Com’è lunga questa notte! Come sono lunghe le notti nella vita che viene dopo e che viene prima! Io adesso sono qui, in questo stanzino nero, e non si vede niente, e non vedo niente, sento solo quella vocina che mi continua a parlare e a sussurrare, sento solo la mia vocina che le continua a parlare e a sussurrare, nel buio.
«Adesso come farò?» mi dispero senza vedere con chi sto parlando, in tutto questo infinito buio. «Io sono sempre stato solo, nella vita e nella morte che vengono prima e che vengono dopo, ma non sono mai stato solo come adesso, non sarò.»
«Tu non sei solo, io sono con te, sarò con te, io sono tracimata dentro di te, il mio amore è tracimato tutto dentro di te, il tuo amore è tracimato tutto dentro di me e dentro l’amore che è dentro di me e che è tracimato dentro di te» mi risponde la sua vocina impiccata, con infinita dolcezza, nel buio.
«Ma allora, se il tuo amore è tracimato tutto dentro il mio amore che è tracimato tutto dentro il tuo amore, allora l’amore dov’è? Se io sono ancora qui e non ho più il mio amore dentro di me perché è tracimato tutto dentro di te e tu non hai più il tuo amore dentro di te perché è tracimato tutto dentro il mio amore che è dentro di te, allora noi due dove siamo? E il nostro amore dov’è?»
«È dove è sempre stato, sarà.»
«Ma, se dove sarà non c’è, allora dove sarà? Perché ci sarà?»
«Perché c’è sempre stato, perché ci sarà, perché tracimerà.»
«Ma, se tu sei l’amore e l’amore non è più dentro di te, allora anche tu sei sola senza l’amore che non è più dentro di te perché è tutto dentro di me.»
«Io sono sola perché tu sei solo, io non sono sola perché tu non sei solo.»
«Ma io sono solo!»
«Sarai solo adesso, ma adesso non è più adesso, non sarà.»
«Allora lo vedi che sono solo, che anche tu sei sola senza l’amore che non è più dentro di me e dentro di te?»
«Vieni qui!» mi dice all’improvviso, mi sussurra la sua vocina, nel buio.
E allora io mi avvicino, anche se non si vede niente, in tutto questo infinito buio.
«Abbracciami, abbracciami!» mi sta dicendo ancora la sua vocina, con infinita dolcezza, nel buio. «Abbraccia le mie gambine che penzolano dal soffitto, sali con i tuoi piedini su quella seggiola scalcagnata e poi abbraccia anche tutto il mio piccolo corpo tracimato, affonda la faccia nel mio piccolo grembo e continua a parlarmi così, con dolcezza, nel buio, in questa vita che non viene più prima e che non viene più dopo.»
E allora io l’abbraccio e intanto le dico e le sussurro, con la faccia affondata nel suo piccolo grembo, nel buio: «Resta qui, resta qui, qui con me, anche se sei impiccata, resta qui, resta per sempre qui!».
«Io adesso non ci sono più, non ci sarò più...» mi sussurra la sua vocina, da un po’ più in alto, dal buio.
«Ma allora io come nascerò, da chi nascerò, se non nascerò da te?»
«Io non ci sono più, non ci sarò, ci sarò.»
«Ma se tu non ci sarai allora anch’io non ci sarò, non nascerò, non sarò!»
«Tu non ci sarai, ci sarai.»
E poi più niente, solo il penzolare del suo corpicino muto, in questo stanzino nero, il suono lontano di tutte quelle biglie che continuano a rotolare e poi a fermarsi e poi a rotolare ancora sul piano inclinato dei pavimenti e del mondo.
E poi, a poco a poco, mentre sono ancora qui, abbracciato a questo piccolo corpo che penzola dal soffitto, si comincia a sentire un altro suono, prima impercettibile, poi sempre più chiaro, più melodioso, più dolce, che non ho mai sentito prima, che sembra scaturire dalla caverna calda di qualche corpo in tracimazione e che sta venendo da qualche punto molto lontano di questa casa e del mondo.
“È una voce!” mi dico, col cuore in gola.
Stacco le mani e le braccia dal piccolo corpo. Scendo dalla seggiola scalcagnata, esco dallo stanzino, a tentoni, nel buio, muovo qualche passo nel resto della casa.
“È una voce! È una voce!” continuo a dirmi, nel buio. “È una meravigliosa voce che sta cantando, da qualche punto lontano e segreto di questa casa, del mondo.”
Ma da dove viene? Perché non viene dall’anticamera e nemmeno dalla mia camera e da quella della spada e del corno da caccia, non viene dalla camera da pranzo, dalla camera blu, non viene neppure dalla parte del corridoio e della cucina e neppure dallo scalone, eppure viene da qui, da qualche punto profondo e da qualcuna delle altre stanze segrete che ci sono in questa casa e che io non ho ancora visto da tracimato, non vedrò.
Mi sposto attraverso la casa, cercando di capire da dove viene questo canto che non ho mai sentito prima, passando davanti alle porte delle stanze dove non ero ancora entrato, perché è vero che ci sono delle altre stanze e delle altre porte, in questa casa illuminata da questa luce seminale buia che viene giù dall’alto dei soffitti a cassettoni e a volta.
Attraverso una porta scentrata, appesa a un solo cardine che è quasi tutto fuori dal muro, perché devono esserci stati dei colpi forti, provocati dalla guerra o dal sisma, mentre ero in quello stanzino nero e non vedevo niente, non sentivo niente, sentivo solo quella vocina che parlava dal buio e nient’altro. Oltrepasso una piccola sala piena di divani lisi e di specchi neri arrugginiti e ossidati, perché i morti divorano gli specchi dei vivi, perché i vivi sono divorati dagli specchi dei morti.
Il canto sta venendo da più lontano ancora, si vede che c’è un’altra sala o un’altra stanza, ad andare più avanti, in questa melma seminale di luce buia.
Mi arresto, sulla soglia di un’ultima stanza.
Il mio cuore si ferma, oppure sta riprendendo a pulsare forte, se si era fermato prima, quando ero in quello stanzino nero col corpicino della mia piccola sposa tra le braccia.
Spalanco gli occhi.
C’è una donna indiana, seduta al centro della stanza, con un meraviglioso sari dorato, che sta cantando accompagnandosi con un sitar.
«E tu chi sei?» le domando.
Non mi risponde. Però si gira verso di me, continuando a stare accovacciata come un grande fiore d’oro sul pavimento, e a cantare con la sua melodiosa voce, mentre le sue dita non smettono di accarezzare le molte corde del sitar.
«Io ti ho già vista!» le dico ancora, senza riuscire a muovere un passo per l’emozione. «Su quella rivista che mio padre stava sfogliando in cucina, piena di fotografie di re e di regine e di principi e di principesse, ti vedrò.»
Smette per un istante di cantare. Si gira completamente verso di me.
«Io sono tracimata qui» mi risponde, con la sua voce mai sentita prima.
«Ma chi sei?» le domando ancora.
«Sono Arjumand Banu Begum, la moglie dell’imperatore mogul Shan Jahan, quella per cui ha costruito il Taj Mahal quando sono tracimata nella morte che viene prima e che viene dopo, e che adesso è tracimata nella vita che viene dopo e che viene prima in questa tracimazione universale di vita e morte.»
«Sì, sì, lo so, io l’ho visto quel tempio bianco, abbagliante!» le dico facendo un passo in avanti, verso quel fiore d’oro che si espande sul pavimento inclinato. «Me lo faceva sempre vedere mio padre, quando ero piccolo, sarò, su quel visore dove si infilavano dei dischi pieni di piccole diapositive, e io facevo ruotare quelle immagini che apparivano all’improvviso di fronte ai miei occhi, nel buio, girato verso la poca luce della finestra, abbassando una piccola leva che c’era a fianco, col mio piccolo dito, in questa casa buia, nel mondo che veniva dopo e veniva prima, verrà.»
«Te lo faceva vedere perché là dentro c’ero io, ci sarò.»
Non dico più niente, perché si sente venire da lontano, dalle altre stanze, un leggero clangore che si sta avvicinando sempre di più.
“Saranno quelle biglie!” mi dico. “Avranno sentito anche loro questa meravigliosa voce che cantava. Staranno rotolando fin qui sui pavimenti inclinati, attraverso l’altra stanza dove sono appena passato, e poi verso la stanza dove c’è questa donna con le dita ancora ferme sulle corde del sitar, con quel segno rosso in mezzo alla fronte...”
Il clangore si avvicina sempre di più.
Un secondo dopo una distesa di biglie fa irruzione attraverso la porta scentrata, dilaga dentro la stanza, fino al fiore del suo corpo seduto con le gambe intrecciate sul pavimento.
«Ecco, lo vedi!» mi dice lei, sorridendo. «Anche lui ha sentito la mia voce e ha lanciato i suoi gameti verso di me!»
E poi si gira di nuovo e riprende a suonare e a cantare, con la sua voce melodiosa, di tracimata, in mezzo a questo mare di biglie che si sono fermate tutt’intorno al suo corpo ricoperto dal sari dorato.
Corro fuori dalla stanza, attraverso di nuovo l’altra stanza, con i divanetti, gli specchi divorati, fendendo all’incontrario il fiume di biglie. E poi ancora attraverso un’altra stanza che non avevo mai visto prima, che non vedrò, irrompo di nuovo nell’anticamera. Adesso stanno venendo dei colpi più prolungati, più forti, dalla parte della camera di mio padre, anche rumori di esplosioni, mi pare, dalla strada, dal mondo.
Attraverso l’anticamera, imbocco il corridoio, svolto all’angolo, volo giù attraverso i pochi gradini che portano in cucina, imbocco l’altra scala di legno che sale fino allo studiolo che c’è sopra la cucina. Arrivo in cima, ansimando. Faccio scorrere con le mie piccole mani la pesante porta di ferro sulle sue guide arrugginite e scentrate, mi arrampico sulla scaletta da cui sfarina una ruggine nera, a ogni passo, arrivo in terrazza.
Balzo fuori, nella notte, nel buio.
Guardo in alto, verso il cielo nero attraversato dai fili di ferro arrugginito su cui sono ancora avvinghiati segmenti di rampicanti carbonizzati. E poi verso le altre case dei nobili che danno sul cortile, abbandonate, deserte, verso il cortile nero, pelato, verso la muraglia sormontata da una rete di filo di ferro mangiato dalla ruggine, che divide questo cortile da quello confinante, verso la clinica buia, dalle finestre spente.
Però, a guardare bene, c’è qualcosa che si sta muovendo nel cortile là in fondo, dall’altra parte. È come un leggero bagliore bianco che si indovina appena in tutto questo infinito buio.
“Saranno le suore infermiere!” mi passa per la mente. “Saranno tracimate anche loro!”
Mi abbasso. Guardo meglio, inginocchiato sul pavimento inclinato della terrazza, con la mia piccola testa spenzolata oltre la bassa ringhiera, da dove partono le sbarre che sostengono la volta di filo di ferro, che si muovono al solo toccarle e sembrano sempre sul punto di staccarsi come denti da una vecchia gengiva.
Sì, ci sono delle figure vestite di bianco che si stanno muovendo nella parte opposta del cortile, in silenzio, con circospezione, nel buio, mi pare, nel punto dove c’era quel forno dentro il quale bruciavano i resti delle operazioni, ci sarà.
Trattengo il respiro. Mi abbasso ancora di più, per non farmi vedere, perché mi pare che si stiano girando ogni tanto da questa parte, che stiano scrutando ansiosamente nel buio per vedere se c’è qualcuno che le possa sorprendere.
“Che cosa staranno facendo?”
Scorgo il bagliore di qualcosa di luccicante che si muove nel buio.
“È quel carrello d’acciaio, con le ruote, su cui trasportavano le bacinelle piene di carne morta che galleggiava nel sangue, nei sieri...” Il bagliore bianco delle loro braccia e delle loro mani si continua a muovere febbrilmente nel buio.
“Stanno caricando il forno!” capisco all’improvviso.
Sì, sì, e si comincia a sentire anche quell’odore del fumo che sta uscendo dal comignolo e che sta salendo nell’aria, anche se il fumo non si vede perché la notte è nera, è infinitamente nera, non si vedrà, quell’odore nauseante e dolce di carne umana bruciata e di ossa segate lambite dalla fiamma che le avviluppa e che penetra al loro interno in cerca del midollo tenero.
“Stanno continuando a caricare il forno, con quelle loro manine bianche, nel buio! Staranno sollevano quei pezzi di carne morta da quelle bacinelle d’acciaio che luccicano un po’ in questo infinito buio, organi asportati, arti e pezzi di arti amputati, segmenti di intestini, tumori, polipi, garze infette e ingiallite dal pus... Si vede che dentro la clinica stanno operando. Eppure le finestre sono tutte buie, sono tutte spente!”
Rotolo due o tre volte su me stesso, coricato sul pavimento inclinato, per non farmi vedere da là in basso, dal buio, prima di alzarmi in piedi e di cominciare a correre verso la scaletta di ferro arrugginita.
Corro giù, posando i piedi alla cieca sui suoi gradini arrugginiti che rimbombano e vibrano. Attraverso la pesante porta di ferro. La richiudo alle mie spalle, facendola scivolare sulle sue guide. Corro giù dalla scaletta di legno che porta in cucina. Arrivo in cucina. È tutto buio, eppure si scorge sul pavimento qualcosa di molto chiaro, come una traccia bianca fosforescente che corre serpeggiando nel buio.
“Ma guarda...” mi dico continuando a correre. “Cosa sarà questa cosa bianca che sembra fosforescente? Che sia farina? Che sia il fornaio? Sarà tracimato anche lui! Sarà entrato nella casa dalla scaletta esterna, sarà arrivato in cucina, avrà imboccato il corridoio, e poi l’anticamera, sarà andato in qualcuna delle stanze segrete che ci sono in questa casa e che non ho ancora visto, vedrò, e intanto dalle sue braccia e dai suoi capelli e dai suoi vestiti bianchi si starà staccando la farina che si va a posare sui pavimenti, al suo passaggio, forma questa traccia bianca che corre fosforescente nel buio...”
Attraverso di corsa tutto il corridoio. Corro ancora un po’, fino alla porta dello stanzino nero, segreto. La apro, se l’avevo chiusa, ma tanto anche quando è aperta sembra chiusa, perché là dentro è tutto nero, non si vede niente.
«Il forno della clinica sta fumando!» grido, in tutto questo buio. «Le suore infermiere sono tracimate! Lo stanno caricando nel buio! Buttano dentro pezzi di carne e di ossa segate e rotoli di bende infette. Eppure la clinica è tutta buia, le finestre sono spente!»
«Stanno operando, là dentro!» mi risponde la vocina, nel buio, perché anche se si è impiccata mi continua lo stesso a parlare, dal fondo dello stanzino nero, da un po’ più in alto, dal buio. «I medici tracimati stanno operando i primi feriti, colpiti dalle armi dei vivi che vengono prima e che vengono dopo. Sono tutti al buio, là dentro, per non farsi individuare dai vivi, anche se sono vivi anche loro nella vita che viene dopo e che viene prima, sono tutti nella sala operatoria buia, stanno operando i primi feriti che arrivano continuamente sulle barelle, falciati da questa Terza guerra mondiale che sta crescendo sempre di più per le continue tracimazioni di morti e vivi e di vivi e morti. Sono tutti là dentro, con le teste chinate a raggiera sugli squarci, stanno affondando nei corpi le loro mani insanguinate ricoperte dai sottili guanti di gomma, i loro bisturi che luccicano in tutto questo infinito buio nei corpi dei tracimati...»
Corro fuori, corro ancora per un po’, alla cieca, attraverso la casa, si scorge solo questa striscia bianca che serpeggia fosforescente nel buio, in mezzo alle biglie.
C’è il televisore acceso, mi pare, in anticamera, sulla cassapanca nera. Qualcuno deve averlo acceso, perché si vede l’alone della sua lucina azzurra che palpita in questo infinito buio.
“Ma allora funziona!” mi dico. “Non come la radio, da cui venivano fuori solo quelle scariche e quelle interferenze, quei rumori di schianti, quel sisma di fragori musicali e di voci e di onde sonore attraversate da questa tracimazione universale di vita e morte.”
Mi avvicino a quell’alone azzurro che palpita nell’infinito buio.
“Io mi andavo a sedere davanti a quell’alone...” mi dico avvicinandomi sempre di più alla fonte di quel bagliore “quando ero vivo prima, quando ero vivo dopo, sarò, sollevavo una delle pesanti seggiole nere che c’erano attorno alla grande tavola al centro dell’anticamera e andavo a metterla di fronte a questo grande televisore bombato immobile sulla cassapanca come su un piedestallo, mi sedevo di fronte al televisore acceso, da solo, nel buio, mentre dal resto della casa venivano quei rumori di schianto e quegli urli spaventosi di corpi massacrati e quei fragori di vetri rotti e di argenteria e di mobili rovesciati che si abbattevano sul pavimento, si abbatteranno...”
Mi muovo verso il grande tavolo che c’è al centro, sollevo una delle sedie, alte, grandi, pesanti come piombo, vado a metterla di fronte all’alone del televisore in bianco e nero, nel buio.
Mi siedo. Comincio a guardare.
Città sconvolte, uomini che corrono nelle strade, edifici incendiati, carri armati e altri cingolati che avanzano facendo ruotare le torrette e sparando contro case e palazzi...
“È la guerra!” mi dico, immobile di fronte a questo alone di luce, su questa seggiola nera. “Sono i primi resoconti di questa guerra mondiale tra vita e morte che sta crescendo sempre di più in questo continente, nel mondo!”
Una voce sta parlando, mentre le immagini di devastazione scorrono sulla grande bolla luminosa del video, forte e chiara, scandendo bene le parole, in questa grande anticamera buia, in questa casa buia lesionata dalla tracimazione, dalla guerra e dal sisma:
«Budapest insorge. Una manifestazione di studenti si trasforma in una rivolta dell’intera città, a cui si uniscono le truppe della guarnigione al comando del generale Maleter. Gli operai incendiano le sedi del partito comunista. Elezione di Imre Nagy al posto di Andràs Hegedüs. Violenti combattimenti in tutto il Paese contro le forze comuniste e sovietiche. Nagy forma un governo di unione nazionale e negozia il ritiro delle truppe sovietiche. Ma il maresciallo sovietico Žukov fa rientrare in Ungheria venti divisioni. Repressione degli insorti...».
“Ecco perché il forno della clinica sta fumando!” mi dico trattenendo il respiro, immobile su questa pesante sedia nera, nel buio. “Ecco perché i medici sono tutti piegati sugli squarci dei corpi, in sala operatoria, nel buio, stanno operando i primi feriti tracimati dentro la vita che viene dopo e che viene prima! Ma allora quando è successo tutto questo? Sarà successo allora o sta succedendo adesso, succederà?”
Tutta la casa trema per i colpi e per le esplosioni che vengono da qualche parte, dalla strada, dal mondo. Si sente il rumore delle biglie che riprendono a rotolare sui pavimenti inclinati, e delle zampe felpate del gatto e delle unghie del fagiano dorato e anche della tartaruga che stanno correndo a perdifiato attraverso la casa.
La voce che viene dal televisore continua a parlare, ma io non l’ascolto più, non l’ascolterò, perché adesso ci sono altre voci, altre vocine seminali che si stanno levando da qualche parte, dal pavimento, e che stanno gridando tutte insieme in questo infinito buio:
«Perché siamo qui? Perché siamo state sparate qui, in questa casa buia, nel mondo? Perché siamo state eiaculate qui, in mezzo a questa tracimazione universale di vita e morte e a questa guerra? Che cosa ne sarà di noi? Che cosa nascerà da noi? Se adesso non c’è più quello che nasce prima e quello che nasce dopo e quello che nasce adesso, allora quando nasceremo, dove nasceremo?».
«Neanch’io so quello che sarà di me» provo a sussurrare, con la testa chinata su questo mare di gameti piccoli e grandi che rotolano luccicando nel buio. «Neanch’io so perché sono stato eiaculato qui, perché sono tracimato qui. Neanch’io so se sono dopo o se sono prima o se sono adesso, sarò. Mi muovo in questa casa buia e nel mondo come se fossi dopo o se fossi prima o se fossi adesso, ascolto le vostre vocine che gridano con disperazione dal buio e anche quell’altra vocina che viene dallo stanzino nero e anche la mia stessa vocina che vi sta gridando adesso nel buio senza sapere se viene dopo o se viene prima o se viene adesso. E non so neanch’io dove sono, in che punto sono, chi sono, che cosa sarò.»
Ecco, io adesso posso raccontare solo così, con queste valanghe di parole scentrate, con queste prefigurazioni di frasi tracimate e inventate.
Che lunga notte! Come sono lunghe le notti, nella vita che viene prima e che viene dopo!
Stanno arrivando dei rumori forti, degli urti, delle esplosioni, dalla parte della strada, stanno facendo tremare il mondo.
“Staranno attaccando la casa! Staranno avvicinandosi gruppi di vivi che corrono avanti con i mitra spianati, sparando all’impazzata nel buio, coperti da uno di quei carri armati che ho visto prima nel televisore, vedrò.”
Corro verso le altre stanze, per vedere cosa sta succedendo nella strada, nel mondo, per andare a guardare fuori attraverso i listelli larghi delle ante, e intanto mi sembra di sentire improvvisi schianti di finestre che stanno andando in frantumi e boati di raffiche lunghe che vengono dalla parte della camera da letto di mio padre e mia madre e rumori cadenzati di altri passi in corsa, non solo quelli impercettibili del gatto che si sposta a grandi balzi nel buio, non solo quelli del fagiano dorato che vedo balenare in questa luce nera e quelli della tartaruga che si sta muovendo silenziosamente là in basso, sotto il filo dell’orizzonte, ma anche quelli degli altri tracimati che ci sono in questa casa, ci saranno.
«La casa è accerchiata!» mi sta dicendo da sempre più vicino una voce, nel buio, ma senza gridare, con dolcezza. «Si stanno avvicinando con i carri armati, fra un po’ la colpiranno con i proiettili, girando le torrette nel buio, avanzeranno con i loro cingoli e i loro cannoni, senza fermarsi di fronte a niente, sfonderanno i suoi muri esterni, continueranno ad avanzare facendola tracimare e franare, la raderanno al suolo, passeranno e ripasseranno sulle sue macerie e sulle sue travi spezzate, inerpicati su quei loro grandi cingoli...»
È Arjumand Banu Begum, che mi sta continuando a parlare con la sua voce melodiosa e con tranquilla esaltazione nel buio.
«Dobbiamo fuggire di qui! Lui adesso sta cercando di rompere l’accerchiamento, sta sparando all’impazzata contro gli assalitori, sta cercando di metterli in fuga lanciando verso di loro le sue ultime bombe a mano. Approfitteremo del loro sbandamento per fuggire da questa casa prima che si riorganizzino per nuovi assalti, lui è già andato in garage, ha già tirato fuori la sua motocicletta con il side-car, così ci stiamo tutti e tre. Balzeremo fuori dal portone col motore al massimo dei giri, passeremo in mezzo alle loro truppe disorientate dalle ultime serie di esplosioni, mentre lui continuerà a sparare col mitra tenendo il manubrio con l’altra mano, supereremo il cerchio degli assedianti, continueremo a correre nelle strade buie di questo continente, del mondo, prenderemo sempre più velocità man mano che ci allontaneremo da questa città di confine tra morte e vita e tra vita e morte. Io starò seduta nel side-car, tu sulla motocicletta dietro di lui che continuerà a guidare tutto gettato in avanti nella corsa, dovrai stare aggrappato alla sua schiena dalla spina dorsale tutta ripiena di midollo per non venire sbalzato fuori dalla sella, un lembo del mio sari dorato si srotolerà di tanto in tanto nella corsa, ti passerà contro gli occhi e contro il volto come una carezza nel buio...»
Sento il suono melodioso dei suoi passi che mi stanno oltrepassando, dei campanelli dorati che circondano le sue caviglie nude.
Corro verso lo stanzino nero, arrivo davanti alla sua porticina aperta, faccio un passo all’interno.
«Che cosa devo fare?» provo a gridare, nel buio.
«Fuggi! Fuggi!» mi risponde la vocina nel buio.
«Ma dopo non ti sentirò più!»
«Mi sentirai.»
«Adesso non ci sei più ma almeno continuo a sentire la tua vocina nel buio, se sono qui!»
«La sentirai.»
«Ma come farò a trovarti ancora, a incontrarti ancora, se non sono più qui, non sarò più qui?»
«Mi troverai. Mi incontrerai.»
Corro fuori dallo stanzino nero.
Si sente un colpo tremendo, un boato enorme, uno schianto.
Mi guardo attorno, nel buio, perché adesso viene anche un rimbombo forte di passi, sui pavimenti inclinati.
È mio padre. Sta correndo coi suoi scarponi militari, col passamontagna, col mitra in mano, in mezzo alle biglie.
«Via! Via!» mi sta gridando. «Sono riuscito a rompere l’accerchiamento. Ho liberato una via di fuga. Ma bisogna far presto! Fuggiamo con la moto, tu dietro di me, Arjumand Banu Begum sul side-car!»
«E la mamma? E la Dirce?» gli chiedo, gli grido.
«Non ci sono più! Saranno fuggite con quel fornaio!»
«E la Signorina?»
«La camera blu è stata colpita da un proiettile di carro armato! È crollata! La Signorina è sepolta sotto le macerie.»
Mi metto a correre anch’io. Sento davanti a me il rimbombo degli scarponi di mio padre attraverso l’anticamera buia, anche il suono di quei campanelli che sbattono intorno alle caviglie in corsa della moglie dell’imperatore mongolo Shan Jahan.
Ci affacciamo allo scalone dai gradini invasi dalle biglie luccicanti nel buio.
Riprendiamo a correre, in mezzo a tutte queste sfere d’acciaio che rotolano con fragore messe in movimento dai nostri passi, e intanto capisco, percepisco, che sto diventando un po’ più grande, sempre più grande man mano che corro giù verso il fondo, lungo questo scalone buio che trema per la tracimazione di vita e morte e per questo sisma e per questa guerra, come la prima volta diventavo sempre più piccolo man mano che salivo, che salirò.
Arriviamo tutti e tre in fondo. Sentiamo alle nostre spalle il fragore dei gameti che stanno venendo giù a cascata saltando sopra i gradini, spostati dai nostri piedi e dal vento dei nostri corpi in corsa.
Facciamo qualche passo nell’atrio. Corriamo verso il cortile.
La motocicletta è già davanti al garage.
«Forza! Forza!» sta gridando mio padre.
E intanto solleva nell’aria uno scarpone e una gamba ricoperta dalla tuta mimetica, per andare a sedersi sopra la sella.
Arjumand Banu Begum ha già aperto la portellina del side-car, sta prendendo posto nel suo piccolo spazio cavo, sta già sistemando là dentro il suo corpo florido, le pieghe del suo sari dorato.
Salgo anch’io sulla moto, dietro la schiena di mio padre che si è messo il mitra a tracolla e ha già afferrato le due manopole del manubrio, con le mani e le braccia che fremono un po’ per l’esaltazione della partenza.
Si solleva di lato, per premere il pedale della messa in moto.
Lo colpisce una volta, due volte, tre volte. Il motore comincia a sussultare, a tossire, lo scarpone di mio padre ritorna indietro a ogni colpo, sempre più violentemente, più forte, tutta la sua gamba e il suo corpo ritornano indietro sempre più forte per il contraccolpo, si stanno sollevando nell’aria, deve tenersi attaccato con tutte e due le mani al manubrio per non venire sbalzato in alto, sempre più in alto, capovolto nell’aria, nello spazio.
Poi il motore si accende.
Mio padre lo porta su di giri, facendo ruotare la manopola dell’acceleratore, con furia.
Ingrana la marcia, muovendo il piede sul bilanciere del cambio, tenendo la frizione tirata. Colpisce con gli scarponi le biglie che sono rotolate giù dallo scalone e che sono arrivate fin qui nel cortile, le allontana a calci cercando di liberare uno spazio per le ruote della moto che si stanno già muovendo in avanti.
La moto si è mossa. Sta già rombando nell’atrio invaso dal fumo dello scappamento.
Si ferma un istante, poco prima del portone spalancato e scentrato. Mio padre afferra con una mano il mitra che tiene a tracolla, tenendo la frizione tirata, manda il motore su di giri.
Riparte di scatto, lanciando un grido e sparando.
La moto balza fuori dal portone, è già nella strada.
Mio padre continua a sparare, a sparare, contro gli assedianti che stanno fuggendo terrorizzati per questa improvvisa sortita, verso un carro armato messo di traverso e con la torretta e il cannone girati da un’altra parte.
Cominciamo a correre, a correre, tutti e tre in silenzio, inclinati, in questa città di confine tra morte e vita e tra vita e morte, in questo continente sconvolto dalla tracimazione e dalla guerra mondiale tra i vivi e i morti, e si cominciano a sentire già i rumori dei colpi di pistola e di fucile mitragliatore dei vivi che si sono riavuti dalla sorpresa e stanno cominciando a sparare all’impazzata alle nostre spalle.
Ma noi siamo già lontani, abbiamo già imboccato un’altra strada. La schiena di mio padre sta fremendo contro le mie spalle e il mio volto, nell’esaltazione di questa nuova corsa. Arjumand Banu Begum sta sorridendo controvento nello spazio cavo del side-car, nella corolla del suo sari intessuto con fili d’oro.
Questa lunga notte sta finendo, mi pare, perché scorgo davanti a me, tutt’intorno a me, un chiarore che si sta levando e che sta tracimando dalla linea dell’orizzonte del mondo.
“È l’alba!” mi dico, col cuore in gola. “Il sole sta tracimando! Il mondo si sta rischiarando! Questa interminabile notte sta finendo, è finita, sto vedendo levarsi a velocità vertiginosa di fronte a me il mio primo giorno di tracimato.”