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Per la prima volta in vita sua, l’ispettore Reigosa ebbe la tentazione di prendere per il collo una donna e sottoporla a una delle tante tecniche di interrogatorio che spesso doveva utilizzare con i delinquenti della città. A trattenerlo furono la presenza di Teresa Urbach e la certezza che in fin dei conti non sarebbe servito a niente. Da quando si era presentato all’ingresso della Neothermas con la pistola in mano e quel seguito variopinto di persone alle spalle, sul viso di Benedicta Daudí si era congelata un’espressione che Reigosa cominciava a trovare familiare. A modo suo, si disse, quella donnina piccola e vestita sempre a lutto non era meno fanatica del vescovo Riera; solo che l’oggetto del suo fanatismo era la fedeltà al capo.

«Non ci lasciate altra scelta, signora Daudí», disse alla fine, spostandola con la forza e liberando l’accesso all’ufficio del dottor Carrera. «Agente, per favore.»

L’agente Antúnez avanzò risoluto e provò a dare un paio di calci sul rovere massiccio della porta. Al terzo, fece saltare la serratura.

«Dovrete rispondere di tutto questo, lo sapete, vero?» mugugnò la signora Daudí, con il viso paonazzo per la rabbia. «Questa aggressione all’inviolabilità della Neothermas non rimarrà impunita.»

L’ispettore lasciò il braccio della donna ed entrò nell’ufficio seguendo l’agente Antúnez. Sopraffatta dall’angoscia, Teresa Urbach si era già precipitata all’interno.

«Nessuno», annunciò, guardandolo disperata.

Reigosa aggirò la scrivania vuota e si avvicinò al divano accanto alla finestra, posò la mano sulla pelle e sentì che era fredda. Allora tornò allo scrittoio e fece altrettanto con la sedia: era tiepida.

«Ve l’avevo detto che il dottore non c’era, no?» fece notare la signora Daudí dalla porta. «Il dottore se n’è andato una mezz’oretta fa insieme al signor Palafox.»

«Non è vero», ribatté Teresa. «Il signor Morel ci ha già ingannato a sufficienza con le sue false indicazioni: adesso non cercate di farlo anche voi. Qual è la sua stanza?»

Stavolta fu Laura a rispondere, materializzandosi all’improvviso accanto all’amministratrice.

«Terzo piano, stanza numero dodici. Io l’ho lasciato lì quando sono venuta a portarvi il suo messaggio.»

Teresa uscì dall’ufficio spostando quasi di peso la signora Daudí e l’agente Antúnez. Prese Laura per un braccio e si misero a correre insieme lungo il corridoio.

«Voi rimanete qui sotto e impedite a questa donna di tornarci tra i piedi», ordinò Reigosa al giovane poliziotto, uscendo a sua volta dall’ufficio. «Voi invece andate ad aprire il portone all’agente Lafita e ditegli dove siamo, per favore», aggiunse, rivolto a Eliseo Urbach. Poi, guardando Adela e il suo amico, disse ancora: «Voi due rimanete qui sotto e non separatevi per nessuna ragione dal signor Urbach. Intesi?»

La domestica di Palafox non parve apprezzare quegli ordini, ma non protestò. Lei e Patricio seguirono Eliseo Urbach nell’ingresso, mentre Reigosa corse dietro a Teresa e Laura, che nel frattempo erano sparite su per la scalinata principale.

Nel percorso verso la stanza di Andreu Palafox, l’ispettore notò con sollievo che le porte di tutte le stanze erano chiuse e che i pochi impiegati in circolazione non mostravano la minima intenzione di sbarrare la strada a un poliziotto armato di pistola.

Stavano svoltando un angolo del secondo piano quando sentirono distintamente il grido.

Reigosa non riconobbe con sicurezza la voce che lo aveva emesso, ma capì che quei polmoni non avrebbero mai più avuto il fiato per gridare.

«Dio mio», sussurrò Teresa, guardandolo con aria afflitta. «Veniva da sopra, vero?»

Laura rispose per lui.

«L’ala dei pazienti speciali.» L’infermiera indicò un’altra rampa di scale che partiva dal fondo del corridoio e aggiunse: «Ci siamo quasi».

Neanche un minuto dopo erano sul posto. Il corridoio era deserto, e la luce naturale che lo illuminava conferiva alla scena un’aria incongruente di serena pacatezza. Solo una delle porte affacciate sul corridoio era aperta: quella della stanza numero dodici.

«Non muovetevi», ordinò l’ispettore con un filo di voce. «Da adesso in poi, me ne occupo io.»

Teresa e Laura si fermarono all’imbocco del corridoio. La scrittrice era pallida come un cadavere, ma conservava in viso una smorfia decisa che a Reigosa non piacque affatto.

«Non mi potete escludere, ispettore.»

«La vostra sicurezza...»

«Io sono come voi, della mia sicurezza non m’interessa un accidente in questo momento.»

Reigosa sostenne il suo sguardo e provò come sempre un misto di ammirazione e di timore per quella donna.

«Scendete nell’ingresso e chiamate gli agenti Lafita e Antúnez», ordinò a Laura. «Ditegli di portare le pistole.»

L’infermiera annuì con decisione, strinse il braccio di Teresa, poi scomparve giù per le scale.

La scrittrice continuava a fissare Reigosa.

«Non perdiamo tempo, ispettore.»

«No, non perdiamo tempo», confermò lui, «ma, per l’amor di Dio, lasciate che ad agire sia io.»

L’ispettore attese che Teresa annuisse, e solo allora si avviò verso la porta della stanza. Teresa lo seguì tenendogli di nuovo una mano sulla spalla, ma stavolta quel contatto gli trasmise solo la scomoda certezza di star commettendo un errore terribile. Per un attimo, a un passo dalla soglia, si chiese quante morti avrebbe avuto sulla coscienza prima che quel giorno terminasse.

E in quel momento vide il cadavere sgozzato del dottor Carrera steso a terra dentro la stanza.

«Andreu!»

Successe tutto nel giro di pochi secondi. Teresa vide Andreu adagiato sul divano e si lanciò su di lui. L’ispettore cercò di trattenerla, e per questo trascurò quello che succedeva nella stanza. Non vide, per esempio, il battente della porta aperta muoversi accanto a lui, e non sentì neppure un rumore che conosceva molto bene: il verso tipico di una bestia che balza fuori dalla tana.

Quando la porta si richiuse all’improvviso e lo colpì con violenza buttandolo a terra, non poté far altro che cercare di cadere in posizione di difesa e prepararsi a mettere in salvo la vita da qualsiasi cosa stesse per aggredirlo.

Ma quello che vide un attimo dopo gli fece gelare il sangue nelle vene.

L’Uomo in Nero saltò fuori come un fulmine da dietro la porta brandendo un coltello insanguinato contro Teresa Urbach. La donna era appena caduta in ginocchio accanto al divano su cui era sdraiato Palafox e gridava a più non posso proteggendosi il viso con un braccio. Anche Reigosa gridò. Cercò di rimettersi in piedi, ma l’Uomo in Nero gli sferrò un calcio che lo colpì in pieno nelle costole lasciandolo senza fiato. Da terra, impotente, vide il suo aggressore girarsi di nuovo verso la donna inginocchiata e di nuovo alzare il coltello contro di lei.

Fu in quel preciso momento che una sagoma minuta entrò di corsa nella stanza e piombò sulla schiena di quella creatura infernale.

Adela aveva resistito esattamente un minuto nell’ingresso principale della Neothermas. Aveva visto il padre della signorina Urbach avvicinarsi al portone e ordinare all’inserviente di aprirlo all’istante, se non voleva scoprire di persona cosa significava essere pestati nello stile della vecchia scuola.

L’inserviente aveva trent’anni di meno ed era un palmo più alto del signor Urbach, ma non aveva opposto resistenza. Le maniere impetuose dell’industriale non invitavano a prendere le sue minacce alla leggera.

Quando aveva visto affacciarsi l’agente Lafita, Adela aveva deciso che lì sotto lei non aveva più nulla da fare. Il suo padrone era rinchiuso in qualche stanza di quel maledetto sanatorio e la signorina Urbach lo stava cercando insieme all’ispettore Reigosa, perciò il suo posto, sempre che avesse un posto al mondo, era al loro fianco.

«Su, andiamo!» aveva ordinato a Patricio.

E il ragazzo aveva ubbidito senza aprire bocca.

Avevano sentito il primo grido quando cercavano di trovare la strada per il secondo piano. Adela si era convinta che il grido fosse del signor Palafox, e per tutto il resto del tragitto aveva avuto il cuore stretto e gli occhi, suo malgrado, gonfi di lacrime.

Sulla scala del secondo piano, l’infermiera li aveva quasi investiti mentre correva giù nell’ingresso principale.

«L’ispettore chiede rinforzi», gli aveva spiegato, con il viso acceso come una lanterna di Natale. «Mi sa che è successa una disgrazia...»

Il grido della signorina Urbach li aveva sorpresi a pochi passi dall’unica porta socchiusa in tutto il corridoio del terzo piano. Quando l’ispettore Reigosa aveva gridato a sua volta, Adela era quasi dentro la stanza.

E allora, come per magia, il tempo si era fermato.

Adela aveva visto di fronte a sé la schiena nera della stessa creatura che la sera prima era fuggita su un carro da calle del Regomir. Aveva visto il suo braccio alzato sopra la testa incappucciata e, nella mano, un coltello con la lama imbrattata di sangue. Aveva visto l’ispettore buttato a terra e la signorina Urbach inginocchiata ai piedi dell’Uomo in Nero. E aveva visto anche le gambe del suo padrone su un lato della stanza, distese e inerti.

Adela aveva visto tutto quanto e il tempo si era fermato. Si era fermato nel vero senso della parola. I suoi occhi avevano registrato in pochi decimi di secondo ogni dettaglio della situazione, e in quello stesso spazio di tempo, mentre il cervello della ragazza rimaneva paralizzato per l’orrore della scena a cui stava assistendo, il suo corpo aveva già cominciato ad agire di sua iniziativa.

Le gambe di Adela avevano coperto in tre falcate lo spazio che la separava dall’Uomo in Nero. Le sue ginocchia si erano piegate come le bielle di uno di quei congegni automatici su cui il signor Palafox lavorava in laboratorio. Le sue braccia si erano aperte a centottanta gradi e avevano assunto per un istante la posizione di un Cristo in croce, mentre con i piedi si dava la spinta sul pavimento lucido della stanza.

E così il suo corpo si era messo a volare.

Teresa sentì il freddo del coltello penetrarle nella carne. Lo sentì davvero. Chiuse gli occhi mentre la lama scendeva su di lei e sentì il freddo dell’acciaio entrarle nel corpo attraverso una ferita mortale. Provò il dolore e lo sconcerto, la rassegnazione e la rabbia di sapersi in punto di morte. Sentì persino il sapore del sangue in bocca, metallico e istantaneo, e pensò confusamente che fosse una fine ben strana per una donna come lei.

Morire per mano di un demonio incappucciato in un manicomio. Morire come il personaggio di uno dei suoi romanzi.

E allora sentì il grido di Adela.

Teresa aprì gli occhi e vide la domestica di Andreu. Aggrappata alle spalle del suo assassino. Afferrata con forza al suo collo. Con le unghie affondate nella carne di quell’essere maligno che non era ancora riuscito a pugnalarla, e che adesso girava su se stesso con il coltello ancora in mano, pronto ad assestare un colpo cieco contro la ragazza che lo stava aggredendo.

La scrittrice cercò di rimettersi in piedi, e nel farlo la sua mano incappò in una siringa ipodermica. La prese senza pensarci su, finì di rialzarsi da terra e vide con la coda dell’occhio che l’ispettore cercava di fare altrettanto sul lato opposto della stanza. Vide anche un’altra sagoma piccolina varcare in quell’istante la soglia e lanciarsi contro il corpo doppio formato da Adela e dall’Uomo in Nero, che nel frattempo le aveva sferrato un colpo con il coltello, ma l’aveva mancata.

«Adela!» gridò il nuovo arrivato, tirando una testata all’Uomo in Nero.

Teresa vide la lama del coltello tornare in posizione verticale, sentì il suo sibilo mentre fendeva l’aria e capì, prima di poter fare qualcosa per evitarlo, che stavolta avrebbe trovato una carne in cui affondare. Con la siringa ancora in mano, si lanciò su quell’ammasso confuso di corpi che si agitava al centro della stanza e cercò il viso incappucciato dell’Uomo in Nero.

Due ululati lacerarono l’aria quasi all’unisono. Il primo, quello che lanciò Patricio sentendo la lama conficcarglisi nel fianco e aprirgli la carne con orribile facilità. E il secondo, quello che emise l’Uomo in Nero ricevendo sulla guancia la puntura della siringa.

Quello che successe subito dopo fu così confuso che Teresa, per un attimo, ebbe il sospetto che il coltello le fosse entrato davvero nel corpo pochi secondi prima, e che le cose andassero in quel modo un istante prima di morire. Le visioni che precedono il buio definitivo. Le allucinazioni di un cervello che si spegne per sempre.

Con la siringa conficcata nella guancia e il coltello ancora in mano, l’Uomo in Nero riuscì a scrollarsi Adela di dosso. La domestica rotolò a terra e andò a finire accanto a Patricio, che si era portato una mano sul fianco e se l’era ritrovata impregnata di sangue. L’Uomo in Nero si strappò la siringa dal viso e guardò Teresa con due occhi febbrili che la donna finalmente riconobbe. Li separava meno di un passo, e la lama del coltello gocciolante era di nuovo puntata contro di lei.

«Carcasona», pronunciò allora una voce.

Una voce che sembrava provenire da un altro mondo.

La voce di Andreu Palafox.

L’Uomo in Nero rivolse lo sguardo verso il punto in cui si trovava l’anatomista, e lo stesso fece Teresa.

Palafox teneva ancora gli occhi chiusi, ma adesso la sua bocca era socchiusa e tremava violentemente.

«Carcasona» sussurrò di nuovo.

L’Uomo in Nero colpì Teresa in viso con il dorso della stessa mano con cui stringeva il coltello. La donna perse l’equilibrio e cadde a terra nel preciso momento in cui l’ispettore si rimetteva in piedi. Stordita, vide il poliziotto puntare la pistola contro il suo aggressore e sentì un grido che non riuscì a decifrare. Per un attimo pensò che fosse tutto finito, poi ricordò che la pistola era sempre scarica e maledisse i pregiudizi di Reigosa contro le armi da fuoco.

«Non muovetevi», gli ordinò l’ispettore, avanzando verso il centro della stanza con la pistola spianata. «Gettate a terra quel coltello e mettetevi in ginocchio.»

Teresa si portò la mano alla bocca e scoprì che il sapore di rame non era più una fantasia. Sentì accanto a lei il respiro pesante di Patricio e la voce di Adela, che gli sussurrava qualcosa all’orecchio mentre gli tamponava con la mano la ferita aperta sul fianco. Il suo sangue cominciava a mescolarsi con il sangue del dottor Carrera, che formava una pozza intorno al suo cadavere abbandonato ai piedi del divano.

L’Uomo in Nero non gettò il coltello e non diede segni di voler retrocedere. I suoi occhi incrociarono lo sguardo risoluto dell’ispettore. Un filo di sangue colava dal punto in cui Teresa gli aveva conficcato la siringa, un paio di centimetri sotto la palpebra sinistra.

«È finita», gli disse l’ispettore. «Non potete fare più nulla. E non ho alcun motivo per non sparare.»

L’Uomo in Nero fece un passo indietro. Anche l’ispettore l’aveva riconosciuto, capì Teresa. E anche lui non aveva la minima idea di cosa stesse accadendo.

«Carcasona», ripeté ancora Palafox.

Solo in quel momento la scrittrice riconobbe in quella parola il cognome del medico che aveva assistito il suo amico in quella dannata operazione del 1851.

«È finita», ripeté l’ispettore. «Ci occuperemo noi di lui. Voi avete fatto quello che dovevate.»

Teresa non fece in tempo a chiedersi cosa intendesse, perché l’Uomo in Nero si scoprì finalmente il viso e pronunciò le sue prime parole.

«C’è ancora una cosa che devo fare, ispettore.»

L’uomo si girò e fissò per un istante la finestra aperta sul cortile interno della clinica. Uno scalpiccio di passi veloci nel corridoio si mescolò ai rintocchi delle campane di Santa Ana, che annunciavano il coprifuoco. Teresa capì cosa stava per succedere. E capì anche che, per quel che la riguardava, stavolta era davvero finita.