Non si vede niente. Non capisco se questa massa morbida che mi fascia il volto mentre mi sposto per le città emerse dei morti sono le bandiere e i vessilli dei risorti e dei morti o se è la pioggia che sta cominciando a venire giù improvvisamente dal cielo.
Ma è la pioggia.
Sta piovendo, piove a dirotto, e la città è nera, e la pioggia è nera, non si vede niente.
“Meglio, se piove!” mi dico riprendendo a correre sotto questo diluvio verticale di pioggia o sotto questo allagamento verticale del tempo. “Ho nuotato e sono sprofondato in quel fiume seminale che c’è sotto terra, sono precipitato dentro le sue cascate. La pioggia laverà dal mio corpo tutta questa lordura morta!”
Continuo a correre così, sotto la pioggia, nel buio, mentre la massa d’acqua che viene giù a strapiombo dal cielo mi stacca a poco a poco dal volto questo calco seminale fosforescente.
C’è un enorme, impressionante silenzio, perché le miriadi di voci che stavano cantando il peana si sono arrestate tutte insieme, di colpo.
Anche se sta piovendo a dirotto molte mani e molte braccia si levano ancora dalle barricate e dalle torri con le loro bandiere e i vessilli fradici e li fanno sventolare nel cielo.
Voi non avete idea di cosa sia una sterminata colonia di città di morti che si prepara alla tracimazione e alla sua ultima e prima guerra sotto un diluvio verticale di pioggia!
Corro tenendo le palpebre quasi chiuse, per non sentire gli spilli d’acqua contro i globi dei miei occhi morti, rasentando sempre nuove barricate e bivacchi al centro dei quali ardono fuochi neri.
«Tu chi sei?» mi grida qualcuno, vedendomi passare di corsa in questa nube di pioggia morta. «Sei un risorto?»
Non rispondo, continuo a correre, a correre, anche se non so verso dove.
«Tu chi sei?» mi grida qualcun altro. «Sei un morto?»
Non rispondo, continuo a correre in questo diluvio di pioggia, mentre le ultime tracce di quel velo seminale in cui ero avvolto si stanno staccando dai miei occhi e dalle mie ciglia.
«Vieni con noi! Vieni con noi!» mi stanno gridando da tutte le parti, nella nube nera che fa la pioggia.
«Devi stare da una parte o dall’altra!» mi gridano gli uni e gli altri. «Devi schierarti!»
Io continuo a correre, a correre.
«Vuoi risorgere insieme a noi?» mi stanno gridando molte altre voci, mentre intorno a loro mani e braccia fanno sventolare in alto bandiere fradice indistinguibili dal silenzio e dal buio.
«Vuoi stare dentro la morte con noi?» mi stanno gridando da un’altra parte, facendo sventolare ancora più in alto bandiere rigide come lamiere e grandi vessilli neri, con fragore, nel buio.
«Io non sono tracimato qui per risorgere nella vita che c’è dentro la morte che viene prima!» rispondo senza girarmi, continuando a correre a perdifiato. «Io non tracimerò dalla morte per entrare nella morte che c’è dentro la vita che è dentro la morte che viene prima!»
Corro, corro ancora per molto, mi pare, in queste città sospese sul precipizio della tracimazione e della guerra e in attesa del nuovo sisma che sta salendo dalle più remote viscere delle terre inabissate dei morti.
«Ehi, tu!» mi sta gridando da lontano una voce. «Vieni qui!»
Non capisco chi è, da dove chiama. Però non rispondo, corro, corro ancora più forte, più lontano, perché mi sembra di scorgere nell’infinito buio delle ronde di uomini che si spostano inalberando bandiere e vessilli fradici di nera pioggia.
“Stanno battendo palmo a palmo le città dei morti!” mi dico. “Stanno facendo le ultime retate per arruolare nelle loro file i risorti e i morti!”
La terra trema sempre più sotto la pressione dei cingolati che stanno perlustrando le strade. Uomini e donne immobili, figure emozionate e attonite che sporgono dall’alto delle barricate, fuochi neri, bivacchi.
«Vieni qui!» mi grida dopo un po’ un’altra voce.
Continuo a correre, in queste strade che tremano, senza vedere niente, alla cieca.
«Fermati! Fermati!» mi stanno gridando ancora.
Ma non mi fermo, continuo a correre, a correre, col cuore in gola, sotto questo diluvio di pioggia.
Poi, all’improvviso, sento che qualcosa o qualcuno mi sta sollevando nell’aria come un fuscello.
Mi hanno afferrato al volo molte mani morte, dall’alto, incernierandomi per le mie ascelle morte.
Sento ridere. Vedo appena sopra di me e intorno a me dei volti di soldati fradici di pioggia che stanno ridendo tutti insieme, nel buio.
Adesso sono su un mezzo militare pieno di soldati morti che sta correndo all’impazzata verso chissà dove.
Qualcuno ride, qualcuno canta, con la bocca gocciolante di pioggia, nel buio.
Mi sono seduto anch’io sulla panca, mentre il camion continua a correre sotto il muro di pioggia. Devo abbassare ogni tanto la testa insieme agli altri, quando passano sopra di noi le lastre delle bandiere fradice d’acqua fatte sventolare nel buio. Qualcuno ride, quando l’uno o l’altro dei soldati non è stato abbastanza svelto ad abbassarsi e l’ha presa in faccia.
«Dove stiamo andando?» provo a domandare, nel buio.
Non mi rispondono. Ridono, cantano.
Il camion continua a correre, così forte che ogni tanto il mio corpo frana insieme al resto della fila di soldati seduti, nelle curve prese a enorme velocità e nei dislivelli.
I soldati ridono ancora di più, districandosi gli uni dagli altri e rimettendosi a sedere sopra le panche.
Sento che ci siamo gettati in un sottopassaggio, perché la pioggia non arriva più, adesso c’è solo questo vento della folle corsa che mi investe. Poi riprende a piovere forte, sul mio volto e su quello degli altri soldati che continuano a ridere cercando di stare in equilibrio negli scossoni della corsa.
Il camion sta rallentando, anche il resto della fila di camion di cui fa parte a poco a poco rallenta, si sente il rumore dei motori che diminuiscono sempre più i loro giri.
Siamo entrati in un’enorme estensione nera flagellata dalla pioggia, forse il cortile di una caserma o una piazza d’armi.
I soldati si alzano dalle panche. Si sgranchiscono le membra, al buio, sotto la pioggia, ridendo, prima di saltare giù dal camion.
Sento che, nel marasma di esultanza e di grida che sta venendo da tutte le parti, due mani mi hanno afferrato di nuovo per le braccia e le ascelle, ridendo, stiamo andando come in un unico corpo verso un’enorme costruzione lucida di pioggia che vedo balenare al buio, sul fondo.
Provo a guardarmi attorno, sotto questo velo d’acqua nera che fa luccicare il mondo. Al centro di questo spiazzo c’è un’enorme massa buia da cui filtra un fervore di luci nere e da cui si eleva una torre che si restringe sempre più mentre sale e non se ne vede la fine.
«Vieni! Vieni!» mi stanno gridando i due giovani soldati morti, ridendo, mentre mi tengono incernierato con le loro robuste braccia e le loro grandi mani da contadini e mi accompagnano e mi scortano e mi trascinano verso quella enorme costruzione nera e le sue scalinate e le sue luci nere. «Ti porteremo nel cuore del quartier generale dei morti, ti porteremo fino al cospetto del tracimatore che sta preparando i piani per la battaglia universale e finale tra vivi e morti! Noi veniamo dai campi di battaglia di Austerlitz, di Jena, dalle notti negli accampamenti gelati, dalle marce di settanta chilometri al giorno nelle strade piene di fango del continente dei vivi, dalle città conquistate, dai campi di battaglia ricoperti a perdita d’occhio di tracimati, noi eravamo già da allora agli ordini del nostro generale, lo saremo!»
Le loro teste emozionate vicino a me ridono e piangono, ma non so poi se piangono, se non sono solo le gocce di pioggia che continuano a scivolare e a scolare dai loro occhi e dai loro volti.
Stiamo salendo già lungo la scalinata buia, stiamo entrando in altri spazi più interni pieni di ordini lanciati nel buio e di fervore e di grida.
Attraversiamo atri, vestiboli, corridoi larghi come autostrade pieni di una folla di soldati e di comandanti morti che si spostano qua e là come in un turbine.
«Guarda! Guarda!» mi dicono con emozione i due giovani soldati morti che mi stanno accompagnando e scortando. «È sempre così prima delle battaglie!»
C’è un enorme fragore tutt’intorno, di ordini concitati, di grida, eppure mi pare di sentire lo stesso un rumore lieve, molto lieve, come di passi che si stanno avvicinando silenziosamente a noi in questo infinito buio.
Alzo gli occhi, provo ad alzarli.
Ma non si vede niente.
Poi, a poco a poco, mi pare di cominciare a distinguere in questa oscurità e in questo abbagliamento la lontana sagoma di un morto piccolo che ci sta venendo incontro lentamente e da grandi distanze.
Cammina piano, a testa bassa, e il corridoio è così lungo e lui è ancora così lontano che non riesco neppure a capire com’è vestito, perché non si capisce mai bene come sono vestiti e se sono vestiti i morti, se indossa un pastrano militare indistinguibile dalle sue membra o se sta camminando verso di noi con il suo piccolo corpo nudo in questa enorme estensione buia che risuona sempre più di passi e di grida.
Ma forse non ha vestiti, perché mi sembra, mano a mano che ci veniamo incontro, lui da una parte e noi dall’altra di questo immenso corridoio buio, che non solo la sua testa e il suo volto siano nudi, ancora più nudi di quanto lo siano quelli degli uomini vivi dentro la morte, ma che anche l’intero suo corpo sia nudo.
Mi sembra che ci stia venendo incontro nel buio un piccolo uomo morto con un grembo di donna.
Ci fermiamo, tutti e tre, perché i due soldati vicino a me non riescono più a muovere un passo.
«Generale» dicono a fior di labbra, quando siamo ormai a poca distanza, balbettando per l’emozione, tutti e due sull’attenti. «Noi siamo ancora qui, qui con lei, ai suoi ordini, anche in questa suprema battaglia tra vita e morte. Noi siamo sempre stati con lei, noi saremo, noi tracimeremo!»
Lui alza per un istante la testa, li guarda sorridendo leggermente, nel buio.
«Lo abbiamo intercettato mentre correva sotto la pioggia dietro le linee dei risorti e dei morti» provano a dire ancora i due, rubandosi la parola l’un l’altro, col cuore in gola, impalati.
E lo guardano, lo guardano, come si può guardare per la prima volta dentro la morte chi si era già visto per un istante nella vita che è dentro la morte che viene prima, mentre erano schierati prima delle battaglie e il generale passava in rassegna le truppe di giovani contadini in armi e i loro occhi fissavano con emozione il volto che si spostava per un istante di fronte a loro, mentre gli occhi del generale scorrevano sul fiume seminale dei loro volti senza vederli.
Lui fa un gesto con la mano ai soldati, per dirgli che possono mettersi a riposo e che possono andare.
Un rumore di tacchi, poi i loro passi che si allontanano sempre più, ancora rigidi per l’emozione, in questo rimbombo di corpi tracimati e di grida che fa tremare i soffitti e le volte.
Adesso i due soldati non ci sono più. Ci sono solo io di fronte a lui, immobile, muto, nel buio.
«Che cosa guarda?» mi sta dicendo sottovoce, nel buio, anche se mi pare di non guardare niente, di non vedere niente.
Io non rispondo.
«Sta guardando il mio grembo?» mi dice ancora, con la sua voce bassa indistinguibile dal silenzio. «Sì, io non ho genitali maschili. Mi ha evirato il medico degli inglesi, a Sant’Elena, dopo che sono morto, mi evirerà.»
Restiamo ancora un po’ così, immobili uno di fronte all’altro, scorgo appena nel buio il suo ventre prominente di donna privo di genitali.
Mi passo una mano sugli occhi ancora gocciolanti di pioggia.
«Venga con me!» mi dice d’un tratto il tracimatore.
Adesso non siamo più fermi, mi pare, adesso mi ha preso sottobraccio e stiamo camminando così, incernierati, attraverso il quartier generale dei morti in preda agli ultimi sussulti che precedono le guerre e le tracimazioni dei corpi.
“Che strano, che strano...” mi dico mentre continuo a camminare in silenzio al suo fianco “arrivare fin qui per poi tracimare di nuovo. Ma poi verso dove, se sono già tracimato dalla vita dentro la morte che viene prima? E, se la morte viene prima, perché sono tracimato dalla vita dentro la morte che viene prima? E adesso dove tracimerò? Che altro posto ci sarà per me? Che ne sarà del mondo che c’è stato e di quello che ci sarà?”
Il generale continua a camminare in silenzio. Anche quelli che ci incrociano lungo il corridoio ammutoliscono, si fanno da parte per lasciarci passare.
Ci fermiamo di fronte a un vasto montacarichi fermo al piano.
Saliamo.
Le sue pareti sono di metallo. C’è un grande specchio sul fondo.
Provo a guardare, ma è tutto nero.
«Generale, io non la vedo!»
«Neanch’io la vedo!» mi risponde la sua voce mentre cominciamo a salire nell’improvviso silenzio, nel buio.
Si sente solo il rumore del montacarichi che si solleva lungo le estensioni verticali del quartier generale dei morti.
«Non ci sono eserciti se non ci sono plebi!» dice il generale, d’un tratto.
Lo guardo, nello specchio nero, nel buio.
«Io ne so qualcosa!» riprende a dire. «Ho conquistato in un solo anno tutta l’Italia settentrionale con un pugno di uomini indisciplinati, conquisterò! 38.000 vivi male armati sono dilagati dal Piemonte a Lodi, a Milano, a Mantova, a Trento, a Venezia, a Trieste, e poi a Lubiana, a Klagenfurt... hanno sbaragliato a Marengo gli austriaci al comando di von Melas, rovesciando le sorti di una battaglia che sembrava perduta e quando gli ambasciatori erano già stati mandati a Vienna per annunciare la vittoria, gettando nella mischia gli uomini di Desaix...»
Il montacarichi continua a salire, a salire, come se questa altissima torre che avevo visto elevarsi dallo spiazzo al centro del quartier generale dei morti non avesse mai fine.
«I migliori eserciti sono le plebi» continua a dire il morto piccolo con il suo grembo da donna che non si riflette dentro lo specchio. «Se non ci sono plebi, non ci sono eserciti che possano vincere! Come ad Austerlitz, quando ho avuto di fronte gli eserciti di Austria e Russia. Avevo occupato Vienna, stavo sprofondando nella Moravia all’inseguimento dell’esercito austro-russo in ritirata. Li ho spinti ad attaccarmi vicino a Brno e agli stagni di Mönitz e di Satschan, mentre loro si illudevano di avere una superiorità numerica di due a uno. Ho richiamato tempestivamente Davout che in due soli giorni, con una marcia forzata di 145 chilometri, ha rafforzato il mio esercito nel momento decisivo. Così, mentre la mia Guardia Imperiale, Murat, Bernadotte, Saint-Hilaire, Oudinot, Lannes, Soult e Vandamme sbaragliavano la Guardia Russa di Kutusov e degli altri, Davout sbaragliava gli austriaci. Perché io ero il tracimatore, sarò! Perché quegli eserciti erano plebi!»
Il montacarichi comincia a vibrare un po’, forse perché sta salendo a un’inconcepibile altezza, forse perché stanno cominciando ad affiorare anche in superficie le prime avvisaglie delle scosse e dei maremoti seminali e degli smottamenti di faglia che stanno avvenendo sotto terra, dove voragini e volte sotterranee del cielo stanno collassando una dopo l’altra sotto l’urto di questa tracimazione e di questo sisma.
«Sono le plebi che mi hanno accolto a Golfe-Juan e poi mi hanno riportato in trionfo a Parigi quando sono fuggito dall’isola d’Elba dove avevano tentato di imprigionarmi dopo che li avevo sconfitti a Lützen, a Bautzen, a Dresda e che ero caduto a Lipsia, e prima ancora dell’immane tracimazione di Waterloo...»
Si interrompe improvvisamente, abbassa di nuovo il volto, la grossa testa, mentre il montacarichi continua a salire vibrando sempre più forte.
«Generale, cosa sta succedendo?» gli chiedo. «Dove stiamo andando?»
Rimane a testa bassa, non mi risponde.
Il montacarichi continua a salire, a salire.
“Come sprofondano in alto le città dei morti!” mi passa per la mente. “Come penetrano a fondo dentro il cielo, mentre altre città dei morti sprofondano nelle viscere della terra! E io prima ero laggiù, e adesso sono qui, sto salendo con questo montacarichi che non arriva mai in cima, vicino a questo generale morto con il suo grembo da donna, di fronte a questo specchio nero che non riflette il mondo.”
Non parlo più, non respiro più.
«Ma se i migliori eserciti sono le plebi» riprende a dire il generale dopo un po’, all’improvviso, mentre il montacarichi continua inconcepibilmente a salire, «se è la quantità seminale delle plebi a decidere delle guerre, allora quali plebi possono competere con quelle sterminate dei morti? Rapporto tra attacco e difesa, tra accerchiatori e accerchiati... Chi, tra i morti e i vivi, tra la morte e la vita, è l’attaccante e l’accerchiatore e chi l’attaccato e l’accerchiato? Sprezzo del pericolo, audacia... Chi può essere più audace dei morti? Quali eserciti possono avere meno paura della morte che quelli dei morti? Io allora ero alla testa solo di piccole plebi di cui ero il tracimatore, avevo solo i francesi, non avevo i cinesi! Ma anche se avessi avuto i cinesi sarebbero state ancora delle piccole plebi a confronto delle plebi dei morti.»
Il montacarichi vibra sempre di più, mentre si immette in nuove zone del cielo che ci sono sopra la volta sotterranea del cielo.
Mi assento, mi pare, tanto è interminabile questo viaggio per arrivare alla cima di chissà dove.
«Venga! Venga!» sento che la voce del generale mi sta dicendo, d’un tratto. «Le farò vedere dall’alto lo scenario delle città dei morti che si preparano alla tracimazione e alla guerra.»
Il montacarichi è fermo, ma non me n’ero accorto.
La porta si sta aprendo.
Muovo qualche passo all’esterno.
Siamo nel punto più stretto della torre, al suo vertice, su una terrazza circolare al centro della quale svetta una enorme antenna che vibra nell’infinito buio per tutte le comunicazioni e gli impulsi e le voci morte che vengono da ogni parte del continente dei morti.
Provo a guardare giù, ma mi ritraggo immediatamente.
«Dove siamo? A che altezza siamo?» domando, chiudendo gli occhi per le vertigini.
«Da qui si vedono tutte le città dei morti. Altro che quelle piccole, stupide alture su cui mi mettevo da vivo, mi metterò, a cavalcioni sul mio cavallo, in mezzo al mio Stato Maggiore impennacchiato e ai miei corrieri che trattenevano a stento i loro cavalli, mentre sotto di noi si svolgevano le battaglie e le plebi tracimavano a fiumi dentro la morte che viene prima. Da qui possiamo vedere le colonne che prendono posizione una dopo l’altra, gli eserciti che si schierano, dei risorti e dei morti, i loro avamposti che guadagnano posizioni con rapide sortite dentro la morte, le corse dei cingolati che travolgono una dopo l’altra le barricate, il dispiegarsi delle formazioni e delle unità di guerriglia che occupano palmo a palmo tutto il territorio dei morti.»
«Ma se è tutto nero! Non si vede niente!»
«No, io vedo le colonne di morti che convergono verso le miriadi di fronti di questa guerra che viene combattuta per la prima volta qui, dentro la morte che viene prima.»
«Ma come fa a vederle, se è tutto nero!»
«Non c’è bisogno di vedere gli eserciti per poterli schierare in battaglia e per poterli guidare! Io gli eserciti li vedo al buio, bisogna vederli prima al buio per poi poterli manovrare alla luce! Ecco, adesso i primi avamposti dei morti si stanno scontrando con i risorti sotto questo diluvio di pioggia. Il cozzo è tremendo, i risorti combattono disperatamente perché, mentre i morti possono uccidere i risorti, i risorti non possono uccidere i morti.»
Mi sporgo a guardare, da questa altezza vertiginosa, nel buio.
«Io vedo solo un’impenetrabile parete di pioggia e un bagliore di luci nere che copre il mondo.»
«Da qui non si può distinguere, dentro queste nubi di luce nera e questo impenetrabile uragano di pioggia che avvolge anche noi che lo guardiamo dall’alto, ma io so cosa vuol dire, a che cosa corrisponde ogni impercettibile mutazione in questa luce nera, ogni sfrangiatura buia in questo infinito buio, come il medico vivo che solleva contro la luce la lastra di una radiografia e individua nella più tenue modificazione della filigrana luminosa in quelle superfici che ad altri potrebbero apparire perfettamente nere, in ogni più impercettibile sbavatura dell’immagine, in ogni vortice buio all’interno di quelle superfici cieche, la presenza dell’aggressore annidato nelle oscurità più profonde dei corpi e del mondo.»
Sta allungando il braccio nel buio, per indicarmi qualcosa che io non vedo, in questo uragano di pioggia.
«Ecco, in questo stesso momento i morti stanno cominciando a trucidare i risorti. Le strade e le piazze allagate sono piene di risorti sbaragliati e trucidati dai morti, sui quali passano i cingolati, mentre altri morti li gettano fuori dai grattacieli espugnati. Fra un po’ tutto il suolo sarà ricoperto di risorti tracimati dentro la morte che viene prima.»
«Ma perché?»
«Perché i risorti non diventino la quinta colonna dei primi vivi già tracimati da vivi nel continente dei morti per questa tracimazione universale e questo sisma di vita e morte, che si stanno nascondendo nelle viscere delle nostre città in attesa di nuove plebi vive per tentare le loro prime sortite. Perché qui fra un po’ tutto tracimerà, perché anche noi dovremo irrompere nella vita con i nostri eserciti formati dalle sterminate plebi dei morti. Perché le battaglie e le guerre sono queste, sono sempre state queste, saranno: tra risorti e morti, tra vivi e morti.»
Guardo in basso, verso i vortici di pioggia e le luci nere dei grattacieli e della battaglia che sta infuriando nelle città e nel continente dei morti, vicino a questo piccolo morto che sta contemplando dall’alto la propria vita e la propria morte, mentre l’antenna alle nostre spalle continua a risonare e a vibrare per il sovraccarico di messaggi e di informazioni e di impulsi morti.
«E poi, alla fine» sta dicendo la sua voce da un punto infinitamente vicino, dal buio «io scenderò da questa altissima torre, piano piano, precipitando lungo la sua voragine all’interno del montacarichi di metallo, di fronte allo specchio nero che non mi riflette, e attraverserò con il mio piccolo corpo morto i corridoi di questo sterminato quartier generale dei morti, vasti come le autostrade a cielo aperto che ci sono nel continente dei vivi, mentre gli altri morti faranno ala al mio passaggio, uscendo dalle porte degli uffici, dei comandi, delle unità di telecomunicazione e del vettovagliamento, e io passerò tra di loro che si accalcheranno ai lati per vedermi, che crederanno di vedermi passare per la prima e ultima volta col mio piccolo corpo nella morte che viene prima, e poi scenderò lungo la gradinata, e camminerò per le strade disseminate di risorti trucidati e di tracimati, come camminavo da vivo nella morte che viene prima lungo i campi di battaglia ricoperti a perdita d’occhio di corpi, camminerò tra le plebi tracimate dentro la morte, col mio piccolo corpo di generale vivo dentro la morte, con il mio grembo di donna. E poi mi sposterò tra queste strade dissestate dalla violenza dei combattimenti e dalle prime scosse del primo e ultimo sisma che sta cominciando ad affiorare dalle viscere collassate delle città sotterranee dei morti, e anche adesso come allora e prima di allora guarderò nella radiografia di queste luci nere e tra questi vapori neri che fa la pioggia, al termine di questa battaglia mai vista prima, che precede la tracimazione universale di vivi e morti. E ogni tanto mi fermerò, in mezzo a questo massacro di risorti, e guarderò qualcuno di loro nella distesa seminale di corpi dei risorti tracimati dentro la morte, che sono un’altra volta e per la prima volta dentro la morte, le loro teste e i loro occhi sigillati con i miei occhi morti gocciolanti di pioggia, in questo finimondo di morte e vita e di vita e morte, e intanto mi domanderò: “Che generale sei, che generale sei stato, che generale sarai, che tracimatore sarai, se l’unica guerra possibile è quella tra vivi e morti, se la morte viene prima, se la vita è tutta dentro la morte che viene prima e se la morte è tutta dentro la vita che è dentro la morte che viene prima? E quale guerra ti aspetta, ti aspetterà, quale guerra e quali plebi hai comandato, comanderai? Di vivi o di morti? Quali guerre hai comandato da vivo se le guerre dei vivi sono già state combattute per la prima volta dai morti? Come sarà questa prima e ultima guerra che viene dopo, che verrà prima?”.»