6

Mia madre

Mi metto a correre anch’io. Esco di corsa dalla cucina, supero correndo i pochi gradini che ci sono prima del corridoio, continuo a correre, a correre, nella casa che trema, in questo enorme fragore.

Arrivo in fondo al corridoio, entro di corsa nell’anticamera, attraverso la porta scentrata.

Il pavimento luccica per la massa di sfere che stanno scaturendo dalla porta della camera da letto di mio padre e si stanno allargano come un’onda nell’anticamera, con le loro superfici convesse su cui brillano nella rotazione i punti fissi dei riflessi di luce. Il tacchino ci sta scivolando sopra, con i suoi artigli, mentre cerca di fuggire nelle altre stanze.

Sento gridare forte, da qualche parte.

Corro verso la camera da pranzo, saltando con i miei piccoli piedi nei varchi che ci sono in questo mare di biglie.

Entro nella camera da pranzo. Sento che la voce continua a gridare, a gridare.

Viene dalla camera blu.

“Sarà la Signorina!” mi dico, continuando a correre da quella parte.

Entro nella camera blu. Faccio ancora qualche passo di corsa, prima di riuscire a fermarmi.

La Signorina è tutta sollevata sul letto, quasi seduta, ha i capelli scarmigliati, le mani contratte.

«La casa trema!» continua a gridare. «Perché trema così?»

Mi avvicino al suo letto.

«È il terremoto!» le dico. «Sono le scosse! È la tracimazione! È la guerra!»

Anche il suo corpo trema nella camicia da notte. Ha gli occhi spalancati, bianchi.

«E cos’è questo fragore?» continua a gridare. «Io sono cieca, non vedo niente, nessuno mi dice niente!»

«Sono i gameti di mio padre!» le rispondo, le grido. «Sono usciti dal sacco. Stanno rotolando sui pavimenti che si inclinano e tremano per le scosse, si stanno sparpagliando attraverso la casa.»

Corro fuori, attraverso la camera da pranzo. Mi affaccio alla porta che dà sull’anticamera.

Il pavimento è un mare di biglie che rotolano per l’inclinazione del pavimento. Non sono tutte uguali, ce ne sono di più piccole, di più grandi, e ruotano con velocità diverse e si scontrano con enorme fragore muovendosi come un’onda d’acciaio attraverso la casa.

Cerco di attraversare l’anticamera, saltando per mettere i piedi qua e là nei piccoli varchi che ci sono nel mare di biglie, le sento sbattere contro le mie scarpe e contro le ossa delle caviglie.

Arrivo dall’altra parte, oltrepasso la porta del corridoio, corro fino in fondo, tiro fuori il pouf dal gomito del muro, mi ci corico sopra a pancia in giù, comincio a risalire all’incontrario il corridoio, spingendomi forte con mani e piedi, la testa puntata in avanti, oltre l’imbottitura sprofondata del mondo.

Mi affaccio alla porta che dà sull’anticamera. Mi do ancora una spinta forte in avanti. Fendo un po’ sollevato il fiume di biglie che mi rotolano contro e che si aprono e si dividono attorno alla circonferenza del pouf, le guardo da vicino, da un po’ più in alto, con la testa appena al di sopra delle loro curvature che brillano nella poca luce proveniente da qualche parte, dall’alto.

«Voi chi siete?» provo a domandare mentre mi rotolano ai lati, continuando a remare con mani e piedi in questa distesa di biglie. «Che cosa siete, che sembrate quelle biglie d’acciaio che c’erano nelle viscere dei motori delle macchine, nei cuscinetti a sfere, quando ero nella vita che viene dopo e non in quella che viene prima?»

«Nelle viscere dei motori e in quelle dei corpi e in quelle del mondo» mi rispondono tutte le loro vocine che cercano di superarsi l’un l’altra in questo enorme clangore. «Noi siamo i gameti che tuo padre ha trascinato fin qui dall’India, dentro un sacco, nella vita che viene dopo e che viene prima, quelli dentro i quali anche tu hai nuotato quando eri in quel fiume seminale e in quelle cascate che c’erano nelle città sotterranee dei morti e che andavano a inabissarsi in quella sterminata città seminale, e sentivi quelle cose dure che ti venivano contro e che ti sembravano sassi, quelli da cui anche tu nascerai.»

«Ma non sono già nato?»

Non sento la loro risposta, non la capisco, perché gridano tutti insieme e le loro vocine si accavallano sempre più in questo enorme clangore di biglie piccole e grandi che rotolano a velocità diverse sui pavimenti inclinati fatti vibrare dal sisma di vita e morte e che si scontrano dilagando verso altre stanze della casa dalle porte aperte, spalancate, scentrate, e poi anche verso la porta a vetri smerigliati del corridoio e quella alta e nera dello scalone. Eppure mi sembra di sentire lo stesso un rumore percussivo proveniente da corpi umani in attrito forte nel buio e non capisco se sono sommovimenti liquidi inarrestabili oppure gemiti oppure alte grida, spaventose, terribili, che sembrano scaturire da un corpo fatto brillare a sangue nel buio.

«Mi staranno concependo!» mi dico, fermo in questo mare di biglie seminali che scintillano nell’infinito buio.

Poi sento, mi sembra di sentire, in mezzo a questo fragore di vocine che si allontanano e si affievoliscono rotolando verso altre zone inclinate della casa e del mondo, un rumore improvviso di passi, da qualche parte, che si avvicina.

Qualcuno sta camminando a piedi nudi sulle assi del pavimento, mi pare.

Sollevo la testa, fuori dalla circonferenza del mondo, per cercare di vedere nel buio.

Mia madre sta uscendo dalla porta della camera da letto che dà sull’anticamera. È a piedi nudi, tumefatta, si tiene i due lembi della vestaglia stretti al petto con una mano.

«È tracimata anche lei!» mi dico, ancora coricato sul pouf, immobile, col cuore in gola.

Ha già oltrepassato la porta, sta venendo avanti, cerca di mettere i piedi nudi nei varchi sempre più larghi tra le biglie che si stanno spostando verso altre zone della casa e del mondo, e qualcuna sta già rotolando dentro la mia camera, e poi in quella dove ci sono il corno da caccia e la spada, mi pare, nel corridoio, lungo lo scalone, perché si sentono i loro colpi mentre rimbalzano sui suoi larghi gradini di marmo e fanno rimbombare la volta, ed è tutta nera, tumefatta, i suoi capelli sono pieni di sangue, sembrano una crosta, ha dei cerchi lividi attorno al collo, la sua faccia è gonfia e viola, piena di sangue, vedo sempre meglio, adesso che viene ancora più avanti verso di me, le sue labbra sono come sfracellate, anche il mento, anche le dita delle mani che cercano di tenere stretti i due lembi della vestaglia da cui scende una scia di sangue che le scola sulle gambe e sui piedi nudi.

«Mamma!» le dico, con la mia testa e la mia bocca qui in basso, gridando verso di lei con un filo di voce. «Cosa ti è successo? Chi è stato? Chi ti ha ridotta così?»

«È stato tuo padre» mi dice, continuando a venire avanti verso di me.

Vedo, attraverso il varco della porta fuori dai cardini, che anche mio padre è in piedi, si è alzato anche lui dal letto, se erano a letto, che è già di fronte al varco della finestra aperta, in tuta mimetica, col passamontagna, col mitra in una mano, la pistola nell’altra.

«Ma perché?» le domando, col cuore in gola.

«Perché è pazzo!» mi dice continuando a camminare a piedi nudi in mezzo alle ultime biglie. «Ma sono cose nostre. Tu sei troppo piccolo, non puoi sapere, non puoi capire.»

Cerco di alzarmi, aiutandomi anche con le braccia e le gambe, mi sollevo dal pouf.

Adesso sono in piedi di fronte a lei, che si ferma.

«Mamma!» provo a dire. «Bisogna medicare tutte quelle ferite.Se no ti dissangui, muori, muori ancora, anche se sei già morta e se sei già tracimata dalla morte che viene prima e che viene dopo, muori prima ancora di mettermi al mondo adesso, nella vita che viene prima e che viene dopo, bisogna controllare che non ci siano delle ossa rotte. Vieni con me, cercherò di medicarti io, anche se sono piccolo, io lo so dove tenevi l’alcol nel mobile del gabinetto, il cotone, le garze, dove lo terrai, io ti curerò, io ti fascerò...»

Ma lei non mi sente, non sembra sentirmi. Continua ad andare avanti, a piedi nudi, in vestaglia, verso la porta del corridoio.

«Dove vai?» le domando, le grido.

«Devo andare a strangolare il tacchino!» mi risponde, senza girarsi, e io vedo da dietro la crosta dei suoi capelli tutti pieni di sangue, sulla nuca.

«Ma che cosa vuoi strangolare, se sei appena stata strangolata tu!» sento che la mia voce le sta gridando da dietro, perché lei è già lontana, mi pare, sta dirigendosi verso la porta del corridoio.

«Devo strangolare il tacchino!» ripete, come se non mi avesse sentito. «Devo tirare fuori tutti i pesci dalla vasca, sbatterli contro il pavimento fino a che rimarranno stecchiti, e ci saranno per terra tutti quei pesci morti che non si muovono più, e se qualcuno si muoverà ancora mi abbasserò un’altra volta e lo prenderò con due mani e lo sbatterò ancora sul pavimento, una volta, due volte, dall’alto, e alla fine non si muoverà più neanche quello, e un filo di sangue gli uscirà dalla bocca, correrà sulle mattonelle...»

«Ma perché?»

«Perché devo preparare da mangiare.»

«Ma adesso è notte, non c’è nessuno, ci siamo solo noi, tracimati!»

«Sì, ma poi tracimeranno anche gli altri! Saremo in tanti, dovrò apparecchiare nella camera da pranzo, attorno alla tavola grande, tirare fuori le posate d’argento, con lo stemma, la tovaglia lunga, i tovaglioli, i bicchieri di cristallo...»

«Ma non verrà nessuno! Ci saremo solo noi tre!»

«No, verranno, verranno! Verrà anche lo Ziò, gli taglierò la corona dei capelli con la macchinetta, porteremo a tavola anche la Signorina, seduta sulla sua comoda a ruote, in vestaglia, mentre tuo padre continuerà a sparare dalla finestra per tenere lontani dalla casa gli assalitori e i cecchini vivi, e intanto noi mangeremo nella camera da pranzo con il camino, gli stemmi, e poi anche tua sorella Turchina in abito da sposa, il suo sposo, verranno anche tutti gli altri nobili, usciranno dalle loro case che danno sul cortile, con i loro vestiti da cerimonia, le decorazioni, i copricapi di gala, saliranno lungo lo scalone...»

«Ma no, non verrà nessuno! Io ci sono stato nelle altre case, sono tutte fredde, deserte, non c’è nessuno, i nobili non sono tracimati dentro la vita, non tracimeranno.»

Mi guarda per qualche istante, senza vedermi.

«Vieni!» mi dice d’un tratto.

Mi prende la mano, ricomincia a camminare a piedi nudi in mezzo alle ultime biglie, quelle più grandi che hanno smesso di muoversi perché adesso le scosse sono un po’ rallentate e i pavimenti non sono abbastanza inclinati per consentire al loro peso di rotolare.

Mi sta trascinando verso la camera da pranzo, mi pare, continuando a stringere la mia piccola mano con la sua grande mano indurita dal sangue secco e con le ossicine sfracellate dalle percosse e dai calci. Cammino dietro di lei, che mi tiene incernierato con la sua mano e che mi trascina, vedo da dietro i suoi talloni e le sue caviglie insanguinate e spellate che spuntano dalla vestaglia.

Adesso siamo in camera da pranzo. Si sta dirigendo verso la cassettiera grande dove ci sono le pile delle tovaglie piegate. Mi lascia la mano. Apre uno dei cassetti, quello in fondo, fruga con le dita coperte di sangue secco e dalle unghie spezzate sotto l’ultima delle tovaglie, la solleva un po’, tira fuori da là sotto un quaderno senza copertina e un plico di fogli spiegazzati e un po’ lacerati, con l’altra mano.

«Guarda! Guarda!» mi dice, fissandomi con gli occhi spiritati e sbarrati in mezzo alle tumefazioni del volto, senza vedermi.

Muove febbrilmente i fogli, le pagine del quaderno. Riesco a riconoscere, da qui in basso, da dove sono, la sua calligrafia da quasi analfabeta, dilatata, espansa, sembra allargata col pestacarne.

Comincia a leggermi qualche frase qua e là.

«Senti, senti!» mi dice con esaltazione, guardando verso un punto diverso da quello dove io mi trovo.

Sono piccolo, ma capisco lo stesso, confusamente, che sono cose scritte da lei in una specie di delirio amoroso, non so a chi, non so quando, non so se prima, non so se dopo.

“È folle anche lei!” mi dico mentre continua a leggere stentatamente, quasi gridando, e io le sono vicino, col cuore in gola.

«Ma quando le hai scritte, queste cose?» provo a dire. «Da viva o da morta?»

Non mi risponde. Butta da parte il quaderno, comincia a muovere gli altri fogli, quasi a stracciarli, nella furia di averne di fronte agli occhi più di uno per volta, piegata in due per vedere cosa c’è scritto in questa poca luce seminale che viene giù dal soffitto.

«Senti! Senti!» mi dice ancora, mi grida.

Ma io non sento niente, perché adesso non dice niente, perché non mi sta leggendo niente, continua a sfogliare e quasi a stracciare per tirarli fuori dalle buste già un po’ lacerate quei fogli sparsi ricoperti di inchiostro sbiadito in più punti e quasi cancellato, non so quando, non so da che cosa, dall’umidità di questa casa tracimata e disabitata, dalle lacrime sgorgate dai suoi occhi mentre le leggeva e le rileggeva, chissà quando, nella vita o nella morte che viene prima e che viene dopo, e intanto si cominciano a sentire dei colpi provenienti dall’altra stanza, degli spari isolati e secchi ma anche delle brevi raffiche, segno che mio padre sta sparando nel buio attraverso i listelli delle ante o sporgendosi arditamente dalla finestra aperta, contro qualcuno dei vivi che starà venendo dalla strada o che starà sparando dai tetti.

«Senti quante me ne ha scritte, me ne scriverà!» mi dice ancora, mi continua a dire, ma senza leggermi niente di quello che c’è scritto sui fogli delle lettere, con la penna dall’inchiostro che si è tutto sbavato, con la matita copiativa, mi pare di vedere, da molto in basso, da dove sono, perché non sa quasi leggere, perché non riesce a farlo per l’emozione.

«Ma quando te le ha scritte? Da dove? Da prima o da dopo?» provo a domandare ancora, anche se mi sembra che non mi veda, che non mi senta.

«Non lo so, non lo so» mi risponde continuando a sfogliare e anche a stringersi al petto i fogli tutti accartocciati e stracciati. «Lui era vivo e io ero morta, o lui era morto e io ero viva, lui era già tracimato o ero io che ero già tracimata, che tracimerò, ci scrivevamo di nascosto, ci incontravamo di nascosto, mentre tuo padre era tracimato nel deserto, e poi in India, e non si sapeva se era vivo o morto, se era già tracimato dentro la morte che viene prima o in quella che viene dopo, anche se lui era vivo e io ero morta, oppure lui era morto e io ero viva, e non sapevo da dove mi arrivavano queste lettere che mi scriveva, che mi scriverà, se dal continente dei morti o da quello dei vivi, non sapevo dove lo incontravo, di nascosto, di notte, in questa città di confine tra morte e vita e tra vita e morte che non era stata ancora indovinata e inventata e fondata, se lo accarezzavo con mani di tracimata o se era lui ad accarezzarmi con mani di tracimato, se lo baciavo con la mia bocca di tracimata o se era lui a baciarmi su tutto il corpo con la sua bocca di tracimato...»

«Ma da quando sono qui queste lettere? Sono arrivate prima o sono arrivate dopo? O sono arrivate adesso, se adesso è adesso? Chi le ha portate?»

«La postina! Le ha portate la postina, le porterà.»

«Perché? C’è anche una postina?»

I fogli sono molto bianchi, più bianchi di come sono in genere i fogli bianchi, c’è come un velo bianco sopra i fogli bianchi, mi pare. Quando li strappa fuori dalle buste o se li stringe accartocciati sul petto viene giù come una polvere bianca.

«Come sono bianchi...» le dico. «Che cos’è quella polvere bianca?»

«È farina.»

La guardo senza fiatare.

«Ma perché quelle buste e quei fogli sono tutti pieni di farina?»

Anche lei mi guarda per un istante, con gli occhi accesi che brillano nelle tumefazioni, ma non lo so se riesce a vedermi.

«Perché faceva il fornaio» mi dice. «Farà.»

Nessuno dice più niente, per un po’. Non vedo più niente, vedo solo l’alone del suo volto pieno di tumefazioni e di sangue, delle sue mani che stringono contro la vestaglia un pugno di lettere che sfarinano sul pavimento.

«Vieni, mamma!» le dico io, questa volta. «Vieni. Andiamo a medicare tutte queste ferite, queste piaghe...»

Le allungo una mano, dal basso. Me la prende. Cominciamo a camminare una dietro l’altro, io davanti e lei dietro, in silenzio, verso la porta dell’anticamera, e poi attraverso l’anticamera, vicino alle grandi biglie d’acciaio immobili sul pavimento, e poi lungo il corridoio dove dobbiamo farci largo in mezzo a molte altre biglie più piccole che sono rotolate fin lì per l’inclinazione della casa e del mondo, e poi giù per i pochi gradini di legno che rimbombano sotto i nostri passi, fino al gabinetto dalla porta spalancata e scentrata.

«Devo ammazzare i pesci!» dice scorgendo all’improvviso le loro grandi forme nere ruotare tutt’intorno dentro la vasca.

«Sta’ tranquilla, mamma, li ammazzerai dopo» le dico. «Prima bisogna medicare queste ferite, lavare il sangue, vedere in che stato sono le ossa della testa, le mani, le braccia... Abbassa il coperchio del water, siediti sopra. Io intanto cerco l’alcol nel mobiletto, il cotone, le bende...»

Vedo che ha già abbassato l’asse del gabinetto, che ci si sta sedendo sopra, senza parlare, obbediente. Io sto frugando nel mobiletto, sto tirando fuori l’acqua ossigenata, i cerotti, l’alcol, le bende, i tubetti di pomata per i lividi, le tumefazioni.

Lei sta seduta sul coperchio del water, con gli occhi chiusi, le mani in grembo.

«Scusa, mamma» le dico, «adesso ti farò un po’ di male, ma non è colpa mia, è il disinfettante, bisogna usarlo perché non si formino delle infezioni, e poi bisognerà mettere i cerotti, le bende...»

Mi chino a guardarla da vicino, dall’alto, le guardo il volto, i capelli, ma è tutto pieno di gonfiori neri, di sangue, fa paura guardarla da così vicino, le labbra sono tutte gonfie, i denti sono rossi di sangue, gli zigomi sono viola, sembra che sprofondino a metterci sopra il dito, come se le ossa che ci sono sotto la pelle fossero maciullate, le orbite sono così cresciute che non si vedono quasi gli occhi, anche i padiglioni delle orecchie sono insanguinati e allargati, sembrano finiti sotto una pressa, un sopracciglio è spaccato e una scolatura di sangue le copre quasi metà del volto, anche il naso sanguina, l’osso deve essere stato sfondato, si muove da una parte e dall’altra, a toccarlo appena un po’ con le dita, lei grida.

Comincio a rimuovere il sangue secco dalla sua faccia gonfia come un pallone, con un batuffolo di bambagia inumidito dall’acqua, provo a staccare le croste di sangue coagulato e annerito, tra i capelli, sul volto, muovendo piano piano le dita per non farle troppo male, ma lei grida, grida, griderà, quando le passo il batuffolo sul naso nero, sul mento, e ancora di più quando la disinfetto, si sente la sua voce gridare più forte, sotto le volte, quando le tasto le ossa per sentire se sono rotte, e lei si lamenta, grida, grida ancora più forte, si sentono solo le sue grida e gli spari lontani provenienti dalla camera da letto, dove mio padre sta tenendo a bada i primi assalti dei vivi tracimati prima contro quelli tracimati dopo.

«Dammi il pettine!» mi sta dicendo mia madre.

Lo cerco, con l’altra mano, girandomi verso la mensola appesa sotto lo specchio del lavandino. Ce n’è uno coi denti larghi, così larghi che sembra quasi un rastrello.

Lo afferra, con la mano dalle dita tutte schiacciate, comincia a pettinarsi, ma i capelli sono ancora pieni di croste, i denti grossi e radi del pettine le stanno staccando, saltano via a ogni colpo di pettine, la sua testa sanguina ancora di più, dai suoi crateri il sangue esce più forte, mi schizza sulle mani, sul volto, anche il pettine è tutto rosso di sangue.

«Mamma, smettila di pettinarti! Così si riaprono le ferite! Non si riesce più a fermare il sangue!» le dico da molto vicino, le grido, da sopra la sua testa tutta rossa di sangue, cercando di rimuoverle con delicatezza le croste dalle labbra, dal volto. «Lascia che ti lavi via il sangue, che ti medichi le ferite. Io sono piccolo ma me ne intendo di queste cose, sono stato colpito anch’io, sono stato massacrato anch’io, mi sono dovuto medicare dove nessuno mi vedeva, di nascosto, al buio, da solo, anche se sono piccolo, sarò.»

La sua testa è rotta, anche i denti sono rotti, si muovono, quando le passo il batuffolo sopra le labbra per disinfettarla e lei geme ancora più forte, grida. Anche le dita di una mano sono rotte, anche un braccio è rotto, mi pare, perché penzola un po’ da una parte, non lo muove bene.

«Devo ammazzare i pesci. Devo andare a strangolare il tacchino» sento che sta ripetendo tra sé, mentre continuo a lavarle la faccia, il collo, le mani, e a disinfettarla, a spalmarle la pomata sui lividi, sui gonfiori.

«Ma come fai ad ammazzare i pesci, a strangolare il tacchino?» le dico con dolcezza, con la testa vicino alle sue labbra scoppiate, ai suoi occhi pesti. «Hai le ossa rotte. Devi aspettare che le ferite si rimarginino, che le ossa si saldino.»

Le applico dei tamponi di garza sulle ferite, ci metto sopra dei grandi cerotti per tenerli fermi, le bendo la testa e parte del volto, le braccia, le mani, facendo girare il rotolo della garza attorno al suo corpo ferito, mentre lei adesso è ferma, immobile, seduta sul coperchio del water, non geme più, non urla più, continua a ripetere sottovoce qualcosa che non capisco.

C’è un enorme silenzio, si sente solo quel suo incomprensibile bisbigliare, il rumore dell’acqua spostata dai pesci che ruotano dentro la vasca, qualche colpo e qualche raffica breve sparata da mio padre, dalla sua stanza, ogni tanto, a cui risponde qualche altro sparo isolato, lontano.

Siamo immobili, uno vicino all’altra, lei tutta bendata, io con il rotolo in una mano, la forbice con cui ho tagliato la garza nell’altra.

Un secondo dopo mi sembra di sentire qualcosa, un rumorino.

Giro istintivamente la testa.

“Che rumorino sarà?” mi domando. “Da dove verrà?”

Non si capisce. Sembra un rumorino lontano, eppure sembra anche venire da qui, da vicino, da molto vicino... “Quando l’ho già sentito? Quando lo sentirò?”

Rimetto la garza nel mobiletto, la forbice sotto lo specchio. Faccio qualche passo verso la porta.

Adesso il rumorino non si sente più, non si sentirà.

“Che rumorino sarà stato?” mi dico. “Sembrava un campanellino...”

Esco dal gabinetto, mi metto in ascolto.

Più niente.

Però, qualche istante dopo, si sente un’altra volta quel rumorino, una volta, due volte.

“È qualcuno che sta suonando un campanellino... Però da quando, da dove? Da dopo o da prima? Non mi sembra che venga da dopo perché l’ho già sentito, non mi sembra che venga da prima perché lo sto sentendo adesso.”

Risalgo i pochi gradini di legno, faccio qualche passo nel corridoio, spostando con i piedi le biglie che sono rotolate fin qui e poi si sono fermate.

“Forse saranno queste biglie che si sono mosse un po’ per una nuova scossa del sisma di vita e morte e che si saranno scontrate emettendo quel piccolo suono. Eppure mi sembrava un altro tipo di suono... Ma non si capiva neanche da dove veniva, se dalla parte dell’anticamera oppure dalla cucina, oppure dallo studiolo che c’è sopra la cucina, oppure dalla terrazza con la volta tutta piena di segmenti di rampicanti neri carbonizzati ancora avvitati attorno ai fili di ferro arrugginiti, oppure dai tetti, o da più in basso, dalla parte del cortile buio e pelato che c’è più in fondo...”

Muovo ancora qualche passo in avanti, ma non si sente niente.

Mi fermo di colpo.

Qualcuno ha ripreso a suonare il campanellino, da qualche parte, più a lungo, più forte.

“Viene dalla scaletta della cucina!” capisco improvvisamente. “Come quando santa Lucia veniva di notte a portare i doni, in inverno, entrava nel cortile in groppa all’asinello, e poi saliva a piedi lungo la scaletta che arrivava fino alla porta della cucina, senza fare rumore, salirà, la piccola santa con gli occhi su un piatto, e intanto suonava con le sue piccole mani infreddolite quel campanellino che rimbombava nel cunicolo della scaletta, sotto la sua piccola volta, e il suo rumore sembrava venire da lontano, da un altro mondo... Sarà tracimata anche lei. Mi starà venendo a portare i doni.”

Corro di nuovo in cucina, l’attraverso, vado verso la porta, mi affaccio alla scaletta.

Sì, il rumore del campanellino viene da qui, sta salendo proprio lungo la scaletta, nel buio, e io non vedo chi lo sta suonando, non si riesce a vedere niente, non si riesce a vedere la sua mano, la sua manina che lo sta sbattendo forte facendo risuonare la piccola volta, neppure i suoi due occhi che mi guardano da sopra il piatto che tiene con l’altra mano, nel buio.

«Chi è? Chi è?» provo a domandare, a gridare.

«Sono la postina!» mi risponde una voce, una vocina, dal buio.