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Tutto il mondo è spaccato in due

Quando ero tra i vivi e mi muovevo nel mondo con il mio corpo che percepivo di tanto in tanto come vivo, mi sembrava sempre di venire da un’altra parte e da un altro mondo. Adesso che sono morto mi sembra ancora di venire da un’altra parte, da un’altra parte e da un altro mondo. Ve l’ho già detto: allora mi sembrava di vivere in un mondo di morti, adesso mi sembra di vivere in un mondo di vivi. Allora mi sembrava di combattere contro dei morti, adesso mi sembra di combattere contro dei vivi.

Allora mi spostavo per le strade, di notte, da solo, e vedevo intorno a me tutte quelle luci e quella folla di morti. La solcavo senza pensare a niente, senza vedere niente, nella metastasi di quelle luci morte. Sprofondavo sempre più in quella vita morta e mi passava di tanto in tanto per la mente che stava succedendo qualcosa di enorme nel mondo, che era già successo, ma che nessuno se ne accorgeva, che tutta quella folla stava camminando sull’orlo di un precipizio, che l’aveva già oltrepassato e che era già da una parte mentre credeva di essere ancora dall’altra. Che tutto il mondo si era spaccato in due. Che ogni cosa si era spaccata in due, che anche la nostra specie si era spaccata in due, che era in atto o che era già avvenuta una divaricazione di specie, che stavamo vivendo in una condizione mai conosciuta prima dagli appartenenti alla nostra specie e che quel continuo cercarsi ciecamente e quell’incernierarsi di genitali e di corpi era solo un tentativo per ritardare di un po’ questa divaricazione di specie che stava già avvenendo nelle profondità delle nostre strutture genetiche e nei nostri cromosomi.

La notte scendeva sulle città dei vivi. I vivi si coricavano al buio nelle loro case, nei loro letti, si abbandonavano alla perdita di conoscenza del sonno, cominciavano a sognare senza sapere che i loro sogni erano dentro i sogni dei morti che stavano a loro volta sognando i sogni dei vivi. E intanto la loro specie non c’era più, si era spaccata e sdoppiata, il loro mondo non c’era più, il loro Dio morto aveva già venduto il loro piccolo pianeta sperduto e tutto dentro la morte, rotante in un braccio morto di una dei miliardi di galassie che riempiono come sogni tutto questo universo buio pieno di galassie morte. Tutte le loro strutture, biologiche e mentali, e le loro proiezioni, economiche, militari, culturali, e i meccanismi di autovalorizzazione che avevano saturato il mondo fino a un punto di non ritorno erano già in preda all’autofagocitosi delle cellule. La vita si era mangiata la vita, la morte si era mangiata la morte. E io ero là, sprofondato in qualche zona e in qualche punto della vita e della morte del mondo, sentivo sopra di me il suono lontano delle loro voci morte. E non sapevo dov’ero, sapevo solo che ero in un punto che non c’era più, che non c’era ancora. Sono vissuto così dentro il mondo dei vivi, sono vissuto così anche dentro il povero mondo della letteratura e degli scrittori vivi dentro la morte, dove ero finito per sbaglio, per caso, come qualcosa che era completamente fuori dalla traiettoria del loro sguardo e del mondo, che era da un’altra parte, che era sotto gli occhi di tutti ma che non si vedeva.

“Nessuno mi vede, nessuno saprà mai niente di tutto questo!” mi dicevo, mi disperavo, quando ero vivo.

Ero solo e mi dilaniavo, gettavo brandelli del mio corpo contro altri corpi che si trovavano per un istante vicino a me nella solitudine infinita del mondo, per quella continua irruzione e tracimazione di vivi e di morti nel continente dei vivi dentro la morte. Spingevo la testa in una latrina nera per vedere che cosa c’era in fondo, dove andava a finire la vita dentro la morte e dove cominciava la morte dentro la vita.

Dov’ero quando sono nato, quando è cominciata la mia vita dentro la morte? Io non ricordo nulla dei primi anni della mia vita dentro la morte. Mi capitava certe volte di leggere che le persone ricordano episodi anche molto lontani della loro vita dentro la morte. Chi diceva di ricordare questa cosa, chi quell’altra. Certi sostenevano persino di ricordare qualcosa di quando erano ancora all’interno dell’utero materno, di quando erano sprofondati nel buio ed erano infinitamente vicini alla morte che viene prima. Io non ricordo nulla dell’inizio della mia vita. Ricordo solo la spaventosa, traumatizzante violenza del soldato che ha inseminato mia madre e che mi ha strappato fuori dalla morte che viene prima, reso folle dalla sconfitta nella più grande guerra che sia mai stata combattuta tra i vivi. Ma questo più avanti, mi pare, a meno che non l’abbia percepita fin dall’inizio della mia vita dentro la morte, e che questa insostenibile esperienza e questo trauma mi abbiano reso intontito fin dall’inizio. Ricordo solo le notti di terrore quando la sua violenza si scatenava nel mondo, gli urli di mia madre gettata per terra e massacrata a pugni e calci sul corpo e sul volto, trascinata come un sacco insanguinato per terra, i suoi versi di animale scannato, le sue implorazioni. Quella stanza buia dalla tappezzeria blu scura in cui mi andavo a rifugiare in quei giorni e in quelle interminabili notti della mia vita dentro la morte, vicino al letto su cui era coricata quella povera vecchia cieca infinitamente orribile e infinitamente buona. E poi anche qualcosa di più indicibile, di cui non ho mai parlato, di cui mai parlerò, di cui non si può parlare, che devo custodire dentro di me attraverso la vita e attraverso la morte del mondo. Io ho dovuto fin dall’inizio distinguere i contorni delle cose del mondo dall’interno di questo terribile intontimento e di questo trauma.

E poi gli anni del seminario. Le disperate luci della città che vedevo di notte, in quella sconfinata separazione e in quell’enorme silenzio del mondo, dopo che la mia vita era stata saturata da quella violenza e da quella lacerazione e da quella profanazione. Quel silenzio dove io invece mi trovavo a mio agio dentro la vita che era tutta dentro la morte, da cui è cominciata questa esplorazione e questa invenzione e ha preso forma questo contromovimento e questo traboccamento che era già fin dall’inizio tutto dentro vita e morte create. È stato lì che ho incontrato per la prima volta quel demonio che poi ha continuato ad attraversare la mia vita dentro la morte. Come si chiamava? Ah, sì, il Gatto! Al quale ho servito la prima messa quando è stato ordinato sacerdote, e tremava così violentemente sopra l’altare che sembrava sempre sul punto di spezzarsi. Perché tremava così forte? Solo per l’enormità di quello che stava avvenendo? Solo perché i suoi occhi avevano colto al suo nascere, su quel foglio che mi aveva sorpreso a scrivere e che mi aveva non so come carpito, il bagliore iniziale di tutto questo? Solo perché toccava a lui portare nel continente dei vivi quella lacerante risata e quel tremito di ogni cosa nel buio e nella luce del mondo? O era anche per qualcosa d’altro? E io muovevo il turibolo contro la sua testa e il suo volto che si avvicinavano e si allontanavano a ogni oscillazione come se fossero tenuti uniti da un elastico al resto del suo corpo ricoperto di paramenti, scorgevo attraverso la nuvola dell’incenso il suo volto che tremava con violenza per contenere dentro di sé quell’enorme esplosione nel suo istante di inizio dentro la vita e dentro la morte del mondo. E c’era anche quell’uomo con gli occhiali che arrivava ogni tanto chissà da dove e che cercava di ritrovare il punto da cui era iniziata questa spaccatura della vita e della morte del mondo, e si sedeva attonito alla tavolata del refettorio. E quella Suora Nera che saliva a piedi nudi sopra l’altare per mettere i vasi di fiori e che poi ho visto balenare un’altra volta nella mia vita, quando mi spostavo nelle città addormentate dei vivi per portare la rivoluzione dentro la vita che è dentro la morte, durante una notte di tumulti in quella città rastrellata, alla testa di quel manipolo di guerrieri, mentre conficcava quel ferro da calza nella narice di uno dei piumanti rimasto intrappolato, e poi ci passava sopra due dita per pulirlo, si portava alle labbra frammenti di cervello rimasti appiccicati, come quel giorno che aveva passato le dita sulla lama filiforme del coltello e poi si era portata alle labbra i frammenti di formaggio dietro la fessura della giostra di legno del portavivande. E c’era anche quel seminarista sordomuto con la testa ricoperta da una crosta gelatinosa e trasparente, dentro la quale si scorgevano di notte le luci di quelli che allora mi apparivano come plastici di città future illuminate nel buio irte di grattacieli e aeroporti ma che forse erano invece le prime visioni delle sterminate città dei morti che mi balenavano fin dall’inizio in quella membrana trasparente di faglia, come dai fondi di vetro delle barche si possono scorgere le creature che popolano le profondità delle acque buie nel continente dei vivi. Che immaginavo già ordinato sacerdote, mentre ascoltava nel più assoluto silenzio le confessioni, e poi, alla fine, la perfetta potenza della sua mano che si sollevava al buio nel gesto muto dell’assoluzione. Cosa gli avrebbero confessato? Cosa avrebbero confessato i vivi dentro la morte a un sacerdote che non poteva sentire nulla e che non poteva parlare? Che poteva solo alzare di tanto in tanto la mano nell’oscurità più profonda, indistintamente, alla cieca, per annientare e per assolvere il mondo? E io, cosa gli avrei confessato, quando ero vivo, se fossi andato a inginocchiarmi vicino a lui seduto nel buio dentro un confessionale? Gli avrei forse detto, spingendo la mia testa verso la sua testa, nel buio: “Padre, io credo che noi vivi siamo dentro una prigione buia, che tutta la vita sia imprigionata dentro due branchie buie che la serrano da ogni parte. Credo che tutta la nostra vita e tutto il nostro mondo e tutta la nostra specie siano un residuo buio di qualcosa che si trova da qualche altra parte dentro un buio ancora più profondo e più nero. Credo che anche la luce sia un manifestarsi di questo buio che viene prima. Credo che più è forte la luce e più rende evidente tutto l’enorme buio dentro cui ci troviamo. Credo che la luce sia tutta dentro il buio e che il buio sia tutto dentro la luce che c’è dentro il buio. Credo che quello che ci appare come il mondo naturale sia tutto dentro questo buio che c’è dentro la luce buia. Non c’è nessun bene nel mondo, non c’è nessuna luce nel buio. Io sto dentro questo mondo e dentro questo buio con la mia lucina che rende ancora più compatto e più impenetrabile tutto questo buio. Il mio rapporto con questa vita si è lacerato così a fondo che non si può più ricomporre. Io desidero solo vivere da solo, lontano da questo piccolo mondo perduto in cui sono finito per sbaglio, per caso, e in cui non c’è nessuna luce, non c’è nessun bene. Ma allora perché non mi do pace, perché combatto? mi chiedo. Perché cerco di tenere accesa una piccola luce dentro tutto questo buio? Perché mi getto così allo sbaraglio, perché cerco di evadere da questa prigione buia? Perché cerco così disperatamente un passaggio con il residuo del mio corpo nella cruna della mia vita nella vita e nella morte del mondo? Oh, Padre, potrà mai esserci assoluzione per una simile colpa?”.

Sarei rimasto in silenzio, con le lacrime agli occhi, nel buio. Non sarebbe venuta una parola dall’interno nero del confessionale, dal prete sordomuto seduto immobile con la stola sopra le spalle, con gli occhi chiusi, nel suo infinito silenzio.

Poi, da un leggerissimo fruscio di vesti, avrei capito d’un tratto che il suo braccio si stava sollevando nel buio, che la sua mano si stava muovendo in quello spazio nero nel gesto apocalittico dell’assoluzione.

E adesso che sono morto, se incontrassi quel sacerdote sordomuto, anche lui morto, se mi capitasse di incontrare in questa mia corsa una sterminata folla di morti che fanno la fila per essere confessati da lui in uno di questi incroci o di queste enormi piazze spaccate dalle crepe aperte dal terremoto e dalla tracimazione dei vivi nei morti, e se mi mettessi anch’io in fila, come mi sono messo in fila per essere fotografato da morto, lungo quel corridoio nero rischiarato di tanto in tanto dai bagliori che venivano da quello stanzino dove la Pesca era riapparsa a me come fotografa dei morti, e mi inginocchiassi alla fine vicino a lui, io morto e lui morto, che cosa gli direi, quale sarebbe la mia confessione adesso?

Gli direi: “Padre, non solo i vivi ma anche noi morti viviamo dentro una prigione buia. Io non so cosa succederà adesso, che anche il buio si è spaccato in due, che anche la luce si è spaccata in due, che anche la morte si è spaccata in due. Che ci sono morti che vogliono diventare vivi per rivivere la loro vita dentro la morte e che ci sono morti che vogliono rimanere morti dentro la vita che c’è dentro la morte. E forse anche dall’altra parte, nella vita spaccata in due, ci sono dei vivi che vogliono tracimare nel continente dei morti e ci sono dei vivi che vogliono restare vivi dentro la morte. Io ero là, nella vita. E c’era buio. E anche adesso c’è buio. E la luce che c’è in questo buio non può che evidenziare questo enorme buio spaccato in due. Io ero nel mondo, ma ero fuori dal mondo. E poi un giorno, mentre stavo camminando lungo un sentiero deserto... C’era freddo, non c’era nessun altro vivo che si spostava su quello stesso sentiero fuori dal mondo, in mezzo a quegli strapiombi disabitati. C’erano appena state delle scosse di terremoto. Che fossero determinate dai morti che stavano tracimando nel mondo dei vivi? mi domando adesso, che conosco le ragioni di questi smottamenti di faglia e di questo sisma che sta attraversando da parte a parte la vita e la morte. Mi ero da poco infilato la giacca a vento, ero uscito. Avevo cominciato a camminare in quel mondo deserto, con la testa in fiamme, perché in quei giorni stavo fantasticando di scrivere un libro sulla morte, o avevo già addirittura cominciato a scriverlo, stavo già facendo i primi passi nel continente della morte, adesso non mi ricordo... Non pensavo a niente. Muovevo le mie gambe e il mio corpo in quella zona deserta e separata del mondo dei vivi, scorgevo soltanto radici fuori di terra e protese nel vuoto lungo i fianchi dove la montagna era franata per le forti piogge che avevano investito in quei giorni il mondo dei vivi. Il sentiero su cui camminavo era tutto inciso e spaccato per le vene d’acqua che scendevano da ogni parte e scavavano solchi profondi dentro la terra. Non vedevo niente. Camminavo e fantasticavo. C’era una luce che non faceva vedere la luce. Il mio corpo avanzava lungo quel sentiero di terra e di sassi in uno stato di incolmabile assenza, quasi privo di conoscenza per quell’immensa disperazione e concentrazione. D’un tratto, mentre ero così separato dal mondo, ho sentito venire dal centro del mio corpo, dal punto dove c’è la pompa del cuore, un dolore lancinante che mi ha fatto mancare il fiato. Mi sono fermato, sono rimasto per un po’ così, in piedi nell’aria fredda, contro il muro della luce che c’è dentro il buio, mentre continui spasmi si scatenavano incontrollabilmente dentro il mio corpo vivo dentro la morte. Sono rimasto fermo per un po’, poi ho ripreso a camminare, per cercare almeno di arrivare nella piccola casa dove mi ero andato a rifugiare in quei giorni, anche se mi ci ero allontanato di molto, per riuscire ad andare a buttarmi bocconi sul letto e crepare almeno così, non lungo quel sentiero deserto dove sarei morto assolutamente solo, in quella giornata livida, fredda, dove mi avrebbero trovato chissà quanti giorni dopo, stecchito, perché di lì non passava nessuno, c’erano solo gli animali che vivevano dentro i boschi e che di tanto in tanto attraversavano di corsa il sentiero, che sarebbero venuti intorno al mio corpo coricato per terra, qualcuno avrebbe provato a spingermi con il muso, per vedere se ero morto davvero, qualcun altro avrebbe cominciato a morsicare il mio volto, avrebbe affondato le zanne nella carne della mia pancia. E stavo camminando lentamente, a piccoli passi, per cercare di arrivare a casa, quando mi è successo di nuovo. Ho sentito che il mio corpo si stava squarciando. Non ho visto più niente. Sono caduto a terra. Sono morto così, da solo, al freddo, in quella enorme solitudine del mondo creato. Sì, sì, lo so... sembra anche a me di ricordare che all’inizio avevo detto di essere morto in un altro modo, investito da una macchina mentre camminavo di notte per le strade di una città dei vivi succhiando un tronchetto di liquirizia e fantasticando. Mentre adesso vi sto invece dicendo che sono morto lungo un sentiero deserto. Perché tutto questo? Perché anche il tempo e lo spazio sono spaccati in due, perché la morte viene prima, viene sempre prima, perché ogni cosa successa prima è successa dopo, perché anche la morte è spaccata in due. Ma perché devo arrivare ogni volta a quel punto? Perché devo ogni volta attraversare la fiamma per arrivare fino al cuore della fiamma, in quella luce bianca che cancella la luce che non fa vedere la luce? Perché continuo a combattere e a gettarmi così allo sbaraglio dentro tutto il buio che c’è dentro la luce? Perché devo gettare tutta la mia vita e il mio corpo contro questo diaframma, e aprire tutta la mia vita e il mio corpo a questo combattimento? Perché devo essere nello stesso tempo questo campo di battaglia e questa battaglia? Perché, come prima non accettavo la vita, così adesso non accetto la morte che c’è dentro di me? Perché porto tutto il mio corpo e la mia mente fino a questo margine e a questo limite, per arrivare fino a quel punto e anche oltre? Perché devo stare ogni volta con tutta la mia vita e con tutta la mia morte dentro questa frattura di faglia e dentro questa tracimazione? Io non sono uno scrittore, io non sono mai stato uno scrittore. Io sto facendo altro. Io non riesco a stare dentro la prigione buia del mondo e neanche dentro quella della letteratura della vita e della morte del mondo. Io sono da un’altra parte. Oh, Padre, confessore dei morti, mio silenzioso amico che ho incontrato per la prima volta nel continente dei vivi, potrà mai esserci assoluzione per una simile colpa?”.

Così gli direi, adesso che sono morto.

E poi, subito, mi allontanerei da quel posto e ricomincerei a correre attraverso queste città sterminate che ci sono nel continente dei morti, non aspetterei neppure di sentire se la sua mano si è levata o meno nell’aria nera per compiere il gesto sismico dell’assoluzione, non spingerei la mia testa nel buio per cercare di capire dal leggero rumore della sua veste se il suo braccio si è sollevato all’improvviso nel buio per calare sulla mia testa e sulla mia morte la mannaia dell’assoluzione. Continuerei a correre a perdifiato, mentre altri morti, uno dopo l’altro, si inginocchierebbero a ondate al suo fianco per pronunciare vicino alle sue orecchie sigillate le parole della loro confessione di morti.

Che cosa gli confesserebbero gli altri morti?

Gli direbbero: “Padre, noi eravamo vivi e adesso siamo morti. Ma perché prima eravamo vivi e adesso siamo morti? E cosa possono confessare dei morti se non di essere stati vivi dentro la morte? Quando eravamo dentro la vita ci avevano detto che ci sarebbe stato un giudizio, che le azioni dei vivi dentro la morte sarebbero state giudicate dai morti dentro la vita, ci avevano detto che enormi moltitudini di tracimati nel continente dei morti si sarebbero radunate e sarebbero state investite dal turbine del giudizio. Che la morte si sarebbe spaccata in due, che alcuni si sarebbero salvati e altri si sarebbero dannati. Mentre adesso che siamo morti ci troviamo dentro qualcosa di completamente diverso, il turbine che ci sta investendo non è quello del giudizio, la spaccatura non è tra salvati e dannati ma tra chi vuole risorgere e chi non vuole risorgere. Al posto del giudizio abbiamo trovato nel continente dei morti solo il terremoto della tracimazione e della resurrezione. Noi stiamo raccontando la nostra vita e la nostra morte a un confessore e a un giudice che non può sentire e che non può parlare, che può solo alzare di tanto in tanto la mano nel gesto genocida dell’assoluzione. Che sia proprio questo il giudizio? Ma allora, se i morti non possono giudicare i vivi e i vivi non possono giudicare i morti, che ne è dei vivi e dei morti? Che ne è della storia dei vivi e di quella dei morti? Se anche la colpa e la storia si sono spaccate in due, che storia può esserci per vivi e morti? Se c’è solo, se ci può essere solo il terremoto dell’assoluzione, della resurrezione e della tracimazione, allora dove comincia la vita dentro la morte, dove comincia la morte dentro la vita?”.