9

L’amore

Ci addormentiamo e poi ci svegliamo, ci addormentiamo ancora, e io continuo a sentire anche nel sonno la presenza del suo corpicino stretto al mio, delle sue braccia e delle sue gambe che mi abbracciano e mi tengono caldo, mentre anch’io l’abbraccio e la tengo calda, la terrò.

E continuo a sentire anche il tepore del suo respiro che viene da dentro il suo piccolo corpo, vicino alla mia testa, alla mia bocca, ai miei occhi, il suono di qualche parola o di qualche frase che mi continua a sussurrare anche nel sonno, prima di abbracciarmi ancora più stretto, senza svegliarsi, anche il rumore dei suoi piedini che spostano appena le biglie nel corridoio, mi pare persino, a un certo punto durante la notte.

“Starà andando a fare la pipì nel gabinetto!” mi dico senza svegliarmi.

E poi di nuovo il suo piccolo corpo vicino al mio, abbracciato al mio, e poi di nuovo la sua piccola bocca contro la mia bocca, i miei occhi, il tepore del suo respiro che viene da dentro il suo corpicino appena tracimato nella vita che viene dopo e che viene prima.

“Come si dorme bene abbracciati a un altro piccolo corpo, in questo mondo!” mi dico ancora senza svegliarmi.

E intanto la casa trema, e anche il lettino trema, di tanto in tanto, tremerà, per le continue immissioni di tracimati e di tracimatori e di risorti, ma io quasi non lo sento, continuo a dormire contro il suo corpicino che mi tiene abbracciato e che trema di tanto in tanto, in questo infinito buio, nel sonno. Anche il gatto starà dormendo, perché non si sente il rumore delle sue unghie che lacerano le due poltrone e il divano di cuoio che ci sono appena dietro le nostre due testoline incollate e sprofondate nel sonno, tutt’intorno alla grande radio desintonizzata posta sopra un mobile alto, come su un altare, si sarà ingozzato fino a scoppiare di avanzi e adesso starà dormendo anche lui acciambellato in qualche punto della casa, del mondo.

Apro gli occhi, d’un tratto. Non lo so se qualcosa mi ha svegliato di soprassalto, ma mi pare di no. Non lo so se li ho aperti per poi richiuderli ancora e continuare a dormire, ma mi pare di no. Anche lei ha gli occhi aperti, spalancati, e sta con la testa un po’ sollevata, un gomito puntato sopra il cuscino, la mano che sorregge il mento, mi sta guardando da chissà quanto tempo nel buio e mi sta sorridendo.

«Che cosa fai?» le domando all’improvviso.

«Sto guardando» mi risponde la sua voce, nel buio.

«Che cosa stai guardando?» le domando ancora, perché non si vede mai bene dove stanno guardando i suoi occhi, non si vedrà.

«Sto guardando te» mi risponde, nel buio, «ti stavo guardando dormire.»

«Ma da quando tempo lo stai facendo?»

«Da sempre.»

Non so cosa dire, però sento che lei mi abbraccia, mi sta abbracciando di nuovo, con tutto il suo piccolo corpo, con forza, e che mi sta accarezzando le spalle, la schiena, la piccola testa, il volto, la bocca, e allora anch’io l’abbraccio forte, ancora più forte, e le accarezzo anch’io le piccole spalle ricoperte di morbida carne e la schiena e la sua piccola spina dorsale che si indovina appena sotto le dita, passando con la mia mano sotto il velo della sua biancheria di bambina, e la testa e la nuvola dei capelli e gli occhi chiusi sotto le palpebre sigillate.

«Per quanto tempo abbiamo dormito?» le chiedo intanto. «Perché c’è ancora buio, c’è sempre buio, è sempre notte? Anche se qui non è sempre notte, c’è la notte e c’è il giorno, ci sarà. Ma allora perché, quando mi sveglio qui, in questa casa, è sempre notte?»

«Perché qui la notte è il giorno della notte.»

«Sì, ma perché adesso la notte sembra la notte della notte, non quella del giorno?»

«Siamo andati a dormire molto tardi, era notte fonda» mi risponde continuando ad accarezzarmi, «eravamo tutti e due molto stanchi, abbiamo fatto il giro dell’orologio.»

E allora forse, mi passa per la mente continuando ad accarezzarla, ci avranno visto dormire durante il giorno come se per noi fosse notte, quelli che saranno passati da questa stanza, mio padre o mia madre, oppure la Dirce, oppure il gatto, il fagiano dorato, sarà venuto vicino al letto, avrà guardato per un po’ le nostre due testoline incollate che spuntavano appena dalle coperte, con la sua testolina girata da una parte per poterci vedere con uno di quei suoi piccoli occhi rotondi.

Ci stacchiamo un po’, ci stiracchiamo, con tutte e quattro le braccine fuori dalle coperte, le due bocche spalancate in un enorme sbadiglio.

Saltiamo giù dal letto, cominciamo a vestirci uno vicino all’altra, lei con i suoi vestitini che aveva ripiegato bene sullo schienale della poltrona prima di andare a dormire, io con i miei piccoli vestiti di tracimato.

Ci prendiamo ancora la mano, usciamo dalla stanza, nell’anticamera buia e vuota. L’attraversiamo, ci affacciamo allo scalone dai gradini invasi dalle biglie piccole e grandi, lo guardiamo dall’alto, senza fiatare.

«Vieni, vieni!» provo a dirle io, questa volta, con enorme emozione, in un soffio. «Andiamo nella legnaia. Io ci andavo sempre, da solo, quando ero nella vita che viene dopo, ci andrò, aprivo la porticina mimetizzata, mi muovevo al buio, cercavo a tentoni l’interruttore di quella lucina che faceva ancora più buio, scendevo lungo la corta rampa con i gradini dagli angoli arrotondati e ricoperti di polvere di legna e carbone, andavo a sedermi nel piccolo corridoio che c’era tra le due pareti di legna che arrivavano fino al basso soffitto, mi gettavo sul mucchio di carbone e chiudevo gli occhi, e avrei voluto chiuderli per sempre in tutto quel buio che c’era nella vita che viene dopo, che ci sarà...»

«Sì, sì» mi interrompe con emozione la Pesca, mentre continuiamo a guardare dall’alto la voragine dello scalone, «andiamoci insieme, adesso, nella vita che viene dopo e che viene prima, entriamo insieme in tutti i posti bui e in tutti gli stanzini bui e in tutti gli angolini bui dove tu andavi quando eri solo nella vita che viene dopo.»

Facciamo i primi passi, tenendoci per mano, col cuore in gola. Scorgo appena, là in basso, là in fondo, i nostri due piccoli piedi scendere lungo la passatoia rossa che quasi non si vede in tutta questa luce buia, in mezzo alle biglie.

Arriviamo in fondo alla prima rampa, siamo contro la cassapanca lunga e nera, che occupa un’intera parete, giriamo su noi stessi per imboccare la seconda rampa che scende fin dove c’è la porticina mimetizzata e anche l’altra porticina, quella dello stanzino della caldaia.

Si sente già, attraverso la porticina chiusa, il leggero rombo tracimato della caldaia che sta bruciando nella casa buia, nel mondo.

«Ecco, la porta è questa...» le sussurro, nel buio.

«Entriamo!» mi sussurra lei.

Apro la porticina mimetizzata, che si stacca con fatica dal resto della parete come se non l’avessero aperta da molto e ne fosse stata inglobata, come se intonaco e muffa avessero cancellato la linea di sutura quasi invisibile all’occhio che correva nel muro.

«Che strano, che strano...» mi dico muovendo i primi passi all’interno. «Tutte le altre porte della casa sono spalancate e scentrate e fuori dai cardini, mentre questa qui e anche quella della caldaia sono rimaste perfettamente chiuse, sigillate.»

Siamo ormai dentro, indovino la forma delle damigiane nere nel buio, il buio ancora più nero che si apre in fondo, dopo la piccola rampa dai gradini arrotondati su cui scivolavano sempre i piedi.

«Scendiamo!» mi dice lei, mi sussurra, da vicino, in un soffio.

Cominciamo a scendere, tenendoci per mano, piano, molto piano, per non scivolare, perché i gradini sono così ricoperti di polvere di legna e carbone che sembrano fatti di gomma, si muovono e si spostano sotto i nostri piccoli piedi, o forse a muoversi è solo questa spessa e tenera pelle polverizzata che li ricopre.

Arriviamo in fondo. È tutto buio, viene solo un po’ di luce dalla grata che c’è in alto, a filo col marciapiede che passa davanti alla casa, dal lampione che c’è là fuori, là in alto, ma anche la sua luce è tutta buia, è tutta nera, sarà.

«Sono qui, sono qui...» lei mi sta sussurrando con la bocca vicino ai miei occhi, nel buio.

Sento che mi sta accarezzando la linea della testa, del volto, con tutte e due le mani, nel buio.

E che le sue mani stanno tremando, che anche tutto il suo piccolo corpo incollato al mio sta tremando sempre di più, perché la legnaia è fredda, gelata, è sotto la linea dell’orizzonte, e qui c’è freddo, c’è sempre freddo, non c’è il riscaldamento, anche se la caldaia è vicina, è qui a fianco, ma è tutta piena di tubi che portano l’acqua calda rovente verso la casa, una pompa la spinge nei caloriferi dagli elementi enormi che ci sono là in alto, e quando entra nei radiatori fa sempre quel rumore di acque buie e calde che si muovono nel silenzio e che salgono dal profondo.

«Ma tu hai freddo! Stai tremando!» le sussurro ancora più piano, con la testa vicinissima alle sue tempie, alle sue piccole orecchie, perché non ci possano sentire da sopra la linea dell’orizzonte, dalla strada buia dove sono annidati i cecchini dei vivi, dal mondo, e intanto l’accarezzo anch’io, con le mie due piccole mani, nel buio.

«È perché i nostri corpi non riescono a scaldarsi» mi risponde con un filo di voce, in un soffio, per non farsi sentire da sopra la linea dell’orizzonte. «È perché tutto il caldo se lo prendono questi vestitini che ci siamo trovati addosso quando siamo tracimati qui, in questa casa, nel mondo. Ma vedrai che adesso non tremerò più, non tremeremo più, ci scalderemo, ci abbracceremo, e allora il calore dei nostri piccoli corpi potrà scaldarci in mezzo a tutto questo infinito freddo e infinito buio che c’è sotto il filo dell’orizzonte del mondo.»

E intanto vedo, con i miei occhi appena tracimati, nel buio, che si sta togliendo i vestitini nella legnaia nera, con le sue piccole mani che si muovono al buio staccandoli uno dopo l’altro dal suo piccolo corpo e sfilandoli dalla testa facendoci passare dentro la nuvola dei capelli, e poi la sua biancheria pulita di bambina, le calzine, le scarpe, le mutande, e che alla fine rimane nuda di fronte a me, immobile, in piedi, in questa legnaia nera, nel mondo, e allora anch’io mi comincio a togliere i miei vestitini, il mio maglioncino duro e spesso, infeltrito, i calzoni, le mutande di due misure più grandi, le scarpe comperate in quel negozietto di via Fratelli Bandiera, le calze bucate sull’alluce, velocemente, per poterla abbracciare prima, per poterla scaldare prima, e alla fine rimango anch’io nudo di fronte a lei, immobile, in piedi.

C’è molto buio eppure noi ci vediamo, vedo il suo corpicino in piedi di fronte a me, i suoi piedini sopra lo strato di polvere di carbone e di legna, le sue piccole gambe, il suo pancino e il suo torace di bambina, il suo collo sottile che sorregge la sua piccola e bella testa sormontata dalla nuvola dei capelli, e la guardo e la contemplo come si può guardare e contemplare una cosa che si stia vedendo per la prima e ultima volta, e anche lei mi sta vedendo, mi pare, come si può vedere qui, in questa legnaia buia, in questo mondo buio, e mi sta guardando con i suoi occhi che non si vedono mai guardare e mi sta contemplando e intanto mi sta sorridendo con infinita dolcezza, in questo mondo buio, nel buio.

Solleviamo le mani, le braccia, ci abbracciamo e ci stringiamo e ci scaldiamo e io sento solo le sue ossicine ricoperte di morbida carne, della sua faccia e della sua testa, delle sue braccia, delle sue piccole spalle, del suo bacino, delle sue gambe, stringersi forte alle mie, e riscaldarle, e anch’io la stringo forte e le accarezzo il volto, con le mani, le labbra, e anche lei mi accarezza, mi bacia, sul volto, sul collo, e poi anche sulle spalle, sul mio piccolo torace magro da cui spuntano le ossa delle costole e poi sulle altre ossa, delle anche, mi pare, e intanto viene giù, viene sempre più giù con tutto il suo piccolo corpo, si sta piegando nell’aria per poter scendere ancora di più sul mio corpo e accarezzarlo, baciarlo, si sta sedendo e poi si sta coricando sulla parete inclinata del mucchio di carbone rimasto qui da quando hanno cambiato la vecchia caldaia con quella nuova, per poter continuare a scendere ancora di più sul mio corpo e accarezzarlo, baciarlo, e anch’io mi abbasso per poter continuare ad accarezzarla e a baciarla e a scaldarla mentre anche lei continua ad accarezzare e a scaldare e a baciare tutto il mio piccolo corpo di bambino appena tracimato nel continente dei vivi.

«Come sei bella!» le sussurro.

«Lo sarò» mi risponde nel buio, e si vedono intorno alle nostre bocche e alle nostre teste e ai nostri piccoli corpi gli aloni dei nostri fiati appena tracimati in questa legnaia buia, nel mondo.

«Che ciglia lunghe!» le sussurro ancora, passando con la mia piccola bocca sopra i suoi occhi dalle palpebre chiuse.

«È per nascondere gli occhi» mi risponde continuando a baciarmi, nel buio.

«Ma perché devi nascondere gli occhi?»

«Perché non si veda che sono strabica, sarò.»

«E che belle orecchie!»

«Sono le mie prime orecchie. Tu le hai già viste quando abbiamo ballato insieme in quella casa cantoniera, le vedrai.»

«E cosa sono queste due cosine dure che però sembrano di velluto?»

«Lì mi spunterà il petto, mi spunterà per te, per quando tu me lo accarezzerai, me lo bacerai.»

«E perché qui sei aperta? Ti sei tagliata?» le sussurro ancora, continuando ad accarezzare e a baciare tutto il suo piccolo corpo disteso sulla parete inclinata del carbone che si muove sotto di noi con tutti quei suoi pezzettini neri che pungono.

«È la mia porticina.»

«Ma che porticina è? Dove si va?»

«È per entrare dentro di me.»

«Io sono ancora piccolo, non posso ancora entrare dentro di te.»

«Ci entrerai.»

«Ma perché non adesso?»

«Perché ci sei già entrato, perché ci entrerai.»

«Ma adesso non è adesso?»

«Adesso starai lì, fuori dalla mia porticina, ma poi ci entrerai, ci entrerai.»

«Ma quando sarà adesso? Quando ci entrerò, se adesso non è più adesso?»

«Sarà sempre adesso» mi sussurra, mi sta sussurrando adesso, nel buio, e intanto continua ad accarezzarmi e a baciarmi la piccola testa rasata, sollevandosi con la schiena e la testa da questa montagna nera e inclinata, il collo, le spalle, il torace, le anche, e poi anche il buchino dell’ombelico, dove sono nato perché nascerò, e poi anche dove entrerò dentro la sua porticina dove sono già entrato perché ci entrerò.

«Ma dove siamo adesso?» le sussurro anch’io mentre l’accarezzo e la bacio su tutto il corpo, anche dove entrerò, dove sono già entrato perché ci entrerò. «Perché ti ho già vista dopo senza averti già vista prima?»

«È per questo che quel giorno ti avevo detto: “Non mi riconosci più? Sono la Pesca!”, ti dirò.»

«Ma quando me lo hai detto, me lo dirai?»

«Te l’ho detto quando sei arrivato a Ducale, poco prima dell’alba, in sella alla motocicletta del Nervo, e le finestre della villa erano ancora tutte chiuse, anche quelle della mia casa, e io ho sentito dalla mia stanza il rumore della motocicletta che stava entrando nel cortile, e poi quello del Nervo che la stava issando sul cavalletto con un piccolo verso nella legnaia piena di gabbie di conigli svegliati di soprassalto, mentre stavo coricata nel lettone con i miei fratelli, quello dove anche tu sei entrato, entrerai, e stavo guardando verso il soffitto sfondato da cui di notte si vedevano passare le costellazioni che ci sono nel cielo del mondo, e tu hai cominciato a camminare tutt’intorno al parco, e poi sei ritornato nel cortile e io sentivo dalla mia casa dalle finestre ancora chiuse il rumore dei tuoi passi sopra la ghiaia appena svegliata che scricchiolava, e poi ti sei seduto sopra una sdraia ancora fradicia di rugiada che qualcuno si era dimenticato di ritirare dentro la serra la sera prima, con la tua veste nera al centro del cortile e del mondo, e allora mi sono alzata dal lettone e ho aperto una finestrella per cominciare a guardarti prima, e poi sono scesa semiaddormentata a pianterreno e poi ho imboccato la scaletta esterna, scendendo e risalendo i gradini perché i miei occhi strabici guardavano sempre gradini diversi, guarderanno, e poi sono venuta verso di te, verso la macchia nera della tua veste al centro del cortile e del mondo, e tu hai visto venire verso di te il mio giovane corpo appena svegliato dal sonno e la mia testa dalla nuvola di capelli spettinati e sollevati nell’aria, nello spazio, e allora io ti sono venuta ancora più vicino e ti ho detto: “Non mi riconosci più?”. Te l’ho detto per questo, perché ci eravamo già visti prima, perché ci stiamo vedendo adesso.»

«Ma come facevo ad averti già vista se non ti avevo ancora vista, se ti sto vedendo per la prima volta adesso?»

«Perché ci eravamo già amati da bambini, ci stiamo amando adesso, ci ameremo, perché ci siamo amati anche prima, da morti, nella morte che viene prima, e anche dopo, nella vita che viene dopo e in quella che viene prima.»

«Ma come facevo a riconoscerti, se non ti avevo già vista prima, se non ti avevo già vista dopo?»

«Perché mi avevi già vista adesso, perché mi vedrai adesso.»

Il suo corpicino non trema più, e anche il mio non sta più tremando, stiamo tutti caldi nel bozzolo delle nostre carezze e dei nostri baci, in questo posticino buio sotto il filo dell’orizzonte del mondo.

«Che cos’è l’amore?» sento che la mia piccola voce tracimata le sta domandando all’improvviso, in un soffio, mentre continuo ad accarezzarla e a riscaldarla e a baciarla. «E questo che amore è? È quello che viene dopo o quello che viene prima?»

«È quello che viene adesso.»

«Ma dov’è adesso? E come si può conoscere l’amore se l’amore viene sempre prima e viene sempre dopo, e se adesso non è più prima e non è più dopo e non è più adesso?»

«Proprio perché non è più prima e non è più dopo, proprio perché non è più adesso, non sarà più adesso, proprio per questo sarà sempre adesso» mi risponde la sua voce, la sua vocina, in un soffio.

«E come si può vivere l’amore dentro la vita e anche dentro la morte, se la vita non è più dentro la morte e la morte non è più dentro la vita? E allora l’amore dove sarà se non è più, non sarà più dentro la vita e dentro la morte? E allora dove sono la vita e la morte se non sono più dentro la morte e neanche dentro la vita che è dentro la morte che viene, veniva prima?»

«L’amore è quello che viene prima perché non è più prima, è quello che viene dopo perché non è più dopo. La vita e la morte sono prima di venire prima, sono dopo essere venute prima. L’amore non si può vivere adesso se si è vissuto prima e se si è vissuto dopo.»

«Ma allora tutti quei corpi e tutte quelle vite che ho incontrato nel mondo che veniva dopo e che veniva prima, che credevano di vivere l’amore e che si cercavano e che si perdevano e che si disperavano, si dispereranno... che cos’era tutto quel tormento, se non era amore, sarà?»

Mi guarda, in questa legnaia buia, dal nostro letto di carbone.

«Tutti quei corpi che si cercavano e che penetravano gli uni dentro gli altri e che si frugavano in tutto quell’infinito buio per cercare di trovarsi e di incontrarsi in qualche punto dei loro corpi e delle loro vite nel mondo, dentro le case, nelle città dei vivi e in quelle dei morti, attraverso il mondo con i suoi continenti, i mari, gli oceani, nelle città sprofondate sotto la linea dell’orizzonte e fin dentro i fiumi seminali e le città seminali... Ma allora che cosa stavano cercando? Che cos’era quella mancanza, che cosa sarà? Che cosa mancava ai loro corpi e alle loro vite, che cosa mancherà?»

Non mi risponde, però riprende ad accarezzarmi, a baciarmi.

«Perché i loro cuori e le loro vite erano schiacciati dal peso di una così tremenda mancanza? Perché sentivano questa tremenda mancanza, se quello che mancava non c’era, non ci sarà?» domando ancora, mentre lei mi sta accarezzando la bocca con la punta delle sue piccole dita, come per sigillarla.

«Ma allora che cos’era? Che cosa stavano vivendo, cosa vivranno tutte quelle vite e quei corpi nell’infinito buio del mondo?» riesco a chiederle ancora, mentre lei mi sta chiudendo la bocca con la sua piccola bocca, nel buio.

«E allora noi?» le domando un’ultima volta, con la bocca ormai sigillata dalla sua piccola bocca.

Mi sta baciando, e la sto baciando anch’io, come solo sanno baciarsi i bambini con le loro piccole bocche appena tracimate e indovinate e inventate nell’infinito buio della vita e del mondo.

Ci stringiamo forte, ci baciamo a lungo, coricati uno sopra l’altra nella legnaia nera, nella vita che viene, che veniva prima e che viene dopo, verrà.

«Io sono tracimata per te» mi risponde d’un tratto, staccando la sua bocca dalla mia bocca e capovolgendo i nostri due piccoli corpi abbracciati su questo letto di carbone inclinato, con la testa e la bocca e la nuvola dei suoi capelli appena sopra di me, con la voce che trema, con ardore, nel buio. «Io sono tracimata nella vita che viene dopo e sono tracimata nella morte che viene prima e adesso sono tracimata nella vita che viene dopo e che viene prima, verrà, anche se non viene più dopo e non viene più prima, anche se adesso non è più l’adesso di dopo e di prima. Anche il mio amore è tracimato dentro la vita e dentro la morte che non vengono più dopo e prima, è tracimato anche dentro l’amore che non è dentro l’amore che non era stato perché non sarà. Io ti sto portando la tracimazione e l’amore.»

Mi sorride, appena sopra la mia testa, nel buio.

«Dove sei?» le domando.

«Tu ancora non capisci, tu non hai aperto gli occhi...» mi risponde con dolcezza.

E intanto mi bacia sugli occhi che non ho ancora aperto, che non aprirò.

Restiamo a lungo così, senza più parlare, ci baciamo soltanto, ci accarezziamo, ci scaldiamo, e io sento sopra il mio piccolo corpo il peso del suo piccolo corpo che si muove per abbracciarmi ancora di più anche se già mi stava abbracciando, e sento appena contro la mia schiena il leggero fragore di tutti questi pezzi di carbone che si muovono e franano sotto di noi e che mi pungono con le loro soffici punte nere tracimate nel mondo.

Poi, all’improvviso, in tutto questo infinito buio, si sentono venire dei colpi, degli urli, da molto lontano, dall’alto.

La casa ha ripreso a tremare, sopra la caverna buia della legnaia, ma anche qui dove siamo, qui in fondo, perché si sentono le muraglie di legna alte fino al soffitto scricchiolare sotto l’urto di questa tracimazione universale e di questi colpi e di questa guerra, e anche il soffitto di legno e le travi nere che ci sono sopra di noi stanno scricchiolando forte come se fossero sempre sul punto di spezzarsi.

«Avrà ripreso a pestarla, a massacrarla!» mi dico, col cuore in gola.

Sento il suo piccolo corpo nudo scivolare di lato, sopra di me.

Mi alzo anch’io, mi metto a cercare i vestiti, nel buio.

Anche lei sta cercando nel buio i suoi vestitini.

Ma prima di vestirci ci togliamo l’un l’altra i frammenti di carbone e la polvere nera che ci sono rimasti appiccicati. Le passo le dita sulle spalle e sulla sua piccola schiena diritta, poi su quelle pieghe di carne che hanno le bambine in fondo alla schiena, e intanto anche lei mi sta togliendo i pezzettini di carbone dalla pelle della schiena, dalle mie pieghe di carne, mentre con l’altra mano si scuote la nuvola di capelli.

Cominciamo a vestirci, in fretta, sempre più in fretta, perché dall’alto continuano a venire dei colpi e degli urli sempre più forti. Ci infiliamo la biancheria, e poi i vestiti, ma prima li scuotiamo due o tre volte, con forza, per mandare via tutta questa polvere nera, e anche prima di infilarci le calze e le scarpe solleviamo uno dopo l’altro i piedini per pulirci le piante, nel buio.

Ci prendiamo di nuovo la mano, cominciamo a spostarci verso la porta della legnaia, saliamo i pochi gradini dagli spigoli arrotondati, rasentiamo le damigiane dalla paglia sbrecciata che scricchiolano e gemono e sbattono le une contro le altre e sembrano sempre sul punto di fracassarsi.

Apriamo la porta. Siamo nel fondo dello scalone.

C’è un gran fragore, perché molte biglie stanno rotolando verso il basso saltando sopra i gradini.

Cominciamo a correre verso l’alto, facendoci largo in mezzo a questa cascata di nuove biglie piccole e grandi che stanno scendendo fragorosamente verso di noi.

Svoltiamo alla fine della prima rampa, continuiamo a correre verso il portone nero spalancato e scentrato che c’è là in alto, da cui sgorgano sempre nuove biglie luccicanti nel buio.

Entriamo di corsa nell’anticamera. Tutta la casa trema. Mio padre sta trascinando mia madre lungo il pavimento inclinato, mentre lì vicino la Dirce grida e piange, la sta trascinando con una sola mano mentre con l’altra sta ancora stringendo il mitra, e mia madre sta gridando forte, come un animale sgozzato, e stanno venendo degli urli anche dalla camera blu dove la Signorina sarà con la testa sollevata dal cuscino e starà gridando con la sua bocca sdentata, dalle sole gengive.

Mio padre si ferma, si gira su se stesso, colpisce mia madre col calcio del mitra, con forza, dall’alto, una volta, due volte, tre volte, sul volto che è una maschera di sangue e di bende strappate.

Sento che la Pesca mi sta stringendo la manina, più forte.

«Andiamo via! Andiamo via!» mi bisbiglia stringendosi contro di me con tutto il suo piccolo corpo. «Così magari non ti vede, non massacra anche te, non ti massacrerà!»

Eppure, in tutto questo spaventoso fragore, mi sembra di sentire un rumore, un rumorino che viene da molto vicino, dal basso, dalla parte del pavimento, come se qualcosa si stesse muovendo impercettibilmente là in fondo e stesse facendo rotolare per conto proprio le biglie.

Provo a guardare in basso, in questa luce buia.

«Ma è la tartaruga!» mi accorgo improvvisamente. «È tracimata anche lei! Starà fuggendo a perdifiato verso la camera blu!»

«Andiamo via di qui! Andiamo via!» continua a ripetermi la Pesca.

Corriamo verso la mia stanza. Le biglie rotolano sui pavimenti che hanno ricominciato a inclinarsi ancora di più da una parte e dall’altra. E poi corriamo verso l’altra stanza, quella del corno da caccia e della spada, per allontanarci sempre di più dalle grida, dai colpi.

Adesso si sentono un po’ di meno, sempre di meno, segno che mio padre l’avrà già trascinata più lontano, nella camera da letto, fin sotto la finestra, per poter continuare a sparare gettandosi fuori con la testa da dietro le ante, e poter continuare nello stesso tempo a colpire con il calcio del mitra nell’intervallo tra una scarica e l’altra mia madre distesa come un sacco insanguinato sul pavimento.

Ci guardiamo attorno ma non vediamo niente, io almeno non vedo niente, e gli urli adesso si sentono da sempre più lontano, si sentiranno.

«Non si sentono più...» mi sta dicendo lei, e intanto mi accarezza da dietro la piccola testa rasata.

«No, io li sento ancora, anche se sono lontani, più sono lontani e meno si sentono e più vuol dire che sono forti e più io li sento, li sentirò.»

Ci spostiamo tra questi muri da cui pendono lembi di tappezzeria sbrecciata, tra gli ovali neri delle battaglie dei vivi e dei tracimati nelle loro cornici d’oro annerito.

«Vedi, questo è il corno da caccia!» le dico, le bisbiglio piano, perché nessuno ci senta, indicandoglielo con la mano. «Io l’ho suonato una volta, due volte, quando sono tracimato in questa casa, nel mondo, ho lanciato il mio potente richiamo, anche se nessuno oltre alla Signorina mi ha sentito, mi sentirà.»

«No, l’ho sentito anch’io» mi risponde. «È per quello che sono venuta.»

Scorgo nel buio che ha alzato la mano verso il corno appeso alla parete con il cordoncino rosso e il chiodino, che lo sta toccando, che sta accarezzando le sue volute dorate che brillano in questo infinito buio.

«E in quel cassetto là in fondo c’è anche una spada!» le dico ancora. «Ma bisogna cercarla bene perché l’hanno nascosta sotto una pila di tappeti arrotolati...»

Lei sta in silenzio, guarda, mi sta guardando, con i suoi occhi che non si capisce mai se stanno guardando.

«Fammi vedere la spada!» mi dice d’un tratto.

E allora io apro l’ultimo cassetto, tirandolo forte prima da una parte e poi dall’altra perché non scorre bene. Comincio a rovistare sotto la pila dei tappeti, finché la trovo.

La tiro fuori dal suo fodero di cuoio, la sguaino.

«Uccidimi!» mi dice lei, all’improvviso.

Intanto trema un po’, mi è venuta più vicino, mentre io sto ancora con la lunga spada sollevata nell’aria.

«Uccidimi! Uccidimi!» mi continua a dire. «Passami da parte a parte! Spacca il mio piccolo cuore, fammi uscire tutte le budelle dalla pancina!»

«Perché?» le domando.

«Per poter morire ancora, per poter tracimare ancora dentro la vita e dentro la morte, anche se non sono dentro la vita e dentro la morte, per poter tracimare ancora dentro il tuo amore, per poterti portare ancora la tracimazione e l’amore.»

Un istante dopo, mentre lei è ancora qui che trema vicino a me, con gli occhi socchiusi e con la testa rovesciata all’indietro e un po’ sbilanciata dalla nuvola dei suoi capelli, in attesa che io la trapassi da parte a parte con la spada e che la sbudelli, succede all’improvviso una cosa che non avrei mai immaginato: squilla il telefono.

Abbasso la spada, la infilo nel fodero, la rimetto sotto la pila dei tappeti, chiudo il cassetto aiutandomi con qualche ginocchiata e con qualche calcio, comincio a correre verso l’anticamera, e intanto sento che anche lei sta correndo dietro di me, sento il rumore dei suoi piedini in corsa contro le assi dei pavimenti e in mezzo alle biglie, e intanto mi ha ripreso la mano, da dietro, me la stringe forte.

Il telefono sta continuando a squillare, da sempre più vicino, dalla parte dell’anticamera.

“Chi sarà?” mi passa per la mente mentre continuo a correre. “Chi può essere? Chi può telefonare in piena notte in questa casa fredda e buia piena solo di tracimati? Io non credevo neppure che il telefono funzionasse, non suonava quasi mai neanche quando ero vivo nella vita che viene dopo e che viene prima, sarò, lo avevano installato contro il muro dell’anticamera, nell’angolino vicino alla porta del corridoio e a quella della mia stanza e quelle poche volte che suonava ero sempre io a correre e a sollevare per primo la cornetta nera e a cercare di capire chi era, chi mai poteva telefonare in questa casa buia piena solo di percosse e di grida, da quale punto della vita e del mondo, oppure ero io stesso a telefonare, infilando il dito in quella ruotina e facendo un numero a caso, col cuore che mi batteva fin quasi a scoppiare, perché io non conoscevo nessuno, per sentire dall’altra parte una voce, se c’era ancora una voce che potesse rispondermi da qualche punto della vita e del mondo, e l’ascoltavo senza dire chi ero, chi sarò, prima di riagganciare di colpo per l’emozione.”

Arrivo alla fine della mia stanza, entro nell’anticamera.

Adesso il telefono è qui vicino, sta continuando a squillare, a squillare.

Tiro su la cornetta nera, sollevandomi un po’ sulle punte dei piedi, me l’accosto all’orecchio.

«Accidenti, quanto ci hai messo a rispondere!» sta dicendo una voce, una vocina.

Rimango immobile, muto, sento che lei mi è venuta vicino e che mi sta abbracciando forte, di fianco, con le sue piccole braccia, che ha appoggiato la sua piccola testa e la nuvola dei suoi capelli sulla mia spalla.

«Ma tu chi sei?» provo a dire.

«Non mi riconosci più? Sono la Pesca!» mi risponde la vocina, in un soffio.

«Ma tu sei qui! Sei vicino a me! Da dove mi stai chiamando, se tu sei qui?»

Lei mi abbraccia forte, mi stringe, per farmi sentire che lei è proprio qui, qui vicino a me, mentre io sto parlando con lei attraverso questa cornetta nera, in questo punto buio della vita e del mondo.

«Io sono la tua piccola sposa» mi sta dicendo intanto la sua vocina nel ricevitore, in un soffio.

«Ma perché sento la tua voce al telefono, se tu sei qui? È perché tutto è spaccato in due? È perché anche tu sei spaccata in due? È perché anche l’amore è spaccato in due?»

Rimane in silenzio, per un istante.

«Perché non mi hai uccisa?» mi domanda la sua vocina da dentro il ricevitore, d’un tratto.

«Perché io sono il tuo piccolo sposo. Perché tu mi hai portato l’amore.»

«Ma se io non muoio come farò a tracimare ancora per te, come farò a portarti ancora l’amore?»

«Ma me l’hai già portato!» le rispondo col cuore che sta martellando forte, in un soffio.

«Te l’ho portato perché te lo porterò» mi risponde la sua vocina, in un soffio.

Poi di nuovo silenzio, per un po’, solo il suono del suo leggero respiro dentro il ricevitore, il calore del suo fiato e della sua bocca contro la mia testa e il mio collo, mentre vengono da lontano i lamenti e i gemiti e i versi di mia madre, da qualche parte della casa e del mondo, forse dalla camera da letto dove sarà ancora distesa come un sacco insanguinato sul pavimento, forse da qualche altra stanza o dal gabinetto dove la Dirce la starà medicando e bendando.

«Io adesso morirò» sento che la vocina mi sta dicendo all’improvviso, nel ricevitore.

«No, no! Non morire!» le dico, le grido. «Non lasciarmi ancora così solo in questa casa, nel mondo!»

«Io adesso morirò» mi sta ripetendo la sua vocina, con dolcezza, in un soffio. «Ma poi tu mi incontrerai, perché tu mi possa incontrare io adesso devo morire, morirò.»

«Perché, appena ti ritrovo, ti perdo ancora, ti perdo sempre?» le provo a dire, le grido. «Perché non ci sei prima che io ti perda, perché non ci sei dopo che ti ho perduta, che ti perderò?»

«Tu ancora non capisci...» mi sussurra per l’ultima volta, nella cornetta nera, nel buio. «Ancora non hai aperto gli occhi.»

Poi più niente, solo quel piccolo suono tracimato e ritmato che viene dalla cornetta, per indicare che dall’altra parte hanno già messo giù il ricevitore, che la comunicazione è stata interrotta.

Lei mi stringe più forte, nel buio, mi stringerà.

Adesso non riusciamo più neppure a tenerci per mano, dobbiamo stare tutti incernierati e abbracciati, e riprendiamo a camminare così attraverso la casa, sui pavimenti inclinati, come un unico corpo con quattro piccole gambe, in questo mare di biglie che rotolano da una parte e dall’altra, perché so che adesso non la vedrò più, e anche lei sa che non mi vedrà più, e allora ci stringiamo ancora forte, più forte, per l’ultima volta, in questa casa buia, in questo continente, in questa vita che viene dopo e che viene prima, verrà.

«Fammi entrare in tutti i posticini bui che ci sono in questa casa buia...» mi sta dicendo e mi sta sussurrando, con la sua piccola bocca vicino alla mia guancia e alla mia bocca e all’interno del mio collo che pulsa per quelle piccole vene piene di sangue nero che ci sono dentro. «In tutte le stanze dove non siamo ancora stati, perché ci sono ancora molte altre stanze in questa casa buia dove non mi hai ancora portato e dove neanche tu sei ancora entrato da tracimato, in tutti i ripostigli bui e in tutti gli angolini bui e dentro tutte le porticine buie...»

Sì, ci devono essere delle altre stanze, in questa casa, nel mondo, perché si sentono, da qualche parte, dei rumori di passi e di vesti che si spostano e fuggono all’avvicinarsi dei nostri piccoli passi. E ci sono anche molte altre stanzine buie e porticine buie che si scorgono qua e là in questa luce seminale che scende dai soffitti a volta, nel buio.

«Guarda...» mi sta dicendo. «Lì c’è una porticina.»

Adesso siamo fermi, incernierati, avvinghiati.

«No, no, lì dentro no! Dappertutto, ma lì dentro no!» le sussurro senza fiatare, nel buio. «Io non posso entrare lì dentro, io non voglio entrarci, non ci entrerò!»

«No, tu ci entrerai, ci entrerai con me. E io ci entrerò con te, come una cosa sola con te.»

Vedo nel buio che sta già allungando una mano verso la piccola maniglia della porticina, che la sta già abbassando.

«Vieni, vieni...» mi sta dicendo. «Vieni dentro con me, come una cosa sola con me.»

E allora io entro, entrerò.

Ma c’è tutto buio qui dentro, ci sarà, c’è solo una lucina che lei ha appena acceso girando con la mano un interruttore a farfalla, ma che non fa luce, fa buio, fa ancora più buio in mezzo a tutto questo buio che c’è nella casa e nel mondo.

«Io adesso morirò!» mi sta dicendo e mi sta sussurrando la sua voce, la sua vocina, nel buio.

«No, no...» sento solo che le sta dicendo la mia voce, la mia vocina, nel buio.

«Io adesso morirò come una cosa sola con te e tu morirai come una cosa sola con me.»

Non vedo più niente, perché qui c’è troppo buio, non vedrò.

Ma lei un po’ ci vede, perché sta muovendo le mani verso una mensola nera ingombra di attrezzi e di altre cose nere che non si vedono in tutto questo buio, sta srotolando qualcosa che fa un po’ di rumore, mi pare, forse un cavo elettrico dove ci passava la corrente, nella vita che veniva prima e che veniva dopo, ci passerà, forse uno di quei cavi larghi e piatti dove ci passavano due fili di rame, una piattina.

«Ci sarà pure una trave, qui dentro...» sento bisbigliare la sua vocina nel buio. «C’è sempre una trave, in queste case buie, nel mondo, ci sarà, per i bambini come noi che devono tracimare, per le piccole spose che devono correre a tracimare dai loro piccoli sposi...»

«No, no...» io riesco a dire soltanto, in tutto questo infinito buio.

«Io adesso mi impiccherò» mi sta continuando a dire la sua vocina, nel buio, «io mi impiccherò per te, io mi impiccherò al posto tuo, così tu non dovrai impiccare te perché io non impicchi me, io tracimerò qui, proprio qui, dove ti saresti impiccato anche tu, se adesso non mi impiccassi io, dove saresti tracimato anche tu, dove tracimerai, come una cosa sola con te, e tu con me, perché io sono la tua piccola sposa, perché ti porterò l’amore.»

«No, no!» riesco solo a sussurrare, nel buio.

Ma lei non si ferma, sento che sta continuando a muovere le mani e le braccia, da qualche parte, in questo infinito buio.

«Che cosa stai facendo?» le riesco a dire, nel buio.

«Ho lanciato un’estremità della piattina oltre la trave» mi risponde la sua vocina, nel buio. «Sto cercando di fare il nodo, di farlo ben stretto, con le mie manine, perché non si sciolga quando starò tracimando, anche se qui c’è buio, c’è buio...»

È salita su qualcosa di alto, mi pare, un tavolo mezzo sfondato, una sedia, una mensola, muovendosi con le sue braccine e le sue gambine come una bestiolina agile in tutto questo infinito buio.

«No, no...»

Un istante dopo sento un rumore forte, segno che il suo piccolo corpo con il collo già dentro il cappio si è lasciato cadere dall’alto.

«Ma perché, se ti stai impiccando adesso, io ti ho già vista impiccata nel continente dei morti?» riesco a gridare ancora, nel buio.

«Perché mi vedrai.»

«Ma perché, se ti sei impiccata, mi stai parlando?»

«Perché ti parlerò.»