18

L’ufficio personale del vescovo Riera era una stanza accogliente rivestita di libri e di quadri antichi, con una quantità di tappeti e mobili in stile orientale che stonava con le abitudini frugali del suo proprietario. Situato nell’ala antica del palazzo episcopale, si affacciava su plaza Nueva e dalle sue finestre si ammiravano le torri romane e la casa dell’Arcidiacono.

Del tutto estraneo all’ambiente che lo circondava, Andreu Palafox, sigaro in mano e aria di circostanza, era seduto di fronte al vescovo su una comoda poltrona bordeaux. Non era passato neanche un quarto d’ora da quando si era separato da Adela in plaza del Rey, e già sperava di averla di nuovo accanto per farsi aiutare a trovare le parole che a lui cominciavano a mancare.

«Non sapete dunque chi fosse quell’uomo vestito di nero, né per quale ragione stesse sorvegliando il nostro esame del cadavere nel sarcofago», disse in sintesi dopo aver ascoltato le svogliate risposte del religioso, che lo aveva ricevuto con il calore di sempre ma che durante la conversazione si era incupito fino ad assumere una cert’aria offesa che Palafox non gli conosceva.

«Non ho idea di chi fosse quell’uomo, e certamente non si trovava nel convento su mio ordine.»

«Allora in questo caso potreste chiedere alla madre superiora...»

Il vescovo Riera interruppe la frase di Palafox con un gesto deciso della mano.

«Non credo proprio.»

L’anatomista si toccò la stanghetta degli occhiali con la stessa mano con cui teneva il sigaro e cercò dentro di sé il coraggio necessario a contraddire, per la prima volta in vita sua, quell’anziano che tanto aveva fatto per lui dopo la morte di sua madre.

«Non ve lo chiederei mai, se non fossi convinto che è importante. Vostra Eccellenza, forse quell’uomo è implicato in maniera diretta nelle tre morti di cui mi sono occupato nelle ultime trentasei ore. La sua identità potrebbe far luce su quanto sta accadendo, o se non altro farci smettere una buona volta di andare alla cieca.»

Il vescovo si alzò dalla poltrona e si diresse a passo lento verso la finestra affacciata sul lato ovest di plaza Nueva.

«È questo il problema, Andreu», replicò il vescovo, dandogli le spalle e pronunciando il suo nome di battesimo con una familiarità che si permettevano solo Sua Eccellenza e Teresa Urbach. «La cecità. Se tu e l’ispettore Reigosa apriste finalmente gli occhi e vedeste cos’avete sotto il naso, non andreste più a caccia di uomini vestiti di nero né vi preoccupereste degli omicidi di un inglese e di un protettore di sventurate.»

Palafox attese invano che l’anziano proseguisse, quindi chiese:

«Continuate a pensare che l’apparizione di quella ragazza nei sotterranei di Santa Clara sia un miracolo, vero? Un segnale. I morti di Barcino tornano in superficie per farci vedere il declino della nostra città».

Dopo un momento di silenzio, il vescovo Riera osservò:

«L’ispettore ti ha riferito la nostra conversazione di ieri».

«Certamente.»

«E anche tu sei convinto che mi sbagli.» Il sacerdote si girò verso Palafox, che era rimasto seduto sulla poltrona bordeaux con il sigaro in mano, le ginocchia strette e la schiena dritta come un fuso. Poi tornò a concentrarsi sul panorama fuori dalla finestra. «Anche tu hai ceduto alla nuova moda della razionalità. Tutto quello che succede deve avere una spiegazione mondana. Non esistono più segni e segnali in questa vita. Tu e io siamo soltanto materia. Il prodigio non esiste.»

Palafox scrollò la testa.

«Il prodigio esiste», obiettò con sincera convinzione. «Di questo non ho mai dubitato.»

«Eppure, quando si manifesta sotto i tuoi occhi, non ti basta accettarlo.»

L’anatomista si alzò in piedi.

«È proprio perché credo nell’esistenza del prodigio che mi sento obbligato a studiare a fondo la realtà. È perché sono convinto della presenza di Dio in ognuna delle sue opere che mi sento obbligato ad ammirarle con cognizione di causa.»

Il vescovo lasciò spazio a Palafox di fronte al davanzale della finestra.

Nella piazza, un’asina da latte attendeva pazientemente che la sua proprietaria finisse di riempire le bottiglie di un paio di clienti vestite come le zingare di un romanzo di Teresa Urbach.

«Il tuo problema è sempre stato questo, Andreu. Pretendi di arrivare a Dio attraverso la ragione, ed è per questo che ignori i messaggi che Lui stesso ti sta lanciando a gran voce. L’orgoglio della tua scienza ti offusca l’intelletto e ti condanna a vivere nel terrore di un’ignoranza che non è degna di te.» Gli occhi acquosi dell’anziano si fissarono in quelli di Palafox. «Tu sei un privilegiato, un eletto, ma hai così tanta paura del tuo dono che ti ostini a sottometterlo sempre al giogo della ragione.»

«Il mio dono, Vostra Eccellenza, non è tale. Il mio dono è una condanna, e l’unico aspetto divino che possiede è...» L’anatomista non trovò le parole e finì per dire una cosa di cui si sarebbe pentito un istante dopo: «Confondere un dono con una malattia è pericoloso quasi quanto confondere un miracolo con un omicidio».

Il vescovo impallidì visibilmente. Al posto della sua solita espressione bonaria, già incupita durante la chiacchierata, si materializzò una maschera incomprensibile che somigliava ben poco al viso dell’uomo che Palafox conosceva da quando aveva l’uso della ragione.

«Non avrei mai pensato, Andreu, che un giorno mi avresti deluso», mormorò. «Neppure quando ti ho visto rinchiuso in quel sanatorio, circondato da pazzi schiumanti e immerso nello stupore di non so quali rimorsi inculcati nel tuo spirito dalle persone più ignobili, neppure allora ho temuto che ti saresti lasciato strappare il tuo dono più prezioso. Evidentemente mi sbagliavo.»

Quelle parole erano come uno schiaffo per Palafox.

«Se il mio dono è reale», riuscì comunque a ribattere, «se le immagini che vedo sono davvero frammenti del passato esterni a me e non semplici allucinazioni personali, se davvero il mio spirito si muove fuori dai limiti del tempo degli uomini ed è in contatto permanente con quello che voi chiamate il tempo sacro, se tutto questo è vero, Vostra Eccellenza, credetemi quando vi dico che quella ragazza non era una fanciulla romana. Quella ragazza era una povera bimba di Trentaclaus che qualcuno ha ucciso e deciso chissà perché di trasformare in un falso miracolo. E per farlo hanno cercato di servirsi di voi e di me.» Palafox posò una mano sul braccio del vescovo. «Permettetemi di parlare con la madre superiora di Santa Clara. Vi prego.»

Due gabbiani bianchi come la neve, forse gli stessi che avevano interrotto un’ora prima le sue visioni in plaza de San Jaime, solcarono il cielo di plaza Nueva in direzione di San Pedro.

Ai piedi delle torri romane, una bambina tutta sola saltava felice la corda cantando una canzone che non raggiungeva le finestre del palazzo episcopale.

Il vescovo addolcì i lineamenti del viso e guardò Palafox con un’aria benevola che somigliava a quella di sempre.

«Lascia che sia io a parlarle», disse con un tono altrettanto ammorbidito. «Se qualcuno a Santa Clara sa chi era quell’uomo vestito di nero e cosa ci faceva l’altra sera in convento, il primo a doverne essere informato sono io.» E un attimo dopo aggiunse: «Torna a trovarmi domani. Ma fino ad allora, cerca di non cacciarti nei guai. E adesso, dimentichiamoci di questa conversazione».

Cinque minuti più tardi, abbandonato il palazzo episcopale e tornato nell’aria densa e calda di Barcellona, Palafox provò un sollievo inaspettato; un benessere fisico istantaneo che lui stesso sulle prime non riuscì a spiegarsi. Per alcuni istanti, non gli importò affatto che la riunione con il vescovo fosse andata infinitamente peggio del previsto, che non avesse ricavato una sola informazione utile da fornire all’ispettore Reigosa, o che dalla bocca dell’uomo che lo aveva sempre difeso fossero uscite parole che non si sarebbe mai immaginato di sentire. Poi gli parve di capire il perché. Il sole caldo sulla testa, la brezza leggera sul viso, l’odore lontano del mare... Quelle sensazioni minime gli servivano adesso per sentirsi vivo. Vivo e reale. Fermamente saldo nel presente. In salvo da oscure teorie e da pensieri vertiginosi, e libero, anche se solo per poco, dalla condanna o dal privilegio della sua condizione.

Immerso nella corrente del tempo, come un qualsiasi essere vivente.

Fuori dal tempo sacro come quella bimba che cantava saltando la corda in plaza Nueva, o come l’asina da latte che imboccava calle del Obispo, trascinando il suo carico con rassegnazione.

L’anatomista rimase ancora qualche istante vicino al muro del palazzo episcopale, ad ascoltare la canzone della bimba e a godersi il piacevole sole estivo, poi si avviò verso casa. Le campane della cattedrale avevano appena suonato le undici. Un gruppetto di monache agostiniane avanzava in fila indiana lungo calle de San Severo verso l’antico quartiere ebraico, lente e coordinate come ingranaggi della Baviera, mentre a San Jaime, di fronte al Palazzo dell’Udienza, due soldati impugnavano le baionette e osservavano la gente con aria marziale.

«Ondata di delitti a Barcellona!» urlava a pieni polmoni uno strillone in calle de la Ciudad. «Omicidi e profanazioni! Ondata di delitti a Barcellona!»

Palafox comprò una copia e resistette alla tentazione di aprirla prima di essere arrivato a casa. Adela non gli venne incontro alla porta, ma la sua assenza non lo sorprese. Per un attimo, mentre si sfilava lentamente la finanziera e il cappello, si pentì di aver condiviso con la domestica quel ricordo infantile che sentiva ancora profondamente intimo e umiliante. Poi salì nel laboratorio con il giornale, lo aprì sul tavolo da lavoro e Adela svanì immediatamente dai suoi pensieri.

Venti minuti dopo, quando Teresa si affacciò alla sua porta, l’anatomista stava ancora sfogliando su e giù le pagine del quotidiano senza sapere cosa pensare di tutta quella storia.

«Se avessi cattive intenzioni, saresti già morto o come minimo ti ritroveresti con la casa svuotata», lo salutò la donna. «Non avete mai sentito parlare di chiavistelli, qui dentro?»

Per tutta risposta, Palafox richiuse il giornale di botto con un sospiro.

«Si è rotta la serratura», borbottò. «Ma Adela dovrebbe essere già tornata a casa. Non l’hai vista?»

Teresa aggirò con cautela le due casse di legno che quel mattino ostacolavano l’ingresso del laboratorio e si avvicinò a Palafox. Indossava un abito violetto dal taglio piuttosto audace con un cappellino rotondo pieno di fiori e nastrini, e nel complesso non aveva affatto l’aspetto di una che sta per andare in visita all’obitorio di una caserma militare.

«Temo di no», rispose. «Una lettura interessante?»

Palafox distolse finalmente lo sguardo dal giornale, e appena la vide la sua fronte aggrottata si distese all’istante.

«Hai intenzione di far resuscitare qualche morto stamattina?» le chiese, baciandole la mano.

«Non era questo il piano?» rispose Teresa con un sorriso incantevole. «Magari ieri sera non ho capito bene...»

Palafox le lasciò la mano e ricambiò il suo sorriso.

«Sarà interessante vedere la faccia dell’ispettore quando ci vedrà arrivare.»

«L’ispettore è un galantuomo. La sua faccia si terrà la sua opinione per sé finché io sarò presente.» La scrittrice si avvicinò al tavolo da lavoro di Palafox e sfiorò con le dita lo sportellino dorato di un orologio da tasca appena smontato. Poi guardò il giornale e chiese: «Allora l’hai già letto?»

«L’hai letto anche tu?»

«Uno dei pochi vantaggi di essere una scrittrice conosciuta è che le stamperie della città si affannano a riempire ogni mattina il mio ufficio di libri e giornali... E il titolo del Diario de Barcelona di oggi era così sensazionale che ho pensato bene di dedicargli i dieci minuti della mia colazione. Ondata di delitti a Barcellona. Chi potrebbe resistere alla tentazione di leggerlo?»

Palafox riprese in mano il giornale e lo aprì sulla prima pagina.

«Parla degli omicidi di Oliver Manning e di Leandro Moreira», indicò. «Con nomi e cognomi, e con tutti i dettagli precisi. Collega il primo omicidio allo sciopero e nomina la fabbrica di tuo padre.»

«La nomina insieme anche ad altre fabbriche», precisò subito Teresa. «Quello scribacchino sostiene che il signor Manning fosse un ingegnere venuto a riparare i telai manomessi dagli operai in sciopero, perciò elenca le possibili fabbriche che potevano averlo ingaggiato. Niente di più. Non nomina il biglietto da visita e non collega neanche questo omicidio a quello di Trentaclaus. O al massimo li collega solo per aggiungere legna al fuoco.»

Palafox richiuse il giornale.

«E il miracolo dell’Annegata?» chiese.

«Quello è più interessante, sì», annuì Teresa.

«Il corpo incorrotto di una fanciulla romana appare in un sarcofago sigillato da due millenni nelle fondamenta del convento di Santa Clara», lesse qua e là Palafox. «Le monache collegano il ritrovamento ai pianti spettrali che si sentivano da generazioni nel fondo di un pozzo situato nel patio del convento. Il pozzo che le monache chiamano dell’Annegata. Un esperto ispettore del Corpo di Vigilanza di Sua Maestà e uno stimato rappresentante della professione medica testimoniano che il ritrovamento è autentico e l’episcopato lo conferma in via ufficiosa. L’Annegata ha già ricevuto cristiana sepoltura nel cimitero del convento, ma la sua apparizione ha cominciato a generare ogni sorta di congettura che la ricollega alle ore convulse vissute in città. Lo sciopero operaio, l’epidemia di colera, gli omicidi... e una fanciulla romana che risorge dai morti per annunciarci forse che la fine del mondo è vicina.»

Teresa fece una smorfia divertita.

«La storia dello ‘stimato rappresentante della professione medica’ è una vera chicca», ridacchiò. «Poi non mi venire a dire che in città non ti rispetta nessuno, eh?»

Stavolta Palafox non sorrise.

«Lo sai cosa significa?»

«Significa che le cose cominciano ad avere un senso», rispose senza esitazione Teresa. «Dovresti essere contento. Di sicuro l’ispettore lo sarà, sempre che l’abbia già letto.»

Palafox guardò la sua amica con aria sorpresa.

«Cos’è che comincia ad avere un senso?»

«Né tu né l’ispettore vi spiegavate come mai vi avessero chiamato l’altra sera al convento. Perché volessero rendervi testimoni dell’apparizione di un cadavere che non potevate portare via e che non vi lasciavano neanche esaminare come si deve. E quando avete visto che la fanciulla incorrotta non era tale, non capivate che senso avesse mettere in scena quell’assurdo miracolo per un pubblico di monache disposte a credere ciecamente a qualsiasi cosa.» Teresa si strinse nelle spalle. «Mistero risolto.»

Palafox ci pensò su.

«Ma chi ha dato la notizia...?» cominciò.

«Ma cosa importa?» lo interruppe subito Teresa. «La madre superiora, la novizia che vi ha aperto la porta, quei presunti operai che hanno trovato il sarcofago, l’Uomo in Nero. O persino il tuo amico vescovo, chi lo sa? Quello che importa davvero è che il miracolo è diventato pubblico, e adesso tu e l’ispettore siete due testimoni che la stampa può nominare con grande soddisfazione. Te l’avevo detto che sarebbe andata così.»

«Allora era tutto previsto.»

«Nessuno mette in scena un miracolo così elaborato solo per dare un argomento di conversazione a un gruppo di clarisse annoiate.» Teresa fece una smorfia di moderato disprezzo. «Adesso tu e l’ispettore dovete solo scoprire a chi interessa che la stampa si metta a diffondere l’idea di una fanciulla spettrale che risorge dalla tomba per annunciarci la fine del mondo.»

Palafox piegò in due il giornale e lo lanciò in un angolo del laboratorio.

«L’ispettore e io» ripeté. «Ti sei già esclusa dalla nostra indagine?»

«Ma certo che no», protestò Teresa con un sorriso. «Cercavo solo di essere prudente...»

«Qualche idea?»

«Molte. Ma abbiamo appuntamento in obitorio tra quindici minuti esatti, e temo che a quest’ora le strade siano piene di traffico», sentenziò la scrittrice, avviandosi verso la porta con i nastrini del cappello che ondeggiavano a ritmo. «Su, non facciamo aspettare l’ispettore.»

Palafox seguì Teresa fuori dal laboratorio, chiuse la porta a chiave e scese con lei la scala che portava al piano nobile dell’edificio.

«Vado a prendere le mie cose», disse sulla porta della sala. «Se vuoi, aspettami in carrozza.»

Teresa riprese a scendere le scale.

«Non dimenticare la valigetta», si raccomandò. «E approfittane per lasciare un biglietto a Adela. Dille che oggi non torni a pranzo.»

«Oggi non torno a pranzo?»

Teresa si fermò a metà della scalinata e alzò la testa verso Palafox, che la fissava con aria incuriosita.

«Mio padre ci invita a pranzo al Salon Royal. Anche l’ispettore. Vuole parlare con voi.»

«Allora la vostra chiacchierata di ieri sera...»

«Oggi scopriremo com’è andata», proseguì Teresa. «Lo sai quant’è bravo mio padre ad ascoltare con attenzione, aggrottare la fronte e non dire niente finché non sa per certo come muoversi. Mi ha detto solo che stamattina avrebbe fatto un po’ di domande in giro. E che dovevamo aspettarlo all’una e mezzo al Salon Royal.»

Palafox annuì con aria funebre. Non si preoccupò di nascondere quanto lo agitasse la prospettiva di rivedere Eliseo Urbach; Teresa lo conosceva troppo bene e sapeva che l’anatomista non era mai stato in grado di controllare quello strano misto di rispetto e terrore che gli infondeva suo padre. In sua presenza, Palafox si sentiva immancabilmente come un bambino di dieci anni di fronte al preside della scuola. Era andata sempre così nei suoi anni di studio alla Facoltà di Medicina di Barcellona, e poi nei giorni della sua caduta in disgrazia dopo l’incidente, e anche in quei tre mesi di soggiorno a Londra che il signor Urbach gli aveva offerto nell’estate del 1851.

«Adesso mi spiego il vestito e il cappellino...» non rinunciò a osservare, con una disinvoltura non del tutto convincente.

Teresa gli strizzò un occhio.

«Andrà tutto bene, vedrai», lo rassicurò. «Sarà interessante vedere mio padre a tavola con un poliziotto. E conoscendolo, di sicuro a quest’ora saprà già chi era Oliver Manning, cosa ci faceva con un biglietto da visita del 18 di Berkeley Square in tasca e perché ieri hai visto entrare nel suo magazzino quell’Uomo in Nero. Sempre che non lo sapesse già ieri sera, ovviamente.»

Palafox annuì di nuovo.

«Sì, sarà proprio interessante.»

«E in caso contrario, per lo meno sarà breve. Nei giorni lavorativi, per quanto possa essere piacevole la compagnia, mio padre non si concede mai più di mezz’ora per pranzo.» Sulle labbra di Teresa si disegnò un sorriso complice. «Ti aspetto in carrozza», aggiunse, e si riavviò verso il patio con un passo ora vagamente saltellante.