Quando Teresa Urbach lasciò quel mattino la clinica psichiatrica Neothermas, una spessa cortina d’acqua velava i profili di calle de la Canuda. Tra lei e la carrozza c’erano giusto un paio di passi, eppure la scrittrice montò in cabina con gli abiti e il cappello fradici. Non ci badò, forse non se ne accorse neppure. L’unica cosa di cui si accorgeva Teresa quel mattino era la rabbia devastante che provava, e l’impotenza, e la disperazione pura e semplice di non sapere cosa fare.
«Torniamo a casa», ordinò al cocchiere, scoprendosi il capo e passandosi una mano distratta sulla fronte grondante. «Ma prima devo vedere l’ispettore Reigosa.»
L’uomo non fece domande. Con un verso gutturale fece ripartire i cavalli, e la carrozza prese ad avanzare in direzione della Rambla sotto la pioggia calda che cadeva incessante dalle prime ore del mattino.
Erano già quasi sul pla della Boqueria, quando Teresa notò i due giornali piegati in un angolo dell’abitacolo. Meccanicamente, prese il primo e guardò i titoli in prima pagina. Si trattava del Diario de Barcelona, lo stesso che ventiquattr’ore prima aveva reso pubbliche le prime notizie sul ritrovamento della Dama del Pozzo e sugli omicidi di Oliver Manning e Leandro Moreira. «Giù le mura!» urlava a caratteri cubitali il titolo di quel mattino, e sotto, tre colonne fitte informavano sull’avvio delle demolizioni, sul piano di azione previsto per i lavori e sul punto d’incontro dei volontari che desideravano iscriversi all’«eroica impresa» di liberare una volta per tutte Barcellona dalle sue mura medievali.
Il secondo giornale era La voz de la ciudad, che Teresa si vantava di non aver mai neppure sfogliato e che dal numero di pagine sembrava un giornalino di parrocchia con ambizioni da grande quotidiano. In prima pagina non si parlava delle mura cittadine, ma campeggiava una sorta di riassunto di tutte le informazioni sensazionaliste pubblicate il giorno prima sul Diario de Barcelona, con due piccole aggiunte che misero leggermente a disagio la scrittrice. «La profezia delle oche», recitava uno dei titoli in fondo alla pagina, e nell’articolo si raccontava il mistero delle ventisei oche morte il giorno prima tra il chiostro della cattedrale e il Salon Royal sulla Rambla. Morti inspiegabili, il cui significato sembrava chiarissimo per l’autore dell’articolo: si avvicinava un tempo di sventura per Barcellona, e persino gli animali sacri cercavano di farlo capire ai miscredenti che vi abitavano. Un altro titolo parlava del «nero araldo della morte» che vagava per la città annunciando disgrazie imminenti, e il giornalista citava diversi passanti che erano stati testimoni della sua comparsa poco prima che si verificassero eventi spaventosi. Una bambina investita davanti a Santa Maria del Mar, un palazzo crollato nella zona del Portal Nuevo, la morte di un protettore di Trentaclaus e di un mendicante nel canale di scolo del Riego Condal...
«Gli Arsenali, signorina Urbach», annunciò in quel momento la voce gentile del cocchiere, insinuandosi attraverso la grata che metteva in comunicazione l’abitacolo con la cassetta e costringendo Teresa a distogliere la sua attenzione dalle notizie del giornale. «Cominciamo da qui a cercare l’ispettore Reigosa?»
La scrittrice guardò fuori dal finestrino e notò che la pioggia foderava ancora le forme e i colori del mondo esterno. Le imponenti mura medievali degli Arsenali erano appena una macchia scura ritagliata sopra le mura del Mare, e i militari che controllavano l’accesso alla città sembravano quel mattino particolarmente sbiaditi e infelici.
«Ottima idea», convenne Teresa, piegando in quattro il giornale e buttandolo con disprezzo all’altro capo del sedile. E cercando con lo sguardo il cocchiere, che la fissava da cassetta con aria perplessa, aggiunse: «Se quei soldati ci fermano, lasciate parlare me».
Aquilino Carrera alzò lo sguardo dai fascicoli aperti sullo scrittoio e guardò Octavio Reigosa con aria afflitta.
«Vi stavo aspettando, ispettore», disse, sollevando goffamente il suo corpaccione da vecchio prematuro e andando incontro a Reigosa con la mano tesa.
Una luce crepuscolare illuminava l’ufficio del direttore della Neothermas. La pioggia formava una cortina translucida al di là del vetro, e il suo picchiettio era triste almeno quanto l’aspetto dello psichiatra. Reigosa notò al primo sguardo la riga disfatta dei capelli, le guance non rasate, il colletto della camicia storto, e la somma di tutte quelle disattenzioni, in un uomo solitamente impeccabile come Carrera, gli rivelò l’entità del problema che avevano di fronte.
«Sono venuto prima possibile, dottore», rispose Reigosa, stringendo la mano molliccia e umida del suo ospite. «Mi hanno trattenuto certe questioni legate ai fatti di ieri notte.»
Il dottor Carrera annuì con aria plumbea.
«La signorina Urbach è stata qui un’ora fa», lo informò. «Mi ha comunicato che vi state occupando del destino di quella sventurata. Volete forse...?»
L’ispettore rifiutò con un cenno del capo l’invito dello psichiatra, che con la destra indicava una delle poltrone del suo ufficio e anche, indirettamente, le bottiglie di liquore disposte in bella mostra contro la parete.
«Preferisco vedere quanto prima il signor Palafox.»
Il dottor Carrera distolse lo sguardo da Reigosa e lo posò sui due impiegati del sanatorio che avevano accompagnato l’ispettore nel suo ufficio.
«Grazie, signora Daudí», disse, rivolgendosi in tono rispettoso all’amministratrice della Neothermas. «Potete tornare alle vostre faccende. E anche voi potete tornare al vostro posto, signor Morel. Se qualcuno chiede di me per la prossima ora, dite che non sono disponibile.»
Il signor Morel chinò il capo e scomparve all’istante lungo il corridoio in compagnia della signora Daudí. Era un uomo di mezz’età, con la barba e l’aria circospetta, e quel mattino aveva accolto l’ispettore con un atteggiamento molto diverso da quello del giorno prima, quando aveva cercato in tutti i modi di impedirgli l’ingresso in sanatorio. Anche la signora Benedicta Daudí si era dimostrata molto più gentile con lui questa volta. Evidentemente, il nuovo ricovero d’urgenza di Andreu Palafox la sera prima aveva modificato lo status di Reigosa all’interno della struttura.
Quando furono rimasti soli, il dottor Carrera chiuse la porta dell’ufficio e guardò l’ispettore con la testa leggermente inclinata.
«Non so se sia una buona idea farvi vedere adesso il signor Palafox», obiettò. «Temo che il suo stato di salute non gli consenta ancora di ricevere visite.»
Reigosa annuì impaziente.
«Sì, ha già detto lo stesso alla signorina Urbach. È venuta a cercarmi quando è uscita di qui e mi ha detto che il signor Palafox non è raggiungibile fino a nuovo ordine.» L’ispettore sostenne con fermezza lo sguardo dello psichiatra. «Ma la mia non è una visita di cortesia, dottore. Io non sono qui in qualità di amico del signor Palafox. Io ho assoluto bisogno di parlare con lui in merito ai fatti di stanotte.»
«Ed è precisamente quanto dobbiamo evitare», replicò all’istante il dottor Carrera. «Non credo che il signor Palafox sia in condizione di parlare con voi della notte scorsa.»
«Cosa intendete dire?»
«Il signor Palafox è molto confuso. Confuso e alterato. Questi ultimi giorni hanno significato una prova estremamente gravosa per lui.» Lo psichiatra guardò Reigosa con espressione ambigua. «Voi, ispettore, siete abituato a trattare quotidianamente con cadaveri e assassini. Il vostro lavoro vi ha preparato a non perdervi d’animo dinnanzi a visioni come quella di un inglese sgozzato o di una giovane sepolta in un sarcofago di pietra. Per il resto dei comuni mortali, tuttavia, assistere a questo tipo di scene o ritrovarsi implicati in questo genere di violenze suscita una tensione che si va accumulando nella mente, e che a volte finisce per scoppiare in maniera inaspettata.»
L’ispettore si concesse qualche istante di riflessione prima di rispondere:
«Con il dovuto rispetto, dottore, il signor Palafox non fa parte del resto dei comuni mortali. Lui è un esperto di medicina legale. Se c’è qualcuno più abituato di me a cavarsela con i cadaveri, quello di sicuro è lui».
Il dottor Carrera scrollò la testa con aria sconsolata.
«Il signor Palafox non è più un medico legale, ispettore. Lo era un tempo, ma ormai non lo è più. Ed è proprio questo il problema.»
«Il problema?»
«Tutta questa situazione ha smosso acque molto profonde nella mente del vostro amico», spiegò lo psichiatra. «Tre anni fa, il signor Palafox ha lasciato la Neothermas contro il mio parere professionale. Il suo periodo di cura, come vi ho detto già più volte, non era giunto al termine. Il signor Palafox non era un uomo sano quando ha lasciato la nostra clinica, e gli eventi di questi ultimi giorni hanno riaperto la ferita che allora non avevamo avuto il tempo di saldare completamente.»
L’ispettore guardò altrove e si mise a fissare le poltrone, il tavolo e le bottiglie di liquore contro la parete. Adesso sì che ne avrebbe gradito un bel sorso.
«Quanto accaduto tre anni fa non ha nulla a che vedere con la situazione attuale del signor Palafox», obiettò senza convinzione.
«Non è così che la vedo io. Voi siete il poliziotto, ovviamente, ma non mi pare irragionevole ipotizzare che gli episodi degli ultimi tre giorni puntino tutti nella stessa direzione. E questa direzione è l’infermità del signor Palafox.»
Reigosa ascoltò quelle parole emettendo un verso spazientito. L’infermità del signor Palafox. Immobile al centro dell’ufficio, sostenne lo sguardo fermo dello psichiatra e rispose:
«A me, invece, pare del tutto irragionevole collegare la salute del signor Palafox ai cinque cadaveri su cui indago dai primi di agosto. Mi pare così irragionevole che non vi chiederò neppure su cosa vi basate per affermare una simile corbelleria».
Aquilino Carrera abbozzò un mezzo sorriso sgradevole.
«Davvero, ispettore? Ero convinto che aveste parlato con il vescovo Riera...»
«Siete ben informato.»
«Saprete allora come la pensa Sua Eccellenza sull’infermità del signor Palafox. E conoscerete anche le sue idee un tantino... peculiari sui fatti degli ultimi giorni. Segni e segnali, ispettore.»
Reigosa scrollò la testa incredulo.
«Non crederete anche voi a quelle assurdità, dottore.»
«Quello che credo io, dottore, è che qualcuno si è preso la briga di mettere il signor Palafox al centro di una trama di segni e segnali fitta almeno quanto questo tappeto», affermò lo psichiatra battendo con i tacchi a terra. «Il cadavere incorrotto di una fanciulla romana, un araldo del progresso assassinato in una pensione del porto, un fantasma vestito di nero che se ne va a spasso per la città spargendo morte e distruzione... Il nome del signor Palafox scritto su quel biglietto da visita, accanto al nome della Neothermas e della clarissa che poche ore fa gli è morta tra le braccia...» Il dottore si accarezzò il doppio mento che gli sporgeva dal colletto della camicia. «La signorina Urbach me l’ha raccontato stamattina. Si è scoperto che Felicia Dedéu era la madre superiora del convento di Santa Clara, e non la paziente che siete venuto a trovare qui ieri, giusto?»
L’ispettore annuì impercettibilmente.
«La stessa paziente che il signor Manning è venuto a trovare poche ore prima di essere brutalmente assassinato», precisò. «Che ruolo riveste all’interno del sistema di segni e segnali del vescovo Riera?»
Lo psichiatra sorrise di nuovo.
«Io non faccio il teologo, ispettore. E neppure il detective. Io dico solamente che il signor Palafox è immerso da tre giorni in una realtà che somiglia troppo alle fantasie generate nel suo cervello malato. E quello che è successo la notte scorsa in casa sua, qualunque cosa fosse, ha avuto per lui la stessa portata traumatica dell’incidente di tre anni fa.»
Per Reigosa quell’ultima frase fu come un pugno allo stomaco.
«Vi prego, dottore, non collegate quanto è successo la notte scorsa con quell’incidente.»
«Non dico che sia accaduto qualcosa di simile, ispettore», si affrettò a precisare il dottore, «dico solo che l’effetto dell’accaduto sulla mente del signor Palafox è stato simile. Ma mi permetto anche di segnalare che la somiglianza tra i due episodi suggerisce, a mio umile avviso, una chiara intenzione di collocare il signor Palafox in una posizione estremamente delicata. Volete forse dirmi che non siete d’accordo?»
L’ispettore aspettò qualche secondo prima di rispondere.
«Tre anni fa, il signor Palafox ha sofferto di quello che voi stesso avete definito un accesso di follia temporanea», disse alla fine. «Stava per eseguire la sua prima operazione chirurgica e ha finito per praticare alla sua paziente una sorta di lobotomia involontaria dalle conseguenze irreversibili. L’ha fatto mentre era in preda a una di quelle sue visioni che il vescovo Riera giudica miracolose o sovrannaturali, e che voi definite allucinazioni provocate dal suo stato mentale. Che relazione c’è tra questo e quanto è successo in casa sua la notte appena trascorsa?»
«Non c’è nessuna relazione, ovviamente», rispose il dottore senza esitare. Ma un attimo dopo aggiunse: «Ma purtroppo voi e io sappiamo benissimo che la gente non la penserà così».
«La gente.»
«La gente. La città. Scegliete pure il termine che preferite.» Lo psichiatra si strinse nelle spalle. «Un’altra donna insanguinata tra le braccia di Andreu Palafox, il suo nuovo ricovero alla Neothermas...»
Reigosa deglutì a disagio cercando di tenere a bada i suoi stessi pensieri, ma fu tutto inutile. Il dottor Carrera aveva ragione, erano tornati di botto al 1851. E stavolta, la donna insanguinata era adagiata su un tavolone di pietra nell’obitorio degli Arsenali.
«Nessuno sa che il signor Palafox è ricoverato alla Neothermas», ribatté. «E nessuno deve saperlo.»
«Ovviamente no, figurarsi, e state pur certo che nessuno dei miei impiegati darà notizia dell’accaduto. Ma voi e io conosciamo bene questa città, giusto?»
«Non è una buona scusa, dottore», obiettò Reigosa scrollando la testa.
«Lo sapete a cosa mi riferisco. Per quanto ancora riuscirete a nascondere alle autorità le circostanze dell’omicidio della notte scorsa? E quando le conosceranno, quanto passerà prima che pretendano di interrogare il signor Palafox?»
«Le autorità», pensò Reigosa.
«L’autorità sono io, dottore», gli fece notare.
«Magari fosse vero, ispettore. Ma purtroppo, anche se non ci piace, a Barcellona ci sono solo due autorità: una indossa la tonaca e l’altra la divisa militare.»
Il silenzio che calò nello studio dopo quest’ultima frase permise a Reigosa di avvertire il ticchettio della pioggia che cadeva quel mattino su Barcellona. Una pioggia monotona, ostinata, lenta e calda come l’urina di una bestia moribonda.
«I militari hanno cose più interessanti di cui occuparsi», disse alla fine. «Come lo sciopero operaio che non vuole finire, o come le mura che oggi cominciano a buttare giù. E quanto alle tonache...» Reigosa non seppe come continuare la frase, perciò si limitò a dire: «Voi badate a non destare sospetti qui dentro, che io mi occupo di mantenere il segreto là fuori».
«Non temete per la nostra discrezione, ispettore.»
Reigosa capì che tirarla ancora per le lunghe non avrebbe avuto alcun senso. Dal preciso momento in cui lui stesso aveva suggerito un nuovo ricovero nella Neothermas, la responsabilità di Palafox era passata nelle mani del dottor Carrera. Non sarebbe servito a niente mettersi a discutere con lui sul modo migliore di trattare il suo paziente o di gestire il suo regime di visite.
«Quando potrò vedere il signor Palafox?» chiese.
Lo psichiatra si posò le mani sull’addome prominente e strinse le labbra.
«Potremmo provarci anche questo pomeriggio», rispose in tono perplesso. «Se i farmaci che gli sto somministrando agiscono come mi auguro, la sua mente dovrebbe cominciare a tornare lucida nelle prossime ore.»
«Allora provo a passare alle sei.»
«Non verrete solo, immagino.»
Il dottor Carrera non ebbe bisogno di pronunciare il nome di Teresa Urbach perché Reigosa lo sentisse in maniera nitida.
«Vi pare una buona idea?»
«Mi pare un’idea inevitabile.» L’uomo abbozzò un sorriso. «La figlia del signor Urbach la conosco anch’io.»
«Allora verremo qui tutti e due alle sei. Grazie di tutto.»
Reigosa strinse la mano del dottore, lasciò il suo ufficio e si districò senza l’aiuto di nessuno nel tortuoso labirinto di corridoi, pianerottoli e scale che portava all’ingresso principale della clinica, dove salutò il signor Morel con un cenno del capo.
Era quasi uscito dal portone, quando una voce alle sue spalle lo trattenne.
«Ispettore Reigosa!»
Una giovane infermiera, la stessa che il giorno prima l’aveva portato a far visita alla paziente smemorata, lo raggiunse con il fiato corto.
«Laura, giusto?»
La ragazza annuì con aria sorpresa.
«Come fate a sapere il mio nome?» gli chiese a voce bassa.
«Me l’ha detto la signorina Urbach. Avete parlato con lei e con il signor Palafox un paio di giorni fa, no?»
Laura annuì ancora, serissima.
«Abbiamo parlato della visita del signore inglese alla paziente che siete venuto anche voi a trovare ieri.»
«Ebbene?»
«Volevo solo...» La ragazza si girò a guardare il signor Morel, che dal bancone dell’ingresso li fissava con aria contrariata. Poi riprese a voce ancora più bassa: «Volevo solo dirvi che mi prenderò cura io dell’amico della signorina Urbach».
Non sapendo cos’altro rispondere, l’ispettore si limitò a ringraziarla.
«Dite alla signorina Urbach che non gli toglierò gli occhi dosso. E che se dovessi notare qualcosa di strano glielo farò sapere.» L’infermiera chinò la testa e per un attimo parve esaminarsi l’uniforme immacolata. Poi tornò a guardare Reigosa e aggiunse: «Sono una grande ammiratrice dei suoi libri».
L’ispettore fece un sorriso gentile.
«E chi non lo è?»
«È stata qui stamattina, sapete? Non le hanno permesso di vedere il suo amico e se n’è andata via infuriata. Io ero nella stanza della Dama del Pozzo, ho guardato fuori dalla finestra e l’ho vista uscire.»
Sentendo quel nome, Reigosa sentì un formicolio allo stomaco.
«Torniamo tutti e due questo pomeriggio», le spiegò. «Faremo visita insieme al signor Palafox.»
Il viso della ragazza si illuminò all’improvviso.
«Adesso devo tornare al lavoro», si scusò. «Dite alla signorina Urbach che può stare tranquilla.»
L’infermiera si girò e chinò il capo passando davanti al signor Morel, poi scomparve di corsa lungo il corridoio che portava alle stanze dei degenti. Solo allora Reigosa uscì dalla clinica e affrontò la pioggia torrenziale che adesso si rovesciava su calle de la Canuda.