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Il magazzino che la fabbrica di Eliseo Urbach possedeva in calle de Montcada occupava uno dei vecchi edifici che si allineavano in quell’antico viale signorile. Dai tempi dei conti catalani – quando Barcellona era il centro di un impero commerciale che si estendeva per tutto il bacino del Mediterraneo – e fino all’inizio del secolo, calle de Montcada era sempre stata uno dei luoghi di residenza preferiti della nobiltà locale, e gli edifici che per generazioni avevano ospitato quelle famiglie illustri mostravano ancora, nonostante l’abbandono degli ultimi anni, un certo splendore malinconico che neppure la natura prosaica della loro destinazione attuale riusciva a offuscare del tutto. L’orgoglio dei patii scoperti e degli alti porticati, delle scalinate aristocratiche, degli stemmi in pietra e delle finestre timpanate conviveva nel moderno Ottocento con il viavai dei carretti che varcavano la loro soglia diretti al porto, carichi di merci più preziose oggi di qualsiasi cognome altisonante e polveroso o dinastia risalente alle brumose glorie della Barcellona medievale.

Dei sei palazzi rimasti in piedi in calle de Montcada, solo uno serviva ancora da residenza della famiglia che lo aveva costruito. Gli altri cinque erano finiti in mano ad altrettante fabbriche tessili con sede nei quartieri del Raval e di San Pedro; e il più a est di tutti, il più vicino al Born e alla zona del porto, era di proprietà di Eliseo Urbach.

«Buongiorno, signorina Urbach», la salutò all’arrivo della carrozza uno dei cinque uomini che quel mattino proteggevano l’ingresso della fabbrica, pensò Teresa, dalla possibile reazione degli scioperanti alla scoperta che le autorità avevano dato ordine di demolire le mura usando la stessa mano d’opera che loro erano riusciti a paralizzare nelle ultime due settimane. «Vostro padre e l’ispettore vi stanno aspettando. Il... carico è già arrivato.»

Teresa richiuse lo sportello e lo ringraziò. Questa volta non si soffermò ad ammirare la facciata gotica del venerabile edificio che gli affari del padre profanavano ogni giorno, né contemplò la sinuosa curva che calle de Montcada disegnava salendo verso la cappella Marcus. No, quel giorno non c’era tempo di distrarsi. La scrittrice varcò l’ingresso, percorse il perimetro del patio principale e salì su una scalinata dai gradini consumati fino al portico del piano nobile, dove gli uomini del padre avevano allestito gli uffici del magazzino. Il «carico», come l’aveva definito la sentinella, si trovava di certo nella grande sala al pianterreno, ma Teresa escluse all’istante che il padre e l’ispettore Reigosa l’attendessero lì, tra i sacchi di tela e i pezzi di macchinari inglesi salvati alla furia sindacale.

Infatti non si sbagliava. I due uomini erano seduti ad aspettarla in un ufficio affacciato sul patio, l’industriale con un bicchiere in mano, il poliziotto con un sigaro in bocca e uno sguardo concentrato che le trasmise un’immediata sensazione di tranquillità. Quell’uomo, Octavio Reigosa, possedeva forse tutti i difetti tipici di chi aveva passato metà della sua vita servendo le forze dell’ordine di un paese come la Spagna, dalla mancanza di immaginazione all’autoritarismo istintivo di chi porta una pistola alla cintura e carta bianca per usarla. Ma era anche un uomo intelligente, leale e affidabile, e nella situazione attuale – con Palafox ricoverato e la città sprofondata nel caos – Teresa non sapeva immaginare un socio migliore con cui cercare di sbrogliare il groviglio che qualcuno, o qualcosa, aveva creato attorno al suo amico.

«È da tanto che mi aspettate?» chiese, senza porgere la mano all’ispettore, ma offrendogli invece la cosa più simile a un sorriso affabile che riuscì a imbastire.

«Siamo appena arrivati», rispose Reigosa, guardando Eliseo Urbach. «Non avete visto il carro funebre?»

Teresa si accomodò sulla sedia che le indicava il padre e inarcò leggermente le sopracciglia.

«Avete usato un carro funebre?»

«Opportunamente camuffato. Non era il caso di usare una carrozza ufficiale, non vi pare? E neanche un carro scoperto, del resto.»

«Il signor Manning si meritava questo minimo gesto di rispetto», intervenne Eliseo Urbach. «Appena la nave sarà pronta e quella gentaglia avrà smesso di stare in agguato, potremo tornare a utilizzarla.»

Teresa guardò il padre con aria seria.

«È bello da parte tua farti carico del rimpatrio», commentò. «La famiglia è già stata avvertita dell’accaduto?»

Anziché risponderle, l’industriale cambiò argomento con un gesto brusco e si portò il bicchiere di liquore alle labbra. La sorte di Oliver Manning e la destinazione finale del suo corpo dovevano essere un cruccio per lui, si disse Teresa. In fin dei conti, se l’inglese era finito assassinato in una pensione di Barcellona era stato perché l’avidità insaziabile di suo padre l’aveva portato a richiedere la sua presenza in città nel momento meno indicato.

«Vieni da Santa Clara» osservò alla fine l’uomo, posando sul tavolo il bicchiere vuoto e incrociando le braccia. «Qualcosa d’interessante?»

«Interessante, sì; attinente al caso, non saprei.»

«Sentiamo.»

Teresa riferì al padre e all’ispettore tutto quello che lei e Adela avevano scoperto durante la loro chiacchierata con la sorella Martina. Cominciò dalla strana rapidità con cui i dettagli dell’accaduto erano arrivati al convento, proseguì con le nuove informazioni che la novizia aveva fornito sulla visita dell’Uomo in Nero il giorno del ritrovamento del sarcofago romano e fece culminare il resoconto con il rapporto del tutto inaspettato che il dottor Aquilino Carrera sembrava avere con la defunta madre Pietà e con le altre consorelle di Santa Clara.

«Quindi il dottore sarebbe andato al convento il pomeriggio del primo agosto?» tirò le somme l’ispettore Reigosa, finendo di annotare sul suo taccuino i punti salienti di quel racconto.

«Sì, ma pare sia andato via prima dell’arrivo dell’Uomo in Nero», confermò Teresa. «Ha parlato solo con la madre Pietà. La sorella Martina non sa dire se abbia visto il sarcofago o no. Magari potrebbe dircelo la sorella Olivia, responsabile dell’intendenza dell’Ordine. A quanto pare, è lei ad aver assunto la direzione del convento al posto della madre superiora.»

L’ispettore richiuse il taccuino e lo infilò nella tasca della finanziera.

«Il dottor Carrera dev’essersi scordato di parlarci del suo rapporto con le monache di Santa Clara», osservò. «Non vi pare interessante?»

«Certo che sì, anche se sappiamo bene tutti e tre quale sarà la sua risposta quando gli chiederemo spiegazioni in proposito.»

Reigosa annuì con un sorriso ironico sulle labbra.

«Già... la famosa riservatezza della Neothermas!»

«Se andava a trovare le monache in qualità di psichiatra, come pare che fosse, era tenuto a mantenere lo stesso segreto che spetta ai pazienti ricoverati nella sua clinica», spiegò Teresa con un sorriso molto simile. «Gli psichiatri sono i preti dell’età moderna. In più di un senso.»

«Stupidaggini», intervenne Eliseo Urbach. «Una cosa è non rivelare gli argomenti di conversazione con quelle monache o con la madre superiora, un’altra è tenere nascosto a voi, ispettore, il suo rapporto con la donna per il cui omicidio gli abbiamo affidato il signor Palafox. Faccio una gran fatica a credere che questa omissione non abbia un significato più profondo.»

«Non ve ne ha mai parlato quando siete andato a trovarlo?» chiese Teresa.

Reigosa riportò a Teresa il medesimo resoconto della visita che aveva già avuto occasione di condividere poco prima con il signor Urbach.

«Sono d’accordo con voi», concluse rivolgendosi all’industriale. «Non menzionare il rapporto professionale che aveva con la madre superiora mi pare un eccesso di zelo da parte sua. Le cose di cui parlavano sono riservate, e non sarò di certo io a mettere in discussione l’opportunità di riconoscere legalmente i vantaggi del segreto professionale, soprattutto quando c’è di mezzo anche l’inviolabilità di un convento sotto l’autorità episcopale. Ma se affido alle sue cure un paziente e lo metto al corrente di informazioni in esclusivo possesso della polizia, il minimo che mi aspetto da parte sua è che mi informi del suo possibile coinvolgimento personale nel caso.»

«Completamente d’accordo», affermò Teresa. «Ma c’è dell’altro. Non vi pare che il dottor Carrera e Andreu comincino ad avere un po’ troppe cose in comune?»

«Cosa intendete dire?»

«Voi e io sospettavamo che qualcuno volesse prendere Andreu di mira, per così dire, collegandolo in un modo o nell’altro con tutti i misteri che si sono susseguiti da martedì scorso a oggi. Il fatto che sia stato chiamato insieme a voi a esaminare il presunto cadavere incorrotto di Santa Clara; che ci fosse il suo nome sul biglietto da visita del signor Manning, accanto al nome della clinica in cui tutti sanno che è stato ricoverato; che il famoso Uomo in Nero l’abbia portato per mano fino alla porta del protettore assassinato; e infine la notte scorsa, che la madre Pietà, o Felicia Dedéu, gli sia morta tra le braccia nel patio di casa...» Teresa concluse l’elenco degli eventi con una specie di gemito. «Non vi pare, ispettore?»

Fu suo padre a rispondere per primo.

«Il dottor Carrera ha avuto contatti con le stesse persone ed è stato negli stessi posti.»

«Il dottore era a Santa Clara martedì pomeriggio, poco dopo il ritrovamento del cadavere incorrotto e poco prima del vostro arrivo», proseguì Teresa. «Ha ricevuto quello stesso pomeriggio il signor Manning alla Neothermas, poche ore prima che fosse ucciso nella sua pensione. Frequentava i bordelli di Trentaclaus e conosceva quasi di sicuro il protettore assassinato.»

«Questo dato va verificato», la interruppe Reigosa.

«Ho chiesto a Adela di informarsi in proposito, ispettore. In ogni caso, il dottore conosceva anche la madre Pietà e, com’era prevedibile, il luogo in cui è morta ha riportato Andreu sotto la sua supervisione.»

L’ispettore ci pensò su.

«Intendete dire che forse Palafox non è il vero bersaglio di tutta questa operazione?»

«Intendo dire che tutte le strade portano anche a Carrera, e non solo ad Andreu», rispose Teresa. «E mi chiedo come mai.»

«Insomma, pare proprio che qualcuno si sia dato molto da fare per riunire il dottore e Andreu», concluse Eliseo Urbach. «Oppure per attrarre su di loro l’attenzione della polizia o di tutta la città.»

L’ispettore guardò ora l’industriale ora la figlia, che lo fissava a sua volta con aria trepidante. Quindi, dopo aver tirato una boccata al sigaro e soffiato il fumo fuori dalla finestra aperta della sala, disse:

«Uscito dalla Neothermas, sono andato a trovare il vescovo Riera. L’ho trovato nella cappella di Santa Lucia, particolarmente pensieroso e ancora più criptico del solito. È tornato a parlarmi di segni e segnali, e dell’apocalisse in avvicinamento. Insomma, i suoi soliti sproloqui. Però ha detto anche una cosa che sul momento ho sottovalutato, ma che adesso comincia a preoccuparmi». Reigosa fece una breve pausa per ricordare le parole precise del vescovo. «Parlavamo della malattia di Palafox, delle sue allucinazioni, e come sempre lui le trattava da visioni e vi attribuiva un valore miracoloso. Ha definito Palafox ‘un uomo unto dal dono unico di abitare nel tempo sacro’. Io gli ho fatto notare che il dottor Carrera sarebbe stato felice di conoscere finalmente la diagnosi esatta del suo paziente, e a quel punto lui ha risposto che il dottore era un uomo più saggio di quanto io non pensassi. Più saggio e meno cieco. ‘Un tempo era cieco, ma adesso vede la realtà’, ecco cos’ha detto.»

Sentendo quelle parole, a Teresa brillarono gli occhi.

«E non gli avete chiesto cosa intendeva dire?»

«In quel momento ho pensato che fosse solo una delle tante frasi altisonanti di un fanatico convinto di star vivendo la fine del mondo. Voi credete che...?»

Teresa non diede il tempo all’ispettore di finire la frase. Alzandosi dalla sedia, batté forte il palmo delle mani e guardò i due uomini con aria serissima.

«Dobbiamo tornare alla Neothermas», annunciò. «E questa volta, ispettore, dovrete imporre la vostra autorità. Avete la pistola, vero?»

L’ispettore si alzò e si toccò d’istinto la tasca della giacca.

«La tengo sempre con me, signorina Urbach, però...»

«Però la tenete sempre scarica, ma certo», completò la frase Teresa. «Non preoccupatevi: una pistola scarica basterà a tenere in riga il personale di una clinica psichiatrica. Vieni anche tu, papà?»

Eliseo Urbach non fece domande. Conosceva troppo bene sua figlia per cercare di estorcerle informazioni che rischiavano di compromettere l’effetto drammatico delle sue azioni.

«Sarà un piacere tornare a vedere l’ispettore mentre impugna un’arma da fuoco», si limitò a rispondere, alzandosi dalla sedia e prendendo il cappello che aveva lasciato sul tavolo dopo essere arrivato dagli Arsenali.

Stavano montando tutti e tre sulla carrozza ufficiale che l’ispettore aveva fatto comparire di botto con un fischio, quando una seconda vettura fece irruzione a tutta velocità dalla parte alta di calle de Montcada. Reigosa riconobbe all’istante la sagoma dell’agente che viaggiava al suo interno. Con il piede ancora sullo scalino, ordinò al cocchiere di aspettare e si preparò a scoprire cosa stava succedendo.

L’agente Lafita saltò giù dalla carrozza e coprì in poche falcate la distanza che li separava, quindi si portò una mano al cappello e guardò il suo superiore con aria inquietante.

«L’avete già saputo, ispettore?»

Reigosa soffocò un sospiro.

«Cercate di essere più preciso, agente.»

«L’Annegata del pozzo di Santa Clara. Il cadavere incorrotto che voi e il vostro amico avete esaminato la notte dell’incendio nel porto.» L’agente Lafita fece una pausa prima di aggiungere: «È ricomparsa».

Reigosa guardò dentro la carrozza e notò che Eliseo Urbach e la figlia fissavano il nuovo arrivato con la bocca spalancata per lo stupore.

«È ricomparsa», ripeté.

Lafita annuì agitando con forza la testa.

«Era sepolta ai piedi delle mura. Alla base del tratto che unisce le torri di Canaletas. Dentro una bara di legno.»

«E voi dite che era lo stesso cadavere?» chiese Teresa, affacciandosi allo sportello. «Chi l’ha identificata?»

L’agente guardò la donna stupito.

«Cosa intendete dire?»

«Intende dire che io non l’ho identificata», rispose spazientito l’ispettore. «E neanche il signor Palafox. Chi l’ha fatto, allora? Le monache di Santa Clara? Il vescovo Riera? Chi?»

«Nessuno l’ha identificata. Non serve. È la fanciulla incorrotta di cui parlano tutti. Non ci sono dubbi.»

«Non ci sono dubbi», ripeté ancora Reigosa.

«Indossa la stessa tunica romana che avete visto voi. È bionda e molto pallida, e la sua pelle ha lo stesso colorito bluastro che avete descritto voi stesso nel rapporto. Ci sono persino le monete sugli occhi e sulla bocca.»

L’ispettore Reigosa infilò la mano nella tasca dei pantaloni e tirò fuori tre monete d’oro.

«Le tre monete che mi sono tenuto quella notte nei sotterranei del convento», disse. «Queste monete.»

L’agente Lafita inclinò la testa. Stavolta fu la sua bocca a socchiudersi per la sorpresa.

«Volete dire...?»

Reigosa lo interruppe con un gesto autoritario.

«Qual è la situazione?»

Lafita si ricompose in men che non si dica.

«Hanno dato ordine di interrompere immediatamente i lavori sulle mura, ispettore», annunciò. «I militari hanno ripreso il controllo della porta di Isabel II, che era caduta in mano a un gruppo di scioperanti, e l’hanno chiusa fino a nuovo ordine. Adesso stanno cercando di creare un cordone di sicurezza intorno a Canaletas. Ma non sarà facile: quando si è sparsa la voce che le demolizioni erano iniziate, si sono riuniti gli scioperati e poi è apparso il cadavere e la situazione è sfuggita di mano...»

«Dov’è adesso?»

«È ancora lì, ispettore. L’ispettore Ollero ha dato ordine di non toccare nulla finché non arrivate voi e il vescovo.»

Reigosa non permise al suo viso di esprimere il fastidio che gli provocava sentir nominare il suo collega.

«È a capo Ollero?»

«C’è anche il capitano Alcaraz. E gli alti gradi del Consiglio. Sta andando sul posto anche il capo Daroca...» L’agente Lafita accennò un sorrisetto mentre pronunciava il nome del loro superiore, poi si ricompose. «Ma stanno aspettando tutti voi, ispettore.»

Reigosa si girò verso gli Urbach e cercò nei loro visi la conferma di ciò che lui stesso stava pensando da quando l’agente Lafita aveva cominciato a parlare.

Il vescovo Riera non aveva tutti i torti, in fin dei conti.

Magari quella città del diavolo non era stata condannata a scomparire per sempre in una bolgia di segni, segnali e puzza di zolfo, ma di sicuro era diventata matta da legare.

«Allora non facciamoli aspettare», disse alla fine, montando in carrozza.