Balziamo fuori dall’ultima rampa dello scivolo tranciato, io e la Suora Nera, legati l’uno all’altro con la cinghia per non essere separati, tutti e due con gli occhi sbarrati, le teste puntate in avanti nella carlinga del camion che sale come un proiettile dalle viscere della terra e del continente dei morti.
«Ti farò vedere quello che succede nelle città dei morti!» mi sta dicendo, mi sta gridando. «Ti porterò con questa bomba morta dentro la pancia della vita morta, prima che queste città lesionate crollino una dopo l’altra sotto l’urto della tracimazione dei vivi e dei morti, e che le cuspidi di altre città sterminate dei morti sorgano a perdita d’occhio sulla linea nera dell’orizzonte dei morti. Ti mostrerò come vivono i morti dentro la morte, dopo che hai visto come vivono i vivi dentro la morte. E poi alla fine, solo alla fine, solo dopo che avrai attraversato legato a me questo regno, arriverai fino al punto dove potrai ricominciare a scorgere e intravedere il bagliore della sposa dei morti, la tua sposa!»
Vedo dall’alto della carlinga del camion il luccicare delle lamiere morte sotto di noi, mentre la Suora Nera suona a distesa il clacson che emette un rumore spaventoso, quasi un boato, colpendolo ripetutamente, con forza, col palmo della mano più chiaro, e le macchine si spostano da tutte le parti e si scontrano per lasciarci passare, quando vedono venire avanti e incombere sopra di loro come una torre la sagoma nera e sfolgorante del camion, e se non si spostano vengono spazzate via come fuscelli dal rostro del grande muso che si cerca un varco dentro la morte crivellata di luci morte e attraversata dai turbini della morte e della resurrezione dentro la morte.
«Dobbiamo uscire di qui prima che crolli tutto!» mi grida ancora la Suora Nera.
Colpisce altre macchine, andandoci contro col muso, manovrando il cambio con furia per far salire di giri il motore e aumentare la forza d’urto.
Scorgo sotto di me il luccicare dei suoi piedi neri che si muovono con furore sulla pedaliera.
«Dove stiamo andando?» le grido.
«Fuori da queste strade ingorgate di morti! Ci sono milioni di altre città e di altre strade dove possiamo lanciare questa massa di lamiera balzata fuori dalle viscere della terra dei morti, e correre insieme, così, avviluppati, in questo finimondo che c’è oltre la vita e oltre la morte del mondo.»
La guardo, guardo il profilo nero della sua testa puntata, quasi a filo col parabrezza, intenta a scrutare dall’alto la strada.
«Perché prima hai detto che dobbiamo sfondare le barricate?» le domando ancora, le grido, per coprire con la mia voce il fragore delle lamiere delle macchine colpite dal muso del camion e buttate ai lati. «Che barricate dobbiamo sfondare?»
«Fra un po’ le città dei morti saranno tutte piene di barricate di morti e di risorti dentro la morte!»
Adesso il camion disincagliato corre un po’ più forte, sempre più forte. Siamo usciti da quel groviglio di lamiere speronate. Ci sono strade più aperte di fronte a noi, sotto di noi. Stiamo cominciando a imboccare delle vie che portano fuori dalle città, delle tangenziali, delle autostrade, perché vedo scorrere ai lati le luci di centri commerciali morti, aperti anche se è notte fonda, perché qui è sempre notte fonda, e folle illuminate e sfigurate di morti che fanno ressa attorno alle loro porte di vetro.
«Che cosa ci vanno a fare i morti, là dentro?» le chiedo. «Cosa vanno a comperare, se sono morti?»
«Le nostre città crollano sotto l’urto del terremoto e della tracimazione dei vivi e dei morti. Le nostre case vengono continuamente lesionate da queste scosse che si fermano per un po’ e poi riprendono ancora più forte. I muri crollano, le mattonelle dei pavimenti si spaccano, i mobili si sfasciano, le porte si disarticolano, le finestre vanno in pezzi, i lampadari crollano sollevando nuvole di vetro che ci tagliano il volto durante il sonno. Ci si trova continuamente in luoghi diversi, in case sempre diverse, quando la tracimazione di sempre nuovi morti ci trascina come in un turbine e ci allontana e ci stacca dalle persone morte e dai luoghi dove ci trovavamo fino a un momento prima. I morti devono continuamente comperare nuovi mobili, abiti, oggetti, per poter continuare a vivere dentro la morte, perché si trovano continuamente in luoghi diversi e mai visti prima, in stanze lesionate e deserte dove devono allestire di nuovo la loro morte dentro la morte, case e stanze svuotate dai turbini della morte da arredare di nuovo prima di essere abbandonate ancora, lampadari da issare al centro di soffitti sfondati prima che si sfracellino di nuovo sul pavimento, sollevando quelle nuvole nere che ci accarezzano al buio come sogni mentre sogniamo i sogni dei vivi dentro il sonno dei morti.»
«Ma come fanno i morti a comperare le cose?» le chiedo ancora. «Ci sono anche i soldi dei morti?»
«Ci sono solo i soldi dei morti.»
«Perché?»
«Perché la morte viene prima. Perché l’economia dei morti viene prima. Perché i soldi dei vivi sono già stati spesi dai morti.»
Mi guardo attorno. Vedo, attraverso la parete verticale del parabrezza che avanza in questa oscurità punteggiata di luci morte, i contorni di sempre nuove periferie e di nuove città che si susseguono le une alle altre a perdita d’occhio, mentre le mani della Suora Nera muovono la grande ruota del volante nel buio, per imboccare sempre nuovi svincoli e nuove strade.
«Ma come fai a conoscere tutte le strade che ci sono nelle città e nel continente dei morti?» le chiedo improvvisamente.
«Le strade non si conoscono, si inventano!» mi risponde senza girarsi. «Le città dei morti sono continuamente dilatate e inventate dai morti e dall’arrivo di sempre nuovi morti. I morti sono dei fondatori e degli inventori.»
Mi appoggio allo schienale del sedile, chiudo per qualche istante gli occhi mentre il camion continua a correre su queste strade nere, inventate, e il rombo del motore sembra venire da sempre più lontano, da prima.
«Io ero là, nel dormitorio in penombra, con la testa sollevata un po’ dal cuscino...» sento che dopo un po’ la mia voce le sta dicendo, nel buio «ma non ti vedevo. Eppure anche tu eri là! Ma allora perché io non ti vedevo? Eri anche allora già qui? Eri già allora nel continente dei morti? È per questo che non ti vedevo?»
«Ogni cosa è spaccata in due» mi risponde soltanto, dopo un po’, con la sua voce roca.
Il camion continua a correre sulle sue grandi ruote, nel buio. Vedo passare ai lati, dall’alto, quando apro gli occhi, le colonie di luci delle macchine che corrono come dentro un turbine, altre strisce di luce che tagliano il buio di tanto in tanto, forse treni che sfrecciano ai lati, tutti pieni di morti, come quelli che si scorgono quando si è vivi mentre si guida sbadigliando, di notte, sfuocati per l’enorme velocità della corsa e per quelle lacrime che si formano per la stanchezza, per il sonno.
«Tutti quei fiori freschi disposti dalle tue mani sopra l’altare, dalle corolle dure, come di smalto...» dico ancora, ma piano, senza gridare, tanto siamo tutti e due infinitamente vicini, legati l’uno all’altra da questa cinghia da traino per non venire separati e strappati dal turbine della tracimazione dei vivi e dei morti. «Tu che camminavi coi piedi nudi sopra l’altare... il Gatto che tremava fino a spezzarsi, mentre celebrava la sua prima messa, che io gli servivo, la sua chierica tagliata in due da una rasoiata... Chissà perché tremava così? Chissà perché la sua chierica era così tagliata?»
«Tu vedevi ma non vedevi» mi dice all’improvviso la Suora Nera, a bassa voce, appoggiandosi anche lei allo schienale, con un sospiro. «Tu non capivi nulla di quanto stava avvenendo sotto i tuoi occhi. Tu raccontavi quello che non vedevi.»
Rimango in silenzio, per un po’, guardo le sue mani che muovono appena la ruota del volante, la sua testa appoggiata al poggiatesta che guarda la strada nera snodarsi di fronte a noi a perdita d’occhio, legato a lei e con il corpo avvolto nel manto dei suoi capelli.
«Che cosa non vedevo?» provo a chiederle, continuando a fissare la strada.
«Tu ti muovevi a tentoni nel mondo» mi risponde senza girare la testa, con la sua voce roca. «Tu sbattevi la testa contro la parete di luce del mondo. Tu eri abbagliato dal mondo e dalla luce che cancella l’evidenza del mondo. Tu vedevi tutto e non vedevi niente, nella vita che c’è dentro la morte del mondo, perché eri dentro qualcosa d’altro, perché eri prima.»
Il rombo del motore viene da sempre più lontano, intontisce.
«Perché? Che cosa stava succedendo che io non vedevo?»
Gira tutta la testa verso di me, ruotando dentro la coltre dei suoi capelli.
«Tu non vedevi niente» mi dice ancora, «non si vedeva niente... O forse eravamo noi due che non vedevamo niente.»
Mi giro a mia volta verso di lei, nella carlinga lanciata nelle città dei morti, nel buio.
«Noi due chi?» le domando, sottovoce, nel buio.
«Ci alzavamo in piena notte...» continua a dire, come se non avesse neppure sentito la mia domanda «io nella mia piccola cella di monaca appena arrivata da un lontano Paese del mondo dei vivi dentro la morte, lui nel suo dormitorio, guardandosi attorno per accertarsi che non ci fosse qualcun altro sveglio che potesse vederlo, in quel buio fitto rischiarato appena da quella lucina accesa sotto un’immagine sacra, a uno dei lati della camerata...»
«Sì, sì, è vero che c’era quella lucina! Si allargava e si restringeva, a fissarla dai letti, nel buio... Sembrava un tuorlo d’uovo!»
«... si alzava in silenzio dal letto, si infilava la veste senza abbottonarla, si guardava attorno un’ultima volta prima di uscire in silenzio dalla camerata...»
«Ma chi è che si alzava? Chi?» provo a chiederle ancora.
Non mi risponde.
«... passava in silenzio di fronte alla porta dell’altra camerata, faceva qualche passo tastando le pareti con le mani, prima di imboccare le scale di cemento, ancora senza le lastre di marmo dei gradini, girava per un istante la testa verso le due file di letti, per vedere se l’altro prefetto dormiva o se era sveglio e lo stava guardando con gli occhi spalancati nel buio...»
“Sì, è vero...” mi dico continuando a fissare dall’alto la strada nera crivellata di luci morte che fuggono nella notte “c’era qualcuno che si alzava ogni tanto in assoluto silenzio dal suo letto, nel buio, e sgusciava fuori dalla camerata. Spariva per molto, tornava certe volte anche dopo due o tre ore, non come quelli che si alzavano per andare al gabinetto nello stanzone degli abbeveratoi e tornavano subito dopo. Lo vedevo uscire mentre stavo con la testa girata verso il suo letto, con gli occhi socchiusi, tra la veglia e il sonno, non si distingueva quasi il nero della sua veste che si muoveva nel buio... Ma chi era? Chi era? Ah, sì, sì! Adesso mi ricordo: era il Gatto!”
Smetto improvvisamente di respirare. Di fronte ai miei occhi c’è solo la strada, nera, nella notte nera, che corre nel mondo dei morti che c’è prima.
«Scendeva al buio lungo le scale, cercando di non fare il più lieve rumore...» sta sussurrando la Suora Nera, vicinissimo alla mia testa «con le scarpe infilate direttamente sui piedi nudi, addossato al muro perché la ringhiera non c’era ancora e si poteva precipitare. Arrivava a pianterreno, si guardava attorno, nel cortile buio e deserto, per vedere se io ero già arrivata o se stavo arrivando, dopo essere uscita in silenzio dalla mia cella, ed essere passata davanti alle celle delle altre monache che russavano sprofondate nel sonno dei vivi dentro la morte. Se ancora non ero arrivata, si spingeva più avanti attraverso il cortile, camminando piano perché i suoi passi non facessero scricchiolare la ghiaia, e poi sullo zoccolo di cemento che costeggiava la vecchia costruzione dove dormivano il padre priore e il vicario. Arrivava fino alla ringhiera di marmo, guardava dall’alto le luci sterminate della città dei vivi che stavano dormendo e sognando i sogni dei morti. Finché mi vedeva arrivare lungo la stessa ringhiera, dopo che anch’io ero sgattaiolata fuori nel buio, ed ero passata davanti alla porta chiusa del refettorio, e poi a fianco della piscina prosciugata dove le api stavano dormendo nelle loro arnie e stavano sognando di sciamare e di tracimare. Ma, prima ancora di vedermi, mi sentiva, anche se uscivo a piedi nudi, sentiva il rumore della pianta dei miei piedi nudi che camminavano verso di lui che mi stava aspettando al buio. Mi guardava arrivare, pallido, bianco, fissava la punta dei miei piedi nudi dalle unghie più chiare che sporgevano un po’ dalla veste a ogni passo. Come la prima volta che ci siamo incontrati di notte, e non sapevamo dove andare. Ci spostavamo al buio tenendoci irresistibilmente per mano, incernierati, saldati, per non essere strappati l’uno dall’altra dalla tracimazione dei morti dentro la vita che è dentro la morte, e io sentivo la mia mano pulsare forte dentro la sua, e la sua nella mia, come se stessimo stringendo tutti e due nella mano un unico cuore, e i nostri corpi si muovevano nella notte senza sapere dove andare, se c’era al mondo un posto dove poter mettere l’uno di fronte all’altro i nostri due corpi e le nostre due vite dentro la vita che c’è dentro la morte. Io e lui, arrivati fin lì attraverso le strade buie che ci sono nel mondo e che ci eravamo riconosciuti. Fin dalla prima volta, da quando lui è entrato nella chiesina in penombra, dopo che io ero appena arrivata dalla missione e dal mio lontano Paese che c’è nel mondo dei vivi, ed era pomeriggio tardi, quasi sera, io ero in piedi sopra l’altare dove ero appena salita con un balzo, a piedi nudi, stavo mettendo le candele nuove nei candelieri, con gli stoppini mai accesi ancora ricoperti di cera, candidi, intatti, stavo infilando fasci di gigli freschi nei vasi, appena tirati fuori dall’acqua e che gocciolavano sulle tovaglie inamidate, e lui mi ha vista così, perché mi sono girata verso di lui sentendo aprirsi la porta della chiesina, e ci siamo guardati per la prima volta, lui in piedi, pallido, attonito, muto, fissava i miei piedi nudi e lucenti che spuntavano dalla veste un po’ sollevata, e forse non vedeva neppure i contorni del mio volto dentro il nero del velo, mentre lo guardavo anch’io senza respirare, dall’alto, su quelle tovaglie candide e inamidate dove ero salita forse solo per accoglierlo così, in piedi sopra un altare, la nostra prima volta nel mondo, come se sapessi già allora chi era...»
Qualcuno sta suonando il clacson, forte, una volta, due volte, tre volte, alle nostre spalle, e poi continua a suonarlo ancora per un po’ a distesa mentre ci sorpassa e poi riprende a correre e a imperversare lungo le strade nere delle città dei morti dentro la vita e dentro la morte.
«Non sapevamo dove andare, non c’era un posto per noi, dove stare, in quel mondo dove ci eravamo incontrati. Lui mi stringeva la mano con la sua, che pulsava, mentre ci spostavamo nel cuore della notte con le gambe che ci tremavano per l’emozione, con i corpi nudi sotto le nostre vesti nere che non si vedevano al buio, io a piedi nudi, lui senza collare. Poi, di colpo, mentre ci spostavamo così per la prima volta, allacciati, mentre tutti gli altri dormivano, in cerca di un posto dove abbracciarci e avvinghiarci, e ogni tanto il Gatto si girava istintivamente verso di me cercando la mia grande bocca nera con la sua che tremava, per aprirla, e per entrare con la sua bocca e con la sua lingua dentro la mia testa e il mio corpo, e premeva la sua testa contro la mia che cercava a sua volta le sue labbra per avvolgerle in un morso caldo e mangiarle, in piena notte, nel buio, sono cominciati improvvisamente a venire dei colpi che facevano tremare il cielo, dall’altra parte della valle, dove c’era il tiro al piattello, degli spari che facevano rimbombare tutto lo spazio nero sopra di noi, come se qualcuno avesse attivato l’impianto in quello stesso istante, in piena notte, e avesse cominciato a sparare con il fucile contro i piattelli che venivano espulsi uno dopo l’altro, alla cieca, nel buio. Siamo corsi dentro la piccola officina, per paura che qualcuno, svegliato di soprassalto dai colpi, si affacciasse alle finestre dei dormitori oppure della vecchia costruzione per vedere cosa stava succedendo e individuasse la nostra presenza nel buio. Il Gatto ha richiuso la porticina di ferro, siamo rimasti uno contro l’altro, col cuore in gola, abbracciati, mentre i colpi continuavano a far tremare tutt’intorno il cielo, lo spazio. Sono continuati ancora per un po’, in piena notte. Poi hanno cominciato a diradarsi, sono cessati del tutto, come se lo sparatore se ne fosse andato all’improvviso così com’era arrivato, avesse spento il macchinario di espulsione dei piattelli, oppure si fosse addormentato di colpo con il fucile in mano, la cuffia sulle orecchie, mentre i piattelli continuavano a schizzare fuori uno dopo l’altro in silenzio, nel cielo nero. Le nostre mani non riuscivano a staccarsi tanto erano strette, incernierate, saldate. Così, invece che con le mani, abbiamo cominciato ad accarezzarci con le bocche, coi denti. Poi siamo piombati a terra, avvinghiati, vicino al tavolo degli attrezzi e alla centrifuga del miele, e c’erano lì vicino dei favi neri che sembravano carbonizzati, con qualche ape che ci camminava ancora sopra. Adesso sentivo le sue mani spostarsi febbrilmente sopra il mio corpo, sulle mie cosce nere e sul ventre, sotto la corolla della mia veste sollevata fino alle ascelle, e poi sulla mia testa nuda sotto il velo caduto, sugli spuntoni dei miei capelli rasati, e io cercavo il suo corpo nudo sotto i lembi slacciati della sua veste, con le mie mani morbide e nere, nel buio. Mi accarezzava e mi stritolava, con le mani, la bocca, sentivo la sua testa premere contro la carne del mio corpo e la sua bocca baciare le mie spalle, il mio collo, le mie tette nere, il mio fradicio pelame di donna che emanava un profumo sconvolgente nel buio. Ho gridato forte, quando è entrato con violenza dentro di me e ha lacerato per la prima volta il sigillo del mio corpo vivo nel mondo, perché nessun altro uomo era mai entrato prima di allora dentro di me, tanto meno un demone. Lui allora ha premuto tutte e due le mani contro le mie spesse labbra, perché non sentissero le mie urla dalle camerate in penombra, continuando a spingere e a lacerare e a sfondare il mio corpo e a frugare sempre più disperatamente e più a fondo dentro la mia vita e il mio sangue... E così ogni notte, ogni notte, sul pavimento di quella piccola officina, contro un muro cieco della nuova costruzione, baciata a fondo, insanguinata, violata, tormentata, graffiata, sulla nuda terra, tra i sassi, sul fianco della collina, spalancata sotto il suo corpo che mi veniva dentro così forte da farmi sprofondare un po’ nel terreno, a quattro zampe come un animale fumigante di fronte ai suoi occhi accesi nel buio, sul fondo oscuro della piscina prosciugata, nella piccola chiesa, tra i banchi, sopra i tappeti, sul pavimento dietro la quinta dell’altare... Per forza che lui tremava, in quei giorni! Nella camerata, nel refettorio, quando girava la giostra del portavivande e scorgeva il mio volto nella fessura, nella sala studio dove aveva intercettato quella cosa che avevi scritto irresistibilmente su un foglio, in quei giorni, proprio in quei giorni, mentre lui stava suonando l’armonio nella chiesina, fin dall’inizio, da prima, mentre vedevi e non vedevi, mentre non vedevi e vedevi. Me ne parlava, ogni tanto, sottovoce, mentre eravamo avvinghiati, con emozione, nel buio... L’altro prefetto lo teneva d’occhio. Forse era tormentato anche lui dalla mia presenza in quel seminario di vivi dentro la morte, forse era invece tormentato dalla presenza del Gatto, forse aveva intuito chissà come qualcosa di quello che stava avvenendo tra noi e si tormentava, per me, oppure per lui, chi può dire... Restava sveglio più che poteva, fin dalle prime volte, quando era ancora inverno, di notte, per sorprenderlo mentre si allontanava al buio dal dormitorio per venire a bruciare con me. Scrutava i lineamenti del suo volto, la sua bocca, i suoi occhi, in refettorio, oppure mentre erano inginocchiati nella chiesina e recitavano il Noctem quietam prima di salire in silenzio nei dormitori, tutti in fila su quelle scale di nudo cemento e ancora senza ringhiera. Lo colpiva improvvisamente, certe volte, nella penombra, gli sferrava un pugno contro la veste, lo afferrava senza preavviso per la carne della faccia o del collo e gliela torceva, mentre tutti gli altri continuavano a salire, muti, senza fiatare, lo graffiava con le unghie, io sentivo sotto le mie dita nere dai polpastrelli più chiari i segni e i solchi delle sue ferite e dei suoi lividi e delle sue croste appena formate, poche ore dopo, mentre ci tastavamo e ci accarezzavano convulsamente con i corpi nudi, nel buio. Lottavano avvinghiati sul pavimento del dormitorio, si lasciava andare a raccontarmi certe volte, nel buio, nei brevi istanti in cui i nostri due corpi si riposavano prima di cercarsi ancora, di incernierarsi ancora, le gambe dei letti slittavano, si spostavano, i tavolini di alluminio si rovesciavano, i cassetti volavano fuori, gli oggetti cadevano a terra e si fracassavano, mentre tutte e due continuavano a lottare piangendo, senza dire una parola, senza un grido, perché era ormai orario di silenzio, in un anello di seminaristi che assistevano in piedi, impietriti...»
«Sì, sì...» la interrompo «e si vedevano grosse lacrime staccarsi dai loro occhi e volare nell’aria come vetri rotti. E poi uno dei seminaristi era uscito piangendo dalla camerata, uscirà, era corso nella vecchia costruzione ad avvisare il padre priore, che era arrivato dopo un po’ con la veste sbottonata, senza collare, si era chinato sul pavimento, aveva cominciato a colpire tutti e due con il rovescio della mano per farli smettere, ma loro due non smettevano, sembrava anzi che i colpi del padre priore avessero l’effetto di accelerare ancora di più i loro colpi. Poi il padre priore era riuscito a sollevarli da terra, li aveva trascinati tutti e due, quasi di peso, nella vecchia costruzione, da dove continuavano a venire degli sprazzi di voci anche se era notte fonda. Era l’antivigilia di Natale, mi pare. Io ero rimasto per molto tra la veglia e il sonno, finché avevo visto il Gatto rientrare in silenzio nella camerata, e poi togliersi la veste e poi infilarsi al buio sotto le coperte per finire di spogliarsi là sotto, così lentamente che avevo fatto in tempo ad addormentarmi e a svegliami più volte prima di riaddormentarmi un’ultima volta, di schianto...»
«Sì, ma poi lui era uscito di nuovo. Aveva aspettato che tutti nella camerata piombassero in un sonno profondo, sfiniti per le emozioni di quella interminabile notte, e poi era uscito un’altra volta, era venuto arditamente a cercarmi fino all’esterno della mia cella, perché io quella notte ero già uscita per incontrarlo ma poi ero rientrata perché lui non c’era. Ero coricata nel letto, ancora nuda sotto la veste, col cuore in gola, quando ho sentito il rumore dei suoi passi all’esterno, nel buio. Sono corsa fuori, in silenzio, con i piedi nudi. Era notte fonda, non si vedeva niente. C’era uno strato di nuvole nere che copriva il mondo. E noi camminavamo avvinghiati per non essere strappati e tracimati via prima di esserci incernierati ancora, oltre la piscina prosciugata, oltre i tigli, sulla ghiaia del cortile che si pressava sotto le piante dei miei piedi nudi, fino al foglio di cellophane che schermava il varco della porta ancora senza infissi della nuova costruzione, e poi nella chiesina buia, che avevo appena addobbato salendo sopra l’altare, per la messa di mezzanotte...»
«L’ho servita io, quella messa di Natale! E una carbonella rovente era schizzata fuori dal mio turibolo, mentre lo facevo oscillare troppo forte da una parte all’altra, trasognato, assente, durante la transustanziazione, e io non riuscivo a compiere un gesto, vedevo la carbonella bruciare sopra il tappeto e non mi muovevo, finché il padre priore, che stava già chinato sulla sua grande ostia per pronunciare le parole della consacrazione, tutto avvolto nel suo luccicante piviale, si è inclinato un po’ da una parte, come una persona svegliata improvvisamente in piena notte, ha afferrato con una sola mano la carbonella, l’ha ributtata dentro il turibolo e poi ha ricominciato ad adorare e a consacrare l’ostia, tenendola tra le dita dai polpastrelli bruciati...»
«“Ecco, questa notte Gesù tracimerà tra i vivi dentro la morte...” mi aveva sussurrato il Gatto mentre eravamo coricati uno vicino all’altra sul pavimento della chiesina, il giorno prima, anzi lo stesso giorno perché era già passata da un paio d’ore la mezzanotte, e io gli tenevo ancora stretta una mano, me l’ero portata sopra il mio duro petto e si sentiva il mio cuore che martellava, dopo che era entrato dentro di me così a fondo da farmi sanguinare di nuovo come se fosse ancora la prima volta. “Perché viene qui? Perché viene nel continente dei vivi dentro la morte e nel mondo, nel mio mondo?” E poi, qualche mese più avanti, dopo che per molte notti i nostri corpi si erano accarezzati e morsicati e frugati, la notte stessa della Pasqua, mentre mi aveva appena penetrata da dietro, da dove anche le donne vive dentro la morte evacuano gli escrementi, ed era ancora dentro di me, nel mio viscere, ed eravamo ancora a quattro zampe sul pavimento, lui con la testa e la guancia abbattute sulla mia schiena, nella piccola sagrestia che c’era dietro la quinta dell’altare, ho sentito che la sua bocca stava sussurrando al buio, premuta contro la mia spina dorsale: “Perché è venuto nel mondo dei vivi dentro la morte, se poi non è voluto risorgere dalla morte? E adesso che cosa faremo? Che cosa farò? Io fra un po’ verrò ordinato sacerdote... Io, proprio io! Sacerdote! Ma che sacerdote sarò? Se Gesù non è voluto risorgere dalla morte e il diavolo è diventato sacerdote di uno che non è voluto risorgere dalla morte, il suo che sacerdozio è, che sacerdozio sarà? Sarà il sacerdote dei vivi o sarà il sacerdote dei morti? Dei vivi dentro la morte o dei morti dentro la vita che è dentro la morte? Oppure il diavolo può venire ordinato sacerdote solo perché lui non è voluto risorgere dalla morte? E adesso che cosa succederà, nel continente dei vivi, nel continente dei morti?”. Si tormentava così, bisbigliando al buio sul filo nero della mia schiena, mentre eravamo tutti e due in quel posto buio, in quel mondo buio, ancora attaccati, incastrati, mentre il suo corpo si stava a poco a poco decongestionando nel mio intestino appena forzato e violato, io e lui, la morte e il diavolo, e tutt’intorno quella chiesa buia, quel mondo buio. È per questo che tremava così forte, sempre più forte, sopra l’altare, quando è stato ordinato sacerdote e ha celebrato la sua prima messa che ha chiesto a te, proprio a te, di servire! E prima ancora, quando ti ha preso dalle mani quel foglio e ha letto cosa ci avevi scritto sopra fin dall’inizio, ci stai scrivendo ancora, ci scriverai, mentre eravate nel continente dei vivi dentro la morte che viene prima. Quando ha fatto girare la giostra che c’era nel refettorio, qualche giorno prima della sua ordinazione, e ha preso tra le sue mani il vassoio di confetti che io stessa, con le mie mani, avevo messo nel portavivande come per le nostre nozze segrete, e ha cominciato a distribuirli a tutti gli altri seduti ai loro posti nel refettorio, e le sue mani tremavano così forte mentre faceva cadere manciate di confetti dentro ogni bicchiere che riuscivo a sentire il loro tintinnare anche stando dall’altra parte del portavivande, col cuore in gola...»
«Sì, sì, la sua mano tremava mentre faceva cadere manciate di confetti nei bicchieri, fermandosi davanti a ogni posto, anche davanti al mio, tremava forte, soprattutto davanti al mio, e io pensavo che fosse solo per lo sforzo di soffocare dentro di sé quella sua tremenda risata, e poi mentre si allontanava dal mio posto e continuava a buttare manciate di confetti dentro i bicchieri degli altri seminaristi e anche del padre priore e del vicario, con la sua mano che tremava e si sfuocava, e io stavo già cominciando a scheggiare e a infrangere i confetti con i denti, me li rigiravo dentro la cavità della bocca come frammenti di vetro infinitamente dolci. E poi mentre sollevava il maglione finito che gli era arrivato attraverso la giostra, e lo provava un’ultima volta di fronte a tutti, tremando, dopo che lo aveva già provato altre volte, quando gli arrivava nel refettorio ancora sui ferri, attraverso il portavivande...»
«Gliel’avevo fatto io, con le mie mani, con le stesse mani che di notte accarezzavano al buio il suo volto e il suo corpo, lavorando giorno dopo giorno coi ferri, in silenzio, nella mia cella, dopo avere preso le misure del suo corpo direttamente con il mio corpo, con le mie mani, le braccia, non con quella stupida fettuccia metrica che facevo passare dall’altra parte col portavivande e che lui mi rimandava indietro insieme a un foglietto su cui fingeva di scarabocchiare le sue misure... e lui ci infilava dentro la testa e lo indossava e se lo calzava con le stesse mani che di notte avevano accarezzato e tormentato e frugato il mio corpo...»
«E poi alla sua prima messa, mentre cercavo di vestirlo nella piccola quinta della sagrestia, dietro l’altare, prima che arrivassero gli altri chierici, mentre tutti nella chiesina stavano già cantando con le bocche spalancate e bagnate, gli occhi socchiusi dentro la vita che c’è dentro la morte, e lui tremava così forte che faceva fatica a infilarsi il camice e l’amitto, e io ad annodare il cingolo e il manipolo attorno ai suoi fianchi e al suo polso che si spostavano continuamente. E poi era entrato a capofitto con la sua testa che tremava dentro la pianeta nuova allargata sopra un mobile basso, luccicava talmente che non si vedeva, dopo che avevo indossato a mia volta la cotta inamidata. E poi eravamo usciti in fila da dietro la quinta, usciremo, i tre chierici e il Gatto, io con la mia veste rossa che squillava sotto i ricami bianchi della cotta e che facevo oscillare il turibolo da cui si levavano nubi dense e stordenti di incenso, e che poi lo facevo oscillare davanti al suo volto, contro il suo volto, così forte che lui si spostava ogni volta all’indietro per paura che glielo colpissi e che glielo spaccassi e glielo sfracellassi, dopo che avevo visto quel taglio profondo che gli attraversava da parte a parte la chierica, quella rasoiata, quando aveva dovuto voltarmi finalmente la schiena, tutto avvolto nella sua pianeta abbagliante che si torceva con fragore nelle sue pieghe, quando si piegava e si inginocchiava, come se fosse fatta di lamiera...»
«Sì, gliel’aveva fatta l’altro prefetto mentre gli scopriva la chierica con il rasoio prima dell’ordinazione, aveva tagliato così forte che gli si vedeva il bianco delle ossa, quando è venuto da me subito dopo, anche se era giorno, con la scusa di ordinarmi delle particole da consacrare, e ci eravamo nascosti per qualche istante, irresistibilmente, nella dispensa, lui mi aveva messo la testa in grembo, io gliel’avevo accarezzata con le mani, gli avevo allargato con le dita i lembi della ferita. Era così larga e così profonda che si vedevano le ossa bianche del cranio sotto il velo di sangue...»
La Suora Nera si interrompe un istante, perché sta crescendo, da dietro, un boato forte di motori lanciati e di clacson che stanno correndo alle nostre spalle, all’impazzata, e poi ci sorpassano continuando a suonare a distesa, anche treni illuminati e pieni di morti che ci sfrecciano a fianco emettendo un sibilo nella notte, anche elicotteri pieni di morti che passano bassi sopra le nostre teste facendo ruotare con fragore le loro grandi eliche morte e poi scompaiono nel cielo buio.
«Che cosa sta succedendo?» le chiedo.
«Stanno fuggendo dalle città che crollano dopo le ultime scosse. Stanno correndo a inventare e a fondare nuove metastasi di città che poi crolleranno sotto la spinta di nuove tracimazioni di vivi dentro la morte. Stanno andando dentro i turbini della morte e della resurrezione dentro la morte. Ma noi siamo qui, legati l’uno all’altra, avvinghiati. La notte dei morti è lunga, il nostro viaggio è appena iniziato. Anche noi stiamo andando a inventare e a fondare. Tu non hai visto ancora niente, non sai ancora niente. Chiudi gli occhi, se vuoi, riposati vicino a me, contro di me, nella carlinga di questo camion lanciato nelle strade nere del continente dei morti, avvolto assieme a me in questa cinghia e nel manto profumato dei miei capelli. E mentre tu ti riposerai e forse dormirai io continuerò a guidare in questa notte nera e intanto non smetterò di raccontare che cosa è successo dopo, perché quello che è successo prima non è niente rispetto a quello che è successo dopo, succederà, adesso che siamo dopo, adesso che siamo prima. E tu forse sentirai le mie parole o le sognerai come le sognano i morti quando sognano i sogni dei vivi dentro la morte, e intanto le città crolleranno, e i vivi e i morti tracimeranno, e altre città sorgeranno, sprofonderanno...»