12

La sposa dei morti

Non si sente più quella voce. Non sento niente. Avverto solo, da qualche parte, la mano di Lazzaro che non è voluto risorgere che stringe forte la mia, mentre corriamo all’impazzata alla testa dei morti nel turbine della morte.

«L’hai capito, adesso, perché non bisogna risorgere dalla morte?» mi dice girandosi all’improvviso verso di me. «L’hai capito perché bisogna combattere chi sta sollevando nel continente dei morti il turbine della resurrezione dentro la morte?»

Il fragore cresce. Adesso un numero enorme di piedi sta correndo alle nostre spalle, sulle strade e sui marciapiedi spaccati. Si sente venire da dietro un rumore assordante di percussione e quell’enorme ansimare di morti in corsa tra quelle nere luci abbaglianti che si accendono a perdita d’occhio nelle sterminate città dei morti.

«Che cos’è quel bagliore?» domando d’un tratto, perché mi sembra di scorgere davanti a me, da molto lontano, un chiarore bianco che si indovina nel buio.

«È la sposa dei morti!» mi risponde Lazzaro che non è voluto risorgere.

Resto senza fiato.

La strada è nera. Continuo a fissare davanti a me, senza smettere di correre e anzi aumentando ancora di più la mia corsa, per arrivare un po’ più vicino a quel bagliore che vedo balenare nel buio.

Mi getto ancora di più in avanti. Comincio a scorgere distintamente i contorni di una figura in abito da sposa e scarpe da ginnastica bianche, che corre a perdifiato nel buio crivellato da questo sfracello di luci morte.

«Ma io la conosco!» dico senza girare la testa. «È lei che mi ha accolto quando sono arrivato nel continente dei morti. E poi mi ha fotografato con il suo corpo dopo essersi tolta il suo vestito di organza... era un abito da sposa anche quello! E, prima ancora, mentre ero nel continente dei vivi, in quella villa, a Ducale, quando ha lasciato cadere sul pavimento quell’abito da sposa ancora imbastito ed è rimasta di fronte a me col suo giovane corpo di ragazza viva, nuziale...»

Deve correre molto forte perché si vede la chiazza del suo vestito da sposa balenare nel buio, come se da quel punto si liberasse un fulgore di lampi elettrici bianchi che si staglia lungo questa strada nera e senza fine sempre più gremita di morti e di risorti.

«Ma perché corre così?» provo a domandare a Lazzaro che non è voluto risorgere.

«Per non farsi raggiungere dai morti» mi risponde.

Il mio corpo si slancia ancora di più in avanti, anche se stavo correndo già a perdifiato. Corro così forte che sono sempre sul punto di perdere l’equilibrio e di piombare sull’asfalto sollevato e spaccato, trascinando anche Lazzaro che mi stringe forte la mano.

«Tutti i morti sognano di incontrarla» mi sta dicendo la sua voce nel turbine di questa corsa sbilanciata e moltiplicata, «lei è dentro i loro pensieri e nei loro sogni, lei li va a visitare nel sonno, quando sono coricati nei loro letti e si abbandonano ai sogni dei morti che stanno sognando i sogni dei vivi dentro la morte, lei li accompagna in ogni istante della loro vita morta, ogni morto crede che sia la sua sposa, quella destinata a lui, solo a lui, perché lei è la sposa dei morti, di tutti i morti, si gettano a inseguirla quando la vedono balenare per un istante di fronte ai loro occhi morti nelle città dei morti.»

«Ma allora è lei a sollevare il turbine della morte?» gli domando, gli grido. «Ma allora questo turbine è a sua volta dentro il turbine sollevato da lei con la sua corsa in abito da sposa nelle città dei morti?»

«No, il turbine della morte è questo!»

«Allora è il turbine della resurrezione?»

«No, neanche quello!»

«Ma allora che turbine è, se non è quello della morte e neppure quello della resurrezione?»

Non capisco cosa mi sta rispondendo, se mi risponde, perché corro tutto gettato e sbilanciato in avanti, a testa bassa, per cercare di avvicinarmi un po’ di più alla sposa dei morti, alla mia sposa, e intanto capisco solo che sto pensando e fantasticando e sognando: “Eppure io alla fine la raggiungerò e la incontrerò e la troverò, io l’ho già incontrata e l’ho già trovata, anche se la trovo e la perdo continuamente, nella vita che c’è dentro la morte e nella morte che c’è dentro la vita. E allora lei si toglierà il suo vestito da sposa di fronte ai miei occhi, rimarrà con il suo giovane corpo nuziale di fronte a me, evidente e nuda come solo possono esserlo le belle ragazze morte il loro giorno di nozze, e io allora la sfiorerò e l’abbraccerò e l’accarezzerò e anche lei mi sfiorerà e mi abbraccerà e mi accarezzerà, e io allora entrerò dentro di lei come in una meravigliosa villa morta tutta piena di luci accese per me, solo per me, entrerò e scenderò e sprofonderò dentro le sue stanze e le sue sale illuminate e piene di specchi dove si riflette solo la luce, fino al cuore della sua luce, adesso che sono morto dentro la vita, come quando ero in vita dentro la morte, e lei aveva lasciato cadere il vestito da sposa davanti a me che la guardavo dal vano della porta, abbagliato, in quella villa deserta, in quel mondo deserto, solo io e lei, trasparenti, nuziali, uno di fronte all’altra, uno contro l’altra, uno dentro l’altra, dentro la vita, dentro la morte...”.

Non lo so se quando si pensa e si fantastica e si sogna si vede o non si vede, quando si è morti, voglio dire, ma anche quando si è vivi. Non lo so cosa si vede da morti, ma non so neanche cosa si vede veramente da vivi, perché la morte viene prima, perché la visione viene prima.

Devo avere abbassato gli occhi per un istante, sull’asfalto su cui stavo precipitando per lo squilibrio della mia corsa tutta sbilanciata in avanti. Devo avere sbattuto per un istante le palpebre. Forse è stata sufficiente questa impercettibile interruzione della visione...

Quando alzo di nuovo gli occhi, la sposa dei morti non c’è più!

Fino a un istante fa vedevo di fronte a me il suo bagliore che correva nel buio, distinguevo i suoi contorni e le linee delle sue giovani gambe morte che correvano spuntando da quel vestito da sposa tenuto sollevato un po’ con le mani, le chiazze delle sue scarpe da ginnastica che mulinavano bianche nel buio.

Poi, di colpo, più niente.

Solo la strada: buia, nera, infinita.

«Ecco, lo vedi!» mi sta dicendo Lazzaro che non è voluto risorgere. «Ha aumentato ancora di più la velocità della sua corsa. Nessuno la può raggiungere!»

«Ma perché?»

«Perché, se venisse raggiunta anche da uno solo dei morti, non sarebbe più la sposa dei morti, di tutti i morti.»

«Eppure io la raggiungerò!» gli rispondo, gli grido, cercando di aumentare ancora di più la velocità della mia corsa.

Il buio è ancora più nero, adesso che non c’è più quel bagliore. C’è solo questa galassia di luci nere che illuminano a perdita d’occhio le città e il continente dei morti, perché anche la luce viene prima, perché anche i fotoni di cui è composta l’onda elettromagnetica che i vivi chiamano luce vengono prima, prima ancora di tormentare i contorni del mondo con la sua radiazione luminosa, e di smangiare le sue linee di contenimento e di invadere e di divorare ogni cosa nella vita che c’è dentro la morte.

Un istante dopo sento che una mano mi sta prendendo improvvisamente la mano, dall’altra parte.

Mi giro a guardare: c’è una figura nera che corre a perdifiato al mio fianco.

Sento solo il fragore del suo mantello nero che sventola alle sue spalle per la velocità impressionante della nostra corsa.

Adesso siamo ancora in tre a correre all’impazzata nelle città dei morti dentro il turbine della morte. Io sono in mezzo, stiamo correndo allargati sopra l’asfalto sollevato e smottato, le mie mani sono incernierate con altre due mani.

Guardo per un istante la nuova mano stretta alla mia: è di una donna, ed è nera.

«Tu chi sei?» le domando, con la testa girata verso di lei nella velocità della corsa.

Anche lei gira la testa verso di me, nella corsa, mi guarda con i suoi grandi occhi neri che sbalzano dal bianco delle cornee, e intanto mi sorride con tutto il suo volto lanciato, con le sue vaste labbra.

«Sei quella puttana africana che chiamavano Principessa?» le domando ancora, con enorme emozione.

«No, sono la Suora Nera.»

Giro di nuovo la testa, sulla strada crivellata di luci nere, nel mondo nero.

Continuiamo a correre così, incernierati, saldati. Io, Lazzaro che non è voluto risorgere e la Suora Nera. Si sente solo il clangore di quel mantello che sventola alle sue spalle.

«Hai un mantello?» le domando ancora, le grido.

«No, sono i miei capelli» mi risponde sorridendo con tutta la sua testa che vibra per la velocità della corsa, con la sua voce roca.

Viene un rimbombo forte, sempre più forte, dalle nostre spalle. Non si capisce se sono solo le schiere dei morti che corrono percussivamente nel turbine della morte o se sono quei boati e quei suoni di lacerazione e di schianto che salgono all’improvviso dalle viscere della terra quando due faglie si scontrano con fragore e avviene una tracimazione di vivi e di morti dentro la vita e dentro la morte.

Ma non sono solo i morti che corrono nel turbine della morte e in quello della resurrezione dentro la morte, perché l’asfalto sotto i nostri piedi ricomincia a spaccarsi e a vibrare, e le torri d’acciaio e di vetro dei grattacieli a scricchiolare, e cominciano a venire giù da zone infinitamente alte i primi lastroni di vetro che si infrangono sui marciapiedi proiettando piogge di schegge polverizzate che mi passano come una carezza sopra le guance. E intanto, mentre continuo a correre all’impazzata nelle abbaglianti strade nere delle città dei morti investite dalle sempre nuove ondate sismiche di vita e morte, mi passa per la mente, in quello spazio vuoto e investito dal vento che quando ero vivo credevo fosse la mia mente: “Che cosa starà succedendo in questo stesso momento nel continente dei vivi dentro la morte? Quale nuova immissione e tracimazione di vivi dentro la morte ci sarà stata, per determinare una simile onda d’urto nelle città e nel continente dei morti? Quale nuova tracimazione di morti e di morti risorti dentro la vita che c’è dentro la morte? Nuove distruzioni e resurrezioni, nuove schiere di donne e uomini e bambini morti, nella notte nera, nel mondo. Città intere distrutte e tracimate dentro la morte, schiere di morti bambini investiti dal turbine della resurrezione che chiedono con le loro vocine di tornare di nuovo a farsi bombardare, massacrare, profanare, gasare... Che cos’è la vita? Che cos’è la morte? Una volta, quando ero vivo, e mi trovavo in una località nel Sud del Paese dove sono nato, e c’era una luce forte, e si poteva scendere verso il mare lungo sentieri costeggiati da piante di limoni su cui brillavano frutti gialli dalla buccia spessa, irreali ed enormi come apparizioni e che profumavano l’aria, e poi camminare ancora fino al mare su cui si affacciavano cattedrali abbaglianti come ricami, costruite al tempo delle repubbliche marinare degli uomini vivi dentro la morte, parlando con un scrittore di un altro Paese chiamato Stati Uniti d’America, grande e grosso, bambino, che camminava come un orso buono e che andava in giro con una bambina coreana sopra le spalle, gli avevo detto: ‘Per voi, scrittori americani di oggi, come per tutti gli scrittori del mondo, la morte è dopo. Per me invece è prima’. ‘E la vita dov’è?’ mi aveva chiesto a questo punto un amico che stava traducendo il nostro dialogo, dai lunghi capelli raccolti in una coda dietro la nuca. ‘La vita è in mezzo’ gli avevo risposto. ‘Ma per chi sa che la morte è prima, la vita deve ancora venire. Per chi crede che la morte è dopo, la vita, vivendo, è già stata.’ Mi era venuto da dire così, in quel pomeriggio in cui la luce mangiava coi suoi fotoni le linee di contenimento e i contorni del mondo. Adesso sono qui, e non so più dove sono, in quale turbine sono, se sono prima o se sono dopo, perché, se la morte viene prima, viene prima anche la vita che c’è dopo la morte che viene prima.”

Continuo a correre, mentre sempre nuove scosse fanno scricchiolare e tremare i marciapiedi, le vetrate, le strade, i grattacieli che salgono a perdita d’occhio nel cielo nero e verticale dei morti.

«Via di qui! Andiamo via!» mi grida all’improvviso la Suora Nera, con la sua voce roca.

E intanto mi tira forte verso di sé, con la sua mano nera, lucente, continuando a correre all’impazzata.

Sento che anche la mano di Lazzaro che non è voluto risorgere mi sta stringendo più forte, mentre continua a correre vicino a me con la testa puntata in avanti, in silenzio.

«Qui fra un po’ crolla tutto!» continua a gridare la Suora Nera tirandomi verso di sé con tutte le sue forze, lungo queste strade sfuocate per la violenza delle vibrazioni del sisma.

«Io sto inseguendo la sposa dei morti!» le grido a mia volta.

«E credi di poterla raggiungere così!» mi risponde. «Tu devi attraversare tutto il continente dei morti per poterla incontrare ancora. Lei si è mostrata solo per un istante per dirti che c’è ancora, che ci sarà sempre, ha voluto soltanto far sventolare ancora una volta davanti ai tuoi occhi il suo vestito da sposa, che ha indossato per te, solo per te!»

«E se qualcuno la raggiunge prima di me?»

«No, lei è la tua sposa! Se tu non la raggiungerai, nessun altro la raggiungerà.»

La sua mano sta strappando ancora più forte, sento le ossicine delle mie dita che si staccano di colpo da quelle della mano di Lazzaro che non è voluto risorgere con cui erano incernierate e saldate, emettendo un rumore forte, come per una frattura ossea.

«Via! Via!» continua a gridare la Suora Nera. «Io ti accompagnerò! Io ti scorterò! Tu non sei nel turbine della morte e neppure in quello della resurrezione dentro la morte. Tu sei entrato in un altro turbine, sei dentro qualcosa d’altro.»

Faccio ancora in tempo a vedere la testa di Lazzaro che non è voluto risorgere che continua a correre senza neppure girarsi, alla testa delle schiere dei morti nel turbine della morte.

«Vieni! Vieni!» mi continua a gridare la Suora Nera, anche se sono già incernierato a lei, e sto già correndo verso non so dove al suo fianco in mezzo a quella catastrofe di pareti verticali e di luci tormentate e sfondate.

Corre forte, lo strascico dei suoi capelli emette un clangore assordante, un boato, come di un mantello di lamiera che sventola e si contorce da una parte e dall’altra in una tremenda torsione.

Guardo in basso, verso i suoi piedi che continuano a correre all’impazzata sull’asfalto che si solleva e si spacca sotto di noi.

«Ma hai i piedi nudi!» mi accorgo improvvisamente.

«Io sono abituata così» mi risponde. «A fare presa con la pianta e con le dita nude dei piedi sul mondo dei vivi e su quello dei morti.»

Guardo i suoi piedi neri e lucenti mulinare contro lo sfondo della strada che continua a vibrare e a slittare, le sue dita che si allargano per un istante sopra l’asfalto prima di sollevarsi di nuovo, mentre tutt’intorno sempre nuovi morti corrono nei turbini della morte e della resurrezione dentro la morte. Qualcuno è balzato già in mezzo alla strada, sta correndo tra le macchine quasi immobilizzate che si scuotono e vibrano e si colpiscono con le loro lamiere morte per la violenza delle ultime scosse, sui loro tetti che si sollevano e franano, e poi saltando da un tetto all’altro contro questo sfracello di luci nere che sfigurano e accecano le città terremotate dei morti.

La sua mano stringe forte la mia, nera, dalla palma e dalle unghie più chiare, i suoi piedi nudi e le dita dei suoi piedi si espandono per un istante sopra l’asfalto prima di sollevarsi in una nuova falcata. “Come quando preparava l’altare alla vigilia delle feste...” mi sta passando per la mente, in quel luogo disabitato dove quando ero vivo credevo ci fosse la metastasi della mente “e saliva con un balzo, si spostava coi piedi nudi sulle tovaglie inamidate, si inerpicava sul tabernacolo per arrivare a disporre i fiori nei vasi, le candele nei candelieri che ardevano sopra l’altare durante le messe solenni, e io là, inginocchiato sul primo gradino, con il mio turibolo che oscillava, abbacinato, assente, visualizzavo il percorso dei suoi piedi nudi sopra l’altare, i movimenti delle sue mani nere che riempivano le pissidi di particole non ancora consacrate, staccandole a una a una da quel foglio azzimo, con una leggera pressione delle dita lungo la linea del tratteggio. E poi quel giorno, dopo che ero tornato da Ducale addormentato e privo di conoscenza sulla motocicletta del Nervo, quando non riuscivo più ad alzarmi dal mio letto di alluminio, e non c’era più nessuno seduto vicino a me, che piangeva con tutte e due le teste tra le mani, e neppure il seminarista sordomuto che mi portava il mangiare su un vassoio, che mi aiutava a togliere la crosta del formaggio, a sollevare certe forchette che sembravano di piombo, e neppure il Gatto coricato su uno dei letti vicini, con la testa appena rasata, e io mi guardavo attorno nella camerata deserta, perché erano ormai tutti usciti dal dormitorio, dopo essersi tolti il pigiama sotto le coperte ed essersi infilati le vesti, e sentivo da infinitamente lontano le loro voci che pregavano e cantavano nella chiesina... come quel giorno quando ho avvertito tra la veglia e il sonno quel rumore leggero di passi, perché forse lei camminava a piedi nudi già allora, anche se i piedi allora non si vedevano perché erano nascosti dall’orlo della lunga veste, nella camerata in penombra, in quel pomeriggio inoltrato, e non si vedeva quasi niente, non entrava più luce dalle finestre, eppure quei passi continuavano a venire avanti silenziosamente nel buio, sentivo solo il frusciare della sua veste e del suo velo e il vento leggero che mi passava sul volto mentre si spostava per mettere i sacchetti della biancheria pulita in fondo ai letti. E poi si era fermata davanti al mio letto, e nella camerata c’era sempre più buio, e io ero coricato al buio, nella vita che c’è dentro la morte, con la testa un po’ sollevata dal cuscino e gli occhi spalancati nel buio per riuscire a vedere. Ma non si vedeva niente, non si riusciva a distinguere il suo volto nero nel buio, scorgevo appena i contorni neri del suo velo, e mi sembrava che dentro non ci fosse niente... Che fosse già allora nel continente dei morti? Ma allora anch’io dov’ero?”

«Vieni! Vieni!» mi grida ancora la Suora Nera.

Si getta da una parte, mi attira a sé, con la mano e col braccio, perché io stavo continuando a correre verso il punto dove avevo visto balenare la mia sposa nel buio.

C’è uno scivolo curvo, attraversato da parte a parte da una crepa, che scende sotto terra.

Stiamo correndo tutti e due verso quel piano inclinato.

«Perché andiamo sotto terra? La sposa dei morti è là!» grido alla Suora Nera, indicando con l’altra mano il punto dove avevo scorto il suo vestito bianco nel buio.

«No, lei non è più là» mi risponde lanciandosi lungo lo scivolo.

Saltiamo tutti e due sulla larga crepa che fende lo scivolo. Continuiamo a correre verso le viscere di un garage sotterraneo, io col mio paio di scarpe morte tracimate insieme a me dal continente dei vivi dentro la morte, lei coi suoi piedi nudi lucenti e morti e le sue dita che si espandono e che si torcono per fare presa sulla superficie zigrinata dello scivolo che sprofonda sotto la linea dell’orizzonte morto.

Adesso le scosse sono finite ma, mentre sprofondiamo un piano dopo l’altro nelle viscere di questo garage dei morti, scorgo sagome di macchine spostate dalle loro sedi e gettate qua e là dalla violenza dell’ultimo sisma.

«Ma perché corriamo?» grido alla Suora Nera. «Perché continuiamo a correre?»

«Perché siamo in un turbine!» mi risponde. «Perché se non corriamo ci separiamo.»

«Ma in che turbine siamo?» le grido ancora.

La Suora Nera non mi risponde. Si è improvvisamente lanciata verso la sagoma enorme, turrita, di un camion che tocca quasi il soffitto col tetto della cabina di guida.

Spalanca una delle portiere, ci guarda dentro...

Quello che sta succedendo qui è difficile da raccontare, perché non ero mai stato prima d’ora nel continente dei morti, perché la morte viene prima, perché il tempo del racconto dei morti viene prima del tempo del racconto dei vivi dentro la morte che viene prima. Posso solo provare a dirvi che io ho visto all’improvviso la sua figura fermarsi, e tutto il manto dei suoi capelli scendere con fragore dall’alto avvolgendo il suo corpo e anche la mia persona che stava ferma al suo fianco, incernierata, saldata. E che poi ha messo uno dei suoi piedi nudi sopra il gradino di metallo e che è saltata nella cabina. E che ha detto anche a me di entrare dall’altra parte, e che poi, appena dentro, tutti e due uno vicino all’altra impennati sugli alti sedili, ha afferrato una lunga cinghia sfilacciata che c’era per terra, da traino, e ha avvolto con quella i nostri due corpi perché non venissero strappati via l’uno dall’altro nelle continue tracimazioni dei vivi e dei morti e nei turbini della morte e della resurrezione dentro la morte. E che poi, con tutte e due le mani libere, ha cominciato a tastare sotto il cruscotto, vicino al perno da cui si levava la ruota del volante, e che poi ha colpito qualcosa, più volte, con una sbarra di ferro o una chiave inglese che ha trovato nella tasca della portiera, e che poi si è gettata là sotto con la testa ricoperta dal manto dei capelli e ha cominciato a mordere e a scortecciare qualcosa coi denti, e poi ad attorcigliare dei fili di metallo che luccicavano nel buio fitto che c’è nelle città e nel continente dei morti, col corpo tutto inclinato che inclinava da quella parte anche il mio corpo legato al suo con la cinghia e avvolto dentro lo stesso manto di capelli morti. E che poi il motore si è acceso di colpo, con un rombo, e che ho visto o sentito il suo piede nudo con le sue dita nude premere più volte la tavoletta dell’acceleratore, con esaltazione, con furia. E che poi ho sentito tutta l’enorme massa del camion spostarsi improvvisamente in avanti, con un rimbombo, nel tempo che viene prima, nella morte che viene prima. E poi cominciare ad andare lungo quei corridoi stretti e bui attraversati dalle sagome delle macchine gettate qua e là dal terremoto, colpendole e buttandole ai lati per liberare il passaggio, col suo grande muso morto proiettato in avanti. E poi risalire una rampa dello scivolo, e poi un’altra rampa, passando con le sue enormi ruote morte sopra le fenditure e le crepe, mentre la sua mano continua a manovrare il cambio, con forza, con rabbia, all’inizio di ogni nuova rampa, nera, lucente...

«Perché abbiamo preso un camion?» le domando, le grido.

«Per sfondare le barricate!» mi risponde, mi grida.