempia con la punta dell’indice lungo e scuro, «è qui dentro.»

Adela sostenne lo sguardo di Boris senza concedersi la debolezza di arrossire o di mutare espressione.

«Non siamo qui per parlare del signor Palafox», ribatté. «Siamo qui per parlare della ragazza bionda che lavorava nella casa di Leandro Moreira. Dice Patricio che tu la conoscevi.»

Anziché risponderle, Boris si girò su se stesso e si avviò verso calle del Consulado con un’andatura effeminata che nessun frequentatore del porto di Barcellona avrebbe potuto fraintendere. Adela guardò Patricio con aria perplessa, ma lui fece una smorfia e si mise a seguire il ragazzino di strada mimando le sue mossette finché Adela non gli diede una sberla per farlo smettere. Patricio emise un gemito di protesta, ma non perse il sorriso. Prendendo la sua amica sottobraccio, continuò a camminare dietro a Boris con lo sguardo fisso sui suoi polpacci ossuti.

Quando si lasciarono alle spalle l’imponente convento di San Sebastián e raggiunsero il muro posteriore della Lonja, il ragazzo imboccò il vicolo che separava i due edifici e si infilò nella rientranza di un portone murato che Adela e Patricio non faticarono a capire a cosa servisse normalmente.

«Ho già detto al tuo amico tutto quello che so», le disse Boris quando lo raggiunsero. «Le avrò parlato al massimo un paio di volte. Non è rimasta in strada più di quindici giorni, almeno non nelle strade che frequento io. È sbucata dal nulla a metà luglio, verso la festa del Carmine, e non l’abbiamo più vista dalla fine della settimana scorsa. Attirava l’attenzione, con quei capelli così biondi e quegli occhi così azzurri. Ecco perché l’ho notata. Puttanelle da quattro soldi ce ne sono un sacco, ma così giovani e con quell’aspetto proprio no. Sapete cosa intendo.»

Adela non riuscì a evitare di diventare rossa, e le diede un gran fastidio.

«Come si chiamava?» si affrettò a chiedergli.

«Si faceva chiamare Eva, ma di sicuro non si chiamava così», rispose Boris stringendosi nelle spalle. «In strada nessuno usa il nome vero.»

«Era inglese?»

«Inglese? Se quella era inglese, io sono russo!» rispose il ragazzo con un sorriso divertito.

Adela ci riprovò.

«Allora parlava normale, giusto? Non aveva un accento strano.»

«Parlava come te e me.»

«E ti ha raccontato qualcosa della sua vita? Da quale quartiere veniva? Perché era finita in strada?»

Boris si passò una mano tra i capelli scompigliati e si inumidì le labbra con la punta della lingua.

«Mi ha detto che sua madre era malata, che suo padre era morto da poco e che lei era l’unica a portare soldi a casa. Non mi ha detto dove viveva e dove era nata, ma non parlava come parlano le figlie del Raval. Anche lei aveva conosciuto tempi migliori, proprio come me.» La voce profonda del ragazzo tentennò in maniera quasi impercettibile. «Sapevo che batteva a Trentaclaus, ma non pensavo che lavorasse per quel porco di Moreira. A saperlo, l’avrei avvertita di stare attenta.»

«Cosa sai di lui?»

Boris impostò una smorfia di disprezzo.

«Quello che sanno tutti. Quello che dicono le povere disgraziate che hanno lavorato per lui. Che cadere nella sua rete significa toccare il fondo. I suoi clienti...» Il ragazzo scrollò la testa. «Anche nella disgrazia ci sono delle sfumature, non ti pare?»

La domanda era rivolta a Adela, e neanche stavolta era retorica. Alla domestica non sfuggì un termine così ricercato in bocca a un ragazzino di strada, «sfumature», e di nuovo si chiese che razza di storia avesse alle spalle.

«Non tutte le forme di umiliazione sono equiparabili», concordò, frugando anche lei nel vocabolario nuovo di zecca che i romanzi della signorina Urbach e la compagnia del signor Palafox avevano cominciato a fornirle. Poi gli chiese: «Sai per caso se tra i clienti di Moreira c’erano dei preti?»

«Quale protettore di Trentaclaus non ha preti tra i suoi clienti?» chiese a sua volta Boris. «Quale bordello di Barcellona non ne ha? Si vedono tutte le sere anche nelle taverne del porto, a far finta di cercare anime di marinaretti da salvare.»

«Stiamo cercando un uomo che va vestito tutto di nero», intervenne Patricio. «Tonaca lunga, cappello a falde larghe, infagottato fino al naso. Ieri a mezzogiorno l’hanno visto entrare a casa di Moreira, e poi è andato nella Ribera. Deve avere degli affari in un magazzino di Montcada, e l’hanno visto anche in plaza del Rey.»

Il ragazzo si prese qualche secondo di silenzio per guardarsi attorno e accertarsi che fossero soli nel vicolo. Quando tornò a girarsi verso Adela e Patricio, nei suoi occhi brillava qualcosa di molto simile alla paura.

«Non so chi è», bisbigliò. «Non lo sa nessuno. Ma ho sentito parlare di lui.»

Adela guardò con la coda dell’occhio Patricio e aspettò che fosse lui a chiedere:

«E cosa dicono?»

La risposta di Boris non arrivò subito, ma quando lo fece a Adela si gelò il sangue nelle vene.

«Dicono che è un angelo della morte.»

Un bambino sbucò in quell’istante in fondo a calle del Consulado e attraversò di corsa il vicolo verso il paseo de Isabel II. Passando di fronte al portone murato, fece la linguaccia ai tre giovani, ma nessuno gli diede retta.

«Un angelo della morte», ripeté alla fine Adela.

«L’hanno visto gironzolare per il quartiere di Santa Ana qualche giorno fa, quando è cominciata l’epidemia di colera. Poi l’hanno visto a Santa Maria del Mar, pochi minuti prima che un carro investisse una bambina di sei anni nella piazzetta di Montcada. È morta sul colpo.» Il ragazzo fece con la mano destra qualcosa di simile a un segno della croce. «E poi l’hanno visto di nuovo un paio di sere fa nel paseo de la Aduana, davanti alla pensione in cui hanno ammazzato quell’inglese.» Adesso Boris guardò Adela con sospetto. «È per questo che mi hai chiesto se Eva era inglese? C’entra qualcosa con l’omicidio di quell’inglese?»

Adela rispose al ragazzo con un’altra domanda:

«Quando hanno visto quell’uomo gironzolare per il quartiere di Santa Ana, non l’avranno visto per caso in calle de la Canuda?»

«Non lo so. Ma se dite che ieri è stato a casa di Moreira, e se è anche coinvolto nella scomparsa di Eva, allora devono avere ragione di sicuro.» E stavolta Boris si fece un segno della croce in piena regola. «Dev’essere un angelo della morte, un araldo della distruzione. Ovunque va, succede qualcosa di orribile.»

Adela sentì un nuovo brivido nell’udire quelle parole, ma osservò anche con rinnovata curiosità il ragazzo che aveva di fronte. Un araldo della distruzione. Un’altra espressione molto lontana dal linguaggio abituale dei delinquenti e delle prostitute di Barcellona.

«Ci avverti se lo rivedono, o se senti qualcosa di nuovo su di lui?»

Boris annuì e allungò una mano con il palmo rivolto all’insù.

Adela si frugò dentro il vestito e tirò fuori un paio di monete che il signor Palafox le aveva dato per la spesa quel mattino.

Quando le depositò nella sua mano, il ragazzo la richiuse in fretta abbozzando un sorriso. Poi uscì nel vicolo.

«Patricio sa dove trovarmi», disse. E questo fu il suo saluto.