Adesso riesco a sentirli, i suoi passi che salgono lungo la scaletta. Ha già superato quella porticina di legno dal fermaglio di filo di ferro strappato, sta continuando a salire, a salire, verso di me, affiorando a poco a poco dal buio.
Scendo di qualche gradino, di corsa, le vado incontro.
La guardo.
È molto giovane, è molto bella, però non ha gli occhi.
«Ma tu sei santa Lucia!»
Mi sorride, mi pare, in queste fioche particelle seminali di luce che scendono dalla lampadina nuda che c’è contro la piccola volta.
Siamo ormai vicini, molto vicini.
Si ferma, con un piede sopra un gradino, l’altro sull’altro.
Mi fermo anch’io.
Ha una leggera veste bianca lunga fino alle caviglie, da cui spuntano i piedini, nudi nonostante ci sia freddo, sia inverno, tiene sollevato un piatto con una mano, e dentro, uno vicino all’altro, ci sono i suoi occhi.
«Sei santa Lucia!» provo a dirle ancora, a bisbigliare, in questo infinito buio che fa la luce dei vivi. «Sei tornata! Sei tracimata!»
Anche lei mi guarda, con dolcezza, ma non dai varchi ciechi che ci sono nel suo bel volto, mi sta guardando dal piatto.
«Io non ti avevo mai vista prima, nella vita che viene dopo e che viene prima» provo ancora a dire, nel buio. «Sentivo solo il suono del campanellino che continuavi a sbattere mentre salivi lungo le scale, salirai... Stavo immobile in anticamera, seduto sulla cassapanca nera, col cuore in gola, senza fiatare per paura che tu sentissi il suono del mio respiro mentre eri già in cucina e stavi mettendo i doni sulla tavola, e anche quelle caramelline tutte colorate e senza cartina, perché non ti spaventassi e non scappassi via senza occhi nella notte... Io ti sto vedendo per la prima volta adesso, nella vita che viene prima e che viene dopo. Ma chi ti ha ridotta così?»
«Sono stata martirizzata» mi dice, con dolcezza.
La guardo, in questa luce seminale buia: è vero, ha una macchia rossa sulla veste, all’altezza del petto.
«Sono stata martirizzata sotto l’imperatore Diocleziano, sarò» mi continua a dire guardandomi con dolcezza, dal piatto, «sono stata pugnalata, sono stata messa al rogo, sono stata condannata a vivere in un casino di soldati, sono stata profanata e violata da molti corpi che mi entravano dentro da tutte le parti con quelle bandiere muscolari e quelle sbarre di luce sfondate a calci dentro il mio corpo e che risplendevano come costellazioni viste in piena notte nel cielo buio del mondo, io che mi ero votata alla verginità. Mi sono strappata gli occhi per non vedere...»
«Ma allora, se sei santa Lucia, perché prima hai detto che eri la postina?»
«Perché lo sono» mi risponde con dolcezza, dal buio. «Perché i miei doni sono adesso le lettere che porto ai tracimati, di notte, per non farmi vedere dai vivi che sono prima e che stanno dando la caccia a quelli che sono dopo.»
La guardo, la guardo, fermo anch’io in mezzo alla scaletta, con un piede sopra un gradino, l’altro sull’altro, mentre anche lei mi sta guardando, con dolcezza, dal piatto.
«Mi muovo al buio per non farmi scoprire...» sta continuando a dirmi, da più vicino, con la sua bella bocca che si muove nel suo volto senza occhi, nel buio «ho fasciato gli zoccoli del mio asinello per non farmi sentire quando mi sposto da una casa all’altra con la mia cesta piena di lettere, cerco al buio le lettere indirizzate ai tracimati della casa dove sono arrivata, con i miei occhi che guardano dal piatto, nel buio, le prendo con una mano, la stessa che tiene stretto il campanellino, con l’altra tengo sollevato il piatto, per vederci mentre attraverso di notte le stradine buie, i cortili, a piedi nudi per non farmi sentire, e vengono da lontano i rumori degli spari, dei colpi di cannone, delle bombe che cadono giù dal cielo, persino, certe volte, salgo lungo le scalette buie suonando il mio campanellino, prima piano, poi più forte, sempre più forte, perché se dentro le case ci è già tracimato qualcuno magari mi riesce a sentire, da lontano, dal buio, e allora comincia a correre da una stanza all’altra per capire da dove viene quel piccolo suono che gli sembra di avere già sentito, che sentirà, si affaccia alle porte delle case, alle porticine, alle piccole scale, e allora mi può vedere salire al buio dal basso, con la mia piccola veste bianca e il fiore rosso della mia pugnalata, con gli occhi sul piatto...»
«Ma tu stai tremando!» mi accorgo, perché adesso vedo che il suo corpo trema forte sotto la veste, e non so se è per le scosse che ogni tanto riprendono a salire dal fondo, per questo sisma e tracimazione di vita e morte e per questa guerra mondiale tra i vivi e i morti, oppure per il freddo. «C’è freddo, c’è molto freddo. Tu hai i piedini nudi, stai tremando. Vieni in casa, così ti riscaldi!»
«Non posso» mi risponde con dolcezza, dal buio. «Devo consegnare le altre lettere, devo continuare il mio giro, magari c’è qualcun altro tracimato che aspetta, in un’altra casa, nel buio...»
«Ma un momento solo! Per riscaldarti! Anche se la caldaia è stata accesa da poco, da mio padre che è appena tracimato nel mondo, i caloriferi stanno cominciando solo adesso a scaldarsi, c’è ancora freddo, ma non come qui, lungo questa scaletta buia dove stiamo parlando, potrai appoggiare le mani ai radiatori, anche i piedini nudi che ti si stanno gelando, anche il piatto su cui si stanno gelando i tuoi occhi.»
«No, ti ringrazio, ma io non devo entrare, devo rimanere davanti alle soglie, non devo varcarle, devo solo consegnare ai tracimati i doni delle mie lettere e poi scomparire, devo solo vedere le mani che le ritirano al buio e che tremano per l’emozione, anche se questa volta mi sto fermando di più, mi fermerò di più.»
«Entra in casa! Entra nella mia casa piena solo di percosse spaventose e di urla e di ferite e di spari e di merde di gatto gelate e marmorizzate, io vorrei vederti mentre ti muovi nella mia casa con la tua veste bianca di pugnalata, nelle stanze buie rischiarate solo dalle luci seminali che scendono dalle volte, muovendo i tuoi piedini nudi in mezzo alle biglie dei gameti che rotolano da una parte e dall’altra per l’inclinazione dei pavimenti provocata dal sisma di vita e morte, io vorrei che tu la vedessi con i tuoi occhi che guardano con dolcezza dal piatto, e invece siamo ancora qui, al buio, lungo questa scaletta, io e te, con i piedi su due gradini diversi...»
«Io non posso entrare, io non devo entrare, io sono solo quella che porta i doni e che deve rimanere davanti alle soglie. Tutto il mondo è pieno di tracimati dentro la morte che viene prima e dentro la vita che viene dopo e che viene prima, tutto il mondo è pieno di mani che attendono di stringere tra le dita le lettere che stavano aspettando, che aspetteranno, e che si allungano nel buio verso di me per riceverle in dono dalle mie mani. Lettere che stavano vagando da un continente all’altro, da un mondo all’altro, da quello dei vivi a quello dei morti e da quello dei morti a quello dei vivi e dei risorti e dei tracimati, e che non possono più venire recapitate perché le persone a cui sono indirizzate non sono più qui e non sono più là, perché è in atto questa tracimazione universale di vita e morte e questa guerra, perché tra i morti gli indirizzi non ci sono più, non ci sono ancora, non ci saranno, perché tra i vivi gli indirizzi non ci sono più, non ci saranno ancora, perché tutto il mondo è pieno di persone che non si incontrano, non si incontreranno, che si sono incontrate dopo e che non si incontreranno prima, nel prima che viene dopo e in quello che viene prima, che si sono incontrate dopo perché non si sono incontrate prima, che non si incontreranno né prima né dopo, perché adesso è prima, perché adesso è dopo, perché adesso è adesso, perché stanno tornando al mittente le lettere scritte dai morti ai vivi e dai vivi ai morti che adesso non sono più qui e non sono più là, e le lettere vanno avanti e indietro da un continente all’altro, da un mondo all’altro, senza poter essere recapitate, si ammucchiano nei magazzini postali dei vivi e in quelli dei morti e molte mani le vanno a cercare raspando al buio nelle montagne che si accumulano nei magazzini dei vivi e in quelli dei morti, si sentono anche da molto lontano i loro lamenti, i loro pianti, le loro grida...»
«Sì, sì, mi ricordo, mi ricorderò. Quando ero morto ed ero nel continente dei morti, sarò, c’erano tutte quelle lettere che non potevano venire recapitate perché i morti cambiavano continuamente casa, grattacielo, città, a ogni immissione e tracimazione di vivi dentro la morte e di morti dentro la vita e per il movimento tellurico di vita e morte che faceva crollare le loro città e li spingeva a inventare e a fondare sempre nuove città ascensionali sopra la linea dell’orizzonte e anche sotto, nelle viscere del continente dei morti che si riempivano di città verticali affondate e di fiumi e di cascate e di città seminali... Si ammucchiavano nei magazzini postali dove i morti andavano a cercare e a gridare, nel buio.»
«C’erano anche le tue, ci sono anche le tue, ci saranno.»
La guardo, guardo il suo bel volto senza occhi, la sua bocca che mi sorride, lungo questa scaletta fredda e buia, con i miei occhi di tracimato.
«Le mie? Quali lettere mie ci sono in quei magazzini, ci saranno?» provo a domandare, con un filo di voce che non si sente.
«Quelle che scrivevi ai morti quando eri vivo, credendo di scriverle ai vivi, che scriverai, quelle che scrivevi ai vivi dentro la morte quando eri morto dentro la vita che viene dopo e che viene prima, che scriverai. Sono andate avanti e indietro dal continente dei morti a quello dei vivi, perché non c’era chi potesse riceverle.»
«Ma come mai adesso ce le hai tu?»
«Sono andata a cercarle in quelle montagne di posta accumulate nei magazzini, ho frugato là in mezzo, tenendo sollevato il piatto con dentro i miei occhi spalancati per vederci in quell’infinito buio, per riuscire a leggere gli indirizzi dei destinatari e quelli del mittente, le ho tirate fuori a una a una con la mia piccola mano...»
La guardo, la guardo, anche se lei non mi vede, mi vede ancora di più, con quei suoi dolci occhi spalancati nel piatto, mi vedrà.
«Sì, è vero...» sento che la mia voce sta dicendo, in questo infinito buio «ho continuato a scriverle anche da morto, continuerò, in quelle città lesionate che crollavano e tracimavano sotto l’urto del sisma di vita e morte, anche se non l’ho raccontato prima, non lo racconterò dopo, perché il racconto dei morti viene prima ma viene dopo, perché il racconto dei vivi viene dopo ma viene prima, veniva dopo, veniva prima, verrà, perché anche il tempo del racconto è tracimato dopo, è tracimato prima, tracimerà, perché dopo è prima, perché prima è dopo, perché adesso è adesso, sarà.»
Anche lei mi guarda, mi guarda, con infinita dolcezza, dal piatto.
Poi, all’improvviso, la sua mano, quella che non sorregge il piatto, si allunga verso di me, piccola, bianca, resa quasi trasparente dal freddo, mi sta porgendo un plico di lettere tenute unite da un elastico.
«Eccole, te le restituisco, queste lettere non sono arrivate a nessuno, perché non c’era nessuno che potesse riceverle, non ci sarà. Le ho lette solo io, una dopo l’altra, di notte, sulla groppa del mio asinello, col cuore in gola, con i miei occhi che piangevano sopra il piatto.»
Non parla più, non ha gli occhi però mi guarda, mi guarda, e anch’io la guardo, la guardo, e neanche io riesco a parlare, si sente solo, in questo infinito silenzio e in questo infinito buio, un rumore secco di spari che vengono dalla camera da letto di mio padre, oltre la scaletta, la cucina, il corridoio pieno di biglie, la grande volta dell’anticamera, isolati, lontani, ma anche un altro rumore secco di colpi, mi pare, da più vicino, da un po’, e non riesco a capire che cosa sia, che cos’è, però sono colpi forti, molto forti, sempre più forti, così forti che fanno tremare alle mie spalle la casa, anche la scaletta, anche la lampadina nuda che c’è sotto la sua piccola volta.
“È mia madre che sta sbattendo i pesci contro il pavimento!” capisco all’improvviso. “Li sta tirando fuori uno dopo l’altro dall’acqua, li sta facendo piombare dall’alto contro le mattonelle del pavimento, sempre più tramortiti, una volta, due volte, tre volte, finché stanno fermi.”
Non respiro più, non vedo più niente, vedo solo la sua piccola mano che si sta allungando nel buio verso il dorso della mia mano che stringe il plico delle lettere tenute insieme da un elastico, che lo accarezza con le sue dita bianche, trasparenti, gelate.
«Ma non ce n’è proprio nessuna indirizzata a me?» le dico improvvisamente, le grido.
«Sì, una c’è» mi risponde, con dolcezza, dal buio.
Adesso scorgo, nelle poche particelle di luce buia che scendono dalla lampadina sotto la volta, la sua mano che si sta staccando dalla mia piccola mano, che sta cercando qualcosa tra le pieghe della sua veste.
«Ecco, questa è per te!» mi dice, mi sussurra tirando fuori un’ultima lettera, che si era nascosta in seno.
La scaletta è buia, la volta è buia, però si vede il leggero bagliore della lettera che la sua mano mi sta porgendo, in questo infinito buio.
«Io l’ho portata fino a te sul mio piccolo corpo di pugnalata» mi sta continuando a dire e a sussurrare la sua voce, la sua vocina, nel buio, «attraverso questo mondo sconvolto dalla tracimazione universale di vita e morte e dalla guerra, nascosta sotto il fiore della mia veste insanguinata, per arrivare a portarla fino a qui, e consegnarla direttamente a te, con la mia piccola mano nelle tue piccole mani, in questo infinito buio.»
Il cuore mi batte forte. Non ci vedo più, non ci vedo ancora.
«Resta qui!» riesco a dirle soltanto, in questo infinito buio.
«No, adesso devo proprio andare» mi dice un’ultima volta, mi sussurra, dal buio. «Ho molte altre lettere da consegnare, la cesta è piena, tutto il mondo è in attesa, l’asinello sta battendo la zampa per l’impazienza nel cortile buio e freddo. Non lo senti?»
«No, non lo sento» le dico ancora, nel buio, ma lei adesso non c’è più, se n’è andata, si sente il rumore lieve della sua veste e dei suoi piedini nudi che stanno scendendo lungo i gradini freddi della scaletta, nel buio.
Resto ancora così, per un po’, con un piede sopra un gradino e l’altro sull’altro, prima di girarmi su me stesso, nel buio, e di cominciare a risalire lungo la scaletta, a piccoli passi, verso la porta della cucina spalancata e scentrata.
I colpi sono sempre più forti man mano che salgo, e poi quando entro in cucina, ancora più forti, più forti, più forti, perché vengono da sempre più vicino.
Attraverso la cucina, passo davanti alla porta aperta e fuori dai cardini del gabinetto.
Mi fermo.
Mia madre sta sbattendo i pesci contro il pavimento, con furia, tuffa nell’acqua le mani bendate, le braccia, per afferrarli mentre si dibattono e cercano di sgusciare via, le bende sono tutte insanguinate e bagnate, solleva molto in alto le braccia quando riesce ad afferrarli, li sbatte giù con violenza, una volta, due volte, si inchina a riprenderli tramortiti sul pavimento, mentre si muovono ancora, si rialza di nuovo con tutto il corpo, molto in alto, più in alto, li solleva con le mani bendate fradice di sangue e acqua, li sbatte ancora e ancora per terra, li osserva col volto gonfio e nero, incerottato e bendato, gli occhi che sfavillano nelle tumefazioni e in mezzo alle bende, per cogliere il trasalire del più piccolo movimento sulle loro branchie, osserva la linea di sangue che esce alla fine dagli angoli delle loro bocche spalancate e fredde, con quel filo come di ferro al posto delle labbra che ci corre intorno, e il sangue cola fuori, si allarga sul pavimento.
«Mamma, mammina!» le grido. «Cosa stai facendo?»
Ma lei non mi vede, non mi sente, continua a sbattere con furia i pesci contro il pavimento, e non riesce a vedere nient’altro, a sentire nient’altro, solo il contorcersi di quelle schiene dure e fredde, i suoni e i tonfi spaventosi di quelle bestie vive e fredde che piombano a terra dall’alto facendo tremare il pavimento della casa e del mondo.
Oltrepasso la porta del gabinetto, la piccola rampa di legno, imbocco il corridoio pieno di biglie, passo sotto le sbarre di ferro che ci sono in alto, su cui stanno distese le pertiche di bambù con lo scopino per la pulizia dei soffitti e a cui mi appendevo con le braccia, mi appenderò. Entro nell’anticamera, mi giro per un istante a guardare verso la porta della camera da letto che c’è all’angolo opposto, con uno sguardo diagonale sotto la volta, da dove vengono da più vicino colpi di pistola e raffiche brevi di mitra che fanno rimbombare i muri della casa, i soffitti.
Entro nella mia camera, vado a ficcare il plico delle lettere dentro uno dei cassetti pieni fino a scoppiare di fotografie di cartone e di matasse di spago srotolate e allargate, stringendo con l’altra mano l’ultima lettera che mi è stata appena recapitata.
Mi guardo attorno. Ci sono molte biglie sul pavimento, entrate dalla porta spalancata che dà sull’anticamera, alcune piccole, che sono andate a infilarsi rotolando fin sotto i mobili, il letto, le poltrone, il divano, durante le ultime scosse, altre più grandi, ferme in mezzo alla stanza, immobili, luccicanti nella poca luce buia che scende dal soffitto allontanato e scentrato.
Guardo la lettera. La mano mi sta tremando forte, mentre la tengo tra le dita cercando di leggere il nome della persona a cui è stata indirizzata, il mio nome, mi pare, quello che era il mio nome, sarà, e la giro dall’altra parte per leggere anche il nome del mittente, che però non c’è, non è stato scritto, e la sto già aprendo con le dita che tremano forte, lacerando la busta per l’impazienza di vedere che cosa c’è scritto, ci sarà.
C’è dentro un foglio, molto sottile, piegato in due, quasi trasparente, come i fogli delle lettere di posta aerea che i vivi mandavano agli altri vivi, quelli che credevano vivi ma che invece erano già tracimati dentro la morte, quelle che i morti mandavano agli altri morti, quelli che credevano morti ma che erano già tracimati dentro la vita che è dentro la morte che viene prima e che viene dopo, al di là dei deserti, dei mari, degli oceani del continente dei vivi e di quelli dei morti, che manderanno.
Tiro fuori il foglio, con le mie piccole dita che tremano forte nel buio che fa questa luce buia, piano piano, per non lacerarlo.
Lo apro, con enorme emozione.
È proprio una lettera, ma breve, molto breve, di poche righe soltanto, una letterina.
La comincio a leggere, con i miei piccoli occhi sbarrati, in piedi, in mezzo alle biglie, cercando di distinguere in questo infinito buio i caratteri tracciati a mano con l’inchiostro azzurro chiaro, molto chiaro, così chiaro che si fa fatica a distinguerlo dal velo bianco del foglio.
C’è scritto:
Mio piccolo sposo,
spero che questa lettera possa attraversare la morte e la vita e che possa arrivare fino al continente dei vivi e fino a te, e che tu possa leggerla nella tua casa buia, nel finimondo della tua prima notte di tracimato. Noi siamo tracimati insieme, anche se poi siamo finiti così lontano l’uno dall’altra, ci siamo persi di nuovo, ci perderemo ancora, ci perderemo sempre, non ci perderemo mai. Aspettami, aspettami, perché io verrò! Sono troppe le cose che avrei da dirti, ma te le dirò presto, da vicino, con la mia piccola bocca profumata nel buio, perché adesso tu sei piccolo, e allora anch’io sarò piccola. Però aspettami, aspettami, perché io verrò! Io sono la tua piccola sposa, io ti porterò l’amore.
Continuo a leggere e a rileggere le poche righe tracciate chissà da dove sul velo di questo foglio che trema tra le mie piccole mani, con gli occhi velati dalle lacrime che mi cominciano a scendere, in piedi in mezzo alle biglie che hanno ricominciato a muoversi, perché deve esserci stata qualche nuova scossa, anche se io non me ne sono neppure accorto, e anche i colpi che vengono dalla camera di mio padre sono adesso più continui, più forti, anche quelli che vengono dalla parte del gabinetto sono sempre più ravvicinati, più spaventosi, più forti.
“Ma quanti pesci ci sono in quella vasca, ci saranno?” mi dico confusamente, senza smettere di leggere e di rileggere la piccola lettera tracciata su questo velo trasparente di carta. “Che continuano a piombare a terra sempre più forte, più forte, scagliati dall’alto dalle mani bendate di mia madre, insanguinate e bagnate, fanno tremare tutta la casa, tutto il mondo...”
Il pavimento trema, le biglie si spostano tutte insieme sul suo piano inclinato, verso la camera del corno da caccia, della spada, poi di nuovo verso l’anticamera, il corridoio, stanno rotolando sul fondo buio della casa e del mondo, lo fanno oscillare, lo fanno scintillare.
C’è ancora il mio piccolo letto, mi pare, addossato alla parete, ricoperto da quel copriletto color avorio con le righe rosse, le frange dorate sul fondo.
Adesso ci sono vicino, perché il pavimento si è inclinato da questa parte. Ho ancora la lettera tra le mani, che tremano.
Mi siedo sul letto, perché non riesco più a stare in piedi.
Mi ci corico sopra, continuando a stringere la lettera in una mano.
Chiudo gli occhi.
Mi addormento di schianto.