Il dottor Carrera lasciò la stanza della Dama del Pozzo e percorse l’ala dei pazienti speciali con una maschera di cera sul volto. Non si fermò davanti alla porta numero dodici, dove era ricoverato Andreu Palafox, e neppure davanti all’ufficio della signora Daudí, che ormai doveva aver finito di controllare i conti e di sicuro impartiva ordini e ramanzine in qualche angolo della clinica. Raggiunse la scalinata principale e cominciò a scendere i tre piani dell’edificio senza prestare attenzione all’agitazione inusuale che animava i corridoi. Cambiò di mano alla valigetta e rispose male a un paio di infermiere che lo assillavano su questioni di disciplina dovute al suo ordine di chiudere tutti i pazienti nelle loro stanze. Nel pianerottolo del pianterreno, un inserviente con la faccia da bambino gli disse non si sa cosa a proposito di un poliziotto che da almeno dieci minuti chiedeva in maniera sempre più insistente di poter parlare con il direttore. Ma il dottore lo liquidò in malo modo.
«Fuori con lui c’è anche un’infermiera», insistette l’inserviente, inseguendo lo psichiatra lungo il corridoio che conduceva al suo ufficio privato. «Laura, quella grassa del reparto degli speciali. Era uscita a fare una commissione prima della chiusura, e adesso chiede di poter rientrare.»
Il dottore si fermò di botto e gli diede un’occhiataccia.
«Il poliziotto è un ispettore?» si informò.
«No, è un agente del Corpo di Vigilanza, signore. Ma dice di venire per conto dell’autorità.»
«Che vada all’inferno, allora! La Neothermas non è sotto la giurisdizione del Corpo di Vigilanza. Digli che alle sei ricevo l’ispettore Reigosa, come concordato, e che fino a quel momento non voglio vedere da queste parti nessun poliziotto. Farebbero meglio a occuparsi dei problemi che hanno là fuori.»
«Come volete, signore», disse l’inserviente senza troppa convinzione. «Quanto all’infermiera...»
«Dille che è licenziata.»
Il dottor Carrera non si fermò ad ascoltare le timide obiezioni che l’impiegato cominciò ad avanzare e proseguì verso il suo ufficio. Entrò, chiuse la porta e si sedette allo scrittoio, lasciò la valigetta sul mucchio di scartoffie controllate la sera prima, aprì il primo cassetto e tirò fuori un pacchettino avvolto nel feltro.
Quando lo aprì, apparvero un taccuino, un’ampolla di vetro smerigliato e un astuccio di pelle con due iniziali incise sul davanti.
Lo psichiatra rimase un paio di secondi a fissare quei tre oggetti. Il taccuino era foderato di tela rossa e chiuso da un nastro nero, con il tipico aspetto sgualcito dei libriccini di preghiera e dei registri contabili. L’ampolla era di dimensioni medie, più grande di una fiala normale e meno di un flacone di medicine, e conteneva un liquido rossastro che somigliava come consistenza a un sangue leggermente annacquato. L’astuccio, infine, era stretto e lungo, e aveva anch’esso un aspetto malandato che suggeriva antichità, usura e al tempo stesso trascuratezza. Al suo interno c’era un unico oggetto, una siringa ipodermica.
Il dottore prese la siringa in mano e avvertì il freddo del metallo e del vetro, la tenne tra le dita qualche secondo, soppesandone con piacere la leggerezza, il disegno semplice e l’eleganza delle forme funzionali, quindi tornò a riporla nell’astuccio. Avvolse nuovamente l’ampolla, l’astuccio e il taccuino nel feltro e infilò il pacchetto nella borsa. La richiuse, la spostò su un lato della scrivania e consultò l’orologio da tasca. Aveva ancora a disposizione una ventina di minuti, si disse. Pensò ad Andreu Palafox, così pallido, alle sue guance scavate, all’espressione assunta dai suoi occhi quando aveva creduto di capire, di aver finalmente dato un senso agli ultimi tre anni della sua vita. Provò pena per lui. E provò anche paura.
Era vero quello che diceva, dottore?, gli aveva chiesto il signor Morel, ritirando il fazzoletto impregnato di cloroformio dal viso di Palafox pochi secondi dopo che questi l’aveva aggredito con le forbici. I fatti di quella sera non erano dovuti alla sua follia?
Il dottor Carrera si servì un bicchiere di assenzio e cominciò a esaminare distrattamente i documenti sparsi sullo scrittoio. Nomi e date che abbracciavano svariati decenni di professione. Sintomi, diagnosi e terapie di pazienti di cui non ricordava più i volti. Anamnesi redatte di suo pugno in quattro lingue diverse. Fogli di ricovero e atti di decesso. Documentazioni minuziosamente dettagliate che nessun altro psichiatra era mai arrivato a leggere... Le pietre miliari di una carriera medica senza paragoni in tutta Europa che solo adesso, dopo tanti anni, dopo tante nottate insonni, raggiungeva finalmente l’ora della verità.
La sua vita intera condensata in un unico esperimento, che in caso di successo poteva modificare per sempre ben più di una disciplina medica o un destino personale.
Cosa sta succedendo, dottore?, gli aveva chiesto ancora quell’uomo, il signor Morel, dopo aver stretto le cinghie che tenevano legato il signor Palafox. Cos’è successo quel pomeriggio?
Il dottor Carrera bevve un sorso di assenzio e sentì il liquore riscaldargli lo spirito e restituirgli la forza d’animo necessaria ad affrontare ciò che lo aspettava.
Teresa Urbach vide l’agente Antúnez bussare per l’ennesima volta al portone chiuso della Neothermas, e comprese che doveva fare qualcosa. L’immagine di quella bimba travestita da fanciulla romana non le si cancellava dalla mente, come neppure gli occhi disorientati del vescovo Riera e il viso imperturbabile con cui il dottor Carrera l’aveva congedata dalla clinica quel mattino senza lasciarle vedere Andreu. Nell’intersezione di quelle tre immagini doveva essere cifrata in qualche modo la soluzione del mistero, sì, Teresa cominciava a esserne certa. E l’ostinazione con cui gli uomini di Carrera adesso le bloccavano il passaggio non faceva altro che confermarla in quell’idea.
«Ci dev’essere un altro modo per accedere all’edificio», disse alla fine, rivolta a Laura. «Questi palazzetti antichi hanno sempre delle entrate secondarie.»
L’infermiera annuì sovrappensiero.
«Ci sarebbe una carbonaia. Dà su una specie di cortile posteriore incastrato tra gli edifici dell’isolato. Ma la porta è sempre chiusa dall’interno.»
«Dov’è questo cortile?»
«Si entra da laggiù.» Laura indicò un vicoletto lì accanto. «La porta della carbonaia non dev’essere solida come questo portone», aggiunse in tono perplesso.
Teresa annuì soddisfatta.
«Andiamo a dare un’occhiata», propose. E poi, rivolta al padre e all’agente Antúnez, ancora piantati inutilmente di fronte al portone della clinica, ordinò: «Aspettate qui l’ispettore, agente: magari a lui daranno più retta che a voi. Tu rimani qui con lui, papà. Laura e io andiamo a cercare un’altra entrata».
Eliseo Urbach non protestò. L’agente Antúnez, dal canto suo, accennò a una minima obiezione che la scrittrice non si prese la briga di considerare.
«Forse dovreste aspettare che arrivi l’ispettore», sentì che le ripeteva con voce implorante, mentre lei e Laura si allontanavano dal portone sbarrato. «Arriverà da un momento all’altro con l’agente Lafita.»
Lo stretto vicolo che l’infermiera aveva indicato rasentava il muro posteriore del convento di Santa Teresa. Svariate vetture dell’esercito bloccavano la strada di fronte all’edificio, e una decina di soldati ne controllavano il perimetro con la sciabola in mano. Ma neppure quel dispiego di forze riusciva a persuadere i curiosi a disperdersi. Prima di svoltare nella stradina, Teresa alzò di nuovo lo sguardo verso la facciata della Neothermas e cercò una volta ancora il viso di qualche paziente affacciato a una finestra. Niente da fare. Si immaginò Palafox chiuso lì dentro, seduto su una poltrona o sdraiato su un divano, in una di quelle pose da malato che Teresa aveva dovuto vedere così spesso nella primavera del 1851. Si immaginò anche il dottor Carrera seduto di fronte a lui, che lo rimpinzava di chissà quali composti e bevande, facendogli domande mille volte formulate e cercando di estrarne... che cosa esattamente?
La scrittrice si sentì girare la testa. Ed ebbe la certezza che qualcosa di irreparabile sarebbe accaduto.
Più o meno in quello stesso istante, Andreu aprì gli occhi e vide un volto barbuto chino su di lui. Sentì un’umidità strana che gli scivolava sul viso e gli entrava in bocca, e notò anche che le tempie gli palpitavano come un secondo cuore al galoppo. Il volto barbuto si ritrasse e acquisì una forma definita. Andreu vide che stringeva una pezza bagnata nella sinistra e un catino nella destra, ma non seppe come interpretare quell’informazione. Anche il cervello gli palpitava come un cuore al galoppo. Al galoppo e malato. Ogni battito era una coltellata che gli trapassava il corpo intero provocandogli una piccola convulsione incontrollabile. Cercò di alzarsi, ma non ci riuscì. Il primo pensiero fu che aveva perso il controllo del suo corpo, che i nervi e i muscoli non gli rispondevano più. Poi si accorse che era legato.
«Signor Palafox», disse allora il volto barbuto. «Sono Mauricio Morel. Lavoro per il dottor Carrera. Ho bisogno di sapere una cosa.»
Palafox chiuse gli occhi e li riaprì con gran fatica.
Il volto barbuto non si era mosso di lì.
«Mi avete legato», biascicò.
«Non vi preoccupate di questo. Avete cose più urgenti di cui preoccuparvi. Adesso ascoltatemi.» L’impiegato del dottor Carrera si mise in ginocchio accanto al divano su cui era sdraiato Palafox e guardò l’anatomista con due occhi familiari. «Quello che avete detto prima, che qualcuno vi ha drogato tre anni fa... Ne siete convinto?»
Palafox mosse pesantemente la testa su e giù.
«Quello che mi è successo non è stato un incidente», protestò. «L’ho capito solo adesso. Il dottor Carrera...»
«Lasciate perdere il dottor Carrera», lo interruppe l’uomo. «Lui non c’era quel pomeriggio in sala operatoria. C’erano solo la signorina Ferrer, voi e il vostro assistente. È così?»
Palafox annuì di nuovo.
Gli effluvi del cloroformio erano ancora in circolazione nel suo organismo, ma la sua mente cominciava a rischiararsi a tappe forzate.
«Intendete dire...?»
Il signor Morel lo interruppe di nuovo.
«Chi era quell’assistente? Come si chiama? Cosa sapete di lui?»
Palafox ci pensò su qualche secondo prima di rispondere.
«È stato per molti anni l’assistente di mio padre. Lui stesso si è offerto di aiutarmi nella mia prima operazione. Si chiama Carcasona, Daniel Carcasona.»
«Dove abita?»
Palafox cercò di muovere le braccia, ma si accorse che erano legate al divano.
«L’ho visto pochissime volte da quando ho lasciato la Neothermas», disse valutando nel frattempo la situazione in cui si trovava. «Ha testimoniato a mio favore al processo, e poi io sono partito per Londra e non ne ho più saputo nulla per mesi. È passato più di un anno dall’ultima volta che ho avuto sue notizie.»
«Dove abita?» chiese per la seconda volta il signor Morel, con un’espressione che a Palafox parve molto simile all’euforia.
«A quei tempi abitava qui vicino, in calle de Santa Ana, nella casa sopra l’arco che porta al monastero.»
Il signor Morel si alzò con uno scatto felino e guardò Palafox dall’alto della sua figura imponente. Il camice bianco da inserviente della Neothermas brillava al sole intenso che entrava dalla finestra della stanza, e la sua barba rada sembrava quasi un accessorio triste e vagamente incongruente.
«Non vi siete scrollato un bel peso di dosso, signor Palafox?» chiese. «Non vi sentite sollevato al pensiero che il responsabile di quell’incidente non siete stato voi?»
Palafox non seppe cosa rispondere, perciò lo implorò:
«Scioglietemi, vi prego. Adesso che sapete come sono andate le cose, non avete più ragione di ubbidire al dottor Carrera...»
Il signor Morel lo interruppe con un gesto spazientito.
«Avete ragione», gli concesse. «Non ho più ragione di ubbidire al dottor Carrera. Né voi avete ragione di sentirvi ancora colpevole di una cosa che non potevate evitare.» Il portinaio passò nell’altra mano la salvietta con cui gli aveva inumidito la fronte. «Forse in realtà è stato tutto a fin di bene... Si dice che le strade del Signore sono imperscrutabili, no?»
Palafox attese invano che il signor Morel riprendesse a parlare.
Da un luogo imprecisato all’interno della clinica giunse un suono attutito di voci confuse e quello che all’anatomista parve un rumore di passi molto veloci.
«C’era qualcun altro quel pomeriggio in sala operatoria», disse allora, senza neppure sapere il perché. «Il signor Carcasona e io non eravamo soli con la signorina Ferrer. C’era anche un’infermiera.»
Il signor Morel agitò la testa su e giù, molto lentamente, e alle sue labbra affiorò un sorriso che Palafox non cercò di interpretare.
«Adesso mi dovete scusare, signor Palafox», mormorò, «il dottor Carrera verrà a visitarvi tra poco.»
L’uomo infilò la pezzuola in una tasca del camice, si girò e uscì dalla stanza.