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La rivoluzione dei morti

Non saprei dire come ho fatto a scendere da quella torre, da solo, mentre il tracimatore, ancora immobile sulla sua cima, contemplava da quell’inconcepibile altezza l’immane combattimento tra i risorti e i morti nel diluvio di pioggia.

So solo che mi sono buttato di nuovo sul montacarichi e che sono sprofondato per un po’ là dentro mentre intorno a me tutto vibrava sempre più forte, più forte, e l’intera torre e l’intero quartier generale e l’intero continente dei morti stavano per essere investiti dalla tracimazione universale e dal sisma di vita e morte. E poi che sono balzato fuori dal montacarichi mentre mi trovavo ancora a un’inconcepibile distanza dal suolo, perché la sua cabina oscillava e scricchiolava così forte che sembrava sempre sul punto di schiantarsi, e che ho ripreso a correre e a sprofondare lungo le vaste estensioni deserte delle scale di servizio, senza vedere i gradini che cominciavano a muoversi e a divincolarsi sotto i miei piedi in corsa, in quel bagliore nero che saliva dal fondo.

E che poi ho continuato a correre, a correre, a correre per arrivare in fondo prima che quella interminabile scala si sconnettesse, e che tutta quella voragine ascensionale collassasse e si sbriciolasse, verso quel mondo che avevo visto radiografato dall’alto. Voi non avete idea di cosa vuole dire continuare a correre e correre lungo una scala e non arrivare mai alla fine, superare una rampa e poi trovarne ancora un’altra e poi un’altra e poi ancora un’altra e poi un’altra ancora, e così all’infinito. “Che sia questa la morte?” mi dicevo continuando a correre e a sprofondare. “Che io stia morendo adesso?”

Devo essere arrivato alla fine, a un certo punto, e poi devo essere corso fuori anche da quei corridoi vasti come autostrade, perché in questo momento sto camminando sulla linea delle strade emerse dei morti. Non sto correndo, non sto più correndo, mi pare. Avanzo piano, con i miei occhi morti sbarrati, col cuore in gola, con le gambe che tremano dopo quell’interminabile corsa lungo le scale del quartier generale dei morti, nella diversa inclinazione della linea d’orizzonte del mondo. E vedo solo, intorno a me, in questo diluvio di pioggia che cancella ogni cosa, colonne di morti in esultanza sui camion che stanno spazzando le strade. E sento solo un crescente fragore, di canti morti e di bandiere e vessilli fradici fatti sventolare dalle torri avvolte dal velo torrenziale di pioggia, dalle torrette dei cingolati, dalle fiancate dei camion e dalle barricate. Sono già stati portati via i corpi dei risorti, oppure non si vedono più perché sono ormai tracimati dentro la morte, si vedono solo queste vittoriose folle di morti che invadono strade e piazze incuranti delle nuove e violente scosse che stanno salendo sempre più dal profondo e che fanno tremare la terra e il cielo.

“Che cosa succederà fra un po’ in queste città, in questo mondo” mi domando, “quando le remote voragini sotterranee dei morti da cui sono appena fuggito saranno collassate una dopo l’altra trascinando con sé anche la parte emersa del continente dei morti, quando le città sotterranee dei morti saranno crollate e precipitate uno strato dopo l’altro sotto l’urto della tracimazione e del sisma di vita e morte e dello tsunami seminale dei morti e sarà precipitata alla fine anche la volta sotterranea del cielo?”

La terra sotto i miei piedi trema ancora di più, poi si ferma, riprende a sussultare e a vibrare sotto il mio corpo che si sposta verso chissà dove, in queste città investite dalla pioggia nera e dalla percussione degli eserciti in esultanza e dalle grida e dai peana dei morti.

«Vieni!» mi dice improvvisamente una voce, da qualche parte, nel diluvio di pioggia.

Mi volto a guardare, in questo mare verticale d’acqua, nel buio.

C’è una ragazza morta alla guida di una jeep che si è fermata vicino a me, a filo con la strada.

«Vieni con noi!» mi dice ancora, inclinandosi verso di me per tenermi aperta la portiera.

È molto giovane, dall’aspetto slavo, avrei detto quando ero ancora nella vita dentro la morte che viene prima.

«Perché hai detto “noi”?» riesco a domandare soltanto, guardandola dal marciapiede che vibra, fermo, impalato.

«Perché c’è anche lui!» mi risponde.

Ma io non vedo nessun altro. Vedo solo il volto gocciolante di pioggia della ragazza che aspetta nella jeep senza tetto, tutta inclinata per continuare a tenermi aperta la portiera.

E allora salgo, mi siedo vicino a lei, sul sedile fradicio.

La ragazza ingrana la marcia, riparte sgommando, sulle strade nere, radiografate.

Non dice più niente. Corre, con la testa contro la lama del parabrezza, i capelli e il volto gocciolanti di pioggia.

«Ci incontriamo per la prima volta!» esclama d’un tratto. «Ci incontriamo di nuovo, ci incontreremo!»

La guardo, mentre guida scrutando le strade invase dalle colonne in esultanza dei morti.

«Ma io non ti ho mai vista prima! Non ti ho mai incontrata!»

Si gira per un istante verso di me, con la sua testa slava, sotto questo diluvio di pioggia.

«Ma come!» mi dice mentre continua a guidare all’impazzata e sorride con la bocca e l’intero volto fasciati dal velo torrenziale di pioggia. «E tutto quello che è successo nella villa Morozov, a Gor’kij, e quell’omino paralizzato, sopra la sua carrozzella, con la sua barbetta avvitata un po’ da una parte, e quella camerierina che lo imboccava, che porgeva alla sua bocca il cibo e il suo stesso ventre, e il camino con quella portella e quella barriera di fuoco tra i tuoi occhi e noi?»

«Ma io non sono mai stato a Gor’kij, in quella villa!»

«Ci sarai.»

«Ma io non ho mai visto quello che succedeva in quella sala, oltre il velo del fuoco!»

«Lo vedrai.»

«E poi non ero io che vedevo quelle cose! Le ho sentite raccontare da quel vecchio Gagà mentre stava tracimando dentro la morte, una notte, e arrivavano da fuori i rimbombi dei fuochi artificiali che stavano esplodendo da qualche parte, quando ero vivo, sarò!»

«No, no! Eri tu, eri tu! Sarai tu!»

«Ma allora tu sei quella camerierina, quella che sembrava una camerierina ma che invece era Anastasia Nikolaevna Romanova!»

«Sì, lo sarò.»

«E c’era anche là un parco, una villa, e anche là una ragazza che si spostava in silenzio, e anche là il fuoco, proprio come a Ducale...»

«Tu non sai ancora niente» mi dice sottovoce, in un soffio.

E sorride, e si passa una mano sull’ampia fronte e sui capelli incollati, continuando a correre all’impazzata sotto questo oceano di pioggia.

«E c’erano tutti quei visitatori che salivano per lo scalone» le dico sporgendo in avanti la testa, «che aprivano la porta di quella sala e restavano a fissare da lontano quell’omino paralizzato sulla sua carrozzella, Dzeržinskij, Stalin... E c’era anche quell’uomo che dirigeva tutto... Come si chiamava? Benno, mi pare. Chissà chi era, chi sarà?»

Getta indietro la testa, socchiude gli occhi, la sua bocca si allunga ancora di più, sul suo bel volto da cui scola l’acqua, in questo infinito buio.

«Non l’hai ancora capito? Ecco, lo vedi... tu non sai niente, non sai ancora niente!»

Io la guardo, la guardo, mentre guida sotto questi turbini diagonali d’acqua.

Poi, mentre sto girato verso di lei che continua a sorridere e a imperversare nel buio, mi accorgo che, oltre a noi due, c’è un terzo passeggero sopra la jeep.

Mi giro ancora di più.

C’è un omino rannicchiato sul sedile di dietro, che continua a dormire incurante della valanga di pioggia che viene giù a strapiombo dal cielo.

«Ma quello è Lenin!»

Lei ride, con tutto il suo volto gocciolante che luccica nell’infinito buio.

«Sì, siamo tracimati insieme nella morte che viene prima! Per questo l’ho gettato e poi mi sono gettata nel fuoco, quel giorno!»

Lo guardo, mentre continua a dormire profondamente, rannicchiato sul fianco, sul sedile fradicio, tutto fasciato dal velo d’acqua.

«È molto stanco!» mi dice lei, intercettando il mio sguardo. «Dorme dove può, quando può!»

Continuo a guardarlo, girato verso il sedile di dietro, mentre le città dei morti sono ancora attraversate da parte a parte e sconvolte dall’esultanza degli eserciti vittoriosi dei morti, e sussultano e si sfuocano dietro la parete verticale di pioggia per le continue scosse sismiche della tracimazione dei vivi e dei morti.

«Le due enormi faglie si stanno scontrando!» mi dice lei girandosi verso di me e guardandomi con esaltazione ed emozione. «Stiamo andando verso la tracimazione e la rivoluzione dei morti! Io lo sto portando con questa jeep a visionare le avanguardie della rivoluzione di morti! Lui non si riposa mai! Certe volte si addormenta di schianto, dovunque si trovi, in mezzo alla gente morta, nelle piccole sedi dove si sta preparando l’insurrezione dei morti, sotto la pioggia! Gli bastano questi brevissimi sonni per ritemprarsi. Lui sta suscitando e sta organizzando la rivoluzione dei morti e quella dei vivi, perché le rivoluzioni dei vivi non ci sarebbero se non ci fossero prima le rivoluzioni dei morti.»

Infatti, un istante dopo, l’omino si sveglia all’improvviso, apre gli occhi.

Si mette a sedere.

«Sì, le rivoluzioni dei morti sono le rivoluzioni dei vivi» comincia a dire, come se avesse sentito le nostre parole anche mentre dormiva. «Perché tutto è spaccato in due, perché la morte viene prima.»

Io lo guardo, girato verso il sedile di dietro, guardo il suo cranio nudo e il suo volto gocciolanti di pioggia.

«I più grandi rivoluzionari sono i morti!» continua a dire. «Gli unici rivoluzionari sono i morti. L’unico proletariato integralmente rivoluzionario è quello dei morti, perché solo i morti non hanno niente da perdere, neanche la vita, e possono portare la loro rivoluzione dentro la morte che viene prima e dentro la vita che è dentro la morte che viene prima. Perché, se la rivoluzione è anticipazione e se la morte viene prima, l’unica vera rivoluzione è quella dei morti, l’unica insurrezione è quella della morte dentro la vita.»

«E i risorti?» provo a dire, muovendo le labbra in questo nero diluvio di pioggia.

«Resurrezione e rivoluzione non sono la stessa cosa» mi risponde scuotendo la testa calva da cui scola l’acqua. «I risorti sono come i menscevichi, saranno! Io mi sono opposto all’alleanza con i risorti, io mi sono opposto alle tendenze resurrezionalistiche che hanno dilagato nel continente dei morti e che rischiavano di diventare la quinta colonna dei vivi, come se la vita venisse prima, come se nella tracimazione di vita e morte la vita e non la morte venisse prima. Io ho infiltrato rivoluzionari morti negli eserciti dei morti intenti a schiacciare i risorti, io ho sfruttato la guerra tra i morti e i risorti per fare proselitismo tra le file dei morti, perché è proprio tra i morti che si possono trovare i rivoluzionari disposti a portare la rivoluzione dentro la morte. Io sto operando per trasformare la guerra dei morti contro i risorti in guerra rivoluzionaria dei morti dentro la morte che viene prima...»

Il piccolo uomo continua a parlare nel buio, sotto il diluvio, col suo piccolo corpo sul sedile fradicio ricoperto di un velo d’acqua e proteso in avanti, come se invece che su una jeep che corre a perdifiato in questo mare verticale e in queste nubi di pioggia fosse in piedi su un palco, affacciato sull’anfiteatro delle città e del continente dei morti.

«I sogni dei vivi sono quelli che stanno sognando i morti, le rivoluzioni dei vivi sono le rivoluzioni che stanno facendo i morti...»

«E allora io che rivoluzione stavo facendo, quando ero tra i vivi? Che rivoluzione farò?» gli domando, gli grido. «Quando cospiravo in quelle piccole stanze, di notte, nel mondo dei vivi. Quando restavo con gli occhi sbarrati nel buio, sopra una branda, in una di quelle camere mai viste prima, in uno di quei rifugi, in qualche città o in qualche luogo sconosciuto del mondo dei vivi. Quando mi spostavo alla guida di quella macchinina che correva per le strade nere del mondo dei vivi, le autostrade, in piena notte, dopo quelle riunioni segrete, muovendomi lungo i tornanti neri tra i boschi, da cui sbucavano uomini in divisa mimetica che mi sbarravano la strada con una catena chiodata, e poi mi estraevano a forza dall’abitacolo della macchina e mi sbattevano contro il cofano. Quando credevo che si potesse portare la rivoluzione tra i vivi, che venisse prima la rivoluzione dei vivi, e piangevo per la disperazione e per l’esaltazione, di notte, correndo per quelle strade nere dei vivi, semiaddormentato per la stanchezza e per la mancanza di sonno, e la macchinina usciva continuamente di strada, deragliava, mi svegliavo di soprassalto sull’orlo dei precipizi, una volta, due volte, tre volte durante lo stesso viaggio. Quando correvo sopra uno scooter lungo strade mai viste prima in cerca di qualcuno che ancora non conoscevo, che viveva in uno di quei paesi sperduti che ci sono vicino ai confini delle nazioni dei vivi, in mezzo ai boschi, con le piccole ruote che sbandavano forte per la pioggia nelle strette curve in discesa. Quando mi spostavo attraverso quelle città in preda ai tumulti, e mi lanciavo contro le barriere di scudi col tascapane pieno di sassi, mi lancerò. Quando facevo la guardia di notte intorno alle cancellate di quelle cittadelle occupate e piene di bandiere e vessilli dei vivi dentro la morte che viene prima, con un’arma in spalla. Quando mi facevo scaraventare giù dalle scalinate. Quando il mio corpo che voleva portare la rivoluzione nella vita e nel mondo dei vivi tremava fino a spezzarsi, nel cuore della notte, per l’immenso dolore che c’è nel mondo...»

Continuo a parlare così, nell’infinito buio, nel diluvio di pioggia, e intanto sento che Anastasia sta allungando una mano verso di me, quella che non stringe il volante, che mi sta accarezzando con dolcezza il collo fradicio di pioggia, che mi sta incernierando, e che anche Lenin mi ha preso e mi ha incernierato una mano, mentre corriamo all’impazzata verso chissà dove, nella notte che viene prima, nella morte che viene prima.

«E a me sembrava...» sento che la mia voce sta continuando a dire, in questo diluvio di pioggia, mentre corro incernierato a questi due corpi nella morte che viene prima «mi sembrava in certi momenti che le pareti del mio io si stessero spalancando, sfondando, le pareti di quella cosa che i vivi chiamano io, chiameranno, provavo per un istante l’inconcepibile percezione o illusione che la mia prigione si potesse sfondare e che quella percezione incontrata o inventata per alcuni irripetibili istanti inconcepibilmente brevi fosse proprio la rivoluzione... Ma allora io dov’ero in quei brevi istanti, dove sono stato, in quale mondo sono stato, in quale mondo sarò?»

«Tu eri qui. Tu sei qui» mi sta rispondendo Lenin, guardandomi con i suoi occhi allungati e sorridendomi con la sua bocca e con l’intero suo volto su cui scola un velo ininterrotto di pioggia, mentre la piccola mano di Anastasia balenante nell’infinito buio mi sta continuando ad accarezzare e a incernierare con dolcezza la testa e la radice del collo. «Tu adesso sei qui! E quella percezione di spazio che si dilata, e di vita che improvvisamente si sfonda, la stai provando e percependo e prefigurando adesso, nella morte che viene prima, nella rivoluzione dei morti che viene prima.»

«Non lo so, non lo so... Io non lo so se la stavo provando qui, se la sto provando adesso che sono qui» sento che la mia voce sta dicendo da qualche parte, nella pioggia, nel buio. «Io non so dov’ero allora, dove sarò, non lo so se ero qui, se sono qui, se sono stato qui, se sarò qui.»

Non mi risponde. Neanche lei mi risponde. Però cominciano tutti e due a cantare, prima uno e poi l’altra, a fior di labbra, come se non si potesse più dire niente, come se non ci fosse più niente da dire, come se si potesse solo cantare così, sottovoce, con gli occhi socchiusi, nell’infinita pioggia e nell’infinito buio.

E allora comincio a cantare anch’io insieme a loro, a fior di labbra, perché lo conosco anch’io questo canto, questo peana, l’ho conosciuto, lo conoscerò.

«Quando ero vivo, l’ho cantato anch’io!» riesco a dire soltanto, guardando i loro volti che non si capisce se sono solo fradici d’acqua o se stanno piangendo.

«Sì, è L’internazionale dei morti! È il canto di fratellanza dei morti!» mi risponde Lenin, con gli occhi socchiusi dietro il velo d’acqua. «Questo è il canto che cantano e che canteranno tutti i morti che vogliono e che vorranno portare la rivoluzione dentro la morte e dentro la vita che è dentro la morte che viene prima.»

Continuiamo a cantare così, con le bocche e le teste quasi cancellate da queste muraglie d’acqua, a fior di labbra, tutti e tre incernierati, in questo piccolo territorio su ruote che corre all’impazzata attraverso le città infinitamente buie dei morti.

Sento solo la massa liquida che precipita senza interruzione dall’alto e che mi fascia la testa e il volto.

«Ma perché le rivoluzioni falliscono sempre?» provo a domandare d’un tratto, a gridare.

«Quelle che falliscono sono le rivoluzioni dei vivi!» mi risponde Lenin, sorridendo nel velo d’acqua. «Perché non ci sono ancora state, perché la morte viene prima, perché non si può portare la rivoluzione dentro la vita che è dentro la morte che viene prima!»

«Eppure io lo credevo, lo pensavo! Pensavo che si potesse portare la rivoluzione dentro la vita proprio perché la morte viene prima. Perché, se la morte venisse dopo, che rivoluzione si potrebbe portare dentro la vita?»

Sento che la piccola mano di Anastasia sta accarezzando il mio volto fradicio di pioggia nera indistinguibile dalle lacrime.

«E io allora?» mi dice d’un tratto. «Io che ho visto la mia famiglia sterminata in quella cantina...? Che ho vissuto con loro confinata a Ekaterinburg, tra quei corpi in attesa della tracimazione dentro la morte, e poi fino alle ultime ore in mezzo a quella mandria reale portata al macello da chi credeva che si potesse portare la rivoluzione dentro la vita che è dentro la morte che viene prima? E che sono rimasta immobile in mezzo a tutti quegli altri corpi caduti sopra di me, degli altri Romanov fucilati dai vivi, fingendomi morta, come se la morte venisse dopo e non prima? Che cosa credi? Perché credi che non sia tracimata insieme a loro nella morte che viene prima? Perché credi che sia uscita di nascosto da quella cantina, e che abbia curato le mie ferite, e che abbia vagato così a lungo attraverso la Russia vestita da contadina, e che poi sia andata a bussare alla porta di quella villa dove c’era lui, quello che aveva creduto di portare la rivoluzione tra i vivi come se la vita venisse prima e non dopo, e aveva fatto tracimare la mia famiglia tra i morti, immobilizzato su quella carrozzella? Perché ogni cosa è spaccata in due, e lui allora era là, sarà là, come se la morte venisse dopo mentre viene prima... Perché credi che abbia fatto finta di essere una camerierina e che lo abbia imboccato e che abbia accostato alla sua boccuccia sdentata il mio grembo di ragazza fucilata nella vita che è dentro la morte che viene prima? Perché credi che lo abbia gettato e che mi sia gettata con lui dentro lo stesso fuoco? Mi sono gettata nel fuoco con lui per tracimare assieme a lui dentro la morte, perché potesse portare la rivoluzione dentro la morte e non dentro la vita, perché non ci fossero più rivoluzioni dentro la vita come se la vita venisse prima invece che dopo, perché anche la mia famiglia si potesse salvare dalla rivoluzione e dalla morte che vengono dopo e non da quelle che vengono prima...»

Scorgo appena, nell’infinito buio, che l’altra mano di Lenin si è allungata verso di lei, che le sta accarezzando da dietro i capelli incollati alla testa e su cui scorre l’acqua e la bella fronte scoperta e gli occhi che stanno piangendo sotto le continue ondate di pioggia. E intanto corriamo così, incernierati dalle nostre mani che si accarezzano in questo mondo buio, nelle città emerse dei morti che sussultano sempre più sotto le nostre ruote in corsa.

«La rivoluzione dei morti non fallisce, non può fallire, non fallirà!» le sussurra Lenin, con dolcezza, da dietro.

«Perché?» gli domando ancora, nel buio.

«Perché non c’è ancora stata» mi risponde sorridendo, in un soffio. «Perché la rivoluzione dei morti viene prima, viene sempre prima. Perché le rivoluzioni dei vivi vorrebbero anticipare la morte anche se la morte viene prima, mentre quella dei morti è in anticipo sulla vita che è dentro la morte che viene prima.»

Le strade vibrano sempre più per le onde percussive del sisma che sta salendo dal profondo, i grattacieli si sfuocano, oscillano, balenando dietro il velo di pioggia che scola a rivoli dai precipizi delle loro pareti.

La jeep sussulta sempre di più, balzando sul dislivello di qualche crepa che si apre all’improvviso sotto di noi.

Anastasia stringe ancora più forte il volante, con tutte e due le mani.

«E adesso cosa succederà?» provo ancora a domandare, nel bozzolo nero della pioggia, nel buio. «Cosa succederà adesso, che le due faglie di vita e morte si stanno avvicinando e si stanno scontrando, che la vita sta tracimando dentro la morte e la morte dentro la vita?»

«Noi dobbiamo irrompere e tracimare dentro la vita con gli eserciti rivoluzionari dei morti già formati e inquadrati dentro la morte» mi risponde Lenin. «Noi dobbiamo portare la rivoluzione dei morti dentro la vita che è tutta dentro la morte, noi dobbiamo anticipare la vita e la rivoluzione della vita con la morte e con la rivoluzione della morte che viene prima.»

Poi più niente, solo il buio, la pioggia, la mano di Anastasia che ogni tanto si stacca dal volante e mi accarezza la testa e il volto, con infinita dolcezza, nel buio.