«Allora vieni, se è vero che non hai paura di andare al di là della vita e della morte del mondo» mi dice uno dei morti che incontro lungo un corridoio dei piani più alti, gremito di morti che vagano da una stanza all’altra dopo le violente scosse di terremoto che hanno investito i grattacieli e le città dei morti, e parlano concitatamente tra loro e qualcuno grida, si chiamano l’un l’altro nelle stanze per vedere le nuove crepe che attraversano da parte a parte pareti e soffitti. «Io ti mostrerò come si fa ad andare al di là della vita e della morte del mondo. Ti dirò cosa è davvero successo due millenni fa, cosa sta succedendo adesso.»
Lo guardo, mentre mi conduce verso la sua stanza tenendomi un braccio sopra la spalla, come per sottrarmi alla ressa degli altri morti che si chiamano l’un l’altro e mi chiamano gridando e piangendo lungo i corridoi spaccati.
Entriamo nella sua stanza. È tutto buio, ma si vedono ugualmente e con enorme evidenza le spaventose crepe che sconnettono i muri, il soffitto leggermente franato, le seggiole rovesciate, il pavimento dalle mattonelle spaccate.
«Siediti qui!» mi dice capovolgendo una seggiola.
Mi siedo, al buio, in questo buio così profondo dove si può vedere ogni cosa.
Anche lui si siede, da qualche parte.
«Tu chi sei?» provo a dire.
«Sono Lazzaro.»
Rimango immobile, muto.
Siamo seduti uno di fronte all’altro, nel mondo nero, nel buio, ci guardiamo come si guardano i morti.
Le nostre seggiole hanno le gambe poste da una parte e dall’altra della stessa crepa che attraversa il pavimento.
Si porta una mano alla testa. Chiude gli occhi.
Da fuori continuano a venire quelle voci concitate, quegli urli.
La sua bocca si muove leggermente, nel buio, come se stesse cominciando a parlare.
Un secondo dopo si alza di scatto dalla sedia, va a chiudere la porta, inclinata in avanti e con i cardini fuori dal muro. La forza un po’ per farla entrare nei suoi stipiti dissestati.
Torna a sedersi di fronte a me.
È tutto buio.
«Ero là, solo, sepolto...» comincia a dire.
Ma poi si ferma. Mi guarda ancora, mi guarda nel buio, in quella stanza appena accarezzata dal terremoto dei morti e dei vivi.
«Tu conosci la mia storia?» mi chiede dopo un po’, all’improvviso.
«Sì, la conosco.»
«No, tu non la conosci» mi dice a bassa voce.
Lo guardo anch’io, in quella stanza buia, a uno dei piani più alti di quel grattacielo che è appena stato sconquassato dal movimento sismico di vita e morte.
«Invece la conosco!» gli dico ancora. «Tu là al buio, sepolto, in un villaggio della Galilea di nome Betania, le tue sorelle Marta e Maria che piangono, che vanno incontro a Gesù e piangendo gli dicono: “Signore, se tu fossi stato qui nostro fratello non sarebbe morto!”. Gesù che trema, che si turba, che piange... Io ascoltavo la tua storia con le lacrime agli occhi, nella chiesina di quel seminario, una delle più belle che siano state mai raccontate, la rileggevo da solo durante gli esercizi spirituali, in quell’enorme silenzio che durava per giorni e giorni, e intanto la sera scendeva, e c’erano tutte quelle vesti invisibili, al buio, contro lo sfondo della città illuminata a perdita d’occhio in fondo alla pianura, e si sentiva solo il suono delle vesti nere mosse dal vento, delle preghiere bisbigliate qua e là a fior di labbra nell’oscurità che cominciava a coprire il mondo, e quel seminarista sordomuto che si scorgeva immobile e in assoluto silenzio in qualche punto nel buio più fitto, con la sua testa ben pettinata ricoperta da quell’involucro trasparente su cui si riflettevano le luci che venivano dallo spazio del mondo, in quelle sere e in quelle notti limpide dal cielo pieno di stelle e di fuochi, prima di salire tutti insieme e in silenzio verso i dormitori. Ci continuavo a pensare anche quando ero ormai coricato al buio nel mio letto, continuavo a pensare a te, coricato al buio, solo, in quel sepolcro. E poi Gesù arriva, dopo avere camminato lungo quei sentieri ricoperti di polvere, e anche i suoi sandali e le dita dei suoi piedi e la sua veste e i suoi capelli e il suo volto sono bianchi di polvere. Il suo corpo trema per la commozione e il dolore, perché il suo amico Lazzaro è morto. “Vedi come lo amava!” bisbigliano alcune voci, di donne e uomini di Gerusalemme venuti a visitare la casa del defunto dopo la sepoltura. E allora Gesù dice: “Dove lo avete deposto?”. “Vieni e vedi” gli rispondono. Gesù arriva davanti al sepolcro. Tutti piangono. Il suo corpo freme. “Togliete la pietra!” ordina a chi gli sta intorno. E Marta gli dice: “Signore, è sepolto da quattro giorni, puzza! Sotto le bende i batteri stanno già divorando il suo corpo, le sue cellule non controllano più gli enzimi, le mosche vomitorie stanno già mangiando il grasso sottocutaneo...”. “Togliete la pietra!” ripete piangendo Gesù. Tolgono la pietra. E allora Gesù grida, non si limita a dire, magari a voce alta, ma grida, grida con le lacrime agli occhi, grida: “Lazzaro, vieni fuori!”. E tu sei uscito, i piedi e le mani bendati, il volto ancora fasciato perché la bocca e la mandibola non si aprissero... La resurrezione e la vittoria sulla morte, ci diceva il padre priore, che anticipa quella di Gesù dopo la crocefissione e la morte...»
Mi interrompo un istante, perché sento respirare forte, molto forte, nel buio, quel respiro così profondo e allagato con il quale i morti carpiscono l’aria nera che c’è dentro l’aria del mondo.
«Non è andata così» mi dice all’improvviso la sua voce, bassa, molto bassa, quasi in un soffio.
Smetto di respirare, su quella sedia che scavalca la stessa crepa, nel buio.
«Ero là, solo, sepolto...» sento che la sua voce ha ripreso a dire «non sentivo niente, non avvertivo niente. Mi sembrava di non essere da nessuna parte, eppure c’ero...»
«Sì, è successa la stessa cosa anche a me!» mi lancio in avanti a dire, nel buio. «L’uscita lontana, sempre più lontana. Impossibile uscire, impossibile ritornare. Dov’è la porta per uscire? Dov’è quella per entrare? Poter ritornare indietro, nell’inconcepito, poter morire all’indietro, all’incontrario, senza essere nati e neppure concepiti... Sto morendo o nascendo? Sto facendo il balzo quantico dall’eternità al tempo oppure quello dal tempo all’eternità?»
«Sì, e poi quelle voci che si sentono venire da fuori, da sopra, da qualche parte. Chi è che sta bussando in piena notte alla porta del mio castello? “Lazzaro, vieni fuori!” gridava. Come a dire: “Che cosa fai lì dentro? Falla finita con quella pantomima della morte con la quale mi hai attirato fin qui!”. E allora io, anche se ero morto, gli ho gridato: “No, vieni dentro tu!”. E lui è venuto. Ha fatto rotolare la pietra ed è entrato. Era tutto nero. Vuol dire che intanto era scesa la notte. Non so se erano ancora lì tutti gli altri o se erano andati ormai chissà dove, se stavano dormendo o se erano morti e stavano a loro volta aspettando chi li resuscitasse da morti. Non si sentivano più quei pianti sconsolati delle mie sorelle dai volti tutti rigati di lacrime e dai lunghi capelli ricoperti dal velo. Era tutto buio. Era tutto nero. Ma avvertivo che lui era entrato all’interno della mia tomba verticale attraverso la pietra spostata che copriva la bocca della piccola grotta dove ero stato sepolto. Adesso era lì, vicino a me, proprio lì. Nessuno dei due ha detto niente, per un po’. Ci limitavamo a stare uno vicino all’altro, nel buio. “Non mi dici niente?” ho sentito che la sua voce ha sussurrato d’un tratto, da molto vicino alla mia testa bendata, perché si era seduto per terra accanto al mio corpo morto disteso sopra la pietra. “Sei tu che dovresti dire qualcosa!” gli ho risposto in mezzo a tutto quel buio. Non ha detto più niente, per un po’, si limitava a starmi vicino e a respirare accanto alla mia testa morta, nel buio. E allora sono venute le lacrime agli occhi anche a me, e non ho potuto trattenermi dal dirgli, quasi dal gridargli, muovendo con fatica la mia bocca morta quasi immobilizzata dalla fascia: “Perché sei venuto a resuscitarmi? Perché vuoi trascinarmi nella catastrofe della resurrezione?”. Non ha detto niente. Adesso avvertivo soltanto il suo leggero respiro molto vicino alla mia testa morta. “Perché vuoi gettarmi di nuovo nella catastrofe della vita?” gli ho chiesto ancora, e intanto sentivo contro le ossa della mia testa il freddo della pietra su cui ero disteso. Silenzio. “Perché vuoi farmi risorgere solo per farmi morire di nuovo?” ho continuato a domandargli nel buio. “È questa la vita che porti nel mondo? Sei venuto nel mondo solo per portare una simile resurrezione? Per perpetuare il ciclo delle resurrezioni dentro la vita e dentro la morte? Perché, se adesso mi fai risorgere, io dovrò morire un’altra volta dentro la vita. E allora dovrai farmi risorgere ancora, per farmi morire ancora, per farmi risorgere ancora... Perché o mi fai risorgere continuamente o è come se non mi facessi mai risorgere!” Mi sono fermato, anche se avrei avuto molte altre cose da dirgli, con la mia povera bocca serrata nella morsa di quella fascia annodata sopra la testa. “Lo so...” mi ha detto d’un tratto la sua voce, da vicino, dal buio. Poi è rimasto di nuovo in silenzio. Eravamo soli. Sono rimasto ad aspettare nel buio, perché sapevo che avrebbe parlato ancora. Infatti, dopo un po’, oppure dopo molto, non saprei dire, la sua voce ha bisbigliato, con dolcezza, dal buio: “Io devo morire perché tu possa risorgere”. Sono rimasto sbalordito. “Io sono venuto qui per morire, perché se io adesso non muoio tu non potrai risorgere dalla morte” mi ha detto ancora. “Per questo poco fa tremavo, piangevo. Piangevo per te, ma piangevo anche per me.” “Signore, perché?” sono riuscito soltanto a dire. “Perché ogni cosa è spaccata in due dall’interno” mi ha risposto. “Perché la vita e la morte sono spaccate in due. Perché anche la creazione e la distruzione sono spaccate in due. Perché io devo entrare nel continente dei morti perché tu possa uscire da questa tomba ed entrare in quello dei vivi. Io prenderò il tuo posto, tu il mio.”
Adesso ero io che non dicevo niente. Non riuscivo più a dire niente, tacevo, imprigionato nelle mie bende, col corpo disteso sopra la pietra. Eravamo soli, eravamo completamente soli, là dentro. Tutti e due al buio, dentro la stessa tomba. Non venivano voci, rumori, versi di uomini o di animali, dal resto del mondo, dallo spazio, dal tempo. Io tacevo, anche lui taceva. D’un tratto ho sentito che qualcosa si muoveva sopra l’involucro del mio corpo, le sue mani mi stavano sfiorando in silenzio, stavano sciogliendo con delicatezza le bende in cui ero avvolto. Allora ho sollevato la testa, mi sono seduto sopra la pietra, mi sono alzato. Siamo rimasti uno di fronte all’altro, in piedi, dentro quella tomba nera, senza vederci. Ma ho capito, da un leggero movimento nel buio e da un suono lieve, che si era inchinato un po’ per togliersi i sandali impolverati, che si era sfilato la veste, che stava allungando le braccia verso la pietra da cui mi ero appena alzato e che stava raccogliendo le bende. “Adesso tocca a te aiutarmi” ho sentito che la sua voce mi stava dicendo con dolcezza, nel buio. L’ho aiutato ad avvolgersi nelle bende, come lui aveva aiutato me a uscirne, muovendo le mani sul suo corpo, alla cieca, nel buio. Poi ho capito che era andato a distendersi sulla pietra da cui mi ero appena alzato, mentre io camminavo al buio verso l’uscita. Ma prima mi sono chinato verso terra, ho raccolto i suoi sandali e la sua veste e li ho indossati nel buio. Ho fatto rotolare un po’ di più la pietra che chiudeva quasi del tutto l’imboccatura della tomba. Mi sono girato indietro, verso il suo corpo coricato al buio e avvolto nelle mie bende, senza vederlo. “Rimetti a posto la pietra!” ho sentito che mi stava dicendo sottovoce, sorridendo con dolcezza nel buio.
Sono uscito. Ho spostato leggermente la pietra, perché sigillasse l’entrata. Mi sono guardato attorno. Non c’era nessuno, era notte fonda. Forse erano andati tutti a dormire nelle loro case, a Betania, le mie sorelle Maria e Marta, gli altri amici e parenti erano tornati a Gerusalemme, a cavallo dei loro asinelli, sui loro piccoli carri, vedendo che nessuno usciva più dalla tomba, avranno pensato che il miracolo non era avvenuto, che la morte non era stata vinta, che non c’era stata la resurrezione, che Gesù non mi aveva tirato fuori per i capelli dal continente dei morti, che nessuno poteva farlo, che magari ero stato io a trascinarlo nel continente dei morti, che adesso eravamo tutti e due morti là dentro, e piangevano e si disperavano nelle loro case, in piena notte, nel buio. Così sono potuto uscire non visto dal mio villaggio. Sono passato di fronte alla mia casa. Non filtrava nessuna luce dagli stipiti delle finestre e della porta, non c’erano lucerne accese all’interno, era tutto buio. Ho accostato l’orecchio alla porta, e si sentivano venire da dentro i gemiti disperati delle mie sorelle che stavano piangendo nel buio. Mi sono avvicinato al mio asinello, che era legato con una corda all’esterno della stalla e che stava dormendo. Si è svegliato, sentendo i miei passi nel buio. Credo che mi abbia riconosciuto, perché ha cominciato ad alzare e ad abbassare ripetutamente e con violenza la testa. Gli ho chiuso la bocca con le mani, prima che cominciasse a ragliare, gli ho dato un bacio sul muso freddo, bagnato. Si è tranquillizzato. Sbatteva la coda per la contentezza, nel buio. L’ho preso per la cavezza, l’ho fatto camminare vicino a me, piano piano, perché i suoi zoccoli non facessero troppo rumore scivolando sopra le pietre e non rivelassero la nostra presenza nel buio. Siamo arrivati fino all’imbocco della stradina di terra che portava fuori dal villaggio. Allora gli sono salito in groppa. Abbiamo cominciato ad andare, nel cuore della notte, nel buio, verso Gerusalemme.
Non si vedeva niente, ma gli occhi dell’asinello indovinavano lo stesso i bordi della strada buia, perché continuava a trottare piano, tranquillo, soffiava di tanto in tanto col naso, emetteva dei piccoli versi, sbatteva la coda contro le mie gambe come per darmi segni continui della sua presenza. Poi il cielo ha cominciato poco per volta a diventare più trasparente, più chiaro. La luce si stava sollevando dalla linea deserta dell’orizzonte, si cominciavano già a vedere nel buio i bordi luminosi del mondo. L’asinello trottava più forte, senza che dovessi incitarlo. Eravamo già in vista delle mura lontane della città di Gerusalemme. C’era un’animazione crescente lungo la strada che portava alla più grande delle sue porte, perché era vicino il giorno della Pasqua, piccoli banchi improvvisati su cui si vendeva ogni cosa, persone a piedi, sugli asini, sui cavalli, abitanti di Gerusalemme e dei borghi vicini, romani con i loro ridicoli elmi con il pennacchio che si muovevano tra la ressa incitando i cavalli dai fianchi già lucidi di sudore anche se il giorno era appena iniziato. Ero sempre più vicino alla porta. L’ho attraversata, a cavallo del mio asinello, risorto. Man mano che mi addentravo nelle strette strade della città, tra le sue case di pietra, affacciati alle finestre e davanti alle porte addobbate per la festa e in piedi sulle terrazze e sui tetti, cresceva il numero delle persone che si giravano a guardarmi mentre passavo a cavalcioni della povera bestia che mi trasportava. Qualcuno mi salutava, lanciava grida, qualcun altro tagliava con il coltello i lunghi rami delle palme e cominciava già ad agitarli al mio passaggio. Una folla sempre più grande si assiepava ai lati della strada, per guardarmi passare, gettava rami di palma e mantelli davanti a me, davanti agli zoccoli del mio povero asinello svegliato dal sonno che ci trottava sopra scuotendo con emozione la testa ed emettendo brevi ragli con la sua voce potente. Alcune donne si toglievano il lungo velo che copriva le loro vesti e lo gettavano per terra davanti a me. E io continuavo ad avanzare su quel tappeto sempre più spesso, con tutto il peso della mia resurrezione e della mia morte e della mia nuova morte dentro la mia nuova vita. Cominciavo già a vedere qua e là in mezzo alla folla anche le facce di alcuni apostoli di Gesù, che credevano che io fossi Gesù perché adesso indossavo la sua veste e i suoi sandali, perché adesso ogni cosa era veramente e completamente spaccata in due, perché adesso ero Gesù. Qualcuno gridava: “Osanna, benedetto chi viene nel nome del Signore, benedetto il risorto!”. Perché anche chi stava gridando queste parole al mio passaggio era spaccato in due, perché quello che doveva succedere era già successo, perché anche Gesù e anche Lazzaro erano spaccati in due.
Il resto si sa, quello che non si sa è quello che è successo prima, e anche quello che è successo dopo che fosse prima. Il processo, la flagellazione, la croce... Il mio corpo là, in mezzo a quelle persone infuriate ricoperte di paramenti, a quei giudici che non sapevano chi stavano giudicando, i flagelli che strappavano pezzi della mia carne resuscitata, le grida della folla contro di me, dopo il tappeto di rami e di fiori e di vesti stese al mio passaggio e gli osanna, perché ogni cosa è spaccata in due, perché anch’io ero là ed ero nello stesso tempo disteso al buio sopra una pietra, avvolto nelle bende, a Betania. Ero vivo, eppure il mio corpo emanava ancora il profumo di mirra e aloe della precedente sepoltura, oppure di quella nuova che ci sarebbe stata, mentre due uomini che non conoscevo, vivi o morti, non saprei dire, stavano flagellando con furia il mio corpo e il mio volto fino a ridurli a una statua di fango e a una maschera di sangue e di muco. E poi di nuovo attraverso le vie di Gerusalemme, con il palo della croce sopra le spalle, tutti quei volti attoniti, che non sapevano se stavano vedendo un risorto oppure un morto, perché io mi stavo avvicinando al punto limite e alla cruna di vita e morte, ero uscito dalla morte e stavo ritornando dentro la morte, stavo accostando con la cruna della mia vita i lembi della vita e quelli della morte, stavo mostrando con sbalorditiva evidenza di fronte ai loro occhi e alla loro vita e alla loro morte quanto sia la vita che la morte siano spaccate in due, quanto siano compresenti e in via di tracimazione i continenti dei vivi e quelli dei morti.
E poi la croce. Mosche e tafani che conficcavano le loro teste all’interno delle mie piaghe. Io là in alto, sollevato sopra le teste, di quei vivi oppure di quei morti. C’erano anche Marta e Maria, mi pareva, che non sapevano se erano di fronte a Gesù o di fronte al loro fratello Lazzaro che stava morendo inchiodato a una croce, perché non avevano visto nessuno dei due uscire da quel sepolcro. Eppure adesso c’era qualcuno sopra quella croce tutta imbrattata di sangue, che stava morendo o che stava morendo di nuovo di fronte ai loro occhi vivi o morti che non sapevano quello che stavano vedendo dentro la vita o dentro la morte. E poi quella lancia che frugava dentro il mio corpo, quella spugna imbevuta di fiele contro le mie labbra spaccate e ricoperte di mosche. E io lì sopra, in attesa di ciò che già era avvenuto, mentre Gesù era là, coricato dentro il sepolcro, oltre ciò che doveva ancora avvenire. E intanto, tra una perdita di conoscenza e l’altra, pensavo: “Dove sono? Chi sono? Poco fa ero morto, adesso sono vivo, ma quando ero morto ero alle soglie della vita, e adesso che sono vivo sono alle soglie della morte. Come potrò essere il preannuncio della resurrezione di Gesù dal continente dei morti e di tutti i morti, se io che sono appena risorto sto già morendo di nuovo? E dopo cosa succederà? Si muore ancora, anche se si era già morti, si era già stati morti? O si vive ancora, anche se si era già vivi, si era già stati vivi? Dov’è lo spazio della vita? Dov’è quello della morte?”. Poi ho sentito che la mia voce stava gridando, da qualche parte della vita o della morte. Sentivo, come da lontano, da infinitamente lontano, la mia voce gridare da qualche parte: “Oh, Signore, io non so neppure se tu mi hai abbandonato o non mi hai abbandonato! Io non ho neppure la consolazione di sapere che tu mi hai abbandonato!”. E intanto avvertivo che le mosche artigliate sopra le mie labbra tutte ricoperte di sangue erano volate via tutte insieme, per qualche istante, atterrite da questo grido.
E poi sono morto, anche se ero già morto, ero già stato morto. E poi mi sono trovato di nuovo in un sepolcro, tutto avvolto nelle bende, con il corpo martoriato e la testa distesa sopra una fredda pietra. Ed era tutto buio, era tutto nero. E poi ho sentito il rumore della pietra che rotolava di fronte all’imboccatura del sepolcro, e un rumore lieve di passi nell’oscurità più profonda. Qualcuno è venuto a sedersi nel buio vicino a me. Ma non parlava, non si sentiva il più lieve rumore. Non sentivo neanche il suono del suo respiro nel buio. “Sei Gesù?” ho provato a domandare nel buio. “Sei Gesù che è potuto ritornare in vita perché adesso io sono morto?”. “No” mi ha risposto a bassa voce, nel buio. “Adesso Gesù sei tu!” “E allora tu chi sei?” “Sono il resurrettore!”»