Abbasso la testa, perché lui non la veda spuntare dalla finestra, girandosi all’improvviso nella vastità dello scalone.
Mi corico di nuovo sul pouf, a pancia in giù.
Rimango per qualche istante così, muto, atterrito, contro la sua circonferenza che cede.
“È mio padre!” mi dico ancora, senza fiatare. “Ha già imboccato la seconda rampa dello scalone, sta continuando a salire piano, molto piano, solleva esageratamente gli stivali a ogni passo per poter sentire e far sentire il suono del gradino di marmo che rimbomba sotto la volta. E porta al fianco quella lunga spada ricurva nel suo fodero di metallo che scoprivo certe volte aprendo di nascosto qualcuno dei suoi cassetti, che scoprirò, avvolta in un secondo fodero verde, di stoffa, vicino alla pistola, alle scatole dei proiettili... Ma perché fa tutto questo rumore? Saranno gli speroni che ruotano su se stessi a ogni passo, sarà la spada che sbatte di tanto in tanto contro la ringhiera di finto marmo, sarà quella cosa enorme, quel sacco nero che sta trascinando dietro di sé con una sola mano e che sale sferragliando e saltando sopra i gradini... Ma non ha solo la spada, ha anche la pistola che gli pende dal fianco, nel suo fodero di cuoio, mi è parso. Ma perché ha quella pistola? Con la divisa da cerimonia non la portava, portava solo la spada. La pistola la portava quando indossava l’altra divisa. O una o l’altra: o la pistola o la spada. E poi mi è parso che stringesse anche un’altra cosa con una mano, quella che non trascina il sacco, un fucile mitragliatore, addirittura...”
Sto tutto appiattito contro la circonferenza sprofondata del pouf. I rimbombi dei passi di mio padre si avvicinano sempre più mentre sta salendo lungo lo scalone armato fino ai denti e sta tracimando.
Ha già imboccato la seconda rampa. Tutta la casa rimbomba, tutto il mondo rimbomba.
Si sente il fragore che fa quel sacco a ogni salto di gradino, come se fosse pieno di biglie d’acciaio che si scontrano in uno spazio cieco.
“Sarà pieno di bocce!” mi passa per la mente, mentre il rumore di passi si avvicina sempre di più, ingigantisce, e anche quel clangore diventa sempre più forte, assordante. “Sarà tutto pieno di quelle bocce e boccini d’acciaio con i quali andava a giocare nel pomeriggio in quel dopolavoro dei ferrovieri che c’era vicino al cavalcavia.”
Ricomincio a muovermi piano, spingendomi con mani e piedi sul pavimento, la testa puntata in avanti, con i suoi occhi.
Torno verso l’anticamera, mi sporgo dalla porta del corridoio.
I passi sono sempre più vicini, deve essere ormai arrivato alla fine della seconda rampa.
Mi do una forte spinta con le mani e coi piedi, per non farmi sorprendere qui quando irromperà e tracimerà dentro lo spazio cavo dell’anticamera.
Invece un secondo dopo, mentre sono ancora lanciato verso la porta della camera da pranzo, per cercare di arrivare prima dall’altra parte, e di andare a nascondermi nell’ultima stanza della casa, nella camera blu, sento che il rimbombo dei suoi passi si è improvvisamente arrestato.
Tutta la casa è piombata in un enorme silenzio.
Anche quel clangore metallico di bocce d’acciaio non si sente più.
Mi arresto anch’io.
Si sente solo il martellare del mio cuore contro la circonferenza sprofondata del pouf.
Mi giro un po’, facendo ruotare il pouf con le mani e le braccia, tanto sono ormai allo scoperto.
Lui è là, immobile, nel vano dell’alta porta.
Si sta guardando attorno, nello spazio cavo dell’anticamera, con i suoi occhi di tracimato.
Un istante dopo solleva in alto il fucile mitragliatore, in silenzio, una volta, due volte, muovendo la bocca come se cantasse.
Io lo guardo, lo sto guardando, ma lui non mi vede, non mi intercetta, mi pare.
“Chissà perché non mi vede?” mi domando continuando a guardarlo dal pouf sprofondato, quasi a filo col pavimento, col cuore in gola, senza fiatare per non farmi sentire. “Forse perché sono in basso, molto in basso, sotto la linea d’orizzonte del suo sguardo e del mondo...”
Riprende in mano il sacco, che aveva abbandonato per un istante emergendo dallo scalone, e che si era accasciato e allargato con un leggero fragore, nel vano dell’alta porta.
Ricomincia a trascinarlo dietro di sé, verso la sua camera da letto, quella dove dormiva con mia madre, e dove dormivo anch’io quando ero molto piccolo, sarò, prima di trasferirmi nell’altra stanza, quella con le poltrone maciullate dalle unghie del gatto, la radio.
Scorgo solo il luccicare della spada che gli batte contro la gamba, e della sua catenella, e dei bottoni dorati della sua divisa di gala, in queste poche particelle seminali di luce.
Attraversa l’anticamera, entra nella sua stanza, trascinando il sacco.
Faccio ruotare il pouf, anche gambe e braccia, la testa. Mi dirigo verso la camera da pranzo, spingendo piano, perché non si senta il rumore delle ruotine nel silenzio in cui è piombata di nuovo la casa.
Attraverso la camera da pranzo, entro nella camera blu.
«È arrivato...» dico alla Signorina, molto piano, in un soffio.
«Lo so, l’ho sentito» mi risponde lei dal suo letto, in un soffio.
Esco di nuovo, attraverso la camera da pranzo, arrivo nell’anticamera, e poi fino alla porta aperta e scentrata della sua camera da letto.
Guardo dentro, tanto lui non mi vede!
È coricato di schiena sul letto matrimoniale, con le scarpe, in divisa. È immobile, ha gli occhi chiusi, ma non credo che dorma, restava anche allora per molto tempo così, resterà, con gli occhi chiusi in mezzo agli altri, quando mangiava e quando guidava, come se fosse da un’altra parte o sprofondato nel sonno.
Tiene ancora stretto con una mano il fucile mitragliatore. Il sacco è lì vicino, per terra.
Faccio ruotare il pouf. Mi allontano piano. Ma deve avere sentito il rumore delle ruotine sulle assi del pavimento, perché un secondo dopo si alza dal letto, come una molla.
Cammina verso la porta, con il mitra in mano. Guarda fuori, verso lo spazio cavo dell’anticamera, sporgendo per un istante la testa e poi rientrando di scatto.
Ma non mi vede, perché sono in basso, molto in basso, sotto la linea dell’orizzonte.
Esce dalla porta, si guarda attorno, senza vedermi.
Però un secondo dopo inclina la testa per guardarsi da vicino una scarpa, che gli si deve essere slacciata.
Si china per allacciarla e, con la testa in basso, quasi a filo col pavimento, all’improvviso, mi vede.
Punta il mitra, appoggiandoselo bene alla spalla.
Io corro via, pedalando forte.
Si sente il rumore delle ruotine del pouf che sbanda da tutte le parti per la velocità della corsa.
Un secondo dopo lui comincia a sparare, a raffiche brevi, di due o tre colpi per volta.
Adesso si sente solo il fragore dei colpi sparati da poca distanza, dall’alto, e dei proiettili che si conficcano nelle assi del pavimento e contro l’intonaco che si stacca dai muri vicino a me che sto correndo all’impazzata verso il corridoio, e delle porte che gemono attraversate da parte a parte dalle traiettorie dei colpi.
«Sono io, papà! Sono tuo figlio, sarò!» grido, cerco di gridare, fuggendo.
Ma non mi sente. Continua a sparare, a sparare, girandosi di scatto da una parte e dall’altra.
Si scorge questo bagliore buio rischiarato dal bagliore seminale degli spari che scaturiscono dalla canna del mitra.
Allora, all’improvviso, mi fermo.
Mi sollevo dal pouf. Mi alzo in piedi, per arrivare più in alto, fino alla linea d’orizzonte dei suoi occhi e del mondo.
«Sono io, papà, non mi vedi, non mi riconosci? Sono tuo figlio, sarò!» gli grido ancora, gli continuo a gridare, in piedi di fronte a lui, dall’altra parte di questa grande stanza e del mondo.
Si ferma per un istante, senza ancora abbassare il mitra.
Mi guarda, mi sta guardando.
«Che cosa fai qui?» mi domanda d’un tratto.
«Non lo so, sono nato, sono tracimato.»
Mi continua a guardare.
«E io, perché sono qui?» mi domanda ancora.
«Non lo so, sarai tracimato anche tu.»
Mi guarda ancora per un po’, sbalordito.
Vedo che intanto sta abbassando il mitra, ma lentamente, come se all’improvviso non avesse più la forza di sostenerlo.
Poi si gira, ritorna nella sua stanza.
Io riprendo a spostarmi per la casa, coricato sul pouf, torno nella camera blu, guardo per molto la Signorina che sta dormendo profondamente, gli occhi sigillati, la sua piccola testa ossuta circondata dalla nuvola dei capelli, le sue lunghe mani ondulate sulla ripiegatura del lenzuolo, con la mia testa puntata in avanti, che sporge un po’ dalla circonferenza del mondo.
Ritorno nella camera da pranzo, nell’anticamera.
Rallento di un po’ la mia corsa, perché mi pare di sentire un leggero rumore di passi, che poi non sembrano passi, sembra una specie di ticchettio che viene verso di me da qualcuna delle stanze che danno sull’anticamera oppure dal corridoio.
Mi arresto di colpo.
Un animale enorme con il collo e la testa piena di escrescenze e bargigli è sbucato dalla porta della mia stanza e sta venendo avanti battendo i suoi artigli sulle assi del pavimento.
«È il tacchino! È tracimato anche lui!» mi dico guardandolo con gli occhi sbarrati, dal basso, perché è molto più alto di me, che sono coricato sul pouf.
Mi passa vicino con il suo grande corpo ricoperto di piume, senza girarsi, e non so se mi vede mentre si sta dirigendo verso la camera da pranzo e la camera blu, con uno di quegli occhi rotondi che ha ai lati della piccola testa scotennata da cui pendono tutte quelle file e quelle gocce di carne.
«Sì, c’era sempre qualche animale che girava per la casa in attesa di essere strangolato. Il tacchino, il fagiano...»
Mi spingo forte, con le mani, coi piedi. Attraverso l’anticamera, sfrecciando, imbocco il corridoio, lo percorro fino in fondo, passando sotto le lunghe ombre delle pertiche di bambù distese contro il soffitto. Quando arrivo alla fine, mi alzo dal pouf, perché bisogna fare alcuni gradini per scendere giù in cucina, lo lascio in un gomito del corridoio, contro il muro. Mi dirigo verso la cucina, passo davanti alla porta del gabinetto aperta, fuori dai cardini. Guardo dentro. La vasca è piena di grossi pesci di risaia che girano tutt’intorno e boccheggiano a filo d’acqua.
«Ci sono anche i pesci...» mi dico senza fermarmi. «Saranno tracimati anche loro...»
Arrivo in cucina.
Mi fermo.
Mio padre è lì.
Adesso non è più nella sua camera, è qui in cucina.
È immobile, in piedi, sta sfogliando una rivista spalancata sopra la tavola, una di quelle che giravano per casa anche allora, che gireranno, piene di re e di regine e di principi e di principesse e di matrimoni principeschi e reali. Non indossa più la divisa da cerimonia, adesso è in mutande, una di quelle sue mutande bianche e larghe, con un po’ di gamba, che portava sempre girando per casa, anche se adesso è inverno, c’è freddo, si vede il fiato, si vedrà.
Ma forse non c’è più così freddo, mi pare, forse è già sceso ad accendere la caldaia, avrà già azionato il termostato, e la caldaia si sarà accesa con un rombo, e poi sarà risalito nella sua camera, si sarà tolto la spada, la divisa, l’avrà messa su una gruccia di legno, e poi nell’armadio, sarà rimasto in mutande, con le calze e le scarpe ai piedi. Avrà tastato gli elementi del calorifero, per sentire se si stavano già scaldando, prima di camminare verso la cucina, avrà tirato fuori il bottiglione del vino, il bicchiere, perché adesso sono lì, su uno degli spigoli della tavola, avrà cominciato a girarci intorno, versandosi un bicchiere di vino a ogni giro della tavola, avrà preso una rivista dal piano della credenza, avrà cominciato a sfogliarla...
Si volta improvvisamente.
«Sono appena tracimato dall’India» mi dice, come se mi vedesse adesso per la prima volta. «Sono tornato dalla prigionia e dal manicomio militare.»
Gira una pagina della rivista, ritorna indietro. Rovescia la testa, per bere in un unico sorso l’intero bicchiere di vino, continuando a fissare una pagina della rivista.
«Guarda che belle donne ci sono in India!» mi dice d’un tratto.
Mi sporgo a guardare la fotografia a tutta pagina sulla rivista, ma io sono piccolo, sono ancora piccolo, sarò, non so ancora niente delle donne, non capisco niente, a me sembra di vedere solo una cicciona con le occhiaie nere e un punto rosso in mezzo alla fronte, avvolta in un sari filettato in oro, sullo sfondo di una meravigliosa costruzione bianca che sembra emergere dalle acque.
Non dico niente. Anche mio padre non dice niente.
Riprende a girare attorno alla tavola, con le scarpe e i calzini ai piedi, in mutande. Si versa un altro bicchiere dal bottiglione. Lo beve in un sorso solo.
«Non c’è più niente» riprende a dire. «Non c’è più niente, non c’è più niente... Allora avevamo l’Impero. L’Impero!»
Si versa un altro bicchiere, ricomincia a camminare attorno alla tavola e intanto a parlare. Chiude gli occhi, li riapre di nuovo, ogni tanto, in queste fioche particelle seminali di luce che vengono dal piccolo lampadario che pende al centro della tavola, in alto.
«Il Sahara, la grande Sirte, la Cirenaica, le tribù berbere, il Fezzan, il sole sopra il deserto, il caldo, il sudore, la puzza dei piedi nelle camerate, la gloria... noi infagottati nelle nostre divise pesanti, con i nostri scarponi, gli inglesi con le loro divise leggere, le scarpe da deserto, i calzoni corti... le uova fatte friggere sulle torrette e sui parafanghi arroventati dal sole dei carri armati, la confusione delle battaglie, i bombardamenti, tutti quei ragazzi che tracimavano a ondate dentro la morte, veneti, terroni della Sicilia, della Calabria, della Puglia, della Campania, vicini di branda nelle camerate sotto le tende, con le loro lettere e il loro cacio tagliato con la roncola, appena conosciuti e già tracimati, il cappellano militare con la sua croce da cui pendeva il corpo nudo di quel tracimato...»
Si versa un altro bicchiere, lo butta giù in un sorso, con la testa gettata all’indietro, gli occhi chiusi.
«La battaglia di Tobruk, Cirenaica, tra le truppe inglesi e quelle dell’Asse, gli ospedali da campo pieni di insanguinati, i casini con quelle donne berbere a gambe aperte sotto il ventilatore, sudate, e tutti quei soldati che sparavano e che tracimavano dentro quei tirassegni pelosi e neri... io volontario per un’azione dietro le linee nemiche, nel deserto, di notte, croce di guerra, medaglia d’argento, due medaglie di bronzo... la cattura, lo smistamento, i trasferimenti, fiumane di uomini e di ragazzi a testa bassa, sconfitti, ammassati sui camion che correvano su strade cancellate dalla sabbia del deserto portata dal vento, attraverso le città dell’Egitto, sotto il sole, vertigini, fame, gli arabi che ci gridavano dall’alto dei ponti “fascisti!” e “Mussolini!”, mentre passavamo sotto pigiati come sardine sui camion, si tiravano su quei loro sottanoni e ci pisciavano addosso, il Mar Rosso, Aden, Gibuti, ammassati sopra le navi che partivano piene di tracimati, per l’India, mentre altri erano partiti per il Sudafrica, il Texas... Il viaggio attraverso i mari, gli oceani, tutta quell’acqua nera che si sollevava e poi sprofondava, dato per disperso, per tracimato dentro la morte, nessuno sapeva più che ero vivo, dov’ero, dove sarò, mio padre e mia madre, tua madre da cui avevo avuto una figlia prima di imbarcarmi per la Libia, neppure la Croce Rossa, le notti sveglio sopra la branda, invisibile, tracimato, con gli occhi spalancati nel buio, le latrine ingorgate, Mare Arabico, Oceano Indiano, l’arrivo in India, Bhopal, cinquanta gradi all’ombra, in piedi dentro buche profonde scavate nel terreno per abbassare la temperatura del corpo, piene di cimici e di parassiti che ci ricoprivano il corpo e che ci mangiavano vivi mentre stavamo sotto terra, gli appelli al sole che non finivano mai, il sole che ci cuoceva il cervello, i soldati che cadevano a terra svenuti, morti, i rubinetti che sputavano acqua mischiata a fango e denti di coccodrillo, Bangalore, l’isola di Ceylon... Ma adesso sono qui, sono tornato, sono tracimato. Sono tracimato per metterti al mondo!»
Rimango immobile, impietrito.
Si vede solo la nuvola del suo fiato nella cucina fredda gelata.
«Ma io sono già tracimato dentro la vita!»
«No, tu tracimerai adesso.»
«Perché?»
«Perché adesso è adesso.»
Mi guardo attorno, nella cucina sfuocata.
Il pavimento sta tremando un po’, anche i mobili, i muri, forse per le scosse sismiche provocate da sempre nuove immissioni di morti tracimati dentro la vita in questa città di confine tra vita e morte, forse per i lontani colpi e i rimbombi di questa Terza guerra mondiale tra vivi e morti che si stanno avvicinando sempre di più a questa casa.
Anche mio padre si guarda attorno, puntellandosi alla tavola con una mano, nella cucina che vibra e si sfuoca sempre di più.
«È la guerra!» sento che sta dicendo, che sta gridando. «La guerra!»
Butta giù un altro bicchiere di vino, si gira verso di me, con la sua grande testa sfuocata.
«I vivi stanno attaccando! Stanno cercando di snidare i morti tracimati dentro la vita, di annientarli prima che si organizzino in colonne, brigate, eserciti, corpi d’armata, assi... Stanno rastrellando le strade, stanno cominciando a colpire con le mitragliatrici e i cannoni le case dove si nascondono i primi tracimati... Io lo so, lo capisco, io ero un artigliere, conosco i sistemi di puntamento, ho già operato con i primi gruppi elettrogeni, sono capace di minare una caserma, una casa, se necessario, ho i cassetti pieni di armi, bombe a mano, esplosivi, caricatori per le pistole, per i mitra, diritti, ricurvi, a tamburo, anche la cantina è piena di armi, sotto il mucchio di carbone rimasto lì da quando c’era l’altra caldaia, sotto le cataste di legna, dietro le damigiane di vino, anche lo studiolo è pieno di armi, dietro le pile di formaggio ricoperto di cera nera, i sacchi di farina, di riso, i topi ci girano intorno per capire se si possono mangiare anche quelle come tutto il resto, cercano di succhiare e staccare l’unto e il grasso che le ricopre, provano a morsicarle, si sente il rumore dei loro dentini che si spezzano contro il metallo... Non lo senti?»
«No, non lo sento. Almeno non mi sembra, sono un bambino un po’ sordo...»
«Ho la tuta mimetica in uno dei cassetti, il passamontagna perché non vedano balenare il chiarore della mia faccia nel buio, quando mi sporgerò all’improvviso dalla finestra per rispondere alle loro raffiche e poi mi nasconderò di nuovo, e poi mi butterò fuori un’altra volta, per pochi istanti, e sparerò ancora una raffica lunga, come quelle che sparavo nel buio quando ero nel deserto, sarò, per cercare di coglierli mentre verranno avanti non coperti verso la casa, mi metterò gli scarponi da combattimento, aspetterò in piedi, nella casa buia, perché non vedano da fuori, dalla strada, il chiarore della luce accesa che filtra dai listelli delle ante chiuse, mi sposterò per le stanze buie, attraverserò le porte scardinate e scentrate, l’anticamera buia, pigliando a calci il tacchino se mi verrà tra i piedi nel buio, infilerò il corridoio, mi affaccerò a uno dei finestroni, per cercare di vedere dall’alto se qualcuno dei vivi starà già entrando dentro la casa, e starà salendo armato lungo lo scalone, e allora lo colpirò dall’alto, con le mie raffiche che faranno rimbombare tutta la casa e le volte, e lui non farà in tempo a vedermi annidato nel buio, non riuscirà a vedere la mia testa coperta dal passamontagna e la piccola parte annerita della mia faccia che spunta dal varco per gli occhi, si girerà verso uno dei finestroni che dà sullo strapiombo dello scalone, vedrà solo il bagliore delle raffiche sprigionato dalla canna del mitra nel buio...»
La cucina sta tremando e si sta sfuocando sempre di più, non si vedono bene le linee di intersezione delle pareti, anche quelle della tavola, si sente il rumore dei piatti che cominciano a tremare dentro la credenza, dei cerchi di ferro che vibrano sul piano della stufa di ghisa, perché sempre nuove scosse continuano a salire dalla faglia di fronteggiamento di vita e morte per questa universale tracimazione.
«Tutta la casa è piena di armi» sta dicendo ancora mio padre, in piedi sul pavimento che vibra. «Anche tutte le altre case che danno sul cortile sono piene di armi, trafugate dai magazzini del nostro Duce prima della sconfitta e del crollo e nascoste in queste case di nobili piene di stanze buie e dalle tappezzerie stracciate che pendono dai muri, quando monarchia e nobiltà nera erano alleate del fascismo, e anche dopo, nel dopoguerra, quando il partito monarchico si presentava alle elezioni in alleanza con il partito neofascista, si presenterà, e io qui ero solo un povero soldato venuto da una famiglia miserabile e folle che viveva in una casa di pietra nel profondo Veneto e un reduce da una guerra perduta e dalla prigionia che si era messo con una serva, mi aggiravo in mezzo a tutti questi nobili decaduti come uno della plebe, un povero idiota che era stato carne da cannone per la loro causa perduta. Però io non ero nudo, non ero solo un povero miserabile nudo e traumatizzato uscito da un manicomio militare dopo la guerra e dopo sei anni di campo di concentramento in India, sarò, io avevo una divisa, delle armi, io ero un soldato, un soldato!»
«Sì, è vero» sento che sta rispondendo la mia voce, in questa cucina che trema sempre di più per il sisma e la tracimazione di vita e morte. «Anche a me la marchesa Daria una volta ha detto, dirà: “Caro, tu non puoi giocare in cortile con mio nipote, tu non sei nobile”.»
Sento da vicino un rumore di vetro che si scontra, segno che mio padre si sta versando un altro bicchiere di vino dal bottiglione ormai quasi vuoto.
«Anche il cortile è tutto pieno di armi, che vengono da altri eserciti e da altre guerre perdute, perché qui un tempo c’era un arsenale napoleonico...»
«Sì, sì!» lo interrompo ancora. «Era tutto pieno di proiettili, sotto terra, in cortile. E io scavavo per cercarli, scavavo da solo, scaverò, ne scoprivo filoni interi, mi trovavo in mano quei proiettili chiusi da chissà quanto tempo nel loro bozzolo di terra nera, e allora staccavo la terra con le mie piccole dita sporche, li pulivo con la carta vetrata, li andavo a mettere in un recipiente di vetro sopra una mensola che c’era nella camera blu, che ci sarà, tutte munizioni interrate che venivano da un magazzino che si trovava qui durante la Prima guerra mondiale dei vivi e poi prima ancora, durante la campagna d’Italia di Napoleone, quando il tracimatore è entrato a Mantova, entrerà...»
«Sì, e io allora uscirò da questa casa buia, assediata, dopo avere combattuto da solo sporgendomi di scatto dalle finestre e ributtandomi dentro per cambiare i caricatori e continuare a sparare, correndo per le stanze buie attraversate dai lampi degli spari, facendo delle fulminee sortite, con le mie armi, per rompere l’assedio dei vivi, e quando avrò ripulito la strada che c’è di fronte e anche i tetti delle case dai soldati e dai cecchini vivi, correrò fuori tenendo il mio fucile mitragliatore puntato ad altezza d’uomo, e poi continuerò a correre, a correre, verso dove mi sembrerà di sentire un rumore di cannoni e di spari, e un vibrare di terra sotto l’urto dei mezzi militari e degli scarponi che avanzano, che avanzeranno, e del terremoto di vita e morte, e si sentirà venire da lontano il fragore dei loro canti e dei loro peana, e allora io correrò ancora in avanti, sempre più avanti, sparando, verso le truppe del tracimatore che staranno venendo dalla parte del lago, e poi entreranno in piazza Sordello e allora si sentirà solo il rumore assordante dei mezzi che sobbalzano su quei sassi neri che sprofondano al centro per le acque seminali che scorrono sotto questa città e che li risucchiano dal profondo, e io correrò ancora più avanti, più avanti, verso i nuovi eserciti dei tracimati, verso il tracimatore che mi verrà incontro alla testa delle sue truppe e delle sue plebi di tracimatori e di tracimati, con il suo grembo di donna, e allora io gli dirò e gli griderò: “Eccomi, sono qui, generale! Accoglimi nelle tue file e tra le tue plebi! Perché ho combattuto anch’io, sono stato vinto anch’io, sono reduce anch’io dalla più grande delle sconfitte e delle tracimazioni dei vivi nella vita che viene dopo e che viene prima. Sono anch’io un tracimato. Ho attraversato tutta la vita e tutta la morte per poter essere qui e per poterti incontrare, per chiederti di prendermi con te e di portarmi alla vittoria in quest’ultima guerra tra i morti e i vivi e tra i vivi e i morti che noi vinceremo, che anch’io vincerò!”.»
«Papà, io sono ancora piccolo, non sono ancora capace di dirti le cose che possono aiutarti, salvarti. Non riesco a dirti che capisco quello che stai provando, non ci sono riuscito, non ci riuscirò. Io sono ancora piccolo, solo, traumatizzato, non trovo le parole, non riesco a dirti una sola delle parole che ti potrebbero aiutare, salvare.»
La cucina trema, tutta la casa trema.
Mi guardo attorno, con la mia grossa testa tracimata che trema per la violenza del sisma di vita e morte.
Il piccolo lampadario oscilla. Il bottiglione si deve essere rovesciato sopra la tavola, il poco vino rimasto scola dal collo e si allarga sulla cerata, rosso scuro, violaceo, quasi nero.
«Che cosa sta succedendo?» provo a domandare con un filo di voce, in un soffio, perché sta venendo un assordante clangore da qualche punto della casa, lontano, molto lontano.
Mio padre si guarda attorno, con gli occhi annebbiati.
«Il sacco!» grida improvvisamente.
“Si deve essere aperto il sacco” mi dico. “Si sarà rovesciato, sarà caduto per la violenza delle scosse, sarà finito con la bocca aperta a filo col pavimento, e tutte quelle bocce d’acciaio saranno uscite, si saranno sparpagliate per terra, staranno rotolando attraverso la camera da letto per l’inclinazione dei pavimenti provocata dalle continue scosse del sisma di vita e morte, e poi attraverso le altre stanze, la casa... tutte quelle sfere staranno rotolando qua e là sui pavimenti che si inclinano da una parte e dall’altra, si staranno scontrando, le loro superfici d’acciaio brilleranno nella penombra muovendosi in massa con enorme fragore...”
«Ma cosa c’è dentro quel sacco? Ci sono le bocce?» gli domando, gli grido.
«No, ci sono i miei gameti! Sono tracimato qui portandomi dietro il sacco con i miei gameti.»
“Oh, sì, i suoi gameti...” mi passa per la mente, anche se sono piccolo e non dovrei neppure saperle queste cose “quelli che ha già eiaculato dentro la morte che viene prima e che viene dopo, eiaculerà... E forse là in mezzo c’è anche il gamete che ha dato morte e che ha dato vita anche a me, che darà...”
Un secondo dopo lo vedo lanciarsi fuori dalla cucina, sento i suoi passi che corrono lungo il corridoio, sbandando.