19

Il fiume dei morti

Non è difficile nuotare in questo fiume, perché le sue acque sono così dense e sostengono a tal punto il peso del tuo corpo che è impossibile sprofondare.

Non si vede niente.

«Dove sei?» grido alla mia Musa.

«Sono qui!» mi risponde la sua voce, da vicino, nel buio.

Sto muovendo le braccia e le gambe come per nuotare, ma non è un vero nuotare perché la corrente che mi trascina e che ci trascina è così forte che basta farsi trasportare.

«Che fiume è questo?» domando ancora alla Musa, con la testa e la bocca fuori dai flutti.

Le sue acque emanano un odore forte, tutt’intorno a me, nell’immenso buio. “Ma io l’ho già sentito questo odore indefinibile e intenso, da qualche parte, quando ero vivo!” mi passa per la mente mentre sono trascinato dalla corrente sulla curvatura di questo fiume in cui sono sprofondato come in un calco. “O forse lo sto sentendo adesso per la prima volta, nella morte che viene prima! Ma che odore è, che sembra uscire da caverne aromatiche di precedenti cervelli marini che si stanno liquefacendo?”

Smetto di respirare, in questa massa liquida fosforescente.

«Ma questo fiume è di sperma!» grido alla mia Musa, che sta nuotando o che si sta facendo trasportare dalla corrente vicino a me.

«Sì» mi risponde da qualche parte, nel buio.

«Ma da dove viene? Dove va?»

«Viene dai corpi dei morti, di tutti i morti. È formato da tutto il seme che viene eiaculato per la prima volta qui nel continente dei morti e nelle città emerse e sotterranee dei morti. Scaturisce a fiotti da questo smisurato frantoio percussivo di corpi, dalle fessure delle donne morte che non riescono più a contenere dentro di sé l’enorme quantità di seme che viene continuamente lanciato nei loro corpi da altri corpi morti, dalle colature che si formano attorno ai corpi che continuano a penetrarsi e a colpirsi e a inondarsi, e che poi scendono luccicanti lungo le cosce, le gambe, si connettono con altre colature formando rigagnoli fosforescenti nel buio, piccoli torrenti seminali che corrono e si immettono nei canali di scarico che attraversano tutto il continente sotterraneo dei morti. Si ingrossano sempre di più, formano piccoli fiumi seminali che attraversano a raggiera le cavità nere di queste città inabissate, affluiscono a questo enorme fiume che cresce correndo verso il suo fondo, alimentato da tutti i rigagnoli, i torrenti e gli altri piccoli fiumi che riescono a scavarsi il loro letto inclinato in questo inconcepibile buio, mentre la massa sempre più esorbitante di questo seme eiaculato fin dall’inizio in questo frantoio di corpi allarga sempre di più il suo letto correndo a precipizio attraverso le voragini di queste città, scende sempre più turbinoso sfondando argini, sradicando parti di città o città intere incontrate nella sua corsa, formando piccoli laghi pensili sui precipizi e poi riprendendo a correre verso il fondo attraverso queste gole nere e queste città tutte gremite di luci nere come costellazioni viste in piena notte nell’infinito buio che c’è nel mondo...»

Grida, grida, con la sua bella voce, con esultanza, in mezzo a tutto questo fragore inconcepibile di flutti e di schiuma che rovinano verso il fondo trascinando ogni cosa.

«Dove sei? Dove sei?» le grido ancora, muovendo qualche bracciata in questa materia liquida fosforescente nel buio, perché mi pare che la sua voce si stia allontanando.

«Sono qui! Sono qui! Non avere paura» mi risponde la sua voce, da più vicino.

Anche lei sta nuotando con le gambe e le braccia, con il collo e la testa fuori dai flutti per cercare di vedermi nel buio.

«Non si vede niente!» le grido ancora.

«Stammi vicino» mi risponde prendendomi la mano, nel bagliore di quella materia liquida che rovina verso il fondo buio.

Ci lasciamo trasportare per un po’ così, tenendoci per mano, nella corrente.

«Questo fiume diventa sempre più denso, più denso...» mi sta dicendo con la testa vicino alla mia testa trascinata dalla corrente seminale «come una massa agglutinata e convessa che tracima verso il fondo in un unico blocco. Anche le sue correnti interne stanno diventando sempre più dense. Ormai non lo si può più navigare con le navi, coi motoscafi, perché i motori non avrebbero più la forza di fendere questi flutti, le eliche si bloccherebbero nella sua materia che si solidifica sempre più. Fino a poco fa le vedevo scendere illuminate su queste acque fosforescenti, dalle finestre della mia reggia, con le loro luci nere nel buio, motoscafi di morti che riuscivano ancora a fendere la materia densa di questo fiume, grandi navi di morti che riuscivano a navigare su queste acque tanto si erano scavate in profondità il loro letto. Vedevo passare certe volte anche il Dio dei morti, sul suo veliero, immobile sul castello di prua, mentre guardava in silenzio di fronte a sé questa plaga fosforescente che si allargava e che dilagava serpeggiando attraverso le città sotterranee dei morti. Scorgevo appena nel buio il bagliore della sua maschera di porcellana che gli nascondeva il volto, ciò che restava del suo volto investito dalle onde elettromagnetiche della luce che viene prima, con i loro fotoni che viaggiano alla velocità di 300.000 chilometri al secondo. Guardava in silenzio le acque seminali che si stendevano a perdita d’occhio davanti alla prua del veliero, nella morte che viene prima. Io gridavo qualcosa verso di lui, lo chiamavo, sporgendomi dalle finestre della mia reggia, da dove stavo scrutando il continente sotterraneo dei morti in attesa che tu arrivassi, quando lo vedevo passare nel buio, perché ce ne eravamo andati via insieme dal continente dei vivi, io e lui, Dio e la Musa, dal continente dove non siamo ancora stati, perché la morte viene prima, perché la Musa viene prima, perché il Dio dei morti viene prima di quello dei vivi. Ma lui non mi sentiva, o se mi sentiva non si girava, continuava a guardare in silenzio la superficie convessa delle acque seminali del mondo che viene prima. Adesso non ci sono più motoscafi, non ci sono più velieri, non ci sono più navi, perché la densità di queste acque ormai è tale che le loro prue si incaglierebbero, gli scandagli non riuscirebbero più a scendere verso il fondo, potrebbero venire solo spostati come fuscelli immobilizzati in questa corrente che viene prima. Adesso ci si può solo gettare dentro coi nostri corpi, e lasciarci trasportare così verso il fondo, da queste correnti seminali che vengono prima delle correnti che ci sono nel continente dei vivi e dalle quali si lasciano trasportare i vivi dentro la morte, attraverso questo mondo nero pieno di precipizi e di luci nere, verso l’origine di questa tracimazione e di questo clangore.»

Sento passarmi sulle mani e sul volto delle minuscole cose dure come sassi, piccole pietre acuminate avvolte nel velo seminale dopo essere state sollevate dal fondo del fiume dal turbine del suo passaggio.

«Che cosa sono questi sassi che ci colpiscono da tutte le parti?» le chiedo, rovinando insieme a lei, in questa corrente densa, nel buio.

«Non sono sassi» mi risponde, rovesciandosi sul dorso in questa materia seminale fosforescente, mentre anch’io mi rovescio sul dorso per non venire più colpito sul volto da tutti questi sassolini scagliati da qualche parte, dal fondo. «Sono i gameti. Sono le miriadi di gameti che pullulano in questi flutti sempre più densi per la continua immissione e tracimazione di seme nella morte che viene prima. Sono i gameti maschili che divincolano i loro flagelli in questa materia sempre più agglutinata per riuscire a farsi largo tra miriadi e miriadi di altri gameti che muovono a loro volta freneticamente i lori flagelli per riuscire a penetrare prima degli altri dentro altri gameti femminili nella morte che viene prima. Sei dentro l’eiaculato dei morti e della morte che viene prima. Qui ci sono tutti i gameti che daranno vita ai vivi, quelli che daranno vita a donne e uomini, ma anche le miriadi di quelli che invece non riusciranno a sfondare e a fecondare un altro gamete nella ressa sterminata e disperata di corpuscoli ciechi che serpeggiano in questa corrente densa nella saturazione e tracimazione di mondi. Popoli interi, che ci sono stati, che ci saranno, che non ci sono stati, che mai ci saranno, orde umane, massacratori, massacrati, guerrieri, regine che aspettano i loro eroi nelle loro regge, bambini che si alzano per la prima volta su due sole zampe e muovono i primi passi, che mai li muoveranno, bocche e lingue che si toccano per la prima volta, che mai si toccheranno, nella vita che viene dopo, nella morte che viene prima, salive che si mischieranno, che mai si mischieranno, organi genitali che si cercheranno, si penetreranno, si incerniereranno, non si penetreranno, non si incerniereranno, uomini che risorgeranno, che non risorgeranno, bombe che esploderanno, che non esploderanno, mattatoi, camere a gas, uomini che si ameranno, si sgozzeranno, non si ameranno, non si sgozzeranno, donne e bambini che risorgeranno, che non risorgeranno... Qui c’è tutto il seme che è stato eiaculato dall’inizio, da prima, da adesso, qui c’è tutto quello che sarà e anche quello che non sarà. C’è anche il tuo seme, stai nuotando dentro il tuo stesso seme, quello che eiaculerai nella vita dentro la morte perché lo hai già eiaculato qui, da dopo, da prima ancora. Stai nuotando tra le miriadi di gameti eiaculati da te prima ancora di essere eiaculati da te, ti stai spostando tra quello che ci sarà e quello che non ci sarà, tra quello che nascerà e quello che non nascerà, dopo che è nato o non è nato qui. Stai nuotando dentro l’eiaculato da cui tu stesso sei nato, non sei ancora nato, non nascerai, nascerai. Forse qualcuno di questi che ti sembrano sassolini trasportati dalla corrente densa nella quale stiamo nuotando tenendoci per mano dopo esserci incontrati nella morte che viene prima, e che ci colpiscono come frecce nel buio, è il gamete maschile o femminile da cui tu nascerai, dopo che mi incontrerai, che mi hai incontrata prima di incontrarmi nella vita che c’è dopo la morte che viene prima...»

«Com’è forte questa corrente!» le sussurro, le grido, non so se le sussurro o le grido, perché il clangore è sempre più forte, perché queste acque dense in cui siamo immersi emettono un fragore che non ho mai sentito prima, come di miriadi e miriadi di corpicini ciechi e di bocche che gridano tutti insieme in questo immenso spazio cavo saturato e inventato.

«Sarà sempre più forte» mi risponde venendomi infinitamente vicino, con la testa, la bocca. «Sempre più forte a mano a mano che scenderemo verso il fondo, perché queste nuove masse seminali che premono le une contro le altre, alimentate da tutti i suoi sempre nuovi affluenti che scendono lungo questa gola da ogni punto di queste percussive città sotterranee dei morti, imprimono al suo corso una velocità vertiginosa e crescente che...»

Non riesco più a sentirla, perché sto precipitando dall’alto, mi pare, perché il mio corpo avvolto in questa nube seminale sempre più densa sta volando giù da una balza protesa sopra un abisso.

Non sento più la mano della Musa nella mia mano. Sprofondo, in questa materia seminale densa, in questo bagliore fosforescente. Cerco di risalire, nuotando all’impazzata in questo agglutinato di mondo che viene prima. Muovo mani e braccia, al buio, alla cieca, anche i piedi, le gambe, e mi sembra quasi di correre verso l’alto, tanto è consistente la materia in cui sono immerso, come se fossi anch’io uno di quei gameti che sentivo grandinarmi contro il volto quando mi lasciavo trasportare dalla corrente.

«Che cosa è successo?» grido, emergendo con la testa dai flutti.

«Siamo precipitati dentro una cascata!» mi grida la Musa, emergendo vicino a me, con la sua bella testa da cui scola il velo di questa materia seminale fosforescente nel buio.

Mi prende di nuovo la mano, me la stringe forte, in questi flutti turbinosi, in queste schiume dense che ci sono ai piedi della cascata.

«Ce ne saranno altre» mi dice. «Improvvise cascate, piccoli e grandi laghi che potremo attraversare continuando a tenerci per mano, facendoci trasportare sul dorso, con le teste girate l’uno verso l’altra per poterci continuare a guardare mentre scenderemo verso il fondo, in questa fosforescenza in cui siamo avvolti, incernierati, incantati, verso il precipizio della sua ultima e prima foce. E poi di nuovo cascate ancora più grandi, cascate in cui cascano interi laghi, e poi ancora città travolte, territori interi che prenderanno di nuovo l’aspetto di fiume, e noi ci navigheremo dentro così, con i nostri corpi appaiati nella sua melma seminale catarifrangente nel buio, scorgeremo passare e incombere ai lati le muraglie di sempre nuove città inabissate e inventate, finché non la vedremo dall’alto palpitare sotto di noi, con tutto il suo infinito buio e la sua accecante luce nera nel buio.»

«Ma dove stiamo andando? Che cosa c’è là in fondo?» le chiedo.

«Lo vedrai con i tuoi occhi» mi risponde la sua voce, nel buio.

La scorgo appena vicino a me, mentre si fa trasportare al mio fianco da questa massa che sta diventando sempre meno turbinosa mano a mano che ci allontaniamo dal salto, scorgo appena la sua bella testa affiorata, su cui scorre il velo di queste prime acque fosforescenti.

Le pareti intorno a noi risuonano per l’immenso clangore, ma anche le acque in cui siamo immersi emettono un unico, indistinto fragore mai sentito prima, che non riesco quasi a sentire tanto sono immerso nella zona d’origine della sua irradiazione, come se provenisse non solo dall’enorme massa liquida che si solidifica sempre più travolgendo ogni cosa ma anche da qualcosa di infinitamente più interno, che viene prima, dalle miriadi e miriadi di gameti che ci sono dentro il suo immane fronte convesso che rovina, da cui si levano miriadi e miriadi di microscopiche vocine percussive che stanno gridando nell’infinito buio che viene prima.

Gridano, gridano, e le loro voci non si distinguono, e nessuno le sente, le può sentire.

«Guardami!» mi dice d’un tratto la Musa, scorrendo vicino a me in questo bagliore nero. «Guardami qui per la prima volta! Perché se tu non mi guardi adesso, non mi potrai guardare da vivo, non mi avrai guardata. Perché se tu non mi vedi adesso non mi vedrai.»

E allora io la guardo, la guardo, anche se non la vedo, anche se vedo solo, sotto questo velo primo di saliva seminale lucente, il balenare della sua testa che mi sta guardando e della sua bocca velata che mi sta sorridendo nell’infinito buio che ci circonda.

La massa liquida che ci trasporta si comincia a increspare ancora, la corrente ci sta trascinando di nuovo con forza verso una nuova cascata in cui precipitiamo senza slacciarci, e poi sprofondiamo insieme, e poi riemergiamo insieme, i nostri corpi scorrono in questa guaina di luce fosforescente nel buio che scola e si stacca dai nostri volti quando riemergiamo tutti e due insieme per respirare.

E poi di nuovo, per un po’, ci spostiamo tutti e due coricati l’uno vicino all’altra, allacciati. E poi di nuovo queste onde seminali che ci sferzano, che si attaccano ai nostri volti e alle nostre ciglia. Nuove cascate in cui precipitiamo, nuovi laghi che attraversiamo trascinati nel turbine di una nuova corrente, nuove cascate di fiumi, di laghi interi che precipitano verso il basso mentre altri laghi si riformano alle nostre spalle. E poi ancora tutti questi flutti che si placano a poco a poco, noi due che ci spostiamo quasi senza muovere gambe e braccia in questo fiume che si allarga e dilaga così tanto che certe volte sembra quasi fermarsi prima di riprendere a correre e a turbinare con ancora più forza nell’inclinazione vertiginosa che lo trascina non so verso dove. Ma ci sono dei momenti in cui tutto sembra così calmo, così tranquillo, che io e la Musa ci muoviamo uno verso l’altra, e ci incernieriamo con tutte e due le mani, e lei mi abbraccia con le sue braccia, le gambe nude, dentro questa saliva primordiale che per qualche istante non emette fragore, non piange, non grida, e allora ricominciamo a parlare tra di noi, con enorme abbandono, come se fossimo ancora nel continente dei vivi, uno tra le braccia dell’altra, incernierati nella vita che c’è dopo la morte che viene prima, nella sua stanza dove non aveva mai accolto nessun altro prima di me, nel suo letto, nel mondo, lo saremo perché lo siamo adesso, nel fiume seminale della morte che viene prima.

«Dov’eri allora?» le chiedo, con la testa vicino alla sua testa.

«Dove sono adesso» mi risponde, con la sua bocca fosforescente nel buio.

«Dove sei adesso?»

«Dov’ero allora.»

«Ma allora quand’è che hai aperto il tuo corpo al mio corpo?»

«Lo sto aprendo adesso perché te l’ho aperto allora, te lo aprirò.»

Navighiamo, ci abbracciamo, parliamo. E intanto altre città passano, si inabissano, altre ancora si ergono sopra di noi prima di inabissarsi verso sempre nuove città inabissate, nel bagliore di queste luci nere che salgono dal profondo.

«Dove sarà adesso il Gatto?» mi viene in mente di domandarle, chissà perché, all’improvviso. «Dove sarà finito?»

La sua bocca si allunga vicino a me, mi sorride, forse ride persino, sommessamente, senza emettere un suono, in questo inconcepibile buio, perché scorgo a poca distanza dai miei occhi il balenare improvviso dei suoi denti bianchi dietro il velo di questa saliva seminale che ci avvolge e che ci trascina.

«Il Gatto è risorto!» mi risponde, muovendo vicino a me le sue belle labbra fosforescenti. «Non è più qui. Lui è tracimato tra i vivi. Lo incontrerai, prima o poi...»

«Ma io l’ho già incontrato!»

«Per questo lo incontrerai.»

E sorride, sorride ancora, sorride a lungo, mentre veniamo trascinati dalla corrente che sta ricominciando a turbinare con ancora più forza, segno che ci stiamo avvicinando di nuovo al salto di un’altra cascata, e poi di un’altra ancora, perché il fiume è così largo e così allagato, e i salti tra questi strati sotterranei di terra e tra una successione e l’altra di queste città pensili sugli abissi sono così alti che si forma anche più di una cascata in uno stesso varco di mondo, anche un numero sterminato di cascate con enormi masse liquide seminali che precipitano tutte insieme in uno stesso imbuto saturo di vapori densi e di schiuma.

«Ma io le ho già viste una volta, quando ero tra i vivi, queste cascate!» provo a gridare alla Musa, riemergendo con lei dal profondo seminale dopo un interminabile salto, con gli occhi ancora sigillati, col cuore in gola. «Dall’altra parte del mondo e del continente dei vivi dove allora vivevo, dove ero andato dopo un lungo volo nella notte nel cielo nero dei vivi, e un altro lungo viaggio su vecchie corriere che arrancavano lungo salite e discese di terra rossa, nel buio, e tutt’intorno, oltre i finestrini rotti, scorrevano immagini di cose mai viste, di mondi mai visti, vegetazione buia che si riprendeva le strade, cani che vagavano abbandonati, mucche e cavalli magri e altri animali che si aggiravano o volavano sulla terra e nel cielo dei vivi, mentre ero nella solitudine sconfinata del mondo dei vivi, piccoli uomini che correvano freneticamente da tutte le parti in sella a motociclette sfasciate. E poi quelle farfalle gialle in esplosione demografica nella selva, che una bambina india sollevava nell’aria con le sue mani, e poi quell’immenso precipitare di acque che venivano giù da tutte le parti, nuvole di vapore in cui tutti quegli uccelli neri si gettavano arditamente, stridendo, in cerca di cibo, piccoli pesci scaraventati nel vuoto, microrganismi trasportati dalla massa d’acqua e volatilizzati nel salto e altre forme primordiali unicellulari che venivano scorporate dal resto dell’acqua, della luce...»

«No, tu non le hai viste allora, tu le stai vedendo per la prima volta adesso!» mi dice muovendo le sue belle labbra dietro il velo di saliva fosforescente e di schiuma. «E quelle non erano acque e nebulizzazioni di acque, era questa stessa massa seminale già eiaculata qui nel mondo che viene prima. E quegli uccelli che si lanciavano arditamente nelle cateratte cercando di non infradiciarsi troppo le ali non li hai visti allora, li stai vedendo adesso. E quei corpuscoli iniettati nel vuoto che gli uccelli cercavano di afferrare col becco in quel finimondo di vapori e di schiume non erano piccoli animali guizzanti e microrganismi che pullulano nelle acque dei vivi, erano i gameti in mezzo ai quali stiamo nuotando adesso...»

Provo a guardare intorno a me, nel velo seminale nebulizzato in cui sto precipitando da un’inconcepibile altezza, e poi sopra di me, quando riemergo ai piedi ribollenti di questa nuova cascata con la mia Musa. Tutto lo spazio è attraversato da ogni parte da un turbinare di uccelli morti che si lanciano nei vapori.

«Si sono radunati qui venendo da ogni parte del continente dei morti» mi sta dicendo la Musa, mentre cerchiamo di uscire nuotando dal gigantesco risucchio che si è creato ai piedi della cascata. «Tutti questi uccelli neri in esplosione demografica per l’enorme quantità di cibo seminale a disposizione, che ci sfiorano con le frecce delle loro teste mentre si lanciano col becco spalancato, stridendo, sbattendo all’impazzata le ali per liberarle dal vapore denso che le appesantisce, non si stanno ingozzando di piccoli pesci, di microrganismi, di plancton, si stanno ingozzando di gameti appena eiaculati, gameti che non arriveranno mai a sfondare le pareti dell’ovulo verso il quale stavano disperatamente nuotando con i loro flagelli, forse hanno addirittura sfiorato tra miriadi di altri anche i tuoi gameti, coi loro becchi frenetici sempre in cerca di cibo, prima di volare via col corpo pieno del loro bottino seminale, e poi ritornare di nuovo a gettarsi nel velo di vapore e di schiuma liberato dalle cascate, forse li hanno addirittura ingoiati, hanno ingoiato i tuoi stessi gameti, quelli eiaculati da te, o addirittura quelli dai quali tu nascerai, avresti potuto nascere, nella vita che viene dopo, nella morte che viene prima...»

«Ma com’è possibile, se io sono qui?» le rispondo, le grido, mentre lei mi sta riprendendo la mano continuando a nuotare vicino a me in questo ribollire di vita e morte che viene prima.

La mia Musa non mi risponde. Ride, con dolcezza, con infinita dolcezza, mi pare, tra questi stridori disperati di esultanza e di grida che attraversano il cielo.

«Uccelli che si affollano qui da ogni parte del continente dei morti, attorno a questo fiume debordato dalle sue rive per la continua percussione e tracimazione di seme dentro la morte che viene prima...» riprende a dire mentre continuiamo a nuotare incernierati in questa corrente che adesso scorre così inclinata che mi sembra di nuotare a testa in giù e di conficcarmi col volto nelle sue dense acque, mentre il clangore cresce sempre di più, a dismisura, indistinguibile dal silenzio che viene prima. «Ma anche mille altri animali piccoli e grandi attirati lungo le sue rive dalle sue esalazioni e dal suo bagliore fosforescente che si indovina a enorme distanza nel buio. Animali che ci sono tra i vivi ma che vengono inventati qui per la prima volta, piccoli e grandi roditori morti che escono al buio dalle loro tane e che si accalcano sui suoi bordi, che conficcano i loro piccoli denti in questa materia seminale soffice, piccole e grandi serpi che si sporgono con le frecce delle loro teste dalle rive e che si riempiono di seme nel buio, insetti e farfalle morte che si posano sulla sua curvatura densa per suggere con le loro piccole e voraci bocche e le loro proboscidi e le loro spiritrombe i gameti fosforescenti, le stesse che circondavano come una nuvola il corpo di quella bambina india che hai visto dall’altra parte del mondo dei vivi, che sbattevano le loro ali gialle intorno a lei e che le ricoprivano interamente i capelli lucidi e neri, le spalle, e che lei sollevava nell’aria con le sue piccole mani, solleverà, cani attirati dai suoi effluvi e dai suoi miasmi profumati che salgono da queste gole nere, che allungano i loro musi per lambire le sue pullulanti acque, cani neri e soli che trangugiano seme nel buio, che spingono le loro lingue tra queste miriadi di gameti e che magari inghiottono anche i gameti eiaculati dai loro stessi padroni, o da quelli che sarebbero potuti diventare i loro padroni se i gameti da cui sono nati, sarebbero potuti nascere, non fossero stati trangugiati prima, e per questo si aggirano soli, senza padroni, in questo mondo nero che riempiono con i loro guaiti e coi loro pianti... E poi, di nuovo, più nulla, non più grida nel cielo, rumori di becchi d’osso che si chiudono, di corpi che strisciano gonfi di seme sulle rive, di lingue che si muovono nella materia densa, nel buio, solo il fiume, la sua superficie convessa che rotola compatta tra queste gole sempre più inclinate e a strapiombo, sempre più forte, più forte, perché ci stiamo avvicinando al fondo, tenendoci per mano, così, sprofondati nei suoi effluvi scaturiti dalle caverne buie e profumate dei corpi morti, che corre sempre più inclinato verso la sua foce e il suo inizio, verso la più inabissata e segreta città seminale dei morti nella morte che viene prima...»

L’inclinazione del fiume cresce ancora di più. Adesso non ci stiamo facendo trasportare coricati sul dorso, come fuscelli. Adesso siamo girati tutti e due in avanti, stiamo fendendo coi volti la corrente di questo fiume che strapiomba. Posso cominciare a vedere, da dove sono, dall’alto, uno smisurato bagliore che cresce sempre più man mano che ci inabissiamo.

«Siamo quasi arrivati!» mi sta gridando la Musa, tirando fuori la testa dalle schiume, con la sua bella bocca fosforescente.

Il bagliore è tale che non ci si vede. Il clangore è tale che non ci si sente.

«Adesso dobbiamo strapparci da questa corrente che ci ha portato fin qui!» mi grida ancora, nella luce, nel buio. «Dobbiamo riuscire a metterci in salvo, per non precipitare anche noi dentro il fiume nell’ultima città inabissata dei morti che c’è sul fondo di quest’ultima gola!»

Sento che la sua mano mi sta trascinando verso il bordo, in quest’ansa estrema che fa il fiume prima di precipitare con tutte le sue acque e le sue città travolte e i suoi laghi, verso un punto da dove spuntano cuspidi di grattacieli inabissati, a strapiombo sull’ultimo abisso.

Nuotiamo tutti e due, incernierati, nella corrente che rovina sempre più verso il fondo, come un unico corpo con quattro gambe e due braccia, in questa melma seminale che si illumina sempre più dall’interno man mano che si avvicina al culmine del suo ultimo salto.

Comincio a sentire qualcosa di duro sotto i miei piedi, non capisco più se sto nuotando o se sto già camminando sulle zone aeree delle ultime città inabissate e travolte.

«Vieni! Vieni!» mi sta gridando la Musa, con gran parte del corpo già fuori da queste acque, correndo insieme a me, incernierata a me verso il tetto di un grattacielo quasi interamente sommerso, sulla cui larga cima si vede balenare la massa immobile e nera di un elicottero dalle lunghe pale luccicanti nel buio.

Corriamo, tenendoci per mano, nuotando o balzando dall’una all’altra di queste cime di grattacieli appena inventati e fondati e già inabissati, verso quella cuspide che sporge più delle altre dalle acque, in questo clangore ritmico che fa tremare il mondo, in questo bagliore accecante, nell’infinito buio.

«Guarda!» mi dice allargando le braccia, quando siamo sulla torre più alta, mentre dal suo corpo e dai nostri corpi sta scolando questa velatura seminale fosforescente, tutti e due in piedi su questa cuspide di città sprofondata che si affaccia sopra l’ultimo abisso.

E io allora guardo, provo a guardare, perché il bagliore che si vede salire dal fondo è così accecante che non lo si può quasi vedere.

«Che cos’è quella cosa?» sento che la mia voce le sta chiedendo, da qualche parte, nel buio.

«È la città seminale dei morti!» mi risponde, da qualche parte, nel buio.

La guardo, da qui in alto, dalla cima di questo grattacielo quasi interamente sommerso dalla furia delle acque seminali che dilagano tutt’intorno prima di precipitare nell’ultimo salto.

«Ma c’è anche nel continente dei vivi una città come quella!» le dico, le grido, anche se è vicina, anche se è infinitamente vicina, anche se siamo tutti e due in piedi uno vicino all’altra sopra quest’ultimo abisso, ancora insalivati, fosforescenti. «Una città tutta piena di sperma e di gameti e di circuiti e di chiasmi in cui viene raccolto tutto il seme del mondo e in cui ci sono persino circuiti per i sogni sognati dai gameti e persino per sogni non ancora sognati dai gameti, che non saranno mai sognati, vicino a quelle dighe che trattengono enormi masse di ovuli femminili, a quelle città asiatiche sterminate dove sta avvenendo una continua tracimazione di vivi e di morti dentro la vita che è dentro la morte, sagomata come un immenso cervello seminale alimentato da tutto il seme e da tutti i gameti maschili e femminili dei vivi dentro la morte.»

«No, non è la!» mi risponde sorridendo sopra l’abisso. «È qui. La stai vedendo per la prima volta qui. Tutto il seme dei vivi è già stato eiaculato per la prima volta qui. La città seminale è qui prima di essere là, i gameti che ci sono all’interno dei suoi circuiti stanno muovendo per la prima volta i loro flagelli qui, stanno sognando per la prima volta qui, non stanno sognando per la prima volta qui.»

Guardo in basso, verso l’abisso, da questa pista di atterraggio per elicotteri che c’è sul tetto di quest’ultimo grattacielo che si sta inabissando sempre di più.

«Tutto il seme è qui!» mi sta dicendo ancora la Musa. «Tutto il Dna è qui, tutti i cromosomi sono qui! Tutti i codici genetici sono qui, tutto il patrimonio ereditario è qui! Tutte le molecole del Dna si stanno duplicando qui! Catene, doppia elica, stampi per sempre nuove catene che si formano e si disgiungono e si polimerizzano ricostruendo nuove catene. L’intera quantità di informazioni genetiche viene trasmessa qui, nella morte che viene prima.»

«Ma, allora, se la morte viene prima, come comincia la vita? Perché, a un certo punto, comincia la vita?» provo a domandare alla mia Musa, mentre siamo tutti e due spenzolati su quest’ultimo abisso che viene prima.

«Ci sono, là in fondo, nelle viscere di quella città seminale che si inabissa sempre più per l’immissione di sempre nuove masse di seme, schiere di scienziati morti che stanno cercando di cogliere il momento esatto in cui avviene questo errore nel processo di duplicazione e si trasmette un’informazione diversa da quella originale provocando nel patrimonio genetico della nuova cellula quella mutazione che è stata chiamata vita. Ci sono là in fondo, negli sterminati meandri di quella immensa città seminale fosforescente che noi stiamo vedendo dall’alto, enormi centri di ricerca e complessi industriali dove si sta aspettando l’annuncio di questa scoperta per poter forgiare le armi genetiche che possano permettere ai morti, quando verrà il momento, di fronteggiare i vivi e l’errore di duplicazione della vita nell’ultima guerra mondiale e universale tra vita e morte. Mentre gli scienziati vivi, nella loro sterminata città seminale che viene dopo, stanno cercando a loro volta l’errore di duplicazione che provoca la mutazione che è stata chiamata morte, per creare un nuovo codice e forgiare così anche le loro armi nella vita che è dentro la morte, perché si sta avvicinando sempre di più il momento della tracimazione universale della vita dentro la morte e della morte dentro la vita.»

Non riesco più a dire niente. Rimango in silenzio, al fianco della mia Musa, adesso anche lei immobile e silenziosa, sulla cima di questo grattacielo che si sta sempre più inabissando, di fronte a questo bagliore seminale che sale dal fondo dell’abisso e che illumina di un’accecante luce nera i fianchi oscuri di quest’ultima gola, in questo insostenibile clangore percussivo di vita e morte che fa tremare il mondo.

Poi, d’un tratto, mentre sto ancora guardando in silenzio verso il fondo seminale del mondo, e non so più se ci sono ancora da qualche parte o se non ci sono, mi pare di scorgere qualcosa di infinitamente nero che attraversa come un arco tutto il cielo nero verso cui sale questo inconcepibile bagliore seminale che cresce, perché c’è un cielo anche qui, persino nelle viscere più profonde e nelle voragini più segrete delle città e del continente dei morti e fin nei suoi ultimi abissi, uno spazio cavo e bombardato di clangori percussivi e di luci in cui prendono forma queste visioni di città inabissate e inventate nella morte che viene prima.

Sento che la Musa mi sta stringendo più forte la mano, da qualche parte del mondo.

«Cosa stanno vedendo i miei occhi?» le sussurro. «Che cos’è quella cosa?»

«È l’arcobaleno dei morti» mi risponde la sua voce, nel buio.