Resto immobile, di fronte alla visione arcuata che attraversa da parte a parte quest’ultima gola e che si sta precisando sempre più davanti ai miei occhi.
Anche la Musa è immobile vicino a me, le nostre mani si stringono, i nostri fianchi e le nostre spalle si toccano in questo immenso buio che trema.
«Ma che arcobaleno è questo?» le chiedo. «E come facciamo a vederlo, se qui è tutto nero, se non ci sono colori, c’è solo oscurità e ci sono solo bagliori, se qui non arrivano raggi solari che si possano rifrangere nelle goccioline d’acqua e vapore?»
«Eppure è qui che si forma lo spettro dei colori del mondo. Vengono inventati qui i colori che i vivi vedono o credono di vedere per la prima volta nel mondo dentro la morte che viene prima.»
«Ma se non si vedono!»
«I colori non si vedono. Quelli che i vivi vedono o credono di vedere non sono i colori, sono solo quello che vedono dei colori che vengono inventati qui, su quest’ultimo abisso.»
«E dov’è la luce? Dov’è il velo d’acqua e di pioggia sul quale la luce può far balenare la sua presenza nel mondo?»
«La luce è quella che sale da quell’immensa città seminale inabissata dei morti che vediamo là in fondo, le goccioline sono quelle che si levano nebulizzate da quest’ultima cascata, come se ne formano sempre ai piedi delle cascate dei vivi nella morte che viene prima.»
«Allora anche questo arcobaleno è di sperma!»
«Sì, di luce e di sperma! Il suo spettro è formato dalla rifrazione, dalla riflessione e dalla dispersione della fosforescenza di queste miriadi e miriadi di gameti in sospensione, ciascuno col suo codice genetico e con la sua morte e con la sua vita, e che formano questo arcobaleno seminale dei morti dove la luce può far presagire per la prima volta la sua presenza nera nel mondo.»
Lo contemplo a lungo, non riesco a staccare gli occhi da questa visione nera che attraversa da parte a parte il nero del mondo, mentre le acque seminali continuano a crescere lungo i fianchi di questo grattacielo che emerge ancora dai flutti con parte della sua cima. I miei occhi distinguono sempre più in questo immenso buio il buio infinitamente più concentrato dell’arcobaleno dei morti dove si forgiano i colori neri e le luci nere e le immagini e le visioni anticipate e i presagi del mondo.
Poi, all’improvviso, mentre continuo a guardarlo da questa torre che a poco a poco scompare, tutto l’immenso arco nero si mette a vibrare.
Lo spettro nero dei suoi colori comincia a scomporsi, si dissolve in pochi istanti di fronte ai miei occhi.
Mi giro verso la Musa.
«Che cosa sta succedendo?» le chiedo.
«Il terremoto!»
«Eppure è tutto immobile!»
«La percussione è troppo forte, la spinta è troppo forte, la tracimazione in atto è troppo forte» mi risponde girando gli occhi verso il fiume di seme che sta già quasi arrivando a lambire la cima del grattacielo da cui stiamo contemplando gli ultimi abissi delle città precipitate dei morti. «Il clangore è troppo forte, il bagliore seminale è troppo forte. La faglia sismica è sottoposta a spinte tracimative troppo forti per poter sostenere ancora una simile percussione di vita e morte. Fra un po’ tutto tremerà, crollerà, anche in queste città inabissate che sono state inventate e fondate proprio dentro le voragini aperte dal sisma di vita e morte, soprattutto qui dove siamo, all’origine di questo bagliore. Il terremoto non comincia dalla terra, comincia dal cielo. È sempre il cielo il primo a tremare!»
Infatti, un istante dopo, anche la terra comincia a tremare, anche i fianchi neri di quest’ultima gola da cui sale il bagliore, anche il bagliore, anche le cuspidi degli altri grattacieli che spuntano appena un po’ dalle acque, anche la cima della nostra torre, anche il grande insetto di metallo dalle lunghe pale luccicanti nel buio.
«Via! Via!» sta gridando la Musa. «Ti porterò fuori da questo baratro di città che crollano nelle viscere della terra! Ti porterò in salvo!»
Stiamo correndo sulla cima piatta di questa torre che oscilla sempre più, tenendoci stretti con le mani, verso l’elicottero nero che oscilla luccicante nel buio.
«Forza! Sali!» mi grida entrando con un balzo nella sua carlinga.
Salto dentro anch’io.
L’acqua sotto di noi è salita ancora, sta già debordando oltre la cima della torre, da cui spunta ormai solo questa massa di metallo nero che sta oscillando nel buio.
Non so dove guardare, in questo finimondo sotterraneo che cresce, se verso il bagliore che sale sempre più dall’abisso, se verso quest’acqua densa piena di gameti che sta già cominciando a ricoprire come un velo fosforescente la piatta cima del grattacielo, se verso la mia Musa dal corpo nudo nel buio che sta già cominciando a manovrare con furia i comandi dell’elicottero, per scollare i suoi pattini dalla pista allagata e sollevare tutta la sua massa nera nell’aria nera e farlo cominciare a volare dentro questo sotterraneo cielo nero che trema nelle estreme viscere del continente dei morti.
Scorgo appena, seduto in questa carlinga buia, il bagliore delle sue belle braccia e delle sue mani e delle sue gambe fosforescenti che si muovono sui comandi per cercare di accendere il motore.
Poi, all’improvviso, un rumore forte, come uno scoppio, sopra le nostre teste.
«Che cos’è questo scoppio?» chiedo alla Musa, le grido, per riuscire a farmi sentire.
«Sono le pale dell’elica che comincia a girare!» mi grida.
Un istante dopo tutta la massa nera in cui siamo seduti si scolla dalla pista, comincia a sollevarsi sempre di più.
Guardo con gli occhi sbarrati la mia Musa.
«Che cosa c’è?» mi domanda sorridendo, senza girarsi. «Di cosa ti meravigli?»
Non le rispondo. La guardo.
«Che Musa sarei se non sapessi neppure guidare un elicottero!» mi dice ancora, ridendo, col bagliore della sua bella bocca nel buio.
Adesso siamo saliti ancora, scorgo dall’alto la cima della torre da cui ci siamo appena scollati mentre viene ricoperta da questo velo seminale e scompare a poco a poco nel buio.
Mi devo afferrare con le mani alle pareti della carlinga perché ci stiamo inclinando, tutto l’elicottero si è messo di sbieco nel cielo nero perché la Musa sta cercando di virare per allontanarsi da questa barriera d’aria seminale che sale come un vapore infinitamente denso dal fondo della cascata.
«Forza! Forza!» grida nel buio, non so a chi, forse a me, per darmi coraggio, forse all’elicottero, forse a se stessa. «Dobbiamo allontanarci da qui! Dobbiamo scollarci da quest’aria densa satura di gameti in cui le pale dell’elica girano sempre più piano e rischiano di bloccarsi!»
Sembra anche a me che stiano girando sempre più piano sopra le nostre teste. Ci sono dei momenti in cui sono sul punto di fermarsi, e allora vedo le mani della mia Musa muoversi freneticamente sui comandi, nel buio.
L’elicottero si inclina sempre di più, le pale dell’elica cercano di strapparsi da questa colla seminale che sta saturando ogni spazio, creando attorno a sé un nuovo vortice dentro l’aria densa, per riuscire a trascinare tutta questa massa di metallo imbozzolata nel cielo seminale dei morti.
Anche il parabrezza della carlinga è tutto ricoperto di questo seme nebulizzato e fosforescente nel buio.
Ci incliniamo ancora, da una parte, dall’altra, ci lasciamo cadere per un po’ cercando di liberare le pale da questa guaina e poi riprendiamo improvvisamente a strappare verso l’alto, a salire, e poi precipitiamo ancora verso il fondo e poi risaliamo di nuovo scaturendo dai bagliori seminali che si levano da quest’ultimo abisso.
Non penso a niente, non respiro, non parlo, non si può parlare, mentre l’elicottero continua a dibattersi dentro il cielo e a forzarlo, penetrandoci dentro con l’elica quasi verticale rispetto al suo asse.
Poi, a poco a poco, l’aria intorno a noi si fa meno densa, segno che stiamo cominciando a scaturire dalle zone più amalgamate della barriera nebulizzata che continua a salire dal fondo. Anche il velo che copriva il parabrezza si assottiglia sempre più, si dissolve, nel vento del nostro volo crescente attraverso questo cielo sotterraneo che trema per la percussione dei corpi e del sisma. Si comincia già a vedere sotto di noi e intorno a noi, mentre voliamo sopra questi baratri e queste gole su cui si affacciano città sterminate e sfuocate per la crescente violenza della vibrazione e del sisma, il brulicare di enormi orde nude di morti che si disincernierano e fuggono verso le zone più alte del continente sotterraneo dei morti investito da questa immane vibrazione e tracimazione e da questa incontenibile onda seminale che risale con un boato dal fondo.
Come si fa a raccontare ai vivi quello che si può vedere da un elicottero che vola tutto inclinato sopra le città sotterranee dei morti che crollano una dopo l’altra sotto l’urto e la percussione e la tracimazione del sisma di vita e morte? Come si fa a descrivere quello che si può provare dentro di sé mentre si guardano con gli occhi sbarrati, dall’alto, dalla carlinga di un elicottero scollato all’ultimo istante dalla cima di un grattacielo seminale che si stava inabissando, le voragini di un intero continente sotterraneo che sta crollando?
Un giorno, quando ero tra i vivi, negli anni in cui mi trovavo in quel seminario, sono stato sorpreso da un temporale di enorme violenza mentre ero insieme agli altri sorpreso nel vuoto, sulla seggiolina di ferro di una seggiovia. Stavamo andando verso la cima di un’alta montagna assieme al padre priore e al vicario, quando il cielo è diventato improvvisamente nero, sempre più nero, là in alto, sopra la fila di seggioline che scorrevano lentamente su baratri e ponti d’assi che mascheravano a malapena gli orridi, dondolando un po’ in quell’infinito silenzio e in quel buio che diventava sempre più pauroso e più fitto. Si cominciavano a sentire dei boati. Il cielo sopra di noi e intorno a noi diventava sempre più nero, il fragore dei tuoni faceva tremare lo spazio, mentre ce ne stavamo tutti là, in fila, sospesi nell’aria, lungo quella linea della seggiovia che saliva fortemente inclinata, appesi a quel cavo d’acciaio che si tendeva e che scricchiolava sopra di noi. Si è sentito un tuono ancora più forte, un rimbombo tremendo. Un secondo dopo è cominciato a piovere a dirotto, a diluviare, e poi a grandinare. Non si vedeva niente, in quella valanga d’acqua e di ghiaccio che aveva investito il mondo, solo gli improvvisi bagliori di fulmini e lampi che si scaricavano sulla montagna, vicino ai nostri corpi che continuavano a salire al buio in quel diluvio di pioggia, proteggendoci la testa con le mani e le braccia, da quei proiettili di ghiaccio che venivano giù a strapiombo dal cielo. Poi, d’un tratto, le seggioline si sono improvvisamente bloccate. Era saltata la corrente, forse non funzionava neppure il motore d’emergenza, o non c’era nessuno che potesse attivarlo. Così eravamo tutti là, immobili, muti, atterriti, una fila di vesti nere fradice di pioggia sospese sugli strapiombi. Non so, non ricordo quanto tempo è passato prima che quel nubifragio finisse e che la corrente tornasse e che la fila di seggioline riprendesse finalmente a muoversi sopra il vuoto. Ricordo solo che, d’un tratto, in un punto di quella lunga fila silenziosa di vesti flagellate dalla tempesta, il padre priore ha tirato fuori la corona del rosario, dopo averla cercata frugando con la mano fradicia nella doppia tasca, e ha cominciato a recitarlo a voce molto alta, per riuscire a farsi sentire in ogni punto di quella lunga fila di seminaristi immobili e muti sotto la tormenta, per sovrastare con la sua nuda voce il fragore dei tuoni e dei fulmini che si scaricavano sopra la terra. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus, et benedictus fructus ventris tui, Iesus, si sentiva la sua voce recitare in quel finimondo di pioggia. Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum, benedicta tu in mulieribus, et benedictus fructus ventris tui, Iesus rispondevano tutte insieme le altre voci dei seminaristi sospesi nel vuoto, con i volti e le teste rasate gocciolanti di pioggia. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae, amen recitava la voce nuda del padre priore. Sancta Maria, Mater Dei, ora pro nobis peccatoribus, nunc et in hora mortis nostrae, amen rispondevano le altre voci, levandosi da quella lunga fila che dondolava nel vuoto, nel diluvio di pioggia e di ghiaccio, nel buio. Finché il cielo a poco a poco si è cominciato a rischiarare, la pioggia veniva giù con sempre minore forza. È cessata del tutto. La fila delle seggioline ha ripreso improvvisamente a muoversi nello spazio, verso la cima lucente della montagna.
La mia Musa non prega. Però sento che mi sta dicendo e mi sta gridando, nel buio: «Tu uscirai di qui! Tu ti salverai!».
E allora sento che anche la mia voce le sta dicendo e le sta gridando, nel buio: «Ma da che cosa mi salverò, se non posso salvarmi dalla morte, se non posso salvarmi dalla vita? Se non c’è salvezza nella vita e non c’è salvezza nella morte?».
«Non c’è salvezza nella vita, non c’è salvezza nella morte!» mi risponde, mi grida, nella carlinga buia di questo elicottero che sorvola città sotterranee che crollano e fiumane di morti che corrono disincernierati verso la superficie emersa del continente dei morti. «Eppure tu ti salverai!»
«Come farò a salvarmi, se c’è solo la morte, se c’è solo la vita dentro la morte che viene prima?»
L’elicottero vola molto in alto, inclinato, come a strappi nel cielo, in quello che qui sotto appare come cielo e che invece sono solo voragini capovolte di un altro cielo che c’è sopra il continente emerso dei morti.
«E poi perché i morti fuggono?» le domando ancora, le grido, in questo immenso clangore che scuote il mondo che c’è sotto il mondo. «Perché ci sono là in fondo tutte queste fiumane di morti che cercano di fuggire dal sisma di vita e morte? Perché hanno paura della morte, se sono morti?»
«Non hanno paura della morte, non hanno paura della vita! Fuggono perché vita e morte stanno tracimando. Fuggono perché fuggiranno da vivi, perché se non stessero fuggendo da morti non potrebbero fuggire da vivi nella morte che viene prima.»
L’elicottero si abbassa per gli improvvisi vuoti d’aria e di spazio provocati da questi enormi rimbombi, sembra precipitare, ma poi risale di nuovo molto in alto, così in alto che si può vedere in un unico colpo d’occhio e in una sola visione da queste inconcepibili altezze, dalle altezze che ci sono solo nelle caverne sotterranee dove sorgono e crollano le città inventate e fondate dei morti, tutta la smisurata estensione delle città e delle metropoli morte pullulanti di luci nere che stanno per essere investite da questa universale tracimazione di vita e morte.
Adesso non parliamo più, non respiriamo più, mentre l’elicottero sale vertiginosamente attraverso queste voragini rovesciate, che ci danno l’idea di quanto eravamo scesi prima, trascinati dalla corrente di quel fiume pullulante di gameti morti, fino alla città seminale dei morti sprofondata nell’ultimo baratro.
È tutto nero, anche le luci delle città che si sbriciolano e crollano sono nere, eppure riesco a scorgere laggiù in fondo, proprio in fondo, qualcosa come un bagliore che avanza nell’infinito buio.
«Che cos’è quel bagliore?» domando alla Musa, girando la testa verso di lei nella carlinga buia.
«È l’onda seminale che erompe dal profondo!» mi risponde girando a sua volta la bella testa verso di me. «È l’enorme onda scaturita dalla città seminale lacerata dal terremoto, che sale come le onde degli tsunami che si levano dagli epicentri dei terremoti dei vivi e che investono le loro città costiere e le sommergono trascinando e frantumando ogni cosa.»
Guardo in basso, con gli occhi sbarrati.
Si vede perfettamente, come radiografata nel buio, l’enorme superficie fosforescente che avanza risalendo dal fondo e che dilaga sommergendo il mondo che c’è in fondo al mondo.
L’elicottero continua a salire, a salire, trascinato in alto dal vortice sfuocato delle sue lunghe pale che si scorgono luccicare nel buio.
Ma quello che succede adesso è quasi impossibile da raccontare.
«Tieniti stretto!» mi sta gridando la Musa.
Mi tengo stretto, perché tutto l’elicottero ha cominciato improvvisamente a vibrare.
Le sue pale girano ancora più forte, sempre più forte.
«Dove siamo?» grido alla Musa.
«Stiamo arrivando alla fine del cielo!» mi grida.
Guardo in alto, oltre il vortice delle pale che frustano il vuoto.
Quello che vedo sopra di me è come uno sterminato tetto nero che incombe.
Sempre più vicino, sempre più addosso. Sembra scendere dall’alto contro di noi, mentre siamo noi ad andarci contro dal basso con la massa buia dell’elicottero che non trova più sufficiente spessore di spazio per avvitarsi dentro il vortice della sua elica.
«Stiamo sbattendo contro la fine del cielo!» grida ancora la Musa. «Stiamo andando a toccare l’intercapedine che divide il cielo sotterraneo da quello emerso dei morti, le città sotterranee da quelle emerse dei morti!»
L’elicottero sta perdendo quota, precipita per un po’, in questi immensi spazi cavi pieni di clangori e di grida.
La mia Musa non dice più niente, non respira più, perché manca il fiato. Il bagliore delle sue belle braccia e delle sue mani si muove sui comandi che ci sono davanti a noi e anche sopra di noi, per cercare di arrestare questo volo muto sotto la volta sotterranea del cielo.
Precipitiamo.
E mentre precipitiamo vedo salire verso l’alto le stesse visioni che avevo appena visto inabissarsi dietro la capsula trasparente della carlinga.
Poi la caduta si ferma.
Anche il cielo si ferma.
Adesso ci stiamo spostando di lato, di taglio, in quest’aria più rarefatta e più nera che c’è sempre dove finiscono i cieli.
Voliamo per un po’ così, in orizzontale. Scorgo appena, dal punto buio dove me ne sto fermo, impietrito, la bella testa della mia Musa che sta scrutando il mondo nero che c’è intorno a noi, sotto la volta del cielo.
Poi l’elicottero risale un po’, lentamente, viene su piano, molto piano, di sbieco, inclinato.
La Musa ha aperto un varco nel parabrezza, al suo fianco, facendo scorrere una sua porzione trasparente, nel buio, sta spingendo fuori la testa, sta continuando a scrutare ogni anfratto e ogni strato che salgono all’incontrario di fronte ai suoi occhi, mentre tutto vibra per l’immane percussione del sisma che continua a venire su dal profondo.
«Là!» grida improvvisamente, nel buio.
L’elicottero si sta avvicinando a una piatta falda di terra sospesa al di sopra di un baratro, volando piano, infinitamente piano, di sbieco, reclinato su un fianco.
Comincia a scendere, mulinando le sue lunghissime pale nel buio, sempre più piano, sempre più piano, finché si ferma.
«Fuori! Presto!» mi sta gridando la Musa. «Prima che questa falda di terra sospesa nel vuoto precipiti sotto di noi!»
Saltiamo fuori dalla capsula trasparente, cominciamo a correre verso la fine di questo strato di terra e di marmo, verso qualcosa che sembra un solco o un tracciato di strada, e poi ancora verso un ponte sospeso sopra un abisso, e poi ancora verso un canalone che si immette in una città non ancora raggiunta dal terremoto che sta salendo dal basso, e intanto sentiamo alle nostre spalle il fragore della falda che sta precipitando sotto il peso dell’elicottero.
La Musa si ferma.
Mi prende tutte e due le mani, me le stringe forte.
«Io mi fermo qui!» mi dice all’improvviso. «Io devo restare qui, in questo crogiolo di vita e morte. Io devo tornare nella mia reggia.»
«Ma se sta crollando!» le dico, le grido.
«Proprio perché sta crollando! Io devo restare nella mia reggia che crolla per poter continuare a essere vicino a te e dentro di te. Io posso solo continuare a ispirarti dalla mia reggia che sta crollando.»
«Ma io come farò a sapere che ci sei?»
«Io ci sono, ci sono stata, ci sarò!»
La guardo, la guardo, guardo per la prima e ultima volta la sua bella testa e la sua bocca e i suoi occhi e le sue orecchie circondate dalla raggiera di orecchini fosforescenti nel buio.
«Dove andrai?» le domando. «Come farò a incontrarti ancora nel mondo?»
«Mi hai già incontrata. Mi incontrerai.»
«Ma io non lo saprò, non lo vedrò!»
«Io sono dentro di te. Io ti ho ispirato, ti sto ispirando, ti ispirerò.»
Guardo verso l’alto, verso la volta di terra che sigilla il cielo.
«Devi arrivare alla fine del cielo e poi attraversare anche il cielo.» mi dice ancora.
«Ma chi mi guiderà?»
«C’è la sposa dei morti!» mi risponde allontanandosi da me nell’infinito buio. «Io sono la tua regina, lei è la tua sposa!»
Sollevo per un istante la testa, verso la fine del cielo.
Quando mi volto di nuovo, la Musa non c’è più.
«Vieni qui! Vieni qui!» le grido, nel buio. «Fatti abbracciare per l’ultima volta!»
Non mi risponde. Si sente solo il rumore sempre più lontano dei suoi passi in corsa nell’infinito buio.
Allora mi metto a correre anch’io, anche se non so verso dove, verso la fine del cielo.
Non saprei dire per quanto tempo corro così, in questo inconcepibile buio, su strati e falde e tracciati di strade e di ponti che si protendono sopra il vuoto, mentre il suolo vibra per il rimbombo del sisma e delle fiumane di passi che corrono venendo su dagli abissi, perché qui il tempo non è quello che viene dopo, è quello che viene prima.
Il cielo è sempre più vicino, più basso.
“Come farò ad attraversare la volta che divide il cielo sotterraneo da quello emerso dei morti?” mi chiedo. “Dove saranno le strade, i passaggi? Riuscirò a vederli in tutto questo infinito buio, mentre corro attraverso le ultime città pullulanti di luci nere che sorgono persino a ridosso della volta del cielo? Eppure io sono sceso già dalla parte emersa a quella sotterranea di queste città appena inventate e fondate dei morti, dopo che sono entrato da quella porticina nera, e poi sono sceso correndo al buio incernierato alle resurrettrici e poi alle incernieratrici e mi sembrava di scorgere attorno a me tutte queste città nere che sembravano immensi spaccati di case da cui veniva quel continuo clangore percussivo di corpi! E poi hanno cominciato ad apparire sotto di me tutte quelle voragini che scendevano a perdita d’occhio verso l’ultimo abisso. Ma allora, senza saperlo, ero dentro la volta del cielo!”
Avete presente quelle vene d’acqua illuminate dai riflettori che si vedono balenare sui soffitti delle grotte dei vivi che si aprono sotto terra o dentro le pareti verticali delle scogliere? Ecco, è così che mi appaiono correndo con la testa arrovesciata, dal basso, quelle che sono forse le immense strade e i passaggi aerei che corrono contro la fine del cielo e che poi si incuneano nella sua volta.
Rasento correndo massicciate che sorreggono le ultime città quasi schiacciate contro le cavità capovolte del cielo, mentre sento venire dal basso il boato del sisma e il fragore dell’onda seminale tracimata che sale dal profondo, dalle viscere dove è sprofondata la lontana città seminale dei morti che si è squarciata, ma sempre più piano, sempre più piano man mano che corro verso l’alto, sempre più piano, tale è la vastità sotterranea di spazio che deve percorrere prima di poter affiorare nelle città emerse dei morti.
Paratie che cedono, parti di città che si sfondano, muraglie di case o di corpi che franano e che si squarciano, da cui vedo improvvisamente affiorare fenditure femminili trapanate e bolle di genitali maschili che erompono da altri corpi, correndoci vicino a perdifiato, nel buio. E poi l’ansimare crescente di tutte queste fiumane di morti in fuga dalle viscere della terra che si lacerano e che eruttano zolle intere di mondo e visioni di città appena inventate e fondate e di fiumi ascensionali densi e saturi di gameti in questo inconcepibile spazio cavo che sta franando.
Devo essere già penetrato dal basso nell’intercapedine tra i due cieli, perché il clangore è diminuito ancora di più, perché la terra trema sempre di meno sotto i miei piedi che corrono al buio, perché non avverto più la presenza di quei baratri e di quegli abissi che si spalancavano e che mi facevano perdere l’equilibrio e mancare il fiato.
Scorgo vicino a me degli altri corpi che corrono verso l’alto, lungo queste scanalature e queste strade e queste città incuneate nell’intercapedine tra i due cieli e illuminate di luci nere a perdita d’occhio, perché ci sono anche qui città sovrapposte che salgono verso l’alto o che sprofondano verso il basso nell’oscillazione tra vita e morte. E allora continuo a correre, a correre, lungo il bilanciere che sale, come prima ero corso lungo il bilanciere nel momento in cui si abbassava e sprofondava verso altre città inabissate e altre visioni e invenzioni di mondi nella morte che viene prima.
Vengo su al buio, dal basso, tra quell’ansimare smisurato di corpi che corrono vicino a me carpendo a brani l’aria morta che c’è tra i due cieli morti, mentre tutta la sterminata miniera morta sta venendo su all’incontrario attraverso il movimento ascensionale della tracimazione e del crollo.
È tutto buio eppure scorgo, eppure sento contro le superfici della mia testa che sta correndo a perdifiato nell’oscurità più profonda un movimento di buio all’interno del buio, un frusciare infinitamente nero di piani e di spazi che mi passano come una carezza sul volto.
«Che cos’è questa cosa?» provo a domandare, nel buio, correndo, anche se non so chi c’è vicino a me in questa fiumana di morti che salgono dal profondo.
«Sono vessilli» mi risponde qualcuno che sta correndo al buio, al mio fianco.
«Ma che vessilli sono?»
«Sono i vessilli dei risorti!» mi risponde la stessa voce.
«Sono i vessilli dei morti!» mi risponde dopo un po’ un’altra voce. «Stai correndo in un fiume di morti che corre al buio verso le città emerse dei morti inalberando i suoi vessilli morti!»
Continuo a correre così, con la testa e il volto fasciati dalla carezza di questi vessilli morti. Sto correndo al buio in questa poltiglia di bandiere e vessilli morti che si stanno preparando a irrompere nelle città emerse dei morti.
“Sì, sì!” mi dico correndo. “Io lo conosco questo vento che si leva intorno ai corpi e ai volti che corrono con le braccia spalancate e con gli occhi chiusi nelle strade buie delle città assediate dei vivi, di notte... Io l’ho già conosciuto, lo conoscerò!”
Corro, corro, con il volto fasciato da questa carezza nera, nell’intercapedine tra due cieli.
“Ma come sono lunghe queste bandiere!” mi dico ancora, in questo frusciare e sventolare di spazio, perché mi sembra che quelli che stanno correndo tenendole sollevate siano ormai lontani, molto lontani, anche se le loro bandiere mi stanno ancora lambendo il volto, nel buio.
E non si sentono più rumori, solo quel frusciare e quello sventolare di bandiere e vessilli in corsa nell’infinito buio.
“Eppure, mentre scendevo, mi sembrava di sentire sempre più una percussione e un clangore così forti da assordare” mi dico. “Invece adesso sembra quasi che ci sia silenzio, mi fischiano le orecchie per questo allontanamento di suoni che percepisco come silenzio dopo il fragore che sentivo prima, mentre ero vicino all’origine di questa immensa tracimazione e di questo sisma.”
D’un tratto, in questo infinito silenzio e in questo buio, vedo balenare da lontano un intenso bagliore.
“È la sposa dei morti!” mi dico, col cuore in gola. “È lei che sta correndo alla testa di questo fiume di bandiere e vessilli morti che risalgono dal profondo! Tutti i morti corrono dietro di lei agitando nell’infinito buio le loro bandiere e i loro vessilli, con esaltazione, nel buio, mentre stanno facendo irruzione dal basso nelle città emerse dei morti.”
«Sì, sono io!» mi risponde da lontano la sua voce, perché qui si possono sentire le voci anche da enormi distanze come se parlassero e sussurrassero vicino alle vostre teste. «Sono la tua sposa che corre alla testa delle schiere sotterranee dei morti. Sono qui, eppure è come se fossi al tuo fianco, è come se corressi vicino a te e incernierata a te tramite questa sterminata cerniera di morti e di vessilli morti che corrono attraverso i cieli dei morti.»
E allora mi metto a correre ancora più forte, col corpo e il volto tutti fasciati da questa garza buia di bandiere che si infittisce sempre di più.
Però il bagliore della mia sposa è ancora lontano, è sempre più lontano, mi pare.
«Corro, corro, ma non riesco a raggiungerti!» le grido da qui, muovendo la bocca in questo velo di vessilli morti.
«Mi hai già raggiunta, mi raggiungerai!» mi dice con la sua voce che si riesce a sentire anche da così lontano. «Io ti sto solo indicando la strada per uscire di qui attraverso l’intercapedine tra i due cieli. Io sono scesa fin qui trascinando dietro di me questi eserciti morti solo per indicarti la strada in questo infinito buio.»
Scorgo ancora per un po’ il bagliore del suo vestito da sposa che corre alla testa di questo fiume di vessilli morti.
Poi non vedo più niente, non sento più niente, solo questo vento che mi trascina verso l’alto nel suo risucchio.
E poi ancora, in questo smisurato ansimare di respiri morti in corsa dentro la volta del cielo, visioni improvvise di città sotterranee nere intraviste al buio, di nuove folle di morti, di ultimi ponti, di porte, delle estreme città che arrivano a lambire dal basso i margini orizzontali del mondo e poi a erompere dalla cavità sotterranea del cielo.
Ci stiamo avvicinando sempre di più all’uscita, mi pare, perché sento venire dall’alto delle vibrazioni leggere che stanno cominciando a far tremare le volte.
Stanno arrivando dei suoni, delle voci, da qualche parte, da lontano, da fuori.
“Dove saranno quelle porticine nere e quella porticina nera da cui sono entrato?” mi chiedo continuando a correre al buio, con la testa e il volto lambiti da quel fiume di bandiere e vessilli morbidi come lingue morte fatti sventolare a enorme distanza.
Eppure non ci sono porticine, non ci sono strettoie, perché se ci fossero l’enorme massa dei morti si accalcherebbe sempre più prima dell’uscita, e invece continua a correre, anzi corre sempre più forte, nonostante si carichi sempre più di nuove folle di morti che risalgono dal profondo, verso le terre e le città emerse del continente dei morti.
“Forse stiamo uscendo da un’altra parte...” mi dico continuando a correre all’impazzata nel buio. “Forse questo fiume di morti che corre dietro la sua sposa ha trovato o inventato un’altra strada per uscire dalla volta sotterranea del cielo. O forse l’enorme pressione ascensionale dei morti ha fatto saltare le strettoie di quelle porticine nere che si aprivano lungo le strade e da cui sono entrato, ha scoperchiato e sventrato gli ultimi strati che ancora separano le voragini sotterranee da quelle emerse del mondo.”
Mi stanno arrivando sul volto le prime folate d’aria che irrompono dall’esterno.
Sto balzando fuori dalle estreme città sventrate, da queste voragini scoperchiate e inventate.
Comincio a correre così, da qualche parte, nel mondo emerso dei morti che viene prima.
Non si vede niente neanche qui fuori, all’esterno.
La terra trema un po’, ma non per i primi sciami sismici che salgono dal profondo, dalle più lontane voragini delle città sotterranee dei morti che stanno collassando e trascinando con sé anche le città emerse dei morti, non per il fragore di quel fiume seminale debordato che sta salendo come un lontano maremoto che viene su dagli abissi. Trema sotto le ruote di enormi cingolati neri che comincio a intravedere nel buio mentre perlustrano le strade e le piazze morte in questa inimmaginabile guerra che si avvicina.