Là, su una collina, è visibile la città, ma sembra così lontana. La costituzione di una società giusta, equa, sostenibile, in cui tutti abbiano accesso al comune, è immaginabile, ma le condizioni per realizzarla non esistono ancora. Impossibile dar vita a una società democratica in un mondo in cui i pochi hanno tutta la ricchezza e le armi. Impossibile restituire benessere al pianeta quando coloro che lo distruggono sono ancora al comando. I ricchi non rinunceranno volontariamente a soldi e proprietà e i tiranni non abbasseranno le armi né cederanno le redini del potere. Dovremo infine prenderle, ma andiamoci piano. Non è così semplice.
È vero che i movimenti sociali di resistenza e di rivolta, compresi i cicli di lotta cominciati nel 2011, hanno creato nuove opportunità e sottoposto a esame nuove esperienze. Ma questi esperimenti, per quanto belli e virtuosi, non hanno la forza necessaria per rovesciare il potere dominante. Perfino grandi successi si dimostrano di frequente tragicamente limitati. Esiliamo il tiranno, e che cosa otterremo? Una giunta militare? Un partito teocratico al potere? Chiudiamo Wall Street, e che cosa otterremo? Una nuova operazione di salvataggio delle banche? Le forze schierate contro di noi sembrano enormi. Un mostro dalle mille teste.
Anche se messi alla prova dalla disperazione, dovremmo ricordare che nel corso della storia accadono eventi inaspettati e imprevedibili, in grado di rimescolare del tutto le condizioni del potere politico e le possibilità. Non è necessario essere un millenarista per ritenere che tali eventi politici si ripeteranno. Non è solo una questione di numeri. Un giorno milioni di persone manifestano in strada e non cambia niente, un altro l’azione di un piccolo gruppo riesce a rovesciare l’ordine costituito. Questi eventi accadono a volte in periodi di crisi economica, politica e di grande sofferenza. Altre volte invece si verificano in periodi di prosperità, quando speranze e aspirazioni sono in crescita. È possibile, anche in un futuro prossimo, che l’intera struttura finanziaria crolli. O che i debitori acquisiscano convinzione e coraggio decidendosi a non pagare. O che le persone si rifiutino in massa di obbedire ai detentori del potere. Che cosa faremo in questo caso? Che società costruiremo?
Non possiamo sapere quando questo evento si produrrà. Ma ciò non vuole dire che dobbiamo limitarci ad aspettare. Il nostro compito politico è paradossale: è nostro dovere prepararci all’evento anche se non sappiamo quando accadrà.
Non è tuttavia così misterioso come può sembrare. Prendiamo l’insegnamento di alcuni architetti e ideologi dell’attuale ordine neoliberista. Milton Friedman e gli economisti della scuola di Chicago hanno studiato politiche economiche neoliberiste, preparato gli studenti e programmato politiche e istituzioni di un ordine neoliberista molto prima che esistessero le condizioni sociali e politiche per metterle in pratica – e, a dire il vero, molto prima del colpo di stato militare attuato da Augusto Pinochet in Cile nel settembre del 1973. Naomi Klein racconta che quando alcuni mesi prima del golpe i cospiratori fecero appello a un gruppo di economisti della scuola di Chicago, chiamati “Chicago Boys”, chiedendo loro un programma economico, questi furono in grado di mettere insieme rapidamente un manuale di cinquecento pagine che presentava in dettaglio le iniziative necessarie ad attuare un ordine economico e sociale neoliberista secondo le linee del pensiero di Friedman. Gli economisti di Chicago non pianificarono il colpo di stato di Pinochet né potevano prevederlo, ma furono pronti quando si verificò. Di certo, fin da allora era disponibile una guida economica per l’attuazione delle politiche neoliberiste – rese possibili da disastri di diversa natura – in numerosi altri paesi, afferma Klein.
Questo esempio è istruttivo di come possa essere utile ed efficace prepararsi a un’opportunità imprevista. Le circostanze incontrate dai neoliberisti in Cile, però, non sono nulla se confrontate con quelle attuali. Prima di tutto la natura di questa opportunità è completamente diversa: nessun colpo di stato o altre azioni militari precipiteranno oggi gli eventi di una trasformazione democratica. Seconda cosa, il soggetto che la prepara non sarà un’avanguardia o una conventicola come nel caso dei “Chicago Boys”, ma sarà necessariamente la moltitudine.
Il compito paradossale di prepararsi a un evento imprevisto può rappresentare il modo migliore di comprendere il lavoro e i risultati del ciclo di lotte del 2011. I movimenti stanno preparando il terreno per un evento che non possono prevedere o preannunciare. I principi che promuovono, tra cui uguaglianza, libertà, sostenibilità e libero accesso al comune, possono formare, in caso di un’opportunità sociale radicale, l’impalcatura su cui costruire una nuova società. Inoltre, le pratiche politiche che i movimenti sperimentano – assemblee, metodi decisionali collettivi, meccanismi non solo per la protezione ma anche per la partecipazione delle minoranze, tra le altre – servono da guida per future azioni politiche. Cosa molto più importante tuttavia di qualunque principio costituzionale o pratica politica, i movimenti stanno creando nuove soggettività che desiderino e siano capaci di relazioni democratiche. I movimenti stanno scrivendo un manuale su come creare e vivere in una nuova società.
Sostenevamo in precedenza che le forze della ribellione e della rivolta consentiranno di liberarci dalle impoverite soggettività prodotte e continuamente riprodotte dalla società capitalista nella crisi contemporanea. Un movimento di rifiuto organizzato consente di riconoscere chi siamo diventati e di prefiggerci un cambiamento. Consente di liberarci dal sistema morale del debito e dalla disciplina di lavoro che impone, portando alla luce le ingiustizie delle disuguaglianze sociali della società del debito. Consente di distogliere l’attenzione dallo schermo e rompere l’incantesimo dei media. Provvede a liberarci dal giogo del regime di sicurezza e a farci diventare invisibili all’onnisciente regime. E demistifica le strutture della rappresentanza che paralizzano la nostra capacità di azione politica.
Ribellione e rivolta, tuttavia, mettono in moto non solo un rifiuto ma anche un processo creativo. Nel rovesciare il destino delle soggettività della società capitalista contemporanea, scoprono alcune delle vere basi del nostro potere per l’azione sociale e politica. Un debito più forte è creato da un legame sociale in cui non esiste creditore. Nuove verità sono prodotte attraverso l’interazione di singolarità riunite. Una vera sicurezza è forgiata dalle persone unite non più dalla paura. E chi rifiuta di essere rappresentato scopre il potere della partecipazione politica democratica. Questi quattro attributi soggettivi, ognuno caratterizzato da un nuovo potere realizzato con rivolte e ribellioni, insieme definiscono il commoner.
Nell’Inghilterra medioevale, i commoners formavano uno dei tre stati dell’ordine sociale: i combattenti (la nobiltà), i religiosi (il clero) e i comuni lavoratori (i commoners). La consuetudine della lingua inglese moderna in Gran Bretagna e altrove ha mantenuto il significato della parola commoner per designare una persona senza rango o posizione sociale, una donna o un uomo comune. Il termine come lo intendiamo qui deve preservare il carattere produttivo che risale all’Inghilterra medioevale, con qualcosa in più: i commoners non sono comuni solo per il fatto di lavorare, ma, piuttosto e soprattutto, perché lavorano sul comune. Dobbiamo capire il termine commoner, in altre parole, come facciamo con la definizione di altre professioni, come panettiere, tessitore e mugnaio. Così come il panettiere (baker) cuoce il pane, il tessitore (weaver) tesse e il mugnaio (miller) macina, allo stesso modo un commoner “rende comune”, ovvero, realizza il comune.
Il commoner è dunque una persona comune che porta a termine un compito straordinario: aprire la proprietà privata all’accesso e al godimento di tutti, trasformare la proprietà pubblica controllata dall’autorità statale nel comune; e in tutti i casi scoprire meccanismi con cui gestire, sviluppare e sostenere la ricchezza comune attraverso la partecipazione democratica. Il compito del commoner, dunque, non è solo fornire accesso a campi e fiumi così che i poveri possano nutrirsi, ma creare al contempo modalità che facilitino il libero scambio di idee, immagini, codici, musica e informazione. Abbiamo conosciuto alcuni dei prerequisiti con cui portare a termine questi compiti: l’abilità di creare legami sociali, il potere delle singolarità di comunicare attraverso le differenze, la reale sicurezza dei coraggiosi e la capacità di azione politica democratica. Il commoner è un partecipante costituente, la soggettività fondamentale e necessaria per la costituzione di una società democratica basata sulla condivisione del comune.
L’azione del “rendere comune” deve essere orientata non solo in direzione dell’accesso e dell’autogestione della ricchezza condivisa, ma anche della costruzione di forme di organizzazione politica. Il commoner deve scoprire il modo con cui creare alleanze tra un’ampia varietà di gruppi sociali in lotta, tra cui studenti, lavoratori, disoccupati, poveri. Coloro che si battono contro subordinazioni di genere e razza e altre. A volte, nell’invocare questi elenchi, le persone hanno in mente la costruzione di coalizioni come pratica di articolazione politica, ma il termine coalizione a noi sembra rivolgersi in direzione diversa. Una coalizione implica che diversi gruppi mantengano le loro identità distinte e perfino le loro strutture organizzative separate formando al contempo un’alleanza tattica o strategica. L’alleanza del comune è del tutto diversa. Rendere comune non vuol dire, naturalmente, immaginare che le identità possano essere negate in modo che tutti scoprano di essere, di base, gli stessi. No, il comune non ha niente a che vedere con l’uniformità. Nella lotta, al contrario, diversi gruppi sociali interagiscono come singolarità e sono illuminati, ispirati e trasformati dal reciproco scambio. Comunicano sulle frequenze inferiori che le persone fuori dalla lotta di frequente non possono sentire o capire.
Esiste una lezione nel ciclo di lotte del 2011 che dovremmo essere tutti in grado di comprendere. I dimostranti che hanno occupato il Campidoglio in Wisconsin non si sono illusi credendo di essere gli stessi di quelli di piazza Tahrir né di condividerne le condizioni sociali, così come quelli che hanno eretto accampamenti su Rothschild Boulevard a Tel Aviv non si vedevano riflessi negli accampamenti di Puerta del Sol. Sebbene saldamente radicati nelle loro specifiche condizioni locali, hanno attinto reciprocamente pratiche, trasformandosi al contempo; hanno adottato gli slogan gli uni degli altri assegnando loro nuovi significati; e, cosa più importante, si sono riconosciuti come parte di un progetto comune. Il compito politico del commoner è raggiunto attraverso questi scambi reciproci e queste trasformazioni delle singolarità in lotta.
Alcuni pensatori politici tradizionali e organizzatori della sinistra sono insoddisfatti, o quanto meno cauti, nei confronti del ciclo di lotte del 2011. “Le piazze sono piene ma le chiese sono vuote,” si lamentano. Le chiese sono vuote nel senso che, nonostante questi movimenti esprimano molto spirito combattivo, dimostrano poca ideologia e poca leadership politica centralizzata. Fin quando esistono un partito e un’ideologia a dirigere il conflitto di piazza, pensano, e quindi fin quando le chiese sono piene, non ci sarà rivoluzione.
Ma è esattamente il contrario! Dobbiamo svuotare ancora di più le chiese della sinistra e sbarrarne le porte! Questi movimenti sono forti non malgrado bensì grazie alla mancanza di leader. Sono organizzati in modo orizzontale come moltitudini e il loro insistere sulla democrazia a tutti i livelli è più di una virtù, è la chiave del loro potere. Gli slogan e gli argomenti dei movimenti si sono diffusi tanto ampiamente non malgrado bensì grazie al fatto che le posizioni che esprimono non possono essere riassunte né disciplinate in una linea ideologica prestabilita. Non ci sono quadri di partito a dire alla gente cosa pensare, ma esistono discussioni aperte a una gran varietà di punti di vista, che a volte possono perfino contraddirsi l’un l’altro eppure, sebbene con lentezza, manifestare una prospettiva coerente.
Non pensate che la mancanza di leader e di ideologia politica significhi anarchia, se per anarchia intendiamo caos, confusione e pandemonio. Che tragica mancanza di immaginazione politica è pensare che leader e strutture centralizzate siano l’unico modo di organizzare progetti politici efficaci! Le moltitudini che hanno animato il ciclo di lotte del 2011 e innumerevoli altri movimenti politici in anni recenti non sono, naturalmente, disorganizzati. Di fatto, la questione dell’organizzazione è un argomento fondamentale del dibattito e della sperimentazione: come gestire un’assemblea, come risolvere il dissenso politico, come prendere una decisione politica democraticamente. Per tutte le persone avvinte con passione ai principi di libertà, uguaglianza e del comune, la costituzione di una società democratica è l’ordine del giorno.