La scoperta la fece un ragazzino di quindici anni che tutti chiamavano il Millepiedi. Il Millepiedi faceva parte della prima riserva di operai che quel mattino i membri del Consiglio municipale avevano munito di pala e piccone e trasferito nella parte alta della Rambla con un unico compito da svolgere: abbattere le mura. Il luogo scelto per iniziare le demolizioni era stato il tratto che si estendeva tra le torri di Canaletas, a ovest dell’antica porta di Santa Ana. Appena aveva smesso di piovere, l’improvvisata squadra di spaccapietre si era messa al lavoro sotto lo sguardo attento di un capannello in costante aumento di sfaccendati e militari, di preti e poliziotti, di politici locali e operai in sciopero che non avevano ancora deciso come reagire alla piega che stavano prendendo gli eventi. Demolire le mura era un’antica rivendicazione condivisa da tutti gli strati sociali di Barcellona, e non c’era un solo operaio in città che non salutasse con gioia la scomparsa di quelle mura asfissianti che tenevano ammassata la gente in una specie di limbo medievale. Eppure, decidere di farlo in pieno sciopero contro i telai automatici, con l’esercito e la polizia di mezzo e sfruttando la stessa mano d’opera che lo sciopero era riuscito a paralizzare, era una provocazione che non si poteva ignorare.
Dieci minuti dopo che il metallo dei picconi aveva cominciato a rimbombare contro la pietra delle mura, la cerchia di curiosi che si era riunita a Canaletas superava già le trecento persone. E sui loro volti, l’eccitazione e la gioia iniziali per il miracolo che pareva finalmente avverarsi aveva ceduto il posto a una rabbia crescente contro quella strumentalizzazione del vecchio sogno comunale di aprire finalmente la città all’esterno. I calcinacci avevano cominciato a volare sulle teste dei militari e degli spaccapietre. Le urla «crumiri!», «alto tradimento!», «viva lo sciopero!» e «morte ai telai!» si mescolavano ai fischi d’emergenza dei soldati sempre più in allerta. Un piccolo incendio era stato appiccato ai piedi della torre sud di Canaletas, mentre nei pressi della porta di Isabel II, frontiera ufficiale tra la città e il mondo esterno, diversi uomini armati di falcetti e bastoni avevano messo in fuga il picchetto di militari che custodiva il passaggio e dall’alto di un carro proclamavano con un forte accento di campagna la liberazione di Barcellona.
E in quel preciso momento il Millepiedi aveva affondato il piccone in una breccia già esistente alla base delle mura facendo crollare a terra un gran mucchio di pietre.
«Ma che accidenti...?» si era messo a dire, affacciandosi al varco che si era aperto nel muro.
Fu allora che lo vide.
Anche il militare che gli stava accanto smise di preoccuparsi per i calcinacci che gli volavano sulla testa e aggrottò la fronte incredulo.
«Ma cosa...?»
Senza pensarci su, il Millepiedi tastò con la punta del piccone la cassa di legno incastrata nel buco e riuscì a inserirla nella prima fessura che trovò. Il coperchio cedette senza troppa fatica: prima solo qualche centimetro, poi un palmo intero e alla fine abbastanza per poter guardare dentro.
Il militare soffiò più volte nel fischietto, spostò il ragazzino con uno spintone e si affacciò a quello che aveva tutta l’aria di essere un moderno feretro di rovere sepolto ai piedi delle mura.
«Dio benedetto!» mormorò, facendosi d’istinto il segno della croce. «È quasi una bambina.»
Il Millepiedi tornò accanto al militare e osservò trattenendo il fiato quello che il suo piccone aveva appena riportato alla luce. Prima vide la pelle bianca e bluastra, le due trecce bionde raccolte sulle tempie, la tunica disfatta che a stento le copriva il corpo. Poi vide le monete d’oro che le chiudevano gli occhi e la bocca e il rosario che teneva sulla spalla destra. E allora cominciò a capire.
Nessuno al Raval aveva mai considerato il Millepiedi un ragazzino sveglio. Non era neanche rapido di riflessi, e neppure particolarmente altruista. Ma quando per la strada gli raccontavano una bella storia truculenta, di solito non dimenticava i dettagli più intriganti.
«Non è una bambina», ribatté, sollevando la testa e guardando il militare con gli occhi brillanti. «È un miracolo.»
E fu così che Barcellona quel mattino scoprì che la fanciulla incorrotta di Santa Clara era tornata a emergere in superficie.
Esattamente venti minuti dopo questo episodio, Juan Carlos Ollero uscì dall’obitorio degli Arsenali pallido come un cencio e con l’odore di morto nel naso. L’ispettore si era avventurato laggiù con l’intenzione di esaminare il cadavere dell’ultima vittima del caso che condivideva senza troppo entusiasmo con il collega Reigosa. Tuttavia non era riuscito a dargli neanche una triste occhiata. L’epidemia di colera del quartiere di Santa Ana aveva ormai riempito l’obitorio dell’ospedale della Santa Cruz e i depositi parrocchiali della città, e un primo gruppo di cadaveri contaminati era appena arrivato al complesso militare degli Arsenali quel mattino stesso.
Quando Ollero aveva chiesto di poter visionare il corpo della monaca sgozzata la sera prima nel patio di Andreu Palafox, il custode aveva indicato la serie di fagotti scuri che coprivano i tavoli della sala e aveva detto:
«Cercate voi stesso, ispettore. E se volete portarvela via, mi fate pure un favore».
Dopo soli cinque minuti passati a sollevare stracci maleodoranti che nascondevano cadaveri smunti di uomini, donne e bambini di ogni genere e condizione, l’ispettore aveva deciso di rinunciare. Perfino un poliziotto dallo stomaco forte come lui aveva i suoi limiti: in fin dei conti, a pensarci bene, il corpo di una monaca morta poteva dirgli ben poco che non sapesse già.
Quando tornò all’aria aperta, Ollero chiuse gli occhi e lasciò che i suoi polmoni si riempissero di un’aria non corrotta dal marciume della morte e della malattia. Per la prima volta nei sei anni che lavorava in quella città del diavolo, la pesante atmosfera che la pioggia si era lasciata alle spalle gli parve una benedizione del cielo, anziché un insulto personale di Barcellona contro di lui. Le nuvole basse e grigie, l’umidità sospesa nell’aria, il sale e la fuliggine ovunque: qualsiasi cosa era preferibile a quel regno di ombre e vermi che era l’obitorio del complesso militare.
«Buongiorno, ispettore», lo salutò all’improvviso una voce conosciuta. «Scusatemi se vi disturbo, ma...»
Ollero riaprì gli occhi e si trovò di fronte il viso dell’agente Lafita a un palmo scarso dalla sua spalla destra.
«Ma lo farete comunque.»
L’agente Lafita sorrise a disagio.
«Il capo Daroca sollecita la vostra presenza, ispettore. C’è un... problema.»
«Un problema.»
«A Canaletas. Con la demolizione delle mura. L’Esercito richiede la nostra collaborazione.»
Ollero inalò un’ultima boccata di aria calda e umida e si girò verso il suo sottoposto.
«Hanno già iniziato?»
«Ci hanno provato. Ma pare che al momento non ci stiano riuscendo.»
«Di nuovo gli operai?» chiese l’ispettore con un sorrisetto maligno.
«Gli operai, le loro mogli, i predicatori della fine del mondo...» enumerò l’agente Lafita, oscillando in maniera tutta sua la punta del naso. Poi aggiunse: «E i miracoli».
Ollero perse all’istante il sorriso.
«I miracoli?»
«Così pare, ispettore. Non dispongo di altri dettagli.»
«Ma Daroca vuole che andiamo a dare una mano ai militari.»
«Pare ci sia il rischio che al capitano Alcaraz sfugga di mano la situazione, e così...» L’agente Lafita indicò la fila di carrozze ufficiali che attendevano vicino alla porta di Santa Madrona e fece oscillare di nuovo la punta del naso.
Con il suo metro e mezzo scarso di statura, le guance butterate e i baffetti ridicoli, a giudizio di Ollero l’agente Lafita aveva l’aspetto più ignobile dell’intera sezione barcellonese del Corpo di Vigilanza di Sua Maestà. Eppure non era un cattivo poliziotto. Se un giorno Daroca si fosse deciso a morire e Ollero avesse ereditato il suo incarico di capo superiore, Lafita avrebbe avuto ottime possibilità di diventare il suo braccio destro provvisorio.
«Hai già avvisato Reigosa?» gli chiese, avviandosi al suo fianco verso la prima vettura della fila.
Lafita scrollò la testa.
«L’ispettore Reigosa è impegnato a tempo pieno con l’omicidio della notte scorsa», spiegò. «L’episcopato ha chiesto di dare priorità assoluta alla questione e di affidare l’incarico a Reigosa.»
Perfetto, si disse Ollero.
«E Daroca l’ha accettato.»
«Così pare.» L’agente Lafita fece una breve pausa prima di aggiungere: «Quella donna, la scrittrice, è stata qui stamattina a parlare con l’ispettore. E ho saputo che anche Eliseo Urbach è andato a parlarci».
L’ispettore Ollero preferì non esprimere la sua opinione mentre montavano in carrozza e iniziavano la salita del complesso degli Arsenali. Solo quando arrivarono sulla Rambla di Santa Monica si decise a chiedere:
«Detto tra noi, Lafita, non dà fastidio anche a voi che quel matto di Palafox finisca i suoi giorni vivendo nel lusso in una clinica per squilibrati benestanti, anziché marcire in una cella della prigione di Amalia?»
L’agente Lafita contrasse i muscoli del viso. Invece di rispondere al suo superiore, chiese a sua volta:
«Pensate che sia stato lui a uccidere quella monaca, ispettore?»
Non era una cattiva domanda, ammise Ollero. Lo pensava davvero? O gli sarebbe solo piaciuto pensarlo?
«Quello che penso è che negli ultimi tempi si caccia sempre nei guai. E se non fosse per Reigosa, neanche i soldi degli Urbach sarebbero riusciti a evitargli di pagare per i suoi peccati.»
Rimasero in silenzio finché non raggiunsero la parte alta della Rambla. Una piccola colonna di fumo nero si levava verso il cielo all’altezza di una delle torri di Canaletas, e ai suoi piedi, nello spiazzo in cui un tempo sorgeva l’antica caserma militare, una folla considerevole urlava quasi fosse a una corrida in plaza del Torin. La carrozza si fece strada a frustate in mezzo a una baraonda di operai, verduraie, vecchi con la tonaca e delinquentelli di strada, e quando proseguire si rivelò impossibile, all’altezza di calle del Buensuceso Ollero e Lafita smontarono con le pistole in mano e si fecero portare al centro della scena.
Qui trovarono il capitano Alcaraz, circondato da uniformi e tonache e da diversi uomini in borghese che evidentemente dovevano essere piccole autorità del Consiglio municipale.
«Problemi, capitano?»
Il militare guardò con aria poco amichevole i due nuovi arrivati.
«Non viene Reigosa?» chiese, forse per provocarlo.
«Vengo io. Che diavolo succede? Quegli operai vi fanno così paura che non riuscite a tenerli lontani a bastonate?»
Il capitano Alcaraz alzò la mano destra e indicò il tratto di mura alle loro spalle.
«Date un’occhiata voi stesso.»
Ollero guardò Lafita, e questi ricambiò il suo sguardo con una serietà che all’ispettore, chissà perché, ricordò quella parola che l’agente aveva pronunciato agli Arsenali. Miracoli. Per la prima volta pensò che forse quei preti non erano lì per caso. Li guardò in faccia e vide lo stesso che vedeva ogni volta che guardava un uomo con la tonaca: ipocrisia e superstizione. E anche un pizzico di paura, forse.
«L’hanno trovata mezz’ora fa», cominciò a spiegare uno degli uomini in borghese, avvicinandosi a Ollero. «C’era una specie di vano ai piedi del muro, come se qualcuno avesse preso a picconate le pietre e poi le avesse rimesse a posto. Assurdo, non trovate?» L’uomo sorrise leggermente a disagio. «E non sapete ancora cosa c’è dentro.»
Ollero notò il feretro prima di sentire quell’ultima frase, e gli si rivoltò lo stomaco all’istante. Non aprì bocca e non fece domande. Si affacciò all’apertura scavata nel muro, chinò la testa sulla bara e si ritrovò faccia a faccia con quella famosa fanciulla romana di cui parlavano tutti i giornali dal giorno prima. La fanciulla incorrotta di Santa Clara. La giovane con il corpo ancora intatto che Reigosa e il suo amico, l’anatomista pazzo, erano stati chiamati a esaminare nel convento di plaza del Rey la sera dell’incendio sui moli.
La stessa giovane che il vescovo Riera aveva fatto seppellire due giorni prima nel cimitero del convento.
E adesso eccola di nuovo lì.
«Cercami Reigosa», ordinò all’agente Lafita, senza distogliere lo sguardo dall’assurdo cadavere che aveva di fronte. «Lo voglio qui adesso. E voglio vedere anche il vescovo Riera.»
«Il vescovo sta arrivando», intervenne il capitano Alcaraz, facendosi spazio accanto a Ollero e guardando anche lui la ragazza bluastra con un certo disagio. «E anche Reigosa arriverà a breve. Alla velocità con cui si sta spargendo la voce del miracolo, non mi stupirei che prima di pranzo arrivasse anche la regina.»
Ollero si decise a sollevare la testa dal feretro e diede un’occhiataccia al militare.
«Questo non è un miracolo. È solo un brutto scherzo.»
«Chiamatelo pure come preferite», concesse l’uomo abbozzando un sorrisetto sgradevole. «Ma qualcosa di buono c’è in tutta questa storia, Ollero. Non ci dobbiamo più preoccupare degli operai in sciopero, e neanche delle demolizioni. Scommetto quello che volete che per qualche giorno passerà la voglia a tutti di sollevare i picconi o di dar fuoco ai telai.»
L’ispettore Ollero non si prese la briga di rispondergli. Lo sapevano entrambi che aveva ragione. E sapevano anche che era meglio una folla eccitata per un falso miracolo, anziché per una giusta rivendicazione lavorativa.
«Tenete d’occhio quei ciarlatani», si raccomandò comunque, guardando ora il feretro incastrato nella pietra, ora la massa di curiosi che si ammucchiava al di là del cordone di sicurezza. Cominciavano già a formarsi i primi capannelli attorno a certi uomini barbuti e urlanti che Ollero purtroppo conosceva assai bene. Chi con la tonaca, chi vestito di stracci, risvegliavano tutti un identico fervore nella gente che ascoltava i loro sermoni. «Si comincia predicando miracoli, capitano, e si finisce per confondere Dio con l’autorità.»
Il capitano Alcaraz sorrise di nuovo.
«Non temete, ispettore. Se le tonache esagerano con questa storia del miracolo, ci pensiamo noi a ricordare chi è armato di spade e pistole qui in mezzo. E adesso, se volte scusarmi...»
Il militare rientrò nel gruppo di uniformi e cravatte che faceva la guardia al muro della torre nord e si mise a dare ordini ai suoi subalterni. Ollero si concesse un’ultima occhiata alla ragazza morta e tornò a chiedersi chi diavolo fosse il responsabile di quell’assurda macchinazione. Prendere un corpo dal convento di Santa Clara e portarlo alla Rambla de Canaletas, aprire una breccia alla base del muro di cinta, seppellirci dentro il feretro e svanire un attimo dopo senza attirare l’attenzione di nessuno e lasciando solo quel messaggio incomprensibile.
Com’era possibile?
Il coprifuoco era stato sicuramente di aiuto, si disse l’ispettore, e la leggendaria tendenza dei barcellonesi a girarsi dall’altra parte aveva fatto il resto. Ma in ogni caso Ollero non riusciva a capire come avessero fatto ad andarsene in giro con una bara nei pressi della porta di Isabel II, scavare un buco come quello alla base del muro e poi a ricoprirlo senza che nessun militare si fosse preso il disturbo di avvicinarsi a chiedere cosa stesse accadendo.
E come se non bastasse, nel punto preciso in cui sarebbero iniziate le demolizioni.
Un’informazione, questa, che fino a quel mattino conoscevano solo le autorità civili, militari e religiose della città, e che era stata tenuta segreta per evitare i possibili sabotaggi di quella stessa marmaglia di operai che teneva in scacco Barcellona dalla metà di luglio.
«Sarebbe stato ancora meglio se fosse comparsa dentro il sarcofago di pietra che aveva visto l’ispettore Reigosa, vero, ispettore?» commentò alle sue spalle la voce dell’agente Antúnez. «Ma forse era chiedere troppo... In questa città, anche i miracoli rimangono sempre a metà.»
Ollero si girò con aria svogliata e guardò in faccia l’agente, che aveva un bambinetto aggrappato al braccio e sembrava più che mai un insetto fragile con i capelli rossi.
«Non sono in vena di scherzi, Antúnez.»
Il poliziotto chinò la testa con finta sottomissione.
«Allora vado subito al punto, ispettore. Questo ragazzino ha visto tutto.»
«Sì, ho visto tutto, signore», confermò il ragazzo, che avrà avuto undici anni al massimo. «Tutto tutto.»
Ollero represse un sospiro.
«Sentiamo.»
«È successo stanotte, verso l’una. Lo so perché avevo appena sentito le campane di Santa Maria del Pino. Io stavo tornando a casa e...»
«Tornavi a casa all’una di notte», lo interruppe l’ispettore. «Con il coprifuoco alle nove e alla tua età.»
Il ragazzino si strinse nelle spalle.
«Bisogna pur guadagnarsi il pane, no? Mio padre lavora nella fabbrica del signor Urbach, ma sono tre settimane che non porta a casa lo stipendio. Per colpa di quei vagabondi lì», aggiunse indicando a caso un crocchio di operai che impediva ai crumiri di riprendere le demolizioni. «Comunque, signore, ero quasi in calle de los Talleres quando ho visto qualcosa di strano. Prima mi era sembrato un carro funebre, poi ho visto che era solo un carretto, ma un carretto con una bara di sopra. Usciva da calle de Santa Ana e andava verso le torri. Ho pensato che magari aveva a che fare con l’epidemia di colera, ma mi sono avvicinato lo stesso a guardare.»
«Di’ all’ispettore cos’hai visto.»
«Ci sto arrivando. Ho visto un uomo vestito tutto di nero, con il mantello e il cappello largo, il viso coperto e silenzioso come un fantasma. Era proprio qui, vicino alle mura, con il carretto fermo accanto, e strappava le pietre con le mani come fossero granelli di sabbia. Così...» Il ragazzino lo imitò per mostrare la scena a Ollero. «In meno di un minuto aveva aperto un gran buco. Allora ha tirato giù la bara dal carro e l’ha messa qui. Prima ho pensato che la bara era vuota, visto che non sembrava fare nessuna fatica, ma poi mi sono detto che doveva essere un fantasma e i fantasmi non sentono il peso delle cose.»
Ollero annuì serissimo. I fantasmi erano fatti così.
«E poi?»
«Poi ha richiuso il buco, è salito sul carretto ed è sparito da dove era venuto, in calle de Santa Ana. E così sono tornato a casa e ho raccontato ai miei cos’avevo visto.»
«Hai raccontato ai tuoi che avevi visto un fantasma che seppelliva una bara dentro le mura.»
Il ragazzino abbozzò un sorriso sprezzante.
«Infatti non mi hanno creduto», ribatté. «Finché un banditore non ha cominciato a dire che l’Annegata del pozzo di Santa Clara è ricomparsa un’altra volta per annunciare la fine del mondo. Allora mi hanno ordinato di venire a parlare con voi.»
«E hanno fatto molto bene», commentò l’agente Antúnez, dando una carezza sulla testa al ragazzino e guardando il suo superiore con aria trepidante. «Che ve ne pare, ispettore?»
Ollero si concesse cinque secondi prima di rispondere:
«Mi pare che sarebbe stato meglio affidare a Reigosa la soluzione di questo caso, ecco cosa mi pare». E porgendo al ragazzo una monetina, aggiunse: «Cerca in giro dei giornalisti e racconta la tua storia. Con un po’ di fortuna, questa sera non dovrai uscire a chiedere l’elemosina.»
Il ragazzino chinò la testa, bofonchiò un ringraziamento e scappò via con la sua moneta stretta in mano.
Ollero guardò l’agente Antúnez e attese che dicesse quello che l’ispettore si aspettava di sentire.
«La domestica di Palafox la notte scorsa ha visto scappare via di corsa quell’Uomo in Nero su un carro identico a quello che ci ha descritto il ragazzo, ispettore. E l’ora coincide. Il tizio uccide la monaca e lascia il suo corpo in calle del Regomir, poi viene qui e seppellisce la bara ai piedi del muro di cinta. E poi scompare di nuovo.»
«In calle de Santa Ana.»
«Dritto al cuore dell’epidemia di colera», annuì l’agente, guardando Ollero con gli occhi sgranati. «Mi sa che in fondo c’è qualcosa di vero in tutte queste storie. Forse quell’Uomo in Nero è sul serio un angelo della morte. Ultimamente si vedono cose davvero strane, non vi pare?»
Ollero non perse tempo a rispondere.
«Tu e Lafita avete cinque minuti esatti per portarmi qui Reigosa o il vescovo Riera», disse. «Uno dei due, quello che volete. Altrimenti siete licenziati.»
L’agente Antúnez cancellò all’istante quell’aria sognante dal viso, batté i tacchi impacciato e scomparve di corsa dalla vista di Ollero.