17

Le incernieratrici

Se dovessi dire su che cosa sto correndo, direi che sto correndo su qualcosa come un tappeto di corpi e di schiene che si sollevano e si abbassano tutti insieme nel movimento sismico della resurrezione e del coito.

Se dovessi dire che cosa vedo di queste città che oscillano mentre corro al buio non so verso dove, con gli occhi chiusi oppure sbarrati, direi che vedo solo il bagliore nero di questi squarci genitali resurrettivi che si spalancano come ferite di luce nel buio.

“Che sia determinata da un simile sollevarsi e abbassarsi di corpi questa oscillazione di intere città sotterranee dei morti?” mi domando correndo. “Oppure i corpi oscillano mentre sotto di loro oscillano anche le città che si sollevano e si abbassano vertiginosamente su un unico perno?”

Non so se quelle su cui sto correndo sono strade o se sono corpi che si alzano e si abbassano e gemono nell’onda sismica della resurrezione e del coito. Sento solo, sotto i piedi, delle superfici elastiche che franano tutte insieme in questo clangore percussivo di corpi e che poi si innalzano come un’unica groppa di un animale inconcepibile e smisurato che sta emergendo. Non so neppure se sto correndo lungo l’asse dell’oscillazione, verso una nuova città che sprofonda e sale dall’altra parte di questo stesso bilanciere, o se sono invece uscito dall’asse della strada e sto correndo e sto sprofondando verso altri strati di queste sterminate città conficcate nelle viscere della terra.

“Forse erano due città che si fronteggiano...” mi dico continuando a correre al buio “e quando una sale l’altra sprofonda, e quando una sprofonda l’altra sale. Forse perché una possa risorgere nella vita dentro la morte, l’altra deve sprofondare ancora di più nella morte che è dentro la vita che è dentro la morte, forse la resurrezione avviene, può avvenire solo nel momento in cui la città si innalza. Forse erano una città sola posta su un unico bilanciere, che si inabissa e si innalza in questa immane tracimazione di vita e morte.”

Non lo so che cosa è successo, perché qui è tutto buio, però adesso mi pare che il piano su cui sto correndo non oscilli più sotto i miei piedi. Forse sono arrivato alla fine del bilanciere proprio nel momento in cui era abbassato al massimo ed era a filo con altre città e altre strade in cui mi sono immesso senza neppure vederle.

Adesso sto correndo su una strada aerea che costeggia un crepaccio, mi pare, perché vedo a uno dei lati una parete verticale che si inabissa verso altre città di cui scorgo solo l’accecante bagliore nero sul fondo, forse una montagna che scende a strapiombo, forse una fenditura provocata da questo sisma che sale dalle profondità infinitamente lontane di questi agglomerati di morti e di risorti dentro la morte che si fronteggiano e si combattono fin dentro le viscere della terra, nel crescente clangore percussivo di corpi che fa tremare l’intero continente dei morti.

Sono solo, anche dentro la morte. Non so dove vado, anche dentro la morte. Sto costeggiando questa parete verticale che non sta ferma, mentre corro su questa stretta strada a tornanti che sovrasta l’abisso, e intanto sento quel clangore soffice che viene da qualche parte vicinissima alle mie orecchie, così assordante che devo tapparmele con le mani, correndo.

“Forse non è un crepaccio” mi dico, “forse è una muraglia di corpi morti che si muove e pulsa sopra l’abisso per i movimenti percussivi del coito.”

E mi arrivano luci nere, accecanti bagliori neri, dagli squarci genitali che si aprono e che si chiudono, dai pistoni di carne morta che entrano ed escono dai corpi portando con sé ancora un po’ della luce fosforescente che c’è al loro interno, in questo infinito buio.

«Io ti conosco!» sento che una voce femminile mi sta dicendo, da qualche punto della muraglia.

Non so se sto ancora correndo o se mi sono fermato di colpo. So solo che sto guardando quella parete colossale di corpi a precipizio sopra di me, con la testa arrovesciata, nel buio.

«Com’è possibile che tu mi conosca, se sono morto, se la morte viene prima?»

Sento ridere piano, nel buio, sopra di me. Ma non so se è il ridere sommesso dei morti o se sono invece i rumori di gola che scaturiscono incontrollabilmente dai corpi morti durante l’orgasmo.

«Non ti ricordi di me?» sento che mi sta dicendo un’altra voce femminile, dall’interno della muraglia, nel buio.

«Come posso ricordarmi di te, se il ricordo è già tutto dentro la morte?»

Sento anche quella voce ridere piano, se poi quello che arriva alle mie orecchie è davvero un riso, se non sono invece i rumori che escono dalle carni morte portate al parossismo dentro la morte.

Provo ancora a guardare quella muraglia nera che scende a precipizio verso sempre nuove voragini di città morte appena inventate e fondate.

«Quella volta, di notte, in quella città dei vivi, col cuore in gola...» sta sussurrando un’altra voce.

Continuo a guardare, con i miei occhi morti spalancati nel buio.

«Eravamo arrivati di notte, col treno, in quella località sconosciuta, dei vivi...» sento che sta dicendo un’altra voce ancora, o forse la stessa, chi può dire, perché le voci dei morti non si distinguono tra di loro come le voci che vengono dopo, perché le voci dei morti vengono prima di essere le voci dei vivi. «Ci vedevamo per la prima volta, di notte, da soli, in quella immensa solitudine del mondo dei vivi. Avevamo girato per le stradine deserte e buie, in cerca di un albergo ancora aperto, che costasse poco, magari al primo o al secondo piano di una casa, senza riscaldamento anche se era pieno inverno, dove andare a congiungere i nostri corpi e le nostre vite. Io piangevo per l’emozione e il dolore, nella camera di quel piccolo albergo sconosciuto, in quel letto freddo che avevamo scaldato con i nostri corpi, nel cuore della notte, abbracciati...»

Non distinguo il punto esatto da cui viene anche questa voce, però mi pare di scorgere a poco a poco come delle chiazze più chiare, o forse ancora più nere, chi può dire, che sono forse dei volti di donne e di ragazze morte che sporgono dalla muraglia, sollevandosi da quel piano verticale e pulsante di corpi per poter guardare verso di me protendendosi con i lunghi colli e le teste sormontate dalle matasse dei loro profumati capelli morti, oltre le spalle e le groppe degli altri corpi che le sovrastano nel martellamento del coito, perché persino qui ci si vede, soprattutto qui, perché più è nero e più ci si vede, perché come gli occhi dei vivi si devono abituare a vedere così gli occhi dei morti si devono abituare a non vedere per poter vedere.

«Se tu venissi vicino a me, dentro di me, io ti accarezzerei, e ti bacerei, e ti aprirei il mio corpo di profumata ragazza morta, perché quello che ti ho aperto da viva viene dopo, perché questo è quello che viene prima, perché com’è possibile che ti abbia aperto il mio corpo da viva se adesso non te lo posso aprire da morta nella morte che viene prima?»

«Le donne e gli uomini, la vita e la morte, l’amore...» sta dicendo, sta sussurrando e gemendo un’altra voce che scaturisce da un’altra parte della muraglia, nel buio. «Tutto quello che i vivi credono di inventare e di sperimentare per la prima volta da vivi noi lo stiamo inventando e fondando qui, in questo immenso frantoio sperimentale di corpi morti nelle città sotterranee dei morti. L’amore dei vivi non c’è, non ci può essere, se non c’è prima l’amore dei morti.»

«Vieni, vieni...» mi sussurra un’altra voce, quella di prima «arrampicati su questa muraglia di corpi, arriva fino a me, fino al mio corpo aperto, e io allora ti accarezzerò come allora, non come allora, come non ho ancora fatto, come non ho mai fatto, per la prima volta, e ti bacerò per la prima volta, e tu entrerai dentro di me per la prima volta, nella fessura del mio corpo aperto, nella mia porticina spalancata per te...»

«Ma tu chi sei? Voi chi siete?» provo a domandare, col cuore in gola, nel buio.

«Siamo le incernieratrici!» mi rispondono molte voci e molte bocche, nel buio.

«Volete risorgere anche voi? Volete farmi risorgere anche voi dalla morte?»

«No, noi vogliamo restare dentro la morte. Noi vogliamo che tu rimanga con noi, incernierato a noi, dentro la morte che viene prima. Perché solo se restiamo dentro la morte e ci incernieriamo dentro la morte e non risorgiamo ci può essere la vita dentro la morte che viene prima, ci può essere l’amore dentro la morte che viene prima.»

Tutto il buio e tutta l’immensa parete verticale buia sono sempre più attraversati da bagliori neri che scaturiscono dagli squarci dei corpi e che fanno palpitare questo strapiombo sulle voragini di sempre nuove città sprofondate che si aprono sotto di me a perdita d’occhio come costellazioni viste in un cielo infinitamente buio e terso e lontane galassie di stelle morte.

«Io non voglio stare neanche dentro la morte che è dentro la vita che è dentro la morte che viene prima!»

Sento sospirare, sento piangere, da qualche parte della muraglia, del mondo, ma forse è solo il rimbombo delle voci uscite dai corpi che gemono per la percussione e che riprendono a sfracellarsi gli uni contro gli altri con ancora più forza. Sento il fragore infinitamente amplificato di tutto quel sangue morto che scorre e pulsa nelle vene e nei capillari e nelle caverne di tutti quei corpi e quei cuori e quei genitali morti.

Guardo in basso, verso il fondo, se c’è un fondo, verso le voragini delle remote città sprofondate, palpitanti di luci nere che ardono nel buio come bracieri.

Riprendo a correre, se poi è un correre, se non è il movimento stesso della mia morte dentro la morte a percepirsi come una corsa nelle viscere favolose e nere di queste città appena inventate e fondate.

Ci deve essere un fiume, in qualche punto infinitamente lontano, in fondo a questa smisurata gola a strapiombo, perché sento salire dal basso un fragore come di acque dense e di schiume che corrono all’impazzata trascinando con sé un enorme fronte di sassi che rotolano sul suo letto.

«Vieni! Vieni! Sei ancora in tempo» sento di nuovo sussurrare o gridare quelle voci, da più lontano, da infinitamente lontano, da quelle muraglie e da quelle montagne di corpi che mi sto lasciando alle spalle. «Noi siamo qui! Ti aspettiamo! Se tu non ti unisci a noi adesso, non ci incontrerai nella vita che è dopo la morte. Se tu non ci abbracci adesso, non ci abbraccerai. Rimarrai solo, nella vita dentro la morte, come sei solo adesso, nella morte dentro la vita che è dentro la morte.»

Sotto di me il fragore del fiume cresce, segno che sto scendendo sempre più verso la voragine in fondo alla quale scorre. Mi arrivano di tanto in tanto sul volto schizzi d’acqua densa e di schiuma, anche se il suo letto è ancora infinitamente in basso e lontano, tale è la velocità con cui le sue acque corrono e rovinano sul fondo di queste montagne percussive di corpi.

L’aria tutt’intorno è saturata di odori a un grado di concentrazione inimmaginabile, che scaturiscono dalle caverne sterminate dei corpi, dalle loro viscere e dalle loro fessure genitali morte e dai loro canali seminali morti e dai loro pori che emettono sudore morto e altri liquidi e sieri nella trapanazione del coito, se è poi aria questa densità di mondo e di spazio nella quale la mia testa si sta spostando come in un bozzolo, se non è invece il modo di percepirsi del mondo che viene prima dall’interno di un corpo che viene prima.

Il mondo in cui sto correndo è nero, infinitamente nero, eppure scorgo sotto di me il bagliore fosforescente del fiume che corre con fragore nelle viscere delle città e del continente dei morti.

Adesso non ci sono più muraglie al mio fianco, però mi arrivano ancora voci, come se fossero vicine, infinitamente vicine anche se vengono invece da infinitamente lontano, salgono dalle immense città che ardono in basso come bracieri su cui mi sto affacciando da una balaustra sospesa su altre fondazioni sotterranee di mondo, che vibra sotto di me per la percussione e la tracimazione di corpi e di mondi.

«Vieni! Vieni!» mi stanno dicendo queste voci che salgono dalle città nere palpitanti di luci nere. «Scendi nelle viscere delle nostre città nere. Non avere paura! Entra nelle caverne luminose dei nostri corpi che ti stanno chiamando e invocando da infinitamente lontano, da qui in basso, dalle sempre nuove città che sorgono e si inabissano nelle profondità del continente dei morti, investite dal sisma della tracimazione di vita e morte! Allarga con il tuo corpo morto la nostra morte! Getta le tue secrezioni genitali morte dentro la nostra morte! Fa’ scaturire, fa’ balenare fuori dai nostri corpi divaricati dal cuneo del tuo corpo solo anche dentro la morte la luce delle nostre stelle morte che riempiono questo universo appena inventato e forgiato!»

E le voci sono così numerose e così sterminate e così emozionate, e tutto questo frantoio sotterraneo di corpi è così lanciato che riesco a percepire solo un unico, crescente e stordente boato come di enormi, morbide presse di carne che si abbassano e si alzano sismicamente in questo immenso spazio cavo che sprofonda e tracima.

Corro, ma non so poi se corro verso quelle voci o verso qualcosa d’altro, non so sopra cosa stanno correndo i miei piedi in questa inconcepibile estensione del mondo.

Però scendo, perché qui si può solo scendere dall’una all’altra di queste città sotterranee che si sporgono sopra nuovi abissi come su balconate morte, e intanto sento sempre più da vicino il fragore del fiume, e sono investito sempre più da questo immenso, indistinto clangore che fa vibrare e sussultare lo spazio cavo dei morti, segno che mi sto avvicinando sempre più al suo punto di massima irradiazione.

Ma che cosa sono tutte queste luci nere che accendono l’infinito buio con il loro buio più concentrato e più nero?

Devo essere entrato in una nuova città tutta gremita di luci nere a perdita d’occhio, a strapiombo su altre città nere che si inventano e che si scavano le loro fondamenta nelle viscere sempre più sprofondate dentro la terra nera dei morti.

«Vieni! Vieni!» mi stanno dicendo molte voci, ma adesso da più vicino, da molto vicino. «Ti portiamo da lei! Lei ti aspetta!»

Mi stanno venendo incontro da ogni parte, da tutte queste strade a raggiera che sembrano ponti sospesi sopra l’abisso, molti corpi nudi di donne che corrono a perdifiato verso di me facendo sventolare dietro di sé gli strascichi dei capelli. Con le braccia allargate, come se volessero abbracciarmi già da così lontano, le lunghe gambe lanciate, i loro corpi che si aprono e si chiudono nelle lunghe falcate, e si vedono luccicare sulle loro gambe e sulle loro cosce in corsa scie di seme maschile morto che cola dalle loro aperture in corsa.

«Ci siamo staccate dagli altri corpi!» le sento gridare, mentre sono ancora lontane. «Ci siamo strappate da loro svellendoli come radici morte dai nostri corpi! Ti stiamo correndo incontro per scortarti fino a lei che ti aspetta col cuore in gola nella sua casa, nella sua reggia piena di luci nere e di lampadari neri e di specchi così abbagliati che non riflettono più la luce nera del mondo che c’è dentro il mondo, dopo avere sentito da lontano il rumore dei tuoi passi e della tua corsa in queste città inabissate dei morti! Siamo uscite di corsa dalla sua reggia nera per condurti tutte insieme fino al suo corpo ispirato che ti aspetta nel cuore segreto della sua reggia, con le nostre bocche ancora dissestate per la violenza dei baci morti da cui ci siamo strappate, il rossetto disseminato sui nostri volti come il polline colorato nelle bocche dei fiori devastati dalla proboscide degli insetti, con le nostre aperture spanate da cui cola il seme nero e fosforescente dei morti di cui ci eravamo riempite in questa percussione e tracimazione universale di morte e vita e di vita e morte!»

Corrono, corrono, sempre più vicine, sempre più belle.

“Chi è che mi starà aspettando nella sua reggia?” mi domando mentre me le vedo venire incontro con le braccia allargate in segno di esultanza e sfracello. “Che sia la sposa dei morti, la mia sposa?”

Adesso sono proprio vicine, mi stanno già sfiorando con i pettini morbidi delle mani piene di piccole unghie dipinte. Qualcuna mi sta già accarezzando il volto, da qualche parte, in questo immenso buio che ci circonda.

Mi sto spostando in mezzo a questa nube prensile di giovani corpi che emanano un intenso profumo nel buio.

Ai lati di queste strade sospese o di questi ponti dai quali sale il fragore sempre più assordante del fiume ci sono altri corpi maschili che ci guardano passare in silenzio, in questo clangore che sale dalle viscere della terra e fa tremare il mondo. Le radici sessuali dei loro corpi sono rilucenti, conservano ancora un po’ della luce liquida dei corpi da cui sono appena usciti, da cui tutte quelle piccole mani profumate e dipinte hanno dovuto svellerli per potermi correre incontro.

C’è un enorme bagliore nero nel buio, che ingigantisce sempre più di fronte ai miei occhi.

«Che cos’è quella cosa?» domando, nella nuvola di tutti quei corpi.

«È la reggia!» mi rispondono molte voci come in un’unica voce.

Come sono grandi, come sono sterminate le regge dei morti! E com’è abbacinante la luce nera che esce dalle loro enormi finestre spalancate nel buio!

Adesso anche la nuvola dei corpi che si spostavano attorno al mio corpo si è improvvisamente fermata. Si sente solo, in questo clangore assordante indistinguibile dal silenzio, il mantice della loro emozionante respirazione nel buio.

«Valle incontro!» mi sta dicendo una voce.

«Sali! Sprofonda!» mi sta dicendo un’altra voce.

«Lei ti aspetta, col cuore in gola, nella sua reggia!» mi sta dicendo una terza voce.

C’è una grande scalinata di fronte a me. Non si capisce se sale verso l’alto o sprofonda, perché i suoi gradini e gli angoli dei suoi gradini si possono vedere nello stesso tempo diritti oppure capovolti.

Faccio qualche passo in avanti, mi pare, se non sono tutte quelle dita e quelle morbide braccia che mi stanno spingendo e proiettando e lanciando come si lancia un corpo morto verso una reggia morta nella morte che viene prima.

Salgo, oppure sprofondo, non so dire. Corro a perdifiato lungo questa scalinata dai vasti gradini pensili, verso dove non so, verso quale reggia non so... Come si fa a raccontare una cosa simile ai vivi dentro la morte? E perché mi sto rivolgendo a voi e non ai morti, anche se persino quando ero vivo dentro la morte che viene prima mi sembrava certe volte che non ci fossero altro che morti, anche se la morte viene prima, anche se la vita viene dopo, anche se il racconto dei morti viene prima di quello dei vivi, anche se il racconto dei vivi è già stato raccontato dai morti? E allora io dov’ero prima, se sto raccontando adesso quello che viene prima? Dove sono adesso, se sto raccontando prima quello che viene dopo?

Sono arrivato in cima, quasi in cima, però vedo che ci sono di fronte a me altre scalinate e poi altre ancora, a perdita d’occhio, che salgono o che sprofondano, non so dire, anche adesso che sono ormai all’interno di questa reggia e che continuo a correre in questi enormi spazi abbagliati da colonie di lampadari neri che scendono e risalgono e che si espandono e che si restringono, come se partecipassero del generale movimento percussivo e della pulsazione dei corpi dentro la morte.

D’un tratto, da lontano, da infinitamente lontano, dall’alto o dal basso, chi può dire, vedo che un corpo nudo di donna sta correndo o sta precipitando o sta salendo verso di me, con le braccia allargate, mi pare, come per avvolgermi nel suo corpo ed essere avvolto dal mio, anche se in questa reggia si vede tutto e non si vede niente, perché la luce è tale che smangia i contorni delle cose e del mondo.

Corro, continuo a correre verso di lei, mentre anche lei corre a precipizio verso di me, in questo finimondo di luci nere che mangia il mondo.

Quando siamo un po’ più vicini, quando posso vedere più distintamente e riconoscere i contorni del suo corpo e del suo volto dipinto e della sua bella testa dai capelli rasati, e persino delle sue piccole orecchie orlate da una raggiera di orecchini tintinnanti, smetto improvvisamente di respirare, rallento.

Anche lei rallenta, mi pare, perché vedo solo il suo indescrivibile sorriso che viene sempre più lentamente verso di me, dal basso o forse dall’alto, lungo queste scalinate capovolte, in questo mondo e in queste città che si innalzano all’incontrario nelle viscere del continente dei morti.

Piano, piano, come se l’aria tra di noi diventasse sempre più densa mano a mano che ci avviciniamo l’uno all’altra. Il suo collo bianco si espande, la sua bella testa dalle labbra e dagli occhi dipinti si arrovescia leggermente all’indietro, per vedermi venire avanti verso di lei dal fondo della visione, sorridendomi nella morte che viene prima, nella sua reggia che viene prima.

Siamo uno di fronte all’altra, in questo mondo nero, che viene prima.

Sento che le sue belle, morbide braccia mi stanno stringendo forte, e che anch’io la sto stringendo forte, così forte che mi fanno male le mani e le braccia.

«Eccomi, sono qui...» mi sussurra.

Sento solo la pressione morbida delle sue labbra che mi stanno parlando contro la carne del collo.

«Io ti stavo aspettando, ti stavo desiderando, nella mia reggia che viene prima.»

Faccio fatica a parlare per l’emozione, mentre stringo il suo corpo tra le mie braccia.

Restiamo così, per un po’, lungo la scalinata, in questa reggia, incernierati, avvinghiati, perché il suo corpo stretto al mio non poggia più sul piano del vasto gradino, si è sollevato, mi sta abbracciando non solo con le braccia ma anche con le sue belle e morbide gambe, che sono salite attorno alle mie gambe, alla mia schiena.

«Tu non sai ancora chi sono...» mi sussurra.

«No, io lo so chi sei. Ti ho riconosciuta...» le sussurro a mia volta, con la bocca contro la sua bella fronte, le tempie. «Tu sei la mia Musa!»

Mi sorride, allungando contro di me le sue labbra umide di dolce saliva morta.

«Come fai ad avermi riconosciuta, se ci vediamo adesso per la prima volta nella morte che viene prima?»

«Ma allora perché io ti ho già vista là?»

«Perché mi stai vedendo qui.»

«Ma allora perché, se deve ancora succedere, è già successo?»

«Perché ogni cosa è spaccata in due. Perché la morte viene prima.»

«Ma allora perché mi ricordo di te?»

«Perché non ci siamo ancora incontrati. Perché il ricordo è tutto dentro la morte che viene prima.»

Non riesco più a parlare. L’abbraccio. Anche lei mi abbraccia, con le braccia, le gambe.

Tutta la reggia è muta. È deserta, mi pare. Si sente venire dalle sue immense finestre spalancate sugli strapiombi quel clangore percussivo di corpi e quel fragore di fiumi densi che scorrono nelle viscere della terra dei morti.

«Vieni!» mi sussurra d’un tratto la Musa. «Vieni con me! Ti farò vedere questa reggia dove non sei mai stato ma che hai già visto mentre ti aggiravi da vivo nelle sue sale e tra le sue luci e i suoi specchi che riflettevano soltanto luce e luce in luce. In questa reggia dove sono tracimata per poterti incontrare la prima volta, se no non potrei, non avrei potuto, non potrò incontrarti una seconda volta nella vita che c’è dentro e dopo la morte che viene prima. Vieni, vieni...»

Mi ha preso la mano, stiamo camminando così lungo la scalinata, sprofondando o salendo, e io scorgo solo, vicino a me, in questa luce nera che mangia i contorni del mondo, la sua bella testa, le sue labbra, i suoi occhi, la raggiera dei suoi orecchini tutt’intorno ai lobi delle sue piccole orecchie morte.

«Guarda, guarda!» mi dice, mi sussurra camminando al mio fianco, mentre imbocchiamo una fuga di sale illuminate da colonie di lampadari neri che si espandono a macchia d’olio scendendo verso terra e che poi rimpiccioliscono mentre salgono vertiginosamente verso l’alto e che poi si espandono ancora precipitando.

«Ma perché tutti questi lampadari salgono e scendono e si espandono e si restringono pulsando come se fossero cuori?» le domando senza girarmi verso la sua testa per l’emozione. «Perché anche i pavimenti di questa reggia e le sue scalinate e i suoi specchi neri sprofondano e si sollevano e poi sprofondano ancora?»

«Perché questa reggia, i suoi pavimenti, le sue pareti, i suoi lampadari, i suo specchi, le sue strutture, ogni sua singola parte, poggiano come ogni altra cosa in queste sterminate città sotterranee dei morti su fondamenta di corpi che si abbassano e si sollevano nel movimento a pompa del coito e sono tenuti insieme e incernierati così.»

Scorgo appena i suoi piedi nudi dalle piccole unghie dipinte camminare vicino a me sui pavimenti che si sollevano e si abbassano nel movimento sussultorio del coito e del sisma, le sue gambe e le sue cosce su cui stanno colando strisce di seme lucente.

«Lo vedi?» mi dice muovendo dolcemente le dita che stringono la mia mano. «È il tuo seme che esce dal mio corpo e cola lungo le mie cosce e le mie gambe che ti portano attraverso le sale di questa reggia.»

«Ma quando è successo?»

«È successo da vivi. Ma la vita è dentro la morte che viene prima.»

Scorgo, alla luce dei lampadari neri che vengono giù dall’alto, le strisce lucenti del mio seme che continua a sgorgare dalla fessura morta del suo corpo e a rigarle le cosce e le gambe.

«Guarda!» mi sussurra ancora. «Guarda come sei tracimato dentro di me!»

«Sì, mi ricordo! È successo durante quella interminabile notte, quando ero vivo» provo a dirle, senza fiatare per l’emozione.

«Perché il seme possa sgorgare e tracimare da vivi deve prima sgorgare e tracimare da morti, perché la morte viene prima, perché il seme dei vivi è già stato eiaculato dai morti.»

Altre sale, a perdita d’occhio, altri lampadari, altri specchi. E io e lei, la mia Musa, incontrata per la prima volta eppure ritrovata, nella morte che viene prima.

«Io sono tracimata qui per te...» mi sussurra, mentre camminiamo attraverso la reggia coi nostri corpi incernierati tramite i pettini delle mani, con le nostre gambe e i nostri fianchi e le nostre spalle che si sfiorano con enorme emozione a ogni passo. «Io ho inventato e fondato questa reggia per te, perché ci fosse un posto al mondo dove poterti aspettare e incontrare.»

«Perché tutto questo?»

«Perché se adesso non fossi qui, non potrei essere là, non avrei potuto essere là, non sarò là.»

«Ma allora tu chi sei?» le domando. «Sei una resurrettrice o sei un’incernieratrice?»

«Io sono la Musa» mi risponde sorridendo, a occhi chiusi, nel buio.

La guardo, adesso la guardo, la contemplo, la vedo.

«Perché vivi in questa reggia?»

«Perché sono la regina dei morti.»

«E il tuo re dov’è?» provo a chiederle, col cuore in gola.

«Il mio re sei tu!»