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La mia casa

Non riesco a muovere un passo.

“Che cosa è successo?” mi chiedo, col cuore in gola.

Sono ancora immobilizzato, impietrito, di fronte a questo portone nero spalancato e fuori dai cardini, a questa casa diroccata e piena di crepe provocate dal sisma di morte e vita e di vita e morte.

Provo a guardare dentro, ma è tutto nero.

L’atrio è vuoto, il cortile è buio, deserto, pelato. Non c’è più quella neve, non c’è più un filo d’erba, non ci sono più fiori.

Provo a fare un passo in avanti, oltre il portone spalancato e scentrato, nell’atrio buio.

Poi un altro ancora, muovendomi senza fiatare, tra quelle pareti lesionate e scrostate, e intanto mi tolgo con la mano, dalla testa e dalle spalle, quest’ultimo velo seminale di neve.

“Forse questa casa è stata colpita!” mi dico. “Forse è stata centrata da raffiche che hanno fatto saltare gli intonaci, o addirittura da qualche bomba caduta dall’alto.”

Muovo ancora qualche passo, irrigidito, nel buio, verso l’imbocco dello scalone.

“Mi pare che fosse qui, dietro una rientranza che c’era subito a destra... Ma com’è tutto più piccolo, più misero, di come ricordavo, ricorderò!”

Sì, la rientranza c’è ancora, e sul fondo c’è ancora la porta dello scalone. Ma non è chiusa, non è sbarrata da quelle ante mobili che si applicavano quando scendeva il buio e tutte le porte della casa venivano sprangate una dopo l’altra prima di notte.

“Forse stanno aspettando qualcuno, forse sono scesi ad aprirla un momento fa sentendo avvicinarsi i miei passi di tracimato... o forse è così da chissà quanto tempo, forse da quando l’ho lasciata quando ero vivo, sarò, forse l’hanno sfondata col calcio dei fucili durante un rastrellamento in cerca di tracimati...”

Mi avvicino alla porta, guardo dentro: è tutto buio, si scorge appena la successione dei gradini larghi e bassi della prima rampa, nel buio.

“C’era un interruttore, appena dietro la porta...”

Tasto un po’ con la mano.

C’è ancora.

Lo premo.

Si accendono due basse luci contro la volta dello scalone, una per ogni rampa, là in alto.

Mi guardo attorno. Scorgo vicino a me la porta mimetizzata della legnaia, dello stesso colore dell’intonaco della parete, quella dello stanzino della caldaia.

Comincio a salire piano, senza fiatare, in questo buio rischiarato appena da quelle lontane particelle seminali di luce. Metto uno dopo l’altro su questi lunghi gradini i miei piedi di tracimato, e intanto mi sembra di diventare più piccolo, sempre più piccolo, sempre più piccolo man mano che salgo e che tracimo lungo questo scalone.

“E c’è ancora la passatoia rossa, mi pare, anche se non si vede neppure che è rossa, in questa luce fioca che arriva a malapena dall’alto della volta, sembra nera, e anche quelle sbarre dorate che la tengono ferma alla base di ogni gradino sembrano nere, si saranno ossidate...”

Sono in cima alla prima rampa. Vedo, di fronte ai miei occhi di tracimato, la lunga cassapanca nera che occupa l’intera parete.

Imbocco la seconda rampa. Continuo a salire, in questa lontana luce, senza fiatare. Vedo tutt’intorno a me la nuvola del mio respiro in questa voragine fredda, gelata, la ringhiera di finto marmo che sta scorrendo di fianco, con le sue venature dipinte.

Alzo gli occhi, verso l’alto portone nero attraverso il quale si entrava nell’anticamera, si entrerà.

“Ma è spalancato anche quello!”

Salgo gli ultimi gradini. Adesso sono in cima, scorgo vicino a me la testa di gesso collocata sul punto più alto della larga ringhiera.

Mi fermo per un istante a guardarla, in questa poca luce, in questo mondo mai visto prima e mai visto dopo, con i miei occhi di tracimato. Non lo so perché, ma sento che mi stanno salendo all’improvviso le lacrime agli occhi mentre allungo il braccio e la mano verso il busto di gesso, per fargli una carezza sulla larga fronte e sul cranio freddo.

Entro nell’anticamera. È tutto buio. Cerco l’interruttore, lo premo due o tre volte alla cieca, nel buio, sollevandomi sulle punte dei piedi.

“Come sono diventato piccolo!” mi dico.

Vedo tutt’intorno a me, nella poca luce che viene da qualche parte, le cassapanche nere, le seggiole nere contro le pareti dalle tappezzerie scure e stracciate, su una delle quali c’è uno dei primi modelli di televisore, grande e scuro, bombato, il tavolone nero e le altre seggiole nere, le cinque porte che danno sull’anticamera, il telefono a muro, il lucernario ricoperto di polvere e di fuliggine e di ruggine nera al centro del soffitto a volta, il grande attaccapanni nero che occupa l’intera parete tra due porte, ricoperto di cappelli, sciarpe e cappotti ammucchiati gli uni sugli altri, sormontati da un grande cappotto nero con il collo di opossum...

“Eppure qui non sembra esserci più nessuno!” mi dico, immobile nella vastità dell’anticamera illuminata appena da queste lontane particelle seminali di luce. “Non un rumore di passi, una voce.”

Cammino verso le stanze, su queste assi che si muovono un po’ sotto i miei passi, sconnesse le une dalle altre dal sisma, verso le camere da letto, la camera da pranzo, tutte buie e vuote. Imbocco il corridoio lungo e stretto, con le pertiche per la pulizia dei soffitti coricate là in alto e i finestroni spalancati che si affacciano sullo strapiombo dello scalone. Arrivo nella cucina. Anche questa vuota, deserta, la stufa spenta. Salgo senza fiatare la rampa di legno che porta nello studiolo.

Non c’è nessuno.

È tutto buio, muto, deserto.

Corro giù dalla rampa di legno. Anche la porta della cucina è spalancata, scentrata.

Imbocco la scaletta di pietra, arrivo in cortile. Mi guardo attorno, nel buio: anche le porte delle altre case che danno sul cortile nudo sono tutte spalancate e sfondate.

Attraverso il cortile buio, correndo, entro anche nelle altre case, attraverso le loro porte fuori dai cardini. Accendo una dopo l’altra le luci, corro attraverso le stanze e le sale con le tappezzerie che penzolano stracciate dalle pareti, lungo un altro scalone, e poi attraverso altre stanze e altre sale piene di letti morti e di camini neri e di antri sormontati da stemmi affrescati e scrostati.

“Sì, sì...” mi dico correndo attraverso queste case vuote con il mio corpo tracimato dalla morte che viene prima e che viene dopo. “Io l’ho già visto questo mondo! O non l’ho mai visto eppure me lo ricordo, me lo ricorderò: questa era la portella dell’ascensore portavivande, e questa la camera verde, la camera gialla, la camera rossa... Ma adesso non sembrano più o non sembrano ancora né verdi né gialle né rosse, sembrano tutte nere. I nobili non ci sono più, non c’è più nessuno. Dove saranno finiti? Saranno sfollati da qualche parte per l’avvicinarsi di questa guerra mondiale tra vivi e morti o saranno già tracimati dentro la morte? Ma saranno tracimati prima o saranno tracimati dopo? Saranno tracimati dentro la morte che viene prima o dentro quella che viene dopo? Ma, se sono tracimati dentro la morte che viene prima, dove erano allora? E, se sono tracimati dentro la morte che viene dopo, dove sono adesso? E dove sono io adesso, se adesso è adesso?”

Corro fuori, in cortile. Entro di nuovo nella mia casa, attraverso la porta sfondata della scaletta da cui penzola quel fermaglio di filo di ferro, e poi attraverso l’altra porta più grande, della cucina, con quella sbarra di ferro che sollevavo e che facevo mulinare nell’aria.

Imbocco il corridoio, ritorno nell’anticamera nera, corro nella mia stanza. Mi guardo attorno: il mio letto dalla coperta a righe, con le frange in fondo, i tavoli a muro dai cassetti pieni fino a scoppiare di fotografie rigide e spesse e di matasse di spago, le due poltrone e il divano di cuoio martoriati dalle unghie del gatto, la grande radio sopra la mensola...

Giro una delle manopole, provo ad accenderla.

Si accende. Comincia a precisarsi quell’occhiolino verde che palpitava in alto, palpiterà.

Alzo il volume. Ci appoggio l’orecchio, per sentire.

Ma non si sente niente: solo voci concitate che si accavallano, fragori musicali, boati, fruscii, intermittenze.

Giro un’altra manopola, per cercare di sintonizzarmi su qualcun’altra delle stazioni. Niente. Ancora e solo questo sisma di fragori musicali e di voci.

“Anche le onde sonore saranno attraversate da questa tracimazione e da questo sisma di morte e vita e di vita e morte...“ mi dico “anche i conduttori, le valvole, anche i suoni, le voci...”

Corro nella stanza vicina, grande e fredda, con gli ovali neri delle battaglie alle pareti e l’inginocchiatoio e il grande letto a baldacchino sormontato dalla coperta di pelle di montone.

La poca luce è già accesa, l’avevo già accesa prima, da dopo.

Il secrétaire è aperto, sul suo piano sono sparpagliati penne senza pennino, pennini ancora anneriti dall’inchiostro secco, un temperino pieno di piccole lame e di lime e di forbicine e di tagliaunghie, una lente d’ingrandimento, un dado di cioccolato pietrificato e senza uno spigolo, su cui si distinguono ancora segni di denti, un plico di lettere.

Mi chino a guardare.

“Ma chi le avrà scritte queste lettere?”

Provo a leggere qualche frase qua e là, tirandole fuori dalle buste lacerate e stracciate.

“E quando le avranno scritte? Le avranno scritte prima o le avranno scritte dopo? E a chi le avranno scritte? Le avranno scritte ai vivi o le avranno scritte ai morti? Ma, se le hanno scritte ai vivi, dov’erano mentre le stavano scrivendo, dove saranno? E, se le hanno scritte ai morti, da dove le stavano scrivendo, dalla vita che viene dopo o da quella che viene prima, verrà?”

Corro verso una delle cassettiere nere. Tiro fuori uno dei cassetti. Si apre a fatica, perché è tutto pieno e gonfiato da grandi tappeti arrotolati. Ficco la mano in fondo, raspo sotto l’ultimo dei tappeti, in cerca della spada.

La trovo. La tiro fuori. La libero dal suo fodero di cuoio. La sguaino.

La faccio mulinare nell’aria. Sento il sibilo della sua lama che fende le estreme particelle seminali tracimate di luce.

Esco dalla stanza, corro attraverso la casa mulinando la spada. Scorgo appena, nella poca luce che arriva dalle lampade accese, lontane, e dai lampadari bui impolverati e anneriti, la sua lama blu lunga e diritta, intarsiata, il luccicare del nudo metallo ancora appuntito e tagliente, sulla cima.

Ritorno indietro, passo di nuovo attraverso la mia stanza, con le poltrone e il divano di cuoio crivellati dalle unghie del gatto e la grande radio ancora accesa da cui continuano a venire quei fragori spaventosi e quei colpi e quei boati di voci tracimate e di interferenze musicali e di grida.

Raggiungo l’altra stanza. Faccio mulinare e sibilare ancora due o tre volte la spada nell’aria. La rimetto nel fodero. E poi dentro l’ultimo dei cassetti, sotto i rotoli di tappeti.

Mi giro verso la parete di fianco, dove è appeso il corno da caccia.

Il cuore mi sta martellando forte, non respiro.

Allungo le mani verso il corno, con i suoi cerchi dorati che brillano nella penombra.

Mi alzo ancora di più sulla punta dei piedi. Arrivo a toccare il cordoncino rosso a cui è appeso il corno da caccia, a un chiodino che c’è nel muro.

Lo stacco dalla parete. Me lo porto alle labbra. Cerco di suonarlo, una volta, due volte, ma non ne esce alcun suono.

“Sì, lo so, mi ricordo” mi passa per la mente, “bisognava stringere le labbra in un certo modo e poi soffiare forte, sempre più forte, finché usciva dalla sua bocca quel suono spropositato e improvviso che seminava il terrore in ogni angolo lontano di questa casa, seminerà.”

Provo ancora. Stringo di più le labbra. Soffio forte, più forte, più forte.

Un istante dopo si leva un suono altissimo, lacerante.

Eppure lo sento appena, e come da lontano, tanto è forte e spropositato e tanto investe con il suo urto di particelle sonore tracimate e inventate le pareti di questa casa e poi quelle delle altre case vuote e buie dove mi sono appena aggirato e poi l’intero continente e l’intero mondo dei vivi e quello dei morti e quello dei tracimati dalla vita e dalla morte e dei tracimatori e dei resurrettori e dei risorti.

Resto immobile, con gli occhi spalancati, impietrito.

Il cuore mi martella forte, in qualche punto della vita e della morte e della tracimazione del mondo. Non ci vedo quasi tanto la luce è poca, tanto i miei occhi sono offuscati da un velo di particelle seminali che salgono dal profondo.

Mi stacco il corno dalle labbra. Rimango per un istante in ascolto.

Non un suono, non una voce, non un grido, dalla casa buia, dal mondo. Solo le nuvole del mio respiro gelato, il fragore attutito che viene dalla grande radio desintonizzata.

Rimetto il corno da caccia contro la parete. Esco dalla camera, camminando piano, adesso, più piano.

Attraverso di nuovo la mia stanza. Vado a spegnere la grande radio.

Tutta la casa piomba nel silenzio.

Non si sente più niente, nella casa, nel mondo. C’è solo, intorno a me, questo enorme silenzio e questa enorme e silenziosa tracimazione di vita e morte.

Mi aggiro ancora per un po’ attraverso le stanze. Passo di fronte a una porta a muro che prima non avevo visto, più piccola delle altre, una porticina.

Allungo istintivamente una mano.

Apro la porticina.

La richiudo immediatamente.

“Oh, no, no! Quella no, quella no!”

Continuo a camminare per le stanze silenziose e vuote, per l’anticamera. Ci sono delle merde di gatto sotto le seggiole nere dalle gambe ricurve e negli angoli delle stanze, però dure e fredde, mi pare, fossilizzate. Non spandono più quel fetore...

“Se ne trovavano sempre di nuove sotto i mobili e negli angoli bui, quando il gatto si gettava sulle budelle fumanti dei polli appena eviscerati sul secchiaio della cucina, e ci gettava dentro la testa e si ingozzava di quelle matasse piene di escrementi e poi gli veniva la diarrea e allora una mano lo afferrava per il collo e gli sprofondava e gli rigirava il muso in quelle merde molli e fetide che spuntavano qua e là negli angoli bui della casa, tra un gran mulinare di zampe e di unghie tutt’intorno, e poi il gatto girava per le stanze silenzioso e umiliato, per giorni e giorni, con i lunghi baffi e coi peli del muso tutti irti e induriti dai suoi stessi escrementi seccati...”

Ma adesso sono gelide, pietrificate, mi sembra, nel passare, sembrano delle pietre vulcaniche liquefatte e indurite.

“Saranno ancora le merde di quello stesso gatto, evacuate e tracimate prima? Oppure di altri gatti tracimati e inventati dopo, nel dopo che viene prima?”

Entro nella camera da pranzo, guardo dentro il camino buio e spento. Prendo le molle, le muovo nella cenere morta e fredda che è rimasta sul fondo.

Giro attorno al lungo tavolo, rasento i mobili dalle ribaltine spalancate e vuote.

“Non sono ancora andato nella camera blu!” mi viene in mente all’improvviso.

Giro la testa. La doppia porta è aperta, ma dentro è tutto buio e nero, non viene nessun suono, nessuna voce, da quella parte.

Faccio qualche passo verso la camera blu. Mi fermo per un istante, col cuore il gola, sulla soglia.

Entro.

È tutto buio, non si vede niente, eppure mi sembra di distinguere, in tutto questo infinito buio, una grande forma nera sul fondo.

Tasto con la mano il muro, dietro la porta. Trovo l’interruttore, l’accendo.

Rimango immobile, immobilizzato, impietrito.

C’è un grande letto, sul fondo. E sul letto è distesa una persona: una vecchia magra, con le mani e la testa che spuntano dalle coperte, e gli occhi spalancati, bianchi.

“Ma è la Signorina!” mi dico. “È quella vecchia cieca e inferma che restava sempre a letto, nell’ultima stanza della casa, nel buio...”

Sono ancora immobile, muto.

«Hai suonato il corno...» sento che sta mormorando all’improvviso e con emozione una voce, la sua voce.

Non rispondo, non riesco a rispondere.

«Non avere paura. Avvicinati, vieni qui!» mi sta dicendo ancora la sua voce, che si sente appena tanto è bassa, lontana.

E intanto accompagna le parole con un movimento leggero di una delle sue mani deformate dall’artrosi che spuntano dalle coperte.

Faccio qualche passo in avanti, ma non riesco a parlare.

«Vieni, vieni...» mi continua a chiamare «vieni qui vicino al mio letto, come facevi prima, come farai...»

Mi avvicino ancora di più, si sente solo il rumore del pavimento di legno che scricchiola e geme sotto i miei passi.

Si vede solo il biancore della sua lunga mano ondulata che si muove nell’aria in cerca della mia mano.

Adesso sono vicino al letto. Gliela stringo.

Anche lei stringe la mia mano con la sua mano senza peso. La stringe forte.

Gira verso di me la sua piccola testa ossuta, e si muove sopra il cuscino anche la massa dei suoi capelli ancora incredibilmente lunghi e neri nonostante l’età, e intanto mi guarda con i suoi occhi bianchi e ciechi, che sembrano globi di plastica.

«Siediti vicino a me» mi sta dicendo la sua voce, nella penombra rischiarata appena da queste particelle seminali di luce. «C’è ancora la tua sedia vicino al mio letto, ci sarà.»

Mi guardo attorno: c’è una sedia vicino al comodino di legno, con la fodera dell’imbottitura un po’ lisa e tagliata al centro.

La sposto un po’, con una sola mano perché lei intanto continua a tenermi stretta l’altra.

Mi siedo vicino al letto.

Rimaniamo per un po’ di tempo così, senza parlare, lei con la testa girata verso di me, sul cuscino, io con la testa spinta in avanti verso di lei, senza lasciarci la mano.

«Sei ancora qui! Sei tornato!» mi dice d’un tratto.

«Ma come faccio a essere tornato, se la morte è prima, se la vita è dopo, se adesso è adesso?» riesco a dire.

«La morte non è prima, la morte non è dopo, la morte è adesso, la vita è adesso!» mi dice continuando a stringermi forte la mano, con la sua voce che si sente appena, in un soffio.

«E allora perché io sono già stato qui? Se la vita non è dopo, perché io sono già stato qui? E, se la vita non è prima, perché io ci sarò prima?»

«Perché ci sei adesso, perché ci sarai adesso.»

Non dice più niente, non diciamo più niente, per un po’.

Continuiamo a stringerci la mano, in silenzio.

«Sono tracimata per te...» mi dice poco dopo, all’improvviso, in un soffio.

Mi spingo ancora in avanti, mi inginocchio sul pavimento di legno, appoggio la testa e la guancia sulla coperta del letto, come facevo prima, come facevo dopo, come farò adesso.

Sento che la Signorina sta staccando l’altra mano dalla ripiegatura del lenzuolo, che mi sta accarezzando con infinita dolcezza il volto dagli occhi chiusi, le tempie, la fronte, i capelli.

«Hai suonato il corno...» mi dice ancora, mi sussurra, con la sua voce che non si sente. «Si è levato il tuo potente richiamo.»

Restiamo ancora così, non so per quanto tempo, perché non c’è più il tempo, non c’è ancora il tempo, non ci sarà il tempo, perché adesso è adesso, tutti e due in silenzio, immobili, tracimati, lei distesa sul suo letto, io inginocchiato vicino a lei, sul pavimento di legno.

Poi, a poco a poco, da qualche parte della vita e della morte del mondo, da dietro la parete che c’è vicino al letto, quasi contro il letto, dalla tappezzeria blu scura, quasi nera e qua e là lacerata e strappata, con gli spigoli staccati dal muro e che penzolano nel vuoto appesantiti da strati d’intonaco staccato, si cominciano a sentire dei piccoli rumori ritmati, dei colpi lievi, prima lievi, poi sempre più forti, più forti, poi dei respiri sempre più cavernosi, più rauchi, più forti, nell’inconcepibile silenzio che c’è in questa grande casa buia e nel mondo.

«Che cosa succede?» sento che la mia voce sta chiedendo, in un soffio.

«Sarà quell’atleta che c’è dall’altra parte della parete, nella casa confinante, con i suoi attrezzi...» mi risponde la Signorina, in un soffio. «Sarà tracimato anche lui.»

Non diciamo più niente. Restiamo tutti e due in silenzio, immobili, incernierati, mentre i rumori degli attrezzi si affievoliscono sempre più e poi si spengono del tutto, e anche quei suoni rauchi e cadenzati usciti da caverne polmonari sotto sforzo, e possiamo sentire solo il rumore dei nostri due respiri tracimati, nell’infinito silenzio e nell’infinito buio.

Finché, a poco a poco, da qualche altra parte della casa, da lontano, da molto lontano, nel silenzio e in questa poca luce buia, comincia a venire una vibrazione forte, come di passi provenienti da un’immensa cavità senza suoni.

La Signorina mi sta stringendo più forte la mano.

«Che cosa succede? Chi arriva?» sento che sta domandando la mia voce, in un soffio.

Lei non risponde, però mi stringe ancora più forte la mano, con le sue dita senza peso deformate dall’artrosi.

“Sarà qualcuno che sta salendo lungo lo scalone...” mi passa all’improvviso per la mente, mi passerà.

Smetto di respirare. Giro istintivamente la testa, per guardare cosa sta succedendo dietro di me. Mi alzo in piedi. Stacco la mia mano da quella della Signorina, che continua ad annaspare nell’aria in cerca della mia.

Il rumore cadenzato rimbomba sempre più forte, sempre più vicino, sempre più forte.

Faccio qualche passo verso la porta, e intanto sento confusamente che la voce della Signorina sta gridando da qualche punto che c’è alle mie spalle: «Dove vai? Vieni qui! Resta qui, qui con me, incernierato a me! Non andare là! Non andare là!».

Sono arrivato alla porta, la oltrepasso. Attraverso la camera da pranzo, scorgo, nella poca luce che viene dal lampadario nero che pende dal soffitto di legno a cassettoni, piccole cose che non avevo notato prima: i ritratti neri appesi alle pareti, i piatti di porcellana sulla cornice del camino, qualche avanzo ammuffito di cibo contro una finta porta, una merda fossilizzata di gatto, ma non per terra, sul tavolo, così larga e nera che si confonde quasi con il nero del legno, il pouf a ruote su cui mi coricavo a pancia in giù e mi spingevo con i piedi per correre o per fuggire più velocemente attraverso la casa, la testa puntata in avanti, un po’ sollevata, per riuscire a vedere mobili e pareti che venivano avanti verso di me e contro di me a velocità vertiginosa, e scansarli sterzando all’ultimo istante, con le braccia e le mani spenzolate in avanti che remavano sul pavimento per dare la rotta.

Il rimbombo dei passi sta diventando ancora più forte, più forte.

Mi fermo, con il corpo, gli occhi, la testa, impietrito, in queste particelle seminali di luce, di buio.

“È qualcuno che sta salendo dallo scalone... Ma che passi lenti, pesanti! Fanno risuonare i suoi larghi gradini di marmo, le volte... E com’è lungo questo scalone, che si continua a sentire il rimbombo sempre più forte dei passi, come se si avvicinassero sempre di più senza mai arrivare! Eppure non mi sembrava così lungo, così grande, mi sembrava più piccolo, più misero di come me lo ricordavo, me lo ricorderò...”

Non riesco più a muovere un passo per il terrore.

Il rimbombo dei passi è sempre più vicino, più vicino, più forte.

Piego le ginocchia, mi abbasso, per non farmi vedere.

Sono vicino al pouf a ruote, scorgo la sua fodera blu un po’ lisa, le frange sul fondo.

“Chissà chi l’avrà spostato qui dalla camera blu? Prima era sempre là, sempre nello stesso identico posto dietro la porta, contro la tappezzeria dello stesso colore e con gli stessi disegni... Chissà chi è stato, chi sarà? Qualcuno che sarà andato in giro lentamente o di corsa per la casa coricato sul suo piccolo cerchio imbottito, e poi l’avrà abbandonato qui, proprio qui, vicino a me, a dove sono adesso, sarò, proprio mentre sento il rimbombo spaventoso di questi passi che continuano ad avvicinarsi e a salire, che poi non sono solo passi, mi pare, perché si sente anche un rumore assordante di metallo, uno sferragliare, come se chi sta salendo calzasse scarpe o stivali dalle suole di ferro e con gli speroni.”

Mi abbasso ancora di più. Mi corico sopra il pouf, a pancia in giù, con gambe e braccia che spenzolano fuori dalla sua circonferenza imbottita.

Resto per un istante così, senza fiatare, mentre dallo scalone continua a salire quel rimbombo sempre più spaventoso di passi e quello sferragliare.

Comincio a spostarmi piano, pedalando coi piedi sul pavimento, con la testa puntata in avanti, coricato sul pouf che sprofonda un po’ sotto il mio piccolo peso.

Arrivo alla porta. Sto per attraversarla, per poi passare direttamente nell’anticamera, ma mi fermo.

Torno indietro, pedalando piano, perché le ruotine di ferro non facciano troppo rumore.

Faccio il giro più lungo, quello attraverso la mia camera, per non trovarmi esattamente di fronte alla persona che sta salendo, quando arriverà in cima allo scalone e poi attraverserà l’alta porta nera di legno che dà sull’anticamera. Perché non mi veda all’improvviso di fronte a sé, dalla parte opposta dell’anticamera, coricato su questo piccolo e basso bolide, con la testolina puntata in avanti e gli occhi sbarrati e gambe e braccia che si muovono attorno alla sua circonferenza affondata.

Attraverso la porta che dà sulla mia camera, passo davanti a poltrone e divano martoriati dalle unghie del gatto, alla radio spenta.

Si sente il cigolare delle ruotine che fanno gemere il pavimento di legno, ma appena appena, tanto questo piccolo suono è soverchiato dal rimbombo sempre più vicino di passi che stanno salendo lungo lo scalone.

Esco piano dalla mia camera, dall’altra parte.

Mi sporgo nell’anticamera.

Adesso sono a filo con la parete su cui si apre l’alta porta dello scalone.

Remo un po’, con le gambe, le braccia.

Sterzo con le mani, per uscire subito dall’anticamera e imboccare il corridoio.

Adesso sono sotto una delle finestre spalancate e scentrate del corridoio, che si aprono sulla voragine dello scalone.

Mi sollevo un po’, per guardare.

La luce è poca, ma riesco lo stesso a vedere un uomo alto che sta salendo lentamente lungo lo scalone trascinando dietro di sé un grande sacco, con una mano, e che indossa una divisa militare nuova fiammante, da cerimonia, da cui pende una lunga spada ricurva dal fodero di metallo e che indossa stivali con gli speroni.

“È lui!” mi dico, col cuore in gola.