8

La bambina

Quando mi sveglio è ancora buio.

“Sarà la stessa notte!” mi dico riaprendo gli occhi all’improvviso, nel buio. “Avrò dormito così profondamente che mi sembra di averlo fatto per molto e invece avrò dormito per poco e sarò ancora nell’arco della stessa notte. Oppure avrò dormito per un giorno intero tanto ero stanco, sfinito, e adesso è scesa di nuovo la notte, in questo continente, in questo mondo, perché qui c’è la luce e c’è il buio, anche se la luce è buia, anche se il buio è la luce che fa tutto questo buio. Ho dormito profondamente, come dormono i morti appena tracimati dentro la vita che viene dopo e che viene prima, anche se mi sembrava di continuare a sentire, in questo mio primo sonno di tracimato, il leggero fragore delle biglie che rotolavano sui pavimenti inclinati e che saltavano sui gradini dello scalone, il rumore degli spari che venivano dalla camera di mio padre e quello dei pesci scaraventati proveniente dal gabinetto, e poi anche un altro rumore, un verso ancora più spaventoso, più lacerante, forse del tacchino strangolato che si dibatteva e gridava in questa casa buia, sotto le volte, e di mia madre che gridava per il dolore mentre lo strangolava con le dita rotte e con il braccio spezzato. E poi un altro rumore, più tremendo ancora ma più leggero, più vicino, molto più vicino alla mia testa e al mio corpo piombati nel sonno, e anche se dormivo profondamente, rannicchiato su un fianco e con la lettera ancora stretta in una mano, mi continuavo a dire: ‘Sarà il gatto, starà conficcando le unghie nel divano, nelle poltrone di cuoio che ci sono dietro la mia testa, le starà lacerando con le sue unghie tirate fuori da quelle bolle di velluto che ha in fondo alle zampe, nel buio, le starà crivellando, le starà straziando, starà staccando quelle striscioline di pelle che poi penzolano tutt’intorno, penzoleranno, avrà sentito le grida del tacchino mentre veniva strangolato da mia madre con il braccio spezzato, sarà stato attratto dall’odore delle sue penne e delle sue piume e della sua pelle nuda strinata sopra la fiamma del fornello, dei suoi visceri fatti scaturire dallo squarcio aperto con la forbice dalle mani bendate di mia madre e tutte spezzate. Sarà tracimato anche lui nella vita’.”

Mi giro sulla schiena, mi guardo attorno.

Le biglie sono ferme. La stanza è immobile. Ho ancora il velo della lettera stretto nel pugno, un po’ accartocciato per le convulsioni della mia mano nel sonno.

Provo a mettere i piedi giù dal letto, sul pavimento d’assi, ad alzarmi.

Com’è difficile svegliarsi dopo la prima notte da tracimati dentro la vita che viene dopo e che viene prima, dal primo sonno, e poi aprire gli occhi in questo continente, in questo mondo, e poi alzarsi in piedi, su due sole zampe, nel buio, e poi cominciare a camminare, ricominciare, sui pavimenti inclinati delle case buie, del mondo!

Faccio qualche passo nella stanza, spostando con i piedi le biglie immobili che luccicano nell’infinito buio.

Ho ancora la lettera nella mano. Me la stacco dalle dita. La piego una volta, due volte. La poso sul tavolo rotondo al centro della stanza, in un piatto di porcellana che c’è nel mezzo.

Continuo a camminare verso l’anticamera. Attraverso la porta.

Sì, è vero, è tracimato anche il gatto, perché scorgo per un istante la sua rossa coda sparire di corsa nella camera da pranzo al rumore dei miei passi, e il leggero fragore delle biglie messe in movimento dai suoi balzi nella casa oltrepassata, nel buio.

Non si sentono più quei colpi spaventosi, dei pesci vivi che piombano dall’alto sul piano duro del pavimento, neppure le grida del tacchino strangolato e il rumore della massa dei suoi visceri che erompono dallo squarcio e dilagano nel secchiaio, neanche degli spari di mio padre, in questo momento, solo il suono metallico provocato dalle sue mani che cambiano i caricatori e che li incastrano nelle armi ben lubrificate di grasso, in questo momento in cui non provengono rumori di spari neppure dalla parte della strada, dove i vivi messi in fuga o colpiti da mio padre si staranno riorganizzando per nuovi assalti.

Attraverso l’anticamera, facendomi largo tra le sfere piccole e grandi luccicanti nel buio, vado ad affacciarmi allo scalone.

Anche lo scalone è tutto pieno di biglie che sono rotolate giù lungo gli scalini. Ma adesso ce ne sono molte più di prima, dentro la casa, sono dappertutto, mi pare, un numero enorme di nuovi gameti che mio padre avrà forse eiaculato durante la notte, mentre io dormivo profondamente col velo della lettera stretto forte nel pugno, o durante un’intera notte e un intero giorno, se mi sono svegliato la notte dopo, avvinghiato a mia madre, in piedi oppure sul letto, lui in tuta mimetica e col passamontagna sulla testa e sul volto e il mitra stretto ancora con forza in una mano, lei tutta insanguinata e bendata. “Ma come avranno fatto ad accoppiarsi, ad abbracciarsi, se lui continuava a stringere in una mano il mitra sollevandolo con esultanza nell’aria mentre sparava i suoi gameti dentro il suo corpo, se lei ha le ossa rotte, ha le mani e le braccia bendate piene di lividi e di fratture e di sangue, come avranno fatto ad abbracciarsi e ad avvinghiarsi, nel buio?”

Mi giro di nuovo verso l’anticamera. Si sente gridare forte, ma da lontano.

“È la Signorina!” mi dico. “Sta gridando forte, con la sua poca voce, dalla camera blu.”

Oltrepasso l’anticamera, entro nella camera da pranzo, l’attraverso. C’è una merda che non avevo visto prima, dentro il camino con lo stemma.

“È stato il gatto!” mi dico attraversando quasi di corsa l’anticamera e andando verso la camera blu da cui continuano a venire le grida della Signorina. “Si è ingozzato dei visceri del tacchino, nel secchiaio di marmo, e poi è dovuto correre a farla! Ma come mai, se l’ha fatta adesso, non è ancora molle, fumante? Invece è già dura e fredda, mi sembra, marmorizzata, come se l’avesse fatta prima, molto prima, nella vita che viene prima e non in quella che viene dopo, verrà.”

Entro nella camera blu.

«Sento dei colpi, degli spari, degli urli!» sta gridando la Signorina, tutta sollevata dal letto. «Che cosa sta succedendo? Perché nessuno mi dice niente?»

«Sta’ tranquilla» le dico, andandole vicino e allungando la mia mano verso la sua, che me la prende e che me la stringe con la sua mano deformata e allungata. «Non è niente. Sono i soliti colpi, i soliti spari, i soliti urli, saranno.»

La sento piangere piano, sconsolatamente, con la testa di nuovo sopra il cuscino, mentre mi stacco dalla sua mano che mi teneva incernierato con forza e torno nella camera da pranzo, riprendo a girare nella casa, nelle sue stanze buie invase dalle biglie d’acciaio.

Passo di fianco a una piccola porta, una porticina.

Mi fermo un istante, allungo la mano nel buio, per aprirla.

“Oh, no, quello no! Tutto, tutto, ma quello no, quello no!”

La casa sta tremando un po’, per il sisma di morte e vita e di vita e morte.

Poi, all’improvviso, si sente un campanello suonare.

Mi fermo, col cuore in gola.

Viene dalla parte della scaletta, ma questa volta non è un campanellino, è il campanello elettrico, mi pare, quello che si può suonare a metà della rampa, prima di quella porticina di legno che si teneva chiusa con un pezzo di filo di ferro e che adesso è tutta sbudellata e scentrata, sarà.

Il campanello continua a suonare, insistentemente, come se qualcuno ci si fosse attaccato e lo tenesse premuto senza mai staccare il dito, per chiedere di fare presto.

“Ma perché suona?” mi passa per la mente, mentre comincio a correre da quella parte. “Perché suona come se la casa fosse come allora tutta chiusa e sprangata, mentre adesso le sue porte sono spalancate e scentrate e fuori dai cardini, saranno?“

Sento degli altri passi, da qualche parte, mentre sono già lungo il corridoio, il fragore delle biglie che stanno rotolando sotto la spinta di altri corpi in corsa nella casa, nel mondo.

Scendo di corsa i pochi gradini di legno che portano alla cucina. Gli altri passi adesso sono più vicini, sono alle mie spalle.

Mi giro a guardare.

Ci sono mio padre e mia madre dietro di me, lui in tuta mimetica e passamontagna e con il mitra in mano, lei tutta nera e gonfia per le tumefazioni e con le bende della testa insanguinate e allentate che le pendono ai lati e le scendono sulle spalle come rossi capelli.

Il campanello continua a suonare, a suonare, a suonare.

«Chi è? Chi è?» grida mia madre, che si è fatta avanti, sporgendo la testa dalla porta scentrata della cucina, e girandola verso la scaletta buia che rimbomba per il suono lacerante e sottile del campanello.

«Sono la Dirce!» grida un istante dopo una voce, dal fondo. «Sono venuta con la bambina!»

Mia madre si fa ancora più avanti, nel buio, con la testa insanguinata e bendata.

«Vieni su! Vieni su!» grida, girata verso il fondo della scaletta.

La sua voce rimbomba sotto la piccola volta.

Si sentono dei passi sopra i gradini, quelli della Dirce, anche degli altri passi, adesso mi pare, più piccoli, più leggeri, che non si sentono quasi.

«Siamo tracimate da Ducale» continua intanto a dire la Dirce, dal cunicolo a volta della scaletta. «Abbiamo viaggiato di notte per non farci scoprire dai vivi che stanno pattugliando le strade, quelli che vengono dopo e che vengono prima. Sono venuta a portare le lumache, il fagiano. Ha voluto venire con me anche la bambina, ha insistito tanto che alla fine ho dovuto portare anche lei.»

Adesso è in cima, è già dentro la cucina.

Tiene sollevata con tutte e due le mani una pesante cesta. Ansima un po’ per lo sforzo, dopo averla trascinata su, lungo la scaletta.

Mio padre abbassa il mitra. Mia madre smania, l’abbraccia, con mani e braccia avvolte dalle bende insanguinate e allentate, in questo infinito buio che fa la luce.

Ma la bambina non si vede, c’è ma non si vede, perché si è nascosta dietro le sottane della madre, per timidezza.

«Fatti vedere!» le dice mia madre, prendendola per un braccino con la sua mano bendata.

«Come sei diventata grande!» le dice.

La bambina ha gli occhi abbassati, tiene tra le sue piccole braccia e tra le sue piccole mani un fagiano dorato vivo, che sta tranquillo, immobile, con le zampette raccolte, come in un piccolo nido.

«Salutatevi!» sta dicendo la voce di mia madre, nel buio.

Non lo so perché, ma non riesco a parlare.

Anche la bambina è immobile, muta.

Il fagiano gira la testa qua e là, per guardarci uno dopo l’altra con quegli occhietti rotondi che ha ai lati della piccola testa dorata.

Anche mio padre ci sta guardando, con i suoi occhi che spuntano dal passamontagna.

Stanno arrivando ancora dei colpi, delle raffiche, dall’altra parte della casa, lontana.

Mio padre si gira di scatto, si mette a correre verso il corridoio, con il mitra in mano. Si sente il rumore dei suoi scarponi in corsa che fanno rotolare le biglie.

La Dirce intanto ha posato il pesante cesto sopra la tavola. Mia madre si è avvicinata per vedere, adesso la sua testa bendata è tutta chinata sul cesto, sta guardando dentro con emozione.

Provo a guardare anch’io: è tutto pieno di grandi lumache chiuse nel loro guscio, l’entrata sigillata da un velo bianco, duro come lo smalto.

«Sono in letargo...» sta spiegando la Dirce.

«Le sveglierò io!» ride mia madre, per la prima volta, nella casa, nel buio.

Mi giro verso la bambina, la guardo.

Io non so perché la vista di questa bambina dalla testa circondata da una nuvola di capelli mi fa ammutolire e mi sconvolge fino a questo punto. Non l’ho mai incontrata, non l’ho mai vista, eppure la sua piccola faccia, la sua bella bocca allungata che sembra mi stia sorridendo senza vedermi, le sue ciglia abbassate sopra gli occhi chiusi che traspaiono appena sotto il velo delle sottili palpebre che sembrano trasparenti...

Continua a tenere gli occhi bassi, per la timidezza o per altro, tiene ancora tra le sue piccole braccia il fagiano dorato, e intanto trema un po’, ma forse non è proprio che tremi, forse freme, sta fremendo, non so perché, non so dove, tutto il suo piccolo volto è attraversato come da una luce che trema e che freme, mentre non mi sta guardando eppure mi vede, mi sembra, mi sta vedendo, mi vedrà.

«Lascialo andare!» le dice mia madre.

La bambina si abbassa un po’, per accompagnare il gesto di mettere a terra il fagiano, che rimane per un istante immobile, in piedi, poi comincia a muovere i primi passi sul pavimento della cucina, prima rigido, un po’ impettito, poi sempre più disteso, più sciolto, si dirige verso l’altra porta, l’attraversa, gira verso la scaletta di legno, esce dalla vista, lo si sente zampettare mentre supera aiutandosi con le ali i pochi gradini che portano nel corridoio, e poi lungo il corridoio, si sposta verso l’anticamera battendo le zampette e le unghie contro il pavimento, in mezzo a tutte quelle biglie che rotolano e si scontrano al suo passaggio.

Intanto mia madre ha tirato fuori un pentolone dalla credenza, il più grande che c’è nella casa. Ha sollevato il cesto delle lumache insieme alla Dirce, ce le ha rovesciate dentro con enorme fragore.

«Bisogna farle spurgare!» sta dicendo alla Dirce.

Poi non capisco più bene quello che si dicono mia madre e la Dirce, perché la presenza di questa bambina che è appena tracimata nella mia casa mi emoziona a tal punto che non riesco a sentire e a vedere niente oltre a lei, capisco solo, confusamente, che stanno parlando di segatura, o forse di sale, dove devono mettere le lumache per farle svegliare di soprassalto dalla loro tracimazione e dal loro letargo e farle spurgare prima di cuocerle sopra la stufa di ghisa dai cerchi roventi, nel pentolone, e poi di strapparle a una a una fuori dai loro gusci con un piccolo uncino.

E allora, non so come, trovo la forza di andare più vicino alla bambina e di dirle, di sussurrarle: «Vuoi vedere la casa?».

E poi di allungare anche una mano verso di lei, che solleva la sua e me la prende.

E così attraversiamo la cucina, tenendoci per mano, senza parlare, e così superiamo anche i pochi gradini che portano al corridoio, e così cominciamo a camminare anche lungo il corridoio, l’uno vicino all’altra, senza fiatare, in mezzo a tutte queste biglie che rotolano via spostate dai nostri piccoli piedi. E poi in anticamera, sotto il lucernario ricoperto di polvere e ruggine nera, lontano, contro la volta, e poi nella mia camera, e poi in quella del corno da caccia e della spada, e poi di nuovo nella mia camera, e poi ancora in anticamera, e poi ci affacciamo tutti e due allo scalone invaso dalle biglie, e poi alla camera da letto dove mio padre sta sparando dalla finestra, e poi le faccio attraversare un’altra volta l’anticamera, la porto nella camera da pranzo...

«Guarda!» le dico intanto, le sussurro, anche se lei sta già guardando, mi pare, perché adesso ha socchiuso un po’ gli occhi che prima teneva abbassati, e sta girando la sua piccola e bella testa di bambina tracimata in questa casa buia dove anch’io sono tracimato, per guardarsi intorno, e allora anch’io la guardo, la guardo, guardo la bambina che la sta guardando, come se il solo fatto che lei la stia vedendo con i suoi occhi la trasformi in una casa mai vista prima, appena tracimata e inventata.

Passiamo vicino al fagiano dorato, che sta attraversando in senso inverso la camera da pranzo, segno che è arrivato anche nella camera blu, ha guardato dentro e poi è ritornato indietro, oppure che ha camminato per un po’ là dentro senza che la Signorina se ne accorgesse, si è avvicinato al suo letto, l’ha guardata per un po’, immobile sul cuscino, con gli occhi spalancati, bianchi, girando da una parte la testa per vederla con uno di quei suoi piccoli occhi rotondi.

La bambina allunga l’altra mano, nel passare, per fargli una carezza sulla testa dorata. Il fagiano scappa via, zampettando più forte sul pavimento, come se, separato dalle sue braccia e dal suo piccolo corpo, non la riconoscesse più, adesso che lei non è più incernierata a lui ma è incernierata a me nella vita che viene dopo e che viene prima, e che stiamo camminando senza respirare per l’emozione in questa casa buia, in questo mondo buio che c’è alla fine o all’inizio del mondo.

Continuiamo a camminare così, attraverso la camera da pranzo, con le manine strette, le teste vicine, ma senza riuscire a girarle per guardarci, fino alla porta della camera blu e anche oltre. Arriviamo fino al letto della Signorina, che deve avere sentito i nostri passi sulle assi del pavimento perché sta girando la testa dalla nostra parte, anche se non ci vede.

«È arrivata qui una bambina!» le dico. «È tracimata anche lei in questa casa, in questo mondo.»

La Signorina annaspa con la mano nell’aria, in cerca della sua piccola mano.

La bambina le allunga l’altra mano, lei gliela stringe.

Adesso siamo tutti e tre incernierati.

«Brava! Brava!» le sta dicendo la Signorina, come si fa con i bambini.

Restiamo così per un po’, senza dire più niente, viene solo il rumore di qualcuna delle biglie più grandi che è arrivata fin qui e che adesso si sta muovendo e sta rotolando piano sul pavimento, nel buio.

E poi usciamo dalla camera blu, riattraversiamo la camera da pranzo, ripassiamo vicino alla portella della giostra portavivande, riprendiamo a camminare attraverso il resto della casa, senza riuscire a fermarci, e io sento solo il suo cuoricino pulsare forte nella mia mano e forse anche lei sta sentendo pulsare il mio nella sua, forse tutti e due i nostri cuori stanno pulsando insieme in un’unica mano formata dalle nostre due mani che si sono incernierate per la prima volta nel mondo.

«Tu chi sei?» provo a domandare senza girare la testa, nel buio.

«Io sono la Pesca» la sua voce mi risponde, mi sussurra, all’improvviso, nel buio. «Io sono la tua piccola sposa, sarò.»

Adesso siamo tutti e due muti.

I nostri cuori stanno pulsando ancora più forte nella conchiglia delle nostre piccole mani incernierate nel mondo, sembra le stiano mandando in pezzi.

Giro la testa, dalla sua parte, per guardarla.

«Ma allora perché non ti riconosco?» provo a domandare, col cuore in gola.

La bambina non mi risponde, però anche lei adesso ha girato la sua piccola testa sormontata da una nuvola di capelli e mi sta guardando e mi sta sorridendo, mi pare, in questo infinito buio.

«Perché non ti riconosco?» continuo a domandare e a sussurrare, nel buio. «Se ci siamo già incontrati nella vita che viene dopo e che viene prima, e se poi ci siamo incontrati nel continente dei morti, che viene prima e che viene dopo, e se poi siamo tracimati insieme gettandoci giù abbracciati da quel grattacielo bianco di neve seminale, come stelle cadenti... Perché, se ti ho già vista, non ti riconosco?»

«Perché mi stai vedendo per la prima volta adesso.»

E io la vedo, adesso, la sto vedendo, perché si è girata completamente verso di me, e posso vedere il suo piccolo volto di bambina tracimata che mi guarda e che mi sorride, nel buio.

«Ma perché allora ti ho visto prima e ti ho visto dopo?» le chiedo ancora, da vicino, dal buio.

«Perché mi stai vedendo adesso.»

«Ma perché allora non era adesso?»

«Perché adesso è adesso.»

Mi sta venendo ancora più vicino, col suo volto, con la sua bella bocca, nel buio.

«Ma perché non ti riconosco ogni volta?» le domando ancora, da molto più vicino, dal buio.

«Perché ogni volta è adesso.»

Sta sollevando una mano, nel buio, l’altra mano, mi pare, sento che mi sta accarezzando con le sue piccole dita il volto, gli occhi, le labbra, nel buio.

«Tu ancora non capisci...» mi sussurra continuando ad accarezzarmi nel buio «non hai aperto gli occhi.»

Il pavimento trema un po’ sotto i nostri piedi, le biglie si spostano tutte insieme rotolando da una parte e dall’altra.

«Io non ti avevo ancora visto bambina» le dico ancora, con un filo di voce, in un soffio.

«Mi stai vedendo adesso» mi risponde continuando ad accarezzarmi, nel buio.

E poi sento, un istante dopo, o forse nello stesso istante, nel mondo, che le sue labbra bambine si sono posate all’improvviso sopra le mie, che mi stanno baciando.

E poi capisco che abbiamo ricominciato a camminare e a tracimare attraverso la casa, senza più guardarci, senza più parlare, senza fiatare, continuando a tenerci per mano, nel buio, non so come, non so dove, non so per quanto tempo, perché il tempo non c’è più, non c’è ancora, non ci sarà più, non ci sarà ancora, e quando ritorniamo di nuovo in fondo alla casa la cucina è tutta piena di vapore, non ci si vede quasi, scorgo solo la forma ingigantita di mia madre in piedi sopra la tavola, con le braccia e le mani sollevate e bendate, che sta staccando dal soffitto le lumache che sono fuggite fin lassù, dopo essersi svegliate di soprassalto nel pentolone messo a cuocere sopra la stufa a cerchi, nel fondo dei loro gusci, sotto quel velo seminale bianco duro come lo smalto dentro il quale non vedevano niente, non sentivano niente, erano tracimate nel mondo eppure non sentivano neppure da infinitamente lontano le sue voci, i suoi suoni, e le pareti e il soffitto sono attraversati da tutte le parti dalle scie luccicanti di bava lasciate contro l’intonaco dalla loro lenta corsa terrorizzata per sfuggire dalle mani di mia madre che le stacca una dopo l’altra e poi le ributta dentro il pentolone, mentre la Dirce ha già cominciato a strapparne altre fuori dalle zone più profonde e più segrete dei loro gusci, con un uncino.

E poi riprendiamo a camminare attraverso la casa, come se i nostri piedi e i nostri cuori e i nostri piccoli corpi non riuscissero più a fermarsi da quando si sono incontrati e si sono incernierati per la prima volta nel mondo che viene dopo e che viene prima, e si riescono a sentire appena i colpi che sta sparando mio padre dalla sua stanza, però secchi, isolati, segno che sta sparando con un fucile di precisione o con la pistola e che sta prendendo bene la mira ogni volta, ma come da lontano, da sempre più lontano, ovattati, e si riesce a vedere appena la Dirce che sta cominciando a correre avanti e indietro attraverso la casa reggendo tra le mani grandi nuvole di tovaglie e piatti di portata e zuppiere, nel buio.

«Che cosa succede?» le domando d’un tratto, mentre ci passa vicino correndo.

«Sto apparecchiando in camera da pranzo!» mi risponde, mi grida, e intanto continua a correre con un grande piatto fumante tra le mani, vacillando e inciampando in mezzo alle biglie.

«Perché?»

«Stiamo preparando la cena.»

«Ma per chi?» le domando ancora.

«Ci sarà una grande cena, stanotte!» mi risponde la volta dopo, mentre ritorna dalla camera da pranzo e corre verso la cucina per prendere altri piatti.

«Ma non c’è nessuno! Non verrà nessuno! Sono già andato a vedere nelle altre case! Sono tutte vuote, fredde, scentrate, i nobili non sono tracimati, c’è solo la Signorina, immobilizzata dentro il suo letto.»

«L’ha detto la Dea!» mi risponde. «Sarà la nostra prima cena da tracimati!»

«Ma ci siamo solo noi! Non occorre apparecchiare in camera da pranzo, basta la tavola della cucina!»

«No, in camera da pranzo! mi ha detto. Con il soffitto a cassettoni, il camino, lo stemma! Tutti intorno alla tavola grande, anche se saremo solo noi, tu, la Dea, il Nervo, se potrà abbandonare il suo posto di combattimento, io e la Pesca, arrivate nel cuore della notte da Ducale attraverso i rastrellamenti e i posti di blocco dei vivi che vengono prima contro quelli che vengono dopo e che vengono prima. Porteremo in camera da pranzo anche la Signorina, in vestaglia, sulla sua comoda a ruote.»

E riprende a correre, a correre.

Entriamo in camera da pranzo, ci guardiamo attorno, con gli occhi sbarrati, senza fiatare.

La tavola è già apparecchiata, ci sono sopra i bicchieri di cristallo i piatti di porcellana che venivano tirati fuori solo nelle grandi occasioni, verranno, le posate d’argento, vecchie e un po’ annerite per le molte molature, con lo stemma sul manico. E c’è un piatto di portata in mezzo alla tavola, una grande zuppiera, fumante, e viene anche, dalla giostra portavivande che c’è dentro una parete, un odorino di cibo appena tracimato, anche di tortelli di zucca, mi pare, e allora vuol dire che mia madre ha tirato persino la sfoglia con le sue mani dalle ossa spezzate, in cucina, ha fatto anche il ripieno con la zucca, gli amaretti, la mostarda, la noce moscata, mentre dormivo, mentre io e la Pesca ci spostavamo tenendoci per mano e quasi senza vedere attraverso questa casa tracimata e inventata, nella sua luce seminale buia, e non si capiva se il tempo c’era più, se c’era ancora, se ci sarà.

E c’è anche il gatto rosso, sta girando attorno, sta saltando su una seggiola per arrivare sopra la tavola, e camminare con le sue zampette felpate sopra la tovaglia e ficcare il muso con i peli induriti dai suoi stessi escrementi dentro i piatti, ma la Dirce che è appena entrata se ne accorge e lo butta giù colpendolo con una sberla sulla testa.

“Ma come mai ha i peli così induriti?” mi passa per la mente. “Come se gli avessero già schiacciato il muso nella sua stessa merda, anche se le merde che ho visto in giro sono tutte dure e marmorizzate, anche quelle nuove, sembrano fossilizzate. Quando sarà successo? Sarà successo prima o sarà successo dopo? O sarà successo adesso, se adesso è adesso?”

E c’è anche il fagiano dorato che sta girando attorno alla stanza, sollevando molto in alto le zampette a ogni passo, segno che non l’hanno ancora strangolato. E si sente anche un rumore di gemiti, proveniente dalla camera blu, come quando sollevavano la Signorina dal suo letto per metterla sulla comoda a ruote, solleveranno, e lei gemeva e lanciava anche delle piccole grida per i dolori, e allora vuol dire che mia madre è di là, non è più in cucina, che la sta sollevando dal letto con le sue braccia e le sue mani bendate e spezzate, e forse allora è anche lei che geme e che lancia dei piccoli urli, mentre stacca dal letto e solleva il corpo della Signorina e le sue ossa sotto il velo della camicia da notte, e poi lo mette ad angolo retto sopra la comoda a ruote che c’è lì vicino, di alluminio.

E poi si sente un rumore di ruote, di ruotine, che viene dalla camera blu. E poi si vede venire avanti la Signorina, seduta sopra la comoda, rigida, scarmigliata, sembra paralizzata, con gli occhi bianchi spalancati e sbarrati, le ossa delle gambe che spuntano come manici di scopa dalla vestaglia.

La sta spingendo mia madre, da dietro, con le sue mani bendate, si sente il rumore delle ruote e delle gambe di alluminio della comoda che si fanno largo spostando e facendo rotolare le biglie piccole e grandi.

«Tutti a tavola!» grida, mentre ancora sta venendo avanti.

È arrivato anche mio padre, dall’altra stanza, col mitra, una bomba a mano che gli pende dalla cintura. Si sta sedendo a una delle seggiole dallo schienale alto, con lo stemma, si sta togliendo il passamontagna, ha già afferrato il coltello con una mano, la forchetta con l’altra. Anche la Dirce è arrivata, è ritornata, perché prima c’era, ci sarà, sta togliendo il coperchio della grande zuppiera piena di tortelli fumanti. Anche la Signorina è arrivata, mia madre la sta già sollevando dalla comoda, tra le sue braccia, la sta mettendo su una delle seggiole alte.

Io e la Pesca siamo ancora così, immobili, in piedi, incernierati.

«Sedetevi anche voi!» sta dicendo una voce, non capisco quale, quella di mia madre, oppure della Dirce, da qualche parte, dal mondo.

Ci stacchiamo. Ci sediamo anche noi attorno alla tavola, uno di fronte all’altra, per continuare a guardarci. Le nostre mani e le nostre dita erano così strette e così incernierate che adesso sono tutte stropicciate, mentre le solleviamo nell’aria per prendere i tovaglioli, e poi per annodarceli attorno al collo, e intanto continuiamo a guardarci, a contemplarci.

Non si vedono quasi più le nuvole dei nostri fiati, nel rialzo termico dei cibi caldi e dei corpi che hanno fatto salire ancora di un po’ la temperatura dentro la grande stanza. Non vedo bene che cosa c’è nei piatti, che cosa sto mangiando, perché continuo a guardare la Pesca seduta di fronte a me, dall’altra parte di questa tavola dove ci siamo seduti larghi, perché siamo in pochi, stanotte, non c’è lo Ziò, non ci sono i nobili, non sono tracimati nella vita che viene dopo e che viene prima, non c’è Turchina, continuo a guardare e a contemplare la Pesca mentre prende con le sue mani la forchetta e poi si porta alle labbra un tortello appena tagliato in due, e poi lo mastica muovendo la sua piccola e bella bocca e le guance e intanto anche lei mi guarda, mi guarda.

Adesso stiamo mangiando tutti, appena tracimati, molto emozionati, in questa luce seminale buia, in questa casa lesionata dal sisma e dalla tracimazione universale di vita e morte e dalla guerra mondiale tra i vivi e i morti. Io non vedo bene che cosa sto mangiando, che cosa una mano o forse la mia stessa mano sta mettendo dentro il mio piatto, tortelli di zucca, e poi forse tacchino, pesci, lumache, e poi anche il dolce, alla fine, mi pare. Sento un rumorino sempre più ritmato, più forte, che sta venendo da lontano, dalla parte dello scalone, sentirò, e allora vuol dire che mia madre deve essere andata là a montare la panna, in mezzo alle biglie, perché laggiù c’è più freddo e la panna si monta meglio, con due forchette tenute in una mano fracassata e bendata e sbattute forte nella zuppiera.

Poi arriva il budino in mezzo alla tavola, la colata di panna appena montata che scende dalla zuppiera inclinata, le mani e le braccia che si allungano per staccarne dei piccoli e grandi pezzi e ricoprirli di molta panna, con i cucchiai e le forchettine d’argento dai denti assottigliati per i molti lavaggi. E poi c’è la Signorina che ne chiede ancora, perché è molto golosa, e poi c’è mia madre che si strappa dalla testa ciò che resta delle bende, per essere più libera nei movimenti della masticazione, e poi c’è mio padre che ogni tanto si deve alzare di scatto dalla tavola, quando sente un rumore di spari venire dalla parte della strada, e deve sparare alcuni colpi di risposta dalla finestra della camera da pranzo, sporgendosi dalle ante socchiuse, senza neppure correre nella sua stanza, deve lanciare una bomba a mano, dopo avere strappato la spoletta tenendo la testa inclinata, con i denti ancora sporchi di budino e di panna, e poi ci sono tutti gli altri che trattengono il respiro quando arriva da fuori il boato forte dell’esplosione.

Io vedo solo, di fronte a me, la Pesca che sta introducendo il cibo nella sua piccola e bella bocca e che lo mastica piano, molto piano, senza spezzarlo con i denti, come con le sole gengive, e che intanto mi continua a sorridere e a guardare con i suoi occhi socchiusi, quasi invisibili sotto le sue lunghe ciglia abbassate di bambina appena tracimata, indovinata e inventata.

E poi c’è la cena che finisce, a un certo punto, d’un tratto. E poi non c’è più nessuno, nella camera da pranzo abbandonata, nel mondo, non c’è più la Signorina, non c’è più mio padre, non ci sono più mia madre e la Dirce, staranno lavando la pila di piatti sporchi nel grande secchiaio di marmo, in cucina, c’è solo il gatto che è saltato sopra la tavola e che sta divorando gli avanzi, solo io e la Pesca che siamo tornati uno vicino all’altra e che ci siamo presi di nuovo la mano, in questa casa buia, nel mondo.

«Dove saranno andati tutti quanti?» provo a domandare, nel buio.

«È notte fonda, saranno andati a dormire» mi risponde la Pesca.

Facciamo qualche passo nella grande stanza deserta. Anche le biglie sono immobili, i loro punti di luce brillano in uno stesso identico punto delle loro superfici convesse.

«È stata una notte lunga...» mi sta sussurrando da molto vicino la Pesca. «Andiamo a dormire anche noi.»

«Ma dove andiamo?» le chiedo ancora, in un soffio.

«Nella tua stanza, nel tuo piccolo letto.»

«Ma come faremo a starci?»

«Staremo stretti, abbracciati.»

Ci muoviamo verso la mia camera, col cuore in gola, incernierati, allacciati, non passando dalla porta che c’è in fondo alla camera da pranzo, direttamente, ma facendo un giro più lungo attraverso l’anticamera, nella casa deserta e buia, e non viene nessun rumore dalle altre stanze, neanche di spari.

“Dove sarà andata a dormire la Dirce?” mi passa per la mente mentre mi muovo assieme a lei in queste stanze buie, in mezzo a queste biglie immobili e silenziose. “Sarà nel letto a baldacchino della camera dello Ziò, quella con il corno da caccia e la spada, oppure nel divano letto che c’è nello studiolo sopra la cucina, oppure starà dormendo nel grande letto che c’è nella camera di mio padre e mia madre, mio padre starà sparando i suoi gameti anche dentro di lei, oppure sarà in mezzo a loro due, che lo staranno accarezzando una da una parte e l’altra dall’altra, nel buio, con le loro mani nude, bendate...”

Adesso siamo dentro la mia stanza, siamo fermi vicino al mio piccolo letto, la Pesca si è staccata da me, sta sollevando e ripiegando il copriletto a righe, con le frange, solleva da una parte anche coperta e lenzuolo.

«Vieni!» mi sussurra, nel buio.

E io riesco a vedere che si sfila dall’alto i suoi piccoli vestiti di tracimata, facendoci passare dentro la nuvola dei suoi capelli, che li mette ben piegati sullo schienale della poltrona tutta crivellata dalle unghie del gatto, e che poi si sta togliendo anche le piccole scarpe, le calze, che rimane solo con la biancheria che le bambine portano sotto i vestiti, porteranno.

«È notte fonda, spogliati anche tu, andiamo a letto» mi sussurra ancora.

Scorgo il suo corpo di bambina nel bozzolo bianco della sua biancheria, immobile, vicino a me, in questa luce buia, nel buio.

«Vieni! Vieni!» la sua voce mi sta continuando a sussurrare, nel buio. «Non avere paura, siamo soli, sono tutti nei loro letti, nessuno fa caso a noi, questa notte.»

Mi tolgo anch’io i vestiti, i miei primi vestiti, di bambino appena tracimato nel mondo, muovendo le mani alla cieca, nel buio, anche le mie piccole scarpe, le calze, rimango solo con le mutande bianche, dall’elastico largo, che erano sempre di due misure più grandi, saranno.

Adesso sono anch’io immobile di fronte a lei, nel silenzio, nel buio.

Mi sta prendendo la mano.

«Che freddo!» mi sussurra sorridendo, nel buio. «Andiamo sotto le coperte!»

Anche le lenzuola sono fredde, gelate. Restiamo rattrappiti, abbracciati, senza distendere i piedi e le gambe perché in fondo sono ancora più fredde.

«C’è ancora freddo» le sussurro come per scusarmi, nel buio. «La caldaia è stata accesa ma i caloriferi ci mettono molto a scaldarsi, sono enormi, e le stanze sono così grandi, i soffitti alti, con le volte...»

«Non importa, ci scalderemo con i nostri piccoli corpi, ci abbracceremo, ci stringeremo» mi sussurra la sua voce da molto vicino, quasi contro le mie labbra, nel buio. «Io ti stringerò ancora più forte, mi stringerai più forte anche tu.»

E io l’abbraccio più forte, e la stringo più forte, e anche lei mi abbraccia più forte, mi stringe più forte, e io sento il suo corpicino caldo che si stringe sempre più forte contro il mio, le sue mani e le sue braccia calde, il suo pancino caldo, le sue gambe calde attorcigliate alle mie, i suoi piedini ancora freddi, gelati, la sua piccola testa sormontata dalla nuvola dei capelli vicino alla mia, contro la mia, che mi sussurra e intanto mi tocca il volto con le labbra calde, mi bacia, mi sta baciando, nel silenzio, nel buio.

«Hai visto che sono arrivata!» mi sta dicendo con emozione e mi sta sussurrando la sua vocina, nel buio. «Io adesso sono qui, qui con te. Io sono la tua piccola sposa. Io ti ho portato l’amore.»