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L’ispettore Reigosa arrivò al portone chiuso della Neothermas nel momento preciso in cui le campane delle chiese vicine cominciavano ad annunciare l’entrata in vigore del nuovo coprifuoco. Eppure, l’effetto reale che questa misura poteva avere per le strade cominciava a sembrargli sempre più incerto: a quanto aveva visto nel breve tragitto da Canaletas, lo scompiglio che regnava un po’ dappertutto aveva superato già di gran lunga il livello di disordine abituale e cominciava a meritare il titolo di rivolta popolare in piena regola.

In più, le notizie che gli aveva riferito Lafita durante il tragitto confermavano che la situazione stava sfuggendo di mano. Due navi bruciavano dalle undici al molo internazionale; una fabbrica di San Pedro era stata assalita a quella stessa ora da un nutrito gruppo di scioperanti e non si era salvato neanche un telaio automatico; nella parte bassa del Raval, un malinteso tra militari e prostitute aveva scatenato una tentata irruzione nella caserma degli Arsenali... Forse non c’erano ancora stati morti o feriti gravi, ma era solo questione di tempo perché una sciabola prendesse la direzione sbagliata e un primo martire civile accendesse la miccia del disastro.

In calle de la Canuda, i militari proteggevano il convento di Santa Teresa con un formidabile spiegamento di cavalli e carrozze che non sembrava impressionare nessuno, e un paio di giovani agenti del Corpo di Vigilanza, entrambi visibilmente nervosi, custodivano l’ingresso della Neothermas senza perdere di vista l’inquietante numero di curiosi che intasavano la strada.

«Il coprifuoco revoca qualsiasi privilegio alle istituzioni civili», lo stava informando l’agente Lafita quando raggiunsero il portone del manicomio. «Ho cercato di farlo capire a quei dannati guardiani, ma non c’è stato modo. A quanto pare, hanno così tanta paura del loro capo che preferiscono sfidare l’autorità armata piuttosto che disubbidire a un suo ordine.»

L’ispettore Reigosa lo ascoltò a stento, distratto da un prete che montava sul tetto di una carrozza nel lato nord della strada. Quella scena gli aveva ricordato d’un tratto le parole che il vescovo Riera aveva pronunciato prima di salutarlo a Canaletas.

«Questa è una città sacra, ispettore», gli aveva detto l’anziano, piantato di fronte alla finestra della torre con lo zucchetto in testa, il rosario in mano e gli occhi rivolti serenamente al panorama che gli si apriva dinnanzi. «Ve l’ho già detto giorni fa, e voi avete riso di me. Ma ora comincia a venirvi il sospetto che fossi nel giusto.»

Reigosa aveva seguito lo sguardo del vescovo oltre la finestra con la grata, e non aveva visto nulla là fuori che non vedesse ogni giorno da quando aveva l’uso della ragione.

«Una città sacra», aveva ripetuto.

«Barcellona è una città sacra, e la sua pianta è una pianta del mondo interiore. Una mappa cifrata della realtà. Una chiave di accesso ai territori che le limitazioni dei nostri sensi ci vietano.» Il vescovo si era girato verso Reigosa e l’aveva guardato con un’espressione negli occhi che il poliziotto avrebbe ricordato molto a lungo. «Barcellona è una città sacra, ispettore, perché le sue strade e le sue piazze, i suoi edifici, le sue leggende e la sua storia guardano direttamente a un’altra città. A una città che non è di questo mondo. Una città che apre le sue porte solo a pochi eletti.»

L’ispettore aveva sostenuto lo sguardo dell’anziano con il fiato sospeso.

«Di quale città parlate, Vostra Eccellenza?»

«La città interiore», aveva risposto il vescovo.

E poi, dopo un silenzio che a Reigosa era parso interminabile, l’anziano aveva aggiunto qualcosa che il poliziotto non avrebbe più dimenticato:

«Qualsiasi cosa accada nel corso di questa giornata, ricordatevi sempre che tutto ha un senso. Tutto quello che accade in questa città ha un senso... anche se il nostro misero intelletto non arriva sempre a comprenderlo».

Il prete continuava a gesticolare lanciando proclami incomprensibili dal suo pulpito improvvisato sul tetto della carrozza, ferma tra calle de la Canuda e plaza de Santa Ana. Un folto gruppo di uomini, donne e bambini assistevano allo spettacolo con la stessa attenzione rapita con cui anche Reigosa aveva ascoltato le divagazioni del vescovo Riera. Senza distogliere lo sguardo dalla tonaca di quel ciarlatano, il poliziotto estrasse la pistola di tasca e l’agitò sopra la testa quel tanto che gli consentì di sgomberare il portone della Neothermas.

«Una mattinata interessante, signor Urbach?» chiese allora, pronunciando a voce bassa il cognome dell’industriale e rendendosi subito conto che quell’uomo non era al sicuro là fuori. Visti gli umori della folla, il padrone di una fabbrica tessile poteva diventare una preda ambita per qualsiasi esaltato della città.

«Di sicuro non quanto la vostra, ispettore, ma non mi posso lamentare.»

Reigosa richiuse la pistola nella tasca della finanziera e si guardò attorno con aria preoccupata.

«E la signorina Urbach?»

L’agente Lafita si strinse nelle spalle e guardò il padre della scrittrice, che teneva il sigaro in bocca e, nonostante tutto, pareva ragionevolmente a suo agio su quel marciapiedi assediato.

«È andata via un paio di minuti fa insieme a Laura, e poi le ha raggiunte anche quell’agente con i capelli rossi», spiegò Eliseo Urbach. «Sono andati tutti e tre a cercare un’entrata secondaria.»

L’ispettore non fece altre domande, ma bussò al portone e attese invano che qualcuno si affacciasse alla grata del portone.

«Sono venti minuti che non risponde nessuno», spiegò uno dei due agenti semplici che montavano la guardia alla clinica.

«L’ultima che si è affacciata è stata una vecchia nana», aggiunse il suo collega. «Ci ha detto di andare in un posto molto brutto.»

Un sorriso imbarazzato aleggiò per un istante sui volti dei due ragazzi, ma scomparve appena le sopracciglia di Reigosa ebbero disegnato un triangolo capovolto.

«La signora Daudí, ispettore», chiarì Lafita. «Ha detto che avrebbe parlato solo con voi, ma che potevate scordarvi di entrare in clinica prima delle sei.»

Reigosa borbottò qualcosa tra i denti ai suoi tre subordinati e picchiò di nuovo al portone, che era di un legno abbastanza duro da scoraggiare qualsiasi tentativo di prenderlo a spallate.

«Ispettore Reigosa!» urlò. «Aprite immediatamente!»

Venti secondi dopo, lo sportellino metallico che chiudeva la grata scivolò parzialmente e comparve il viso dell’amministratrice della clinica.

«Ordini del dottor Carrera», disse la signora Daudí, senza aspettare che Reigosa le rivolgesse la parola. «L’integrità della nostra clinica si è vista compromessa, ed è nostro dovere vigilare sulla sicurezza dei nostri pazienti.»

L’ispettore tornò a estrarre la pistola dalla tasca e la brandì davanti alla grata.

«Se a preoccuparvi è la sicurezza dei vostri pazienti, io ho la soluzione.»

La donna non si lasciò impressionare da quell’argomento.

«Sì, di sicuro la stessa soluzione che avete anche per i disordini là fuori, giusto?» replicò. «Le vostre pistole, caro ispettore, oggi valgono quanto la vostra autorità. Un bel niente.»

Lo sportellino si richiuse di scatto con un suono umiliante quanto il coro di risatine che le ultime parole di quella donna avevano provocato tra la folla che riempiva la strada; una folla che aveva di nuovo ridotto lo spazio di sicurezza attorno al portone e adesso era a un passo dagli agenti e soprattutto da Eliseo Urbach. La loro sicurezza era a rischio, capì l’ispettore. E capì anche che doveva agire in fretta.

«Da che parte è andata vostra figlia?»

Il signor Urbach indicò con il sigaro il vicolo che separava il muro del convento di Santa Teresa e il complesso della Neothermas. Un militare era piantato lì con la sciabola in mano.

«Ho visto che l’agente con i capelli rossi si è fermato a discutere con quel soldato. Mi sa che non aveva intenzione di lasciarli passare.»

Reigosa si girò verso Lafita.

«Voi rimanete qui», ordinò. «Ma non insistete più con il portone. Da adesso in poi, il vostro dovere è solo proteggere la sicurezza della clinica. Nessuno deve cercare di entrare, avete capito?»

Lafita si lasciò sfuggire un’aria sorpresa, ma non protestò.

«Agli ordini, ispettore.»

Reigosa prese sottobraccio Eliseo Urbach e lo portò all’imbocco del vicolo.

«Preferirei chiudervi in un posto sicuro, signor Urbach», gli disse con un filo di voce, «ma dubito che ne esista uno in questa città. Perciò vediamo di raggiungere vostra figlia prima che anche lei si metta nei guai.»

Il militare di guardia al vicolo li fece passare senza opporsi. Era un passaggio stretto e poco ventilato, con il muro del convento da un lato e dall’altro la parete laterale dell’unico edificio attiguo al palazzo della Neothermas. Un cancello chiudeva il passaggio in fondo, e lì accanto, sul muro dell’edificio, un arco di pietra dava accesso a un cortile interno.

Un istante prima che Reigosa e Urbach varcassero l’arco, una voce familiare li costrinse a fermarsi.

«Ispettore! Signor Urbach!»

Il viso di Adela spuntò tra le sbarre del cancello e rivolse un sorriso raggiante ai due uomini.

Alle sue spalle, un ragazzino con un occhio nero li fissava con aria sospettosa.

«Ma che...?» esclamò Reigosa.

«Non ci hanno lasciato entrare in calle de la Canuda», lo anticipò Adela. «È pieno di carrozze dell’esercito e non fanno passare nessuno, né dalla Rambla né da Santa Ana. E così siamo passati da dietro», spiegò la ragazza scrollando il cancello chiuso. «Il signor Palafox sta bene?»

«È quello che vorremmo scoprire anche noi. Hanno chiuso il portone della clinica, perciò stiamo cercando un’entrata secondaria... Ma che diavolo...?» esclamò ancora Reigosa.

Adela aveva iniziato ad arrampicarsi sulle sbarre del cancello con l’agilità di un’autentica ladruncola del Raval, e nel giro di dieci secondi aveva fatto scivolare il suo corpicino magro nella fessura in cima al muro. Fece altrettanto anche il suo compagno, che l’ispettore riconobbe come il ragazzino scappato via di corsa da Trentaclaus quando avevano trovato il cadavere del procuratore.

«Andiamo?» chiese Adela, lisciandosi le gonne e guardando Reigosa con impazienza.

Varcarono dunque l’arco di accesso all’interno dell’isolato e seguendo un altro muro, dopo un paio di svolte, si ritrovarono in un cortile pieno di secchi della spazzatura e di depositi di carbone. Qua e là lungo il perimetro del cortile scendevano dei gradini che conducevano ad altrettante porte di servizio chiuse a chiave.

Le teste di quattro persone si affacciarono all’improvviso in cima a una di queste scalette.

«È la porta della carbonaia», spiegò Teresa, risalendo verso di loro con un’aria insolitamente nervosa. «È chiusa. E il vostro uomo non ci dà il permesso di aprirla.»

L’agente Antúnez sollevò la testa dalla serratura su cui stava armeggiando con la punta di un coltello e guardò il suo superiore con le gote rosse almeno quanto i capelli.

«La signorina Urbach vuole che forzi la porta con un colpo di pistola, ispettore. Io ho cercato di farle capire che l’uniforme ci obbliga ad attenerci alla legge, ma...»

Reigosa scese i cinque gradini che lo separavano dalla porta della carbonaia e infilò la mano nella tasca del suo subordinato. Estrasse la sua pistola d’ordinanza e la puntò contro la serratura.

«C’è il coprifuoco», disse. «La legge, in questo momento, la decidiamo noi. Fatevi da parte, prego.»

Lo sparo rimbombò in tutto il cortile, facendo volare via piccioni e gabbiani, e la serratura cedette all’istante. Adela, Patricio e Laura proruppero in un applauso entusiasta, e persino Eliseo Urbach sorrise sotto i suoi eleganti baffi bianchi.

«È la prima volta che vi vedo sparare, ispettore», osservò Teresa, guardando Reigosa con simpatia. «Sono felice che sia stato contro una serratura e non contro qualcosa di più animato.» Poi, rivolgendosi a Laura, le chiese: «Ci fai da guida?»

Reigosa restituì la pistola all’agente Antúnez e spalancò la porta con un calcio. Lasciò passare prima l’infermiera, e per un istante si chiese se non fosse meglio impedire l’accesso ai due ragazzini e alla signorina Urbach, ma si rese conto subito che sarebbe stato perfettamente inutile.

«Lì dentro dovete ubbidire tutti a me», si raccomandò, nel dubbio. «Prima di fare qualsiasi cosa, aspettate che vi dia il permesso. E se vedete o sentite qualcosa di strano, ditelo a me prima di mettervi ad agire di testa vostra. Intesi?»

Tutti i presenti annuirono serissimi, compresi Adela e Patricio, che avevano assunto adesso un’espressione adulta quasi commovente, e anche l’agente Antúnez, che si era risentito non poco al vedersi sottrarre l’arma. E così l’ispettore emise un grugnito soddisfatto, posò la mano sulla spalla di Laura e la seguì dentro la carbonaia, intenzionato a scoprire, una volta per tutte, che diavolo stava succedendo quel mattino nei locali della Neothermas.