Ma adesso, per potervi raccontare la morte, devo trovare il modo di raccontare come se le cose succedessero a me, solo a me, anche se ogni cosa è spaccata in due, anche se i confini dell’io non ci sono più, non ci sono mai stati, devo trovare il modo e devo trovare il tempo, anche se il tempo non c’è, non c’è più, non c’è mai stato, è allagato.
Allora diciamo che, per prima cosa, si viene fotografati.
C’è una grande fila di morti che si allunga sempre più. Ognuno ha in mano il tagliando con il suo numero, come quando, da vivi, si fa la fila in un ambulatorio delle analisi oppure alle casse del supermercato. Ecco, proviamo a dire così, per riuscire a dare un’idea di ciò che succede...
C’è un buio assoluto, non ci si vede in faccia, come se fossimo tutti indistinguibili dentro una gelatina nera non ancora folgorata da un lampo di luce, o dentro l’oceano buio di una memoria non ancora attivata da un fotosensore tormentato da una parvenza contrapposta di mondo. È tutto nero, non si vede niente, ma dal fondo del corridoio, dove c’è la stanza in cui vengono eseguite le fotografie, viene di tanto in tanto un improvviso bagliore bianco, accecante, a ogni scatto, segno che il lampo di luce che si sprigiona là dentro è così forte da attraversare come un velo pareti, pavimento e soffitto.
Aspettiamo così, nell’oscurità più profonda, illuminata di tanto in tanto da quel lontano uovo di luce che si accende e si spegne.
La fila dei morti avanza lentissimamente nel buio, tutti ancora senza volto, indistinguibili, agglutinati, non ancora fotografati. Compie un piccolo spostamento in avanti ogni volta che il primo della fila varca la soglia di quella stanza che si illumina di tanto in tanto in fondo al corridoio, prima di uscire focalizzato dall’altra parte, chissà da quale altra parte, con il suo corpo fotografato e abbagliato, con il suo volto affiorato.
“Che fila lunga! E come va piano!” mi dico. “Chissà come mai va così piano? Che ci sia un solo fotografo per tutti i morti?”
Però ogni tanto ci spostiamo lentamente in avanti, sento dietro di me tutta quella massa di morti allineati nel buio che preme per andare verso la luce. Il bagliore si spegne, tutto il mondo ripiomba nell’oscurità più profonda. Si riaccende di nuovo. Si avvicina sempre di più, a poco a poco, man mano che avanzo anch’io al buio in quella colla di morti. Non filtra dalla fessura sotto la porta, dalle linee degli stipiti, dalle sconnessioni delle pareti o dagli interstizi, è come se la luce che si sprigiona all’interno fosse così forte da cancellare per un istante ogni cosa che non sia la luce.
La fila si assottiglia davanti a me, si allunga di più alle mie spalle, per quelle sempre nuove carovane di morti che arrivano senza interruzione nelle città dei morti. Anche l’intervallo tra i bagliori si allunga sempre di più, non si sa mai ogni volta se ce ne sarà ancora un altro, se questo corridoio pieno di morti verrà di nuovo abbagliato dall’improvviso lampo di luce o se rimarrà d’ora in poi nell’oscurità più profonda, per sempre. Invece, dopo un po’, dopo molto tempo, se si potesse parlare ancora di tempo, un nuovo bagliore evidenzia per un istante tutto questo finimondo di morti accalcati al buio che premono per andare verso la configurazione.
Ecco, ne è entrato un altro, poi ancora un altro.
Adesso non c’è più nessuno davanti a me.
Sono solo davanti alla soglia.
Sono il primo.
Non si vede niente, non si sente niente. Non un suono proveniente dall’interno, come succede quando si aspetta il proprio turno seduti sulle panche di quegli spogliatoi che ci sono fuori dagli ambulatori dei vivi, dove si rimane in maglietta e mutande in attesa di venire chiamati, e si sentono provenire dall’interno i rumori che fanno quei macchinari che scandagliano l’interno dei corpi con i raggi di luce, con gli ultrasuoni, delle lastre infilate e sfilate dalle loro viscere, dei carrelli scorrevoli che spingono i corpi dentro tunnel di luce o di suoni.
Poi la porta si apre davanti a me, all’improvviso.
Ma non si vede chi l’ha aperta, non si vede niente. Si capisce solo che una porta si è aperta.
Faccio qualche passo in avanti.
Entro.
C’è un po’ di luce all’interno. Quanto basta per vedere una persona in piedi in fondo alla stanza. È una donna giovane, una ragazza. Mi guarda venire avanti tenendo gli occhi socchiusi, e non ci sono luci sul soffitto oppure sulle pareti, sembra che la luce provenga direttamente da lei, dal suo corpo e dal suo vestito.
«Ma tu sei la stessa che mi ha accolto all’arrivo davanti all’ascensore, con quell’abito da sposa!» provo a dire.
Lei mi guarda senza parlare, la sua bella bocca si allunga in un silenzioso sorriso.
«Sei tu che fotografi i morti?»
Mi fa cenno di sì, con la sua bella testa sormontata da una nuvola di capelli, un po’ reclinata all’indietro, per potermi vedere attraverso la fessura degli occhi socchiusi e tra le sue lunghe ciglia.
Io la guardo, la guardo.
«Come sei bella!»
Lei fa un passo verso di me, che sono ancora fermo di fronte al bagliore del suo corpo, impalato.
«Ma io ti ho già incontrata, una notte, quando ero tra i vivi!» mi viene in mente all’improvviso.
La ragazza, ferma davanti a me, continua a guardarmi con gli occhi socchiusi, il suo volto trema un po’ mentre mi sorride, la sua bella bocca dagli angoli sempre più allungati, il suo mento sollevato e ricoperto di morbida carne, il suo collo bianco.
«E anche allora facevi la fotografa! Fotografavi i morti, mi hai detto, perché non c’era nessun altro che aveva il coraggio di fotografare i morti. Proprio i morti, non i vivi da morti! Hai fotografato tu tutti gli scrittori e i poeti morti nel corso del tempo. Avevi voluto fotografare anche me. E io mi ero stupito, e ti avevo detto: “Ma io non sono morto!”. E tu mi avevi guardato senza rispondermi, mi avevi sorriso. Perché mi avevi fotografato? Perché ero già morto? E perché, se mi hai già fotografato, adesso mi fotografi ancora? È perché ogni cosa è spaccata in due? È perché la morte viene prima? È perché il prima è dopo? È perché il dopo è prima? È perché ogni cosa succede prima che sia successa? È perché si possono ricordare solo le cose che non sono ancora avvenute?»
Mi guarda senza dire niente, mi sorride in silenzio.
«E poi avevi chiesto a me di fotografare anche te, e poi mi avevi detto che non ti avevo ancora riconosciuta, che non avevo ancora capito chi eri. E poi mi avevi detto che alla fine ci saremmo incontrati, io e te, in un finimondo di luce, nella catastrofe della luce. Che saremmo stati una cosa sola, una supernova di luce... Ma adesso quello che era là è già qui, noi ci siamo finalmente incontrati.»
Fa un altro passo verso di me, col suo leggero vestito da sposa che emana luce.
La guardo, continuo a guardarla, non si può fare altro che continuare a guardarla.
«Che bel vestito!»
«È di organza!» mi dice.
Non riesco più a parlare, per un po’.
«Ma tu sei la Pesca!» mi rendo conto improvvisamente.
Guardo, in quella luce che emana dal suo vestito, le ossa morbide della sua testa, la nuvola dei suoi capelli, le palpebre socchiuse per mascherare lo strabismo.
«Allora eri tu quella ragazza che fotografava i morti, e poi quella che mi ha accolto in abito da sposa all’arrivo, quando l’ascensore si è fermato al piano e la porta si è aperta! Ma perché non mi dici ogni volta chi sei?»
«Perché non lo so neanch’io. Perché non so neanch’io ogni volta chi sono.»
Fa un altro passo verso di me, in quella piccola stanza rischiarata dalla sua luce.
«E, prima ancora, quella ragazza che si cotonava i capelli di fronte al piccolo specchio appeso ai chiodini che c’erano qua e là sui muri delle scuderie e della legnaia e della casa dei fagiani, e che dovevi inclinare sempre più man mano che la capigliatura elettrizzata saliva più in alto dentro lo spazio, e che inclinava a sua volta il mondo, il cortile di ghiaia, i viali, quella villa che c’era a Ducale al tempo degli Esordi, dove quella mattina prima ancora dell’alba sono arrivato con la mia veste nera, sulla motocicletta del Nervo, e tu mi sei venuta incontro in mezzo al cortile e mi hai chiesto: “Non mi riconosci più?”. Perché me lo hai chiesto? Dove ti avevo già vista? E poi mi hai detto per la prima e unica volta chi eri e hai dato inizio al mondo...»
Fa un altro passo in avanti. Anch’io faccio un altro passo in avanti.
«E poi quando ci siamo incontrati di nuovo in quella casa cantoniera abbandonata dove abbiamo ballato in mezzo a tutti quegli altri invitati morti, e io ti tenevo abbracciata e ti guardavo, e anche tu mi guardavi con i tuoi occhi che non si sapeva mai dove stavano guardando davvero, quale mondo stavano vedendo in quello stesso momento, perché non si sa dove siamo, e d’un tratto ti sei sollevata i capelli con una mano e mi hai detto: “Guarda, ho ancora le prime orecchie!”. E quando ruotavo con la bicicletta attorno ai viali e al muro di cinta del parco illuminati dalla massa in fiamme. E, prima ancora, quando passavi con la zampa di gatto che ti pendeva dal collo sotto la ghiacciaia merlata dove stavo seduto, nascosto dalle foglie degli ippocastani crivellate dai proiettili dello Ziò, con il pene appena circonciso e ancora bendato. Mi cambiavo la fasciatura nella mia stanza dalla finestra che dava sul viale che portava alla grotta, staccavo gli ultimi giri di garza rimasta attaccata tramite il sangue secco alla carne del prepuzio reciso, facendoci cadere sopra qualche goccia d’acqua tiepida che prendevo da un pentolino. E un giorno, mentre mi stavo cambiando la fasciatura, ho visto la maniglia della porta muoversi, come se ci fosse dietro qualcuno che avesse pensato per un istante di entrare e poi avesse rinunciato. Non ho mai saputo chi era...»
Lei è di fronte a me, mi sorride.
«Ero io, e non ho rinunciato» mi interrompe, guardandomi da vicino con i suoi occhi socchiusi. «Ho aperto la porta. Sono entrata. Tu hai alzato la testa verso di me. Avevi ancora tra le dita un ultimo lembo di garza insanguinata che faceva fatica a staccarsi. Ho preso con una mano il tuo pene un po’ tumefatto e inturgidito dalla fasciatura da cui lo avevi appena liberato, con l’altra l’ultimo lembo ancora attaccato, mentre il resto della garza era già tutto srotolato e sembrava fosforescente sul pavimento in penombra della tua stanza. Ci ho fatto cadere sopra qualche goccia d’acqua presa dal pentolino, per inumidire e sciogliere il sangue secco che faceva da collante, anche qualche goccia della mia saliva, chinandomi sopra di te con la testa, e allora la garza si è staccata all’istante...»
«Ma non c’è tutto questo negli Esordi! Non viene raccontato!»
«Tante cose non ci sono.»
«Ma perché io non me le ricordo?»
«Perché il ricordo è già tutto dentro la morte. Perché le cose succedono prima, sempre prima che siano successe. Perché succedano devono succedere prima.»
Siamo ancora più vicini, avverto già contro il volto il suo respiro tiepido e dolce di bella ragazza morta.
«E poi quel giorno...» sento la sua bocca sussurrare vicino a me, adesso che ci siamo avvicinati ancora di più «quel pomeriggio che la villa era vuota, perché erano andati tutti via assieme a Turchina e al suo sposo, a fare delle visite prima delle nozze, e anche Lenìn e i miei fratelli e la Dirce erano andati alla piccola stazione che c’era vicino al fiume per ritirare una spedizione di colombi viaggiatori arrivati col treno da molto lontano, nelle ceste, prima ancora che tu passassi quella notte insieme a me e ai miei fratelli, nel lettone della mia casa dove ti avevo guidato dall’alto della scaletta, con la torcia... Eravamo rimasti solo io e te, nella villa, nel parco. Tutto quello spazio era nostro. Il cortile, i viali, la grotta, la montagnola con la vasca e quel ponticello di metallo che ci passava sopra e che risonava, le scuderie, la scaletta di ferro dentro quel cunicolo, dai gradini che uscivano dalla calce, dove si poteva salire uno dietro l’altro, uno con la testa contro il corpo dell’altro, quasi dentro il corpo dell’altro, la legnaia, la colombaia, la mia casa con i pavimenti di cemento lucidi per la cera e le pareti che sembravano modellate a colpi di pollice, la cucina, la scaletta che portava al primo piano, alla camera di Lenìn e della Dirce e poi a quella con il lettone e con il soffitto sfondato da cui di notte si vedevano le costellazioni che cambiavano posto nel cielo, il primo piano della villa, la serra con quel lucernario dai vetri di diversi colori, le altre stanze, e poi la scala che saliva, la tua stanza, la vasca piena di pesci, che la Dea ammazzava sbattendoli forte contro il pavimento, le altre stanze, la stanza di Turchina con l’abito da sposa ancora imbastito disteso sul letto e i gessetti della sarta e gli spilli. Tutto il mondo era nostro. Ero uscita dalla mia casa con lo specchio, lo avevo appeso a un chiodino che c’era nella parte in muratura della casetta dei fagiani, avevo cominciato a cotonarmi i capelli guardandomi là dentro, e inclinando a poco a poco lo specchio per riuscire a vederci dentro tutta quella enorme matassa spezzata resa elettrica dal pettine che si sollevava sempre più nello spazio e che crepitava e mandava scintille. Tu stavi girando a piedi per il parco, giravi attorno a me, ma da lontano, con la tua veste nera e la tua fasciatura fosforescente, come quella notte in cui credevi di girare intorno alla massa in fiamme e invece giravi intorno a me, con la tua bicicletta dal freno senza gommini che faceva scintille quando si serrava attorno al cerchione. Venivi dalla parte della montagnola e passavi dietro di me, che stavo in punta di piedi e tenevo le braccia sollevate per riuscire ad arrivare con le mani fino alla cima della mia capigliatura elettrizzata. Mi guardavi senza fermarti, passavi vicino alla voliera, giravi ad angolo retto per attraversare il cortile e imboccare il viale che passava davanti alle altre gabbie dei fagiani e poi dietro la massa e poi a fianco della ghiacciaia merlata, e io sentivo solo il rumore dei tuoi passi che facevano scricchiolare la ghiaia sotto le scarpe. Ritornavi indietro, venendo dalla parte della grotta, tornavi a passare dietro di me, guardavi il mio corpo girato di schiena, sulla punta dei piedi e con tutte e due le braccia sollevate, vedevo dentro lo specchio sempre più inclinato che mi guardavi, e anch’io ti guardavo mentre passavi alle mie spalle, dentro lo specchio. Ti sei allontanato di nuovo, sei ritornato ancora, ma questa volta mi sei venuto più vicino, da dietro, mi hai guardato di nuovo, più a lungo, nello specchio, e anch’io ti ho guardato a lungo, i nostri sguardi si sono incrociati dentro il mio specchio che spostava l’asse del parco e del mondo. Ho finito di pettinarmi, ho toccato un’ultima volta con le mani allungate al massimo nello spazio il culmine della mia capigliatura elettrizzata. Poi mi sono girata e ho cominciato a camminare verso la villa vuota, ma ho lasciato contro il muro lo specchio tutto inclinato che inclinava il mondo. Tu non c’eri più, non so dov’eri, non ti vedevo. Ho continuato a camminare verso la serra, con le mie scarpe basse, scollate, che si aprivano a ogni passo e che facevano scricchiolare la ghiaia del cortile resa fosforescente dalla luce. Sono arrivata davanti alla porta, l’ho aperta, e si è sentito il rumore dei vetri che vibravano nelle loro intelaiature dallo stucco secco e spaccato. Forse hai sentito anche tu quella vibrazione, da qualche punto del parco e del mondo dove in quel momento ti trovavi. Mi sono guardata attorno nella serra, ho guardato le sdraie, il fagiano dorato, l’airone cinerino e il tucano imbalsamati dentro la loro teca. Ho imboccato la scala che portava al primo piano, sono arrivata in cima e mi sono fermata di fronte alla porta della tua stanza, l’ho aperta, sono entrata. Il letto di ferro era già stato fatto, sul comodino c’era un libro di preghiere aperto. Sono passata dalla tua stanza a quella dello Ziò, col suo alto letto e il catino e le brocche per le abluzioni del mattino. Mi sono affacciata a una delle due finestre, che dava sul cortile, come faceva certe volte Turchina quando si mostrava dall’alto in abito da sposa. Non so se mi hai vista, da qualche punto del parco e del mondo dove ti trovavi. Sono passata nella camera da pranzo, nella cucina del primo piano, e poi davanti al gabinetto con la porta aperta, e si sentiva il rumore delle bocche dei pesci che pullulavano a filo con l’acqua della vasca, il rumore di quelle bolle d’aria che affioravano in superficie e poi scoppiavano. Tutta la villa era vuota, le porte tra una stanza e l’altra erano state lasciate aperte, c’era un enorme silenzio. Sono entrata nella camera da letto di Turchina. Il suo abito da sposa ancora in prova era disteso sul grande letto dove certe notti dormiva abbracciata alla sarta perché non la abbandonasse durante il sonno. L’ho guardato a lungo, nella stanza deserta, nella villa deserta. Mi sono chinata per guardarlo più da più vicino ancora, ho avvicinato gli occhi, la testa, con la mia grande capigliatura soffice che si inclinava e che faceva inclinare ancora di più il mio corpo. L’ho toccato, l’ho sfiorato passandoci sopra il palmo per sentire la consistenza del tessuto sotto le dita. Ho provato a sollevarlo dal letto, per sentire il suo peso. Non c’era nessuno nella villa, non veniva un suono, una voce, nessun rumore delle macchine che arrivavano attraverso l’altro cortile e poi passavano una dopo l’altra sotto la volta sormontata dallo stemma, con quel rimbombo, e che poi facevano scricchiolare la ghiaia. Più nessuno, più niente. Solo io, nella villa deserta, e tu, nel parco deserto, nel mondo. Mi sono tolta le scarpe, mi sono sfilata il vestito leggero e senza maniche che portavo quel giorno, mi sono tolta anche la biancheria appena messa prima di uscire dalla mia casa, bianca, pulita. Ho preso il vestito dal letto, con due dita di ogni mano, con precauzione, perché non si allentassero le imbastiture, ho cominciato ad arrotolarlo e ad allargarlo dal fondo, per poterlo indossare. Stavo ancora così, in piedi, nuda, coi piedi nudi, e cercavo di far passare la mia enorme capigliatura nel varco dell’abito da sposa, lo stesso con il quale ti ho accolto al piano di quell’albergo dopo che sei arrivato con una nuova ondata di morti, quando, da un rumore leggero dietro di me, ho capito che tu eri ormai all’interno della villa, che eri già al primo piano, che eri già nel vano della porta, alle mie spalle, che i tuoi occhi mi stavano già vedendo. Forse avevi sentito il rumore della porta della serra che vibrava sui suoi cardini, forse mi avevi vista affacciata alla finestra della camera dello Ziò, o forse eri lì perché eravamo soli, io e te, in tutto il mondo, e tu avevi guardato me dentro il mio specchio, tutti e due ci eravamo guardati dentro lo stesso specchio. Mi sono girata, con le braccia ancora sollevate e il vestito ancora ripiegato sopra la testa. Ero nuda di fronte a te, col mio corpo di ragazza appena lavato, i piedi nudi sulle mattonelle del pavimento, e tu mi vedevi così, davanti ai tuoi occhi, in quella villa deserta, in quella stanza dove non ero mai stata, in quel pomeriggio in cui eravamo rimasti completamente soli, in quella luce che metteva a nudo tutto il fascio del mio corpo che respirava, non come quando la Dirce mi lavava insieme ai miei fratelli in mezzo al cortile, con la canna, e i nostri corpi quasi non si vedevano tanto il sole era alto e tanto la ghiaia che riverberava la luce cancellava ogni cosa. E allora ho lasciato cadere a terra il vestito da sposa e un istante dopo mi è venuta irresistibilmente alle labbra una cosa e ti ho detto... Non ti ricordi neppure questo? Perché non hai raccontato neppure questo?»
«Sì, io ero fermo di fronte a te, anch’io in piedi, abbagliato. Anche tu eri in piedi, ferma, con gli occhi socchiusi, le braccia e le mani lungo la linea calda dei fianchi. Il tuo corpo si muoveva appena un po’ a ogni respiro, ma dall’interno, da dentro. E allora hai abbassato ancora di più gli occhi, li hai chiusi del tutto per un istante e mi hai chiesto semplicemente, a bassa voce, così a bassa voce che si è sentito il rumore delle tue belle labbra che si staccavano l’una dall’altra, in un soffio: “Ti piaccio?”.»
Intorno a noi la stanza c’è ancora. Dal suo vestito di organza continua a venire quel bagliore.
Lei mi guarda.
«Chissà perché non ho raccontato tutto questo...» mi sale alle labbra. «Chissà perché devo riviverlo solo adesso che tu me lo racconti mentre siamo morti...»
Faccio un altro passo verso di lei. Adesso siamo ancora più vicini, perché da morti si può essere infinitamente vicini e poi ancora più vicini, e non si sente niente, non vengono suoni da nessuna parte dello spazio, del tempo, neppure da quel corridoio che c’è fuori e dove si sta accalcando al buio quella ressa di morti.
«Ma li fotografi tutti tu, i morti?» le chiedo.
Mi sorride ancora di più, con la bocca, con gli occhi.
«Perché, sei geloso?»
«Ma poi con che cosa li fotografi? Quando ci eravamo incontrati l’ultima volta avevi quella vecchia macchina fotografica su treppiede, quel bulbo di gomma che si premeva e scatenava il lampo al magnesio del flash... Qui invece non vedo apparecchi fotografici, non c’è niente!»
«Ci sono io.»
La guardo. Anche lei mi guarda, sorridendo con gli occhi socchiusi, le palpebre e le lunghe ciglia abbassate.
«Ecco, adesso sei tu che devi spogliarti davanti a me» mi dice, mentre le sue labbra si allungano ancora di più sui suoi denti umidi di saliva lucente.
«Perché? È così che vengono fotografati i morti?»
«Sì.»
Rimango per un istante immobile di fronte a lei.
«Che cosa c’è? Ti vergogni a mostrarti nudo perché sei morto?» mi chiede con dolcezza.
Non so risponderle.
«Sono nella morte anch’io, eppure, lo vedi, non mi vergogno a rimanere nuda di fronte a te» mi sussurra.
Si toglie le scarpe, chinandosi appena un po’ sotto la linea dei miei occhi. Con le dita di tutte e due le mani prende il bordo del suo vestito d’organza, se lo sfila dal basso, lo fa passare attraverso la nuvola dei capelli e poi rimane completamente nuda di fronte a me.
È ancora più evidente dell’altra volta, più bella.
Mi tolgo i vestiti, li lascio cadere a terra. Rimango anch’io nudo di fronte a lei.
Si avvicina ancora di più a me e, mentre si avvicina ancora di più anche se eravamo già infinitamente vicini, allarga tutte e due le braccia nell’aria, o in quella cosa che c’è ancora più all’interno dell’aria oppure al posto dell’aria, e allora anch’io allargo le braccia, i nostri corpi si toccano, si stampano l’uno contro l’altro, e io sento contro il mio corpo tutto il suo corpo di meravigliosa ragazza morta, le sue belle spalle, la consistenza delle sue tette compresse tra i nostri due corpi che si sono posti l’uno contro l’altro alla fine del mondo e dello spazio e del tempo, le sue anche ricoperte di morbida carne, le nostre radici sessuali, le gambe, anche le palme delle nostre mani si toccano, le nostre dita si intrecciano a una a una, si stringono come non possono neppure immaginare di stringersi quelle dei vivi, di quelli che credono di essere vivi.
Nello stesso istante un enorme, accecante bagliore riempie la stanza e, mentre non sono più lì, mentre vengo sbalzato chissà dove o sono già chissà dove, mi sorprendo a pensare o a fantasticare, se si può fantasticare anche quando si è morti, se quello che si fantastica da morti è ciò che avviene prima ancora del ricordo dei vivi che è già tutto dentro la morte: “Ecco, è così che si viene fotografati da morti! È così che si entra nella catastrofe della luce! Ed era quello il bagliore che si vedeva ogni tanto, da fuori, da quel corridoio immerso nell’oscurità più profonda dove la massa indistinguibile e nera dei morti faceva la fila per venire fotografata e configurata!”.