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I vessilli dei morti

Ci sono dappertutto vessilli che sventolano nella corsa, che si innalzano sulle barricate, che spuntano dalle finestre e dai varchi dei grattacieli. Tutte le città emerse dei morti sono attraversate da un vento di interminabili bandiere dispiegate e vessilli.

La terra trema sotto i cingoli dei carri armati. Anche l’aria trema.

Se qui è tutto nero, se qui anche la luce è nera e più c’è luce c’è buio, cosa può essere una guerra in un infinito buio? E cosa sono questi vessilli che si indovinano al buio?

Cercherò di farvi capire.

Se passate vicino a una barricata e provate a domandare, gridando a squarciagola, nel buio: “Che vessilli sono questi? Voi chi siete?”, potete sentire nel buio una voce o più voci che vi rispondono tutte insieme, gridando: “Noi siamo i risorti! Questi sono i vessilli dei risorti!”. Oppure: “Noi siamo i morti! Questi sono i vessilli dei morti che stanno fronteggiando i risorti nella vita che è dentro la morte che viene prima!”.

E se, fermandovi vicino a un bivacco, unendovi per un po’ a un cerchio di persone silenziose e assorte dal volto rischiarato dal nero fuoco dei morti, provate a domandare: “Da dove venite? Di che brigata siete?”, allora molte teste si gireranno verso di voi e vi risponderanno: “Veniamo da Wagram, da Waterloo, da Guadalajara, dalla Normandia, dalle Ardenne, dalle antiche selve della Germania e della Turingia e da prima ancora, dalle migrazioni che hanno attraversato lo stretto di Bering durante la glaciazione, dai popoli che hanno combattuto e sono stati massacrati nel continente delle Americhe dai nuovi conquistatori venuti in sella ai loro cavalli, da Lepanto, da Persepoli, da Ecbatana, dai Gobi, dagli imperi turcoiranici di Corasmia, da Samarcanda, da Balkh, dai canati bulgari di Bolgar, dalle trincee di Verdun, da Cartagine, da Troia, dalle Termopili... Noi siamo quelli che hanno combattuto nel ghetto di Varsavia, combatteranno, che sono tracimati dentro la morte a Masada, ad Alesia, siamo gli assediati di Stalingrado, siamo i sepolti vivi delle grandi pianure asiatiche ai limiti dei deserti, le donne e gli uomini e i ragazzi e i bambini assassinati e gettati nelle fosse comuni sotto il filo dell’orizzonte dei vivi e tracimati dentro la morte che viene prima...”.

E vi mostreranno con orgoglio i loro vessilli, osservandovi con i loro lucenti occhi morti, nel buio.

“Noi veniamo dalle coste marine flagellate dal vento della Scandinavia, dell’Islanda...” vi diranno altri uomini e donne dispiegando e facendo sventolare di fronte a voi le loro vaste bandiere indistinguibili dall’infinito buio, così smisurate che non riuscirete a capire se sono le bandiere a sventolare nel cielo o se è il cielo stesso a sventolare. “Veniamo dalle prime navi a remi che hanno attraversato l’oceano Atlantico, dalle navi negriere salpate dall’Africa con il loro carico di dolore e di corpi tracimati dentro la morte, dagli esodi dall’antico Egitto e da Babilonia, dai templi profanati e crollati, dalle rovine di mille altre città tracimate, dalle miniere di zolfo e dalle montagne di sale della Sicilia, dalle oscure viscere delle città sotterranee della Cappadocia, dagli avamposti dimenticati ai confini delle gelide terre emerse dei vivi, dalle città di fango investite in piena notte da orde umane scaturite all’improvviso come dal nulla, dai popoli travolti e da quelli risorti nelle città dei vivi appena inventate e fondate...”

E vi faranno vedere con enorme emozione, abbassando fino ai vostri occhi i loro vessilli e le loro bandiere che un secondo prima stavano sventolando nel cielo nero, i loro colori indistinguibili da questo immenso buio, quelli che ci sono qui nello spettro dell’arcobaleno seminale nero dei morti, vi faranno toccare con la mano i loro tessuti logorati dalle intemperie e dalle battaglie e dal passaggio nella vita dentro la morte, vi inviteranno ad accarezzare con le dita i fili con cui sono tessuti, le loro parole, i loro emblemi.

“Guarda...” vi diranno venendovi infinitamente vicino, nel buio “questo è stato tessuto a Ninive, a Isso, a Herat, a Kandahar, a Mosca, negli Stati Uniti, a Pechino, nelle città e nei villaggi inventati sulle cime di montagne piene d’oro dell’America Latina precolombiana, nelle capitali che si elevavano su immensi laghi a duemila metri d’altezza sugli altipiani del Messico, si eleveranno, sulle barricate di Parigi, Milano, Berlino, della Polonia, dell’Ungheria, della Moldavia, della Valacchia... le nostre donne li hanno tessuti sui telai orizzontali dell’antico Egitto, su quelli verticali dell’antica Grecia, con l’ordito tenuto disteso da pesi, e prima ancora, alla fine del neolitico e poi in Mesopotamia, nella Cina, in Europa, intrecciando con le loro mani e con le stesse dita che ci accarezzavano al buio, di notte, ci accarezzeranno, fibre di lino, di cotone, di lana, di seta, che sventolavano senza fare rumore nel cielo buio del mondo, sui primi telai meccanici, nelle case sperdute nelle pianure e sulle montagne, nelle distese di terra e di torba delle estreme regioni emerse del continente dei vivi, nella pampa spazzata dal vento su cui rotolavano matasse di vegetazione secca nell’infinito silenzio che c’è nel mondo, rotoleranno, nelle città insorte, mentre aspettavamo nel cuore della notte il rumore degli eserciti che ci liberassero dalla prigione della vita dentro la morte. Tenevamo questi vessilli ancora stretti nel pugno, incernierati, quando siamo tracimati dentro la morte...”

“Guarda...” vi diranno le donne avvicinandosi a voi in questo infinito buio “guarda come sono cuciti bene i loro colori neri che si vedevano sventolare alla testa degli eserciti in marcia e sulle barricate, che si vedranno! Guarda come ci abbiamo tracciato sopra punto dopo punto con un filo d’oro le parole dei nostri desideri e dei nostri sogni! Senti com’è morbido questo tessuto che abbiamo tenuto tra le nostre mani per giorni interi, per notti intere, prima che altri se lo stringessero contro il petto tracimando nella morte che viene prima. Accarezzalo, toccalo! È come se toccassi noi, se accarezzassi noi, i nostri corpi e le nostre vite dentro la morte che viene prima, è come se accarezzassi le nostre mani e le nostre dita che l’hanno tessuto e cucito, le stesse che preparavano il cibo per gli altri vivi e le lenzuola dei loro letti, che accarezzavano di notte altri corpi vivi dentro la morte, accarezzeranno. È come se toccassi e se accarezzassi i nostri occhi che l’hanno avuto di fronte disteso sulle ginocchia, mentre l’ago passava e ripassava nella trama del suo tessuto, è come se toccassi e se accarezzassi le nostre bocche che parlavano o che cantavano o che bisbigliavano per ingannare il tempo dei vivi mentre confezionavano questo vessillo che adesso puoi vedere con i tuoi occhi morti in questo infinito buio, nelle nostre case di legno o di pietra o nelle nostre tende o nelle case intonacate delle città e dei paesi italiani dove si aspettava col cuore in gola il passaggio dei ragazzi scamiciati e ingenui di Garibaldi o dei ribelli che scendevano dalle montagne magri come lupi e con gli occhi accesi o dei mille e mille altri condottieri vivi dentro la morte che hanno acceso i sogni delle donne e degli uomini vivi dentro la morte, che accenderanno.”

Così vi diranno, trattenendovi ancora un po’ con le loro morbide mani mentre riprenderete a spostarvi al buio attraverso queste città emerse, in quest’aria nera agitata e smossa da tutte queste bandiere e vessilli tracimati qui dal continente dei vivi dentro la morte.

L’aspetto di una città dei morti che si prepara alla tracimazione e alla guerra è qualcosa che non si può immaginare.

Che cos’è infatti la guerra per i vivi? È l’annientamento di corpi vivi a opera di altri corpi vivi, è la tracimazione di un gran numero di corpi dentro la morte che viene prima. E che cos’è la vittoria? La vittoria è il prevalere dei tracimatori sui tracimati.

Ma allora che cos’è, che cosa può essere la guerra per i morti, se sono già tracimati dentro la morte? Che cos’è la vittoria per i morti se qui tracimatori e tracimati sono la stessa cosa, se qui il numero dei tracimatori può crescere solo assieme al numero dei tracimati?

Si sente piangere, da qualche parte, nel buio, forse dalle barricate e dalle torri in mano ai risorti, perché i risorti non possono uccidere i morti, ve l’ho già detto, mentre i morti possono uccidere e far tracimare i risorti dentro la morte. A meno che non sia il silenzioso fragore di bandiere e vessilli fatti sventolare da un gran numero di mani nell’infinito buio. Oppure il guaito disperato dei cani che si aggirano vicino alle barricate o alle torri in cerca dei loro padroni tracimati dentro la morte, strappati a loro dalla continua e percussiva tracimazione della vita dentro la morte, o che non ci sono più, non ci sono mai stati, perché altri cani, oppure loro stessi, hanno lambito e poi trangugiato i loro gameti allungando il muso e la lingua ai bordi di quel sotterraneo fiume seminale dei morti che adesso sta risalendo come uno tsunami dalle viscere delle città sotterranee investite dal sisma della tracimazione di vita e morte.

Che cosa succede tra i vivi quando ci si prepara alla guerra?

Spasmodica produzione di armi, fabbriche che lavorano giorno e notte alla luce dei riflettori, blocchi industriali, indotto, commercio, economia e finanza galvanizzate da questi smazzamenti genetici, strutture di dominio politico e militare che si rimettono in movimento, fiumi economici seminali che cominciano a scorrere lungo questa inclinazione e questo salto, prelievi continui di popolazione viva da far tracimare dentro la morte che viene prima, per poter far tracimare un numero statisticamente ancora più grande di nemici vivi dentro la morte, televisioni, reti informatiche, radio, giornali, campagne di propaganda, esortazioni a combattere per la patria dei vivi, proclami, sogni di vivi dentro la morte già sognati dai morti dentro la morte, vite che si gettano allo sbaraglio e tracimano dentro la morte che viene prima, gerarchie militari che si ristrutturano, finanziamenti, carriere, scoperte scientifiche e tecnologiche, intelligence, un numero enorme di corpi intento a spiare altri corpi nella vita dentro la morte, dalle viscere della terra, degli oceani, dalle zone più alte del cielo, oltre la fascia dell’atmosfera, materializzazioni di impulsi satellitari sui video, scandagli seminali e cosmici, sonar, reti informatiche, raggi che attraversano da parte a parte le strutture molecolari del mondo... Tutte le metastasi della vita pulsano come cuori di fronte all’immane tracimazione della vita dentro la morte, fin dall’inizio, e poi per tutto l’arco della presunta storia umana, che è solo la storia di questo sisma di vita e morte e che adesso è arrivata al culmine di questa universale tracimazione.

E tra i morti?

Qui non si vede niente, non si sa niente, non si capisce cosa sta succedendo, non si sa cosa tenga incernierati i corpi nella morte che viene prima, non ci sono proclami, non si sa chi possa dare l’ordine dell’inizio, se chi può darlo si trovi tra i morti o se i suoi gameti non siano stati già trangugiati nel buio dalle lingue dei cani o di altri animali morti, ma ci si prepara ugualmente a combattere per la morte. Perché se per i vivi la guerra è sempre l’ultima guerra, per i morti è sempre la prima guerra.

Le strade sono nere, nuove fiumane di morti continuano a erompere dalle città sotterranee dei morti. L’asfalto sta cominciando a vibrare per il sisma che sale dalle sue remote viscere seminali, non solo per le ruote dei cingolati che percorrono le strade con i loro soldati morti che sporgono dalle torrette.

«Voi chi siete?» gridano giovani voci morte, dall’alto dei carri.

«Noi siamo i morti!» rispondono dal buio altre giovani voci morte.

«Noi siamo i risorti!» rispondono altre voci femminili e maschili da questo infinito buio, gridando.

Adesso che cosa succederà tra i morti e i risorti e tra i risorti e i morti? Arriverà prima la loro guerra dentro la morte e dentro la vita oppure l’onda d’urto della tracimazione universale di vita e morte?

Si sente ridere, si sente piangere.

«Perché ridete?» domanda qualcuno dall’alto di una torre circondata di vessilli morti, nel buio.

«Ridiamo perché siamo morti!» gli rispondono da altre torri.

«Ridiamo perché siamo risorti!»

«Perché piangete?» domanda qualcun altro nel buio, gridando.

«Piangiamo perché siamo morti!»

«Piangiamo perché siamo risorti!» gli rispondono molte altre voci indistinguibili dal silenzio e dal buio.

«Piangiamo perché la vita è tutta dentro la morte, perché la resurrezione è tutta dentro la morte. Piangiamo perché dopo la morte c’è la vita, perché dopo la resurrezione c’è la vita dentro la morte che viene prima.»

Poi, da queste foreste sterminate di torri e dalle sempre nuove barricate che molte mani stanno innalzando febbrilmente nel buio, si comincia a levare un canto, inconcepibile, lento, che fa mancare il fiato.

«Che cos’è questo canto?» chiedete con enorme emozione, nel buio.

«È il peana dei risorti!» vi risponde una voce, dal buio.

Sentite sempre nuove voci che si uniscono a questo canto, levandosi all’improvviso dalle barricate e dai culmini delle torri illuminate dalle luci intensamente nere nel buio, mentre cessa ogni altro rumore, si sente solo il suono lento, grave, pieno di esultanza e sfracello, di questo canto che si espande sulle città emerse e appena inventate dei morti e attraverso il cielo dei morti.

Poi, a poco a poco, anche questo canto si spegne, si leva in risposta un altro canto che esce a distesa da un gran numero di bocche e di gole morte, che si espande sempre più attraverso le vastità smisurate del continente emerso dei morti, lento, grave, disperato, abbandonato, solenne, pieno di commozione e dolcezza, che vi fa salire improvvisamente le lacrime agli occhi.

Non potete più muovere un passo, rimanete fermi, immobili, senza vedere niente, nell’infinito buio, mentre questo canto mai sentito prima e questa musica senza note dei morti a cui si uniscono sempre nuove moltitudini di voci morte si dispiega e dilaga facendo risonare fin nelle sue più remote distanze tutte le sterminate estensioni del mondo dei morti che si sta preparando alla resurrezione, alla tracimazione e alla guerra.

«Che cos’è questo canto?» chiedete, col cuore in gola.

«È il peana dei morti!» vi risponde una voce. «È il canto di vittoria, di tracimazione e di morte che hanno innalzato tutti gli eserciti umani nel corso del tempo e della presunta storia dei vivi ma che viene cantato per la prima volta qui, adesso, nella morte che viene prima. È il canto che hanno cominciato a innalzare gli achei, che innalzeranno, i sacerdoti cretesi, i guerrieri di Sparta, di Macedonia, tutti gli uomini in armi, assalitori o braccati, randagi nel mondo dei vivi, i tracimati e i tracimatori, prima di scontrarsi con muraglie di altri corpi e di incernierarsi con loro nella morte che viene prima. È il canto che ha fatto tremare i corpi in marcia nella notte nera, nel buio, nei campi disseminati di cadaveri tracimati, nelle città assediate, nelle foreste, nei cunicoli scavati nelle viscere della terra, sulle distese di navi che si spostavano come barriere sonore sulla parte liquida del continente dei vivi, si sposteranno, nei sommergibili silenziosi posati sui fondali neri degli oceani vivi, che li fa tremare per la prima volta qui, su queste barricate morte e su queste torri. Noi siamo quelli che hanno cantato con le lacrime agli occhi sulle ceneri delle nostre città rase al suolo e incendiate, che canteranno, sui nostri popoli sterminati e poi tracimati. Noi stiamo reggendo sulla nostra morte tutto il peso della vita dentro la morte che viene prima. Noi non risorgeremo dentro la morte! Noi combatteremo da dentro la morte la vita che c’è dentro la morte! Noi staremo dentro la morte con tutta la nostra vita e la nostra morte! Noi ci getteremo con tutta la nostra morte dentro la nostra vita e la nostra morte, in questa prima e ultima guerra e in questa universale tracimazione!»

Tutto il mondo trema. Il canto sale ancora di più, dilaga a macchia d’olio sulla terra e nel cielo, misura con la sua espansione quanto siano sterminate e inventate le città dei morti al culmine della morte.