13

L’eviscerato

“C’era quel seminario, una volta, ci sarà...” mi passa per la mente.

Non so da quanto tempo sto camminando lungo queste piccole strade lontane dalle grandi vie pattugliate, da quando ho lasciato il Sempio, che ha proseguito per la sua strada.

“Sì, era da queste parti, mi pare...” mi continuo a dire, perché comincio a riconoscere di tanto in tanto segmenti di piccole strade contornate da muretti di pietra, curve improvvise, case inerpicate e vuote, orti abbandonati e serre ancora ricoperte di pareti di vetro e fogli di cellophane che accecano come specchi in questo bagliore di fotoni di luce, scalette di pietra che scendono incuneate tra case e cascine dalle finestre chiuse e scentrate, fiancate di colline fortemente inclinate su cui pascolano mucche isolate e piccole greggi di pecore e capre senza pastore.

Si sente il suono delle campanelle che dondolano sotto i loro colli mentre si spostano insieme muovendo la testa e la bocca per brucare.

“Sì, sì, io lo sentivo questo rumore, questo suono, lo sentirò” mi dico rasentando queste piccole e grandi bestie mute che sollevano tutte insieme le teste vedendomi camminare in questo mondo sottoposto alla tracimazione universale di vita e morte” quando uscivamo tutti insieme dal seminario per raggiungere a piedi qualche montagna sormontata da una croce di quel tracimato, e si vedeva la fila delle vesti nere snodarsi lungo i sentieri immobili nella luce che veniva dopo e veniva prima, oppure quando camminavo da solo verso la lontana chiesa di quel padre celestino, con quel grande organo spropositato, come un uovo pieno di tastiere, e rasentavo siepi immobili ricoperte da una patina di polvere bianca come borotalco sollevata dalle ruote delle rare macchine che passavano, e si vedevano di tanto in tanto greggi isolate, e si sentiva quel rumore delle loro campanelle che dondolavano tutte insieme come un’onda sonora dolce, e allora io pensavo, penserò: ‘Chi lo sa che cosa crederanno che sia questo suono? Chi lo sa se crederanno di essere loro stesse a produrlo, con i movimenti delle loro teste e dei loro colli sul piano inclinato dell’orizzonte e del mondo, o se penseranno che venga dall’esterno, che sia il suono stesso del mondo, visto che lo sentono sempre, visto che accompagna tutta la loro vita e che non sentono nient’altro che questo suono tracimato nel mondo?’. Oppure quando camminavo in quei luoghi lontani dove mi andavo a isolare quando non ce la facevo più a stare nella vita che viene, veniva dopo, perché avevo visto come stavano veramente le cose e ne avevo avuto abbastanza, quando il cuore si stancava di sanguinare, la mente di pensare, di sognare, di soffrire, di ricordare, e rasentavo greggi di pecore nere che brucavano inclinate sui fianchi delle montagne, in quella luce che cancellava ogni cosa, cancellerà, oppure di notte, quando non si vedeva niente, solo l’impressionante mare di ghiaia fosforescente del firmamento sopra la mia testa che si muoveva in questo mondo, nel buio, e mi capitava di sentire di colpo il rumore di una campanella vicino a me, anche se non si vedeva niente, di qualche pecora o di qualche capra che non era rientrata con il resto del gregge, di qualche mucca o di qualche cavallo che era uscito di nascosto dalla stalla e si era messo a brucare in piena notte, da solo. Lo sentivo nitrire forte, all’improvviso, vicinissimo a me, invisibile nell’infinito buio...”

Continuo a camminare, e non c’è nessuno, lungo queste piccole strade, in questo mondo. Solo, di tanto in tanto, queste greggi senza pastore tracimato, qualche finestra che si apre all’improvviso sopra di me, in qualche casa inerpicata, e poi qualcuno che si sporge fuori con tutta la testa e con tutto il busto per vedermi passare nel mondo, forse qualcuno che ha sentito i miei passi, forse qualcuno appena tracimato dalla morte che viene prima e che viene dopo, e che se ne stava al buio, nascosto, da solo, dietro le finestre chiuse e scentrate.

Si comincia a vedere, a tratti, a qualche giro di tornante, giù in basso, come sul fondo di un braciere, l’apparizione di una città quasi cancellata da questa tempesta di fotoni di luce.

“Sì, sì, quella è Bindra!” mi dico. “E io allora la vedevo di notte, dall’alto, dalla balaustra del seminario, la vedrò, con la sua distesa di luci che palpitavano sotto la loro pellicina di vetro, prima di raggiungere la piccola chiesa per il Noctem quietam, e di salire tutti insieme e in silenzio verso i dormitori, lungo quelle scale di nudo cemento ancora senza ringhiera e senza le lastre di marmo dei gradini... Ma adesso quel seminario non c’è più, mi avevano detto quando ero vivo prima, quando ero vivo dopo, sarò, è stato chiuso, perché non c’erano più vocazioni, anche i preti erano tracimati dentro la morte, non c’era più nessuno, qualcuno mi aveva detto che arrivavi alla fine di quella salita e ti trovavi di fronte un cancello chiuso divorato dalla ruggine, una costruzione deserta e vuota nascosta da vecchi ponteggi, da chissà quanto tempo. Ma questo quando è successo? È successo prima o è successo dopo? Quando me l’hanno detto, me lo diranno? Me lo diranno prima o me lo diranno dopo? Nella vita che viene prima o in quella che viene dopo? Adesso sarà tutto deserto, il refettorio, la giostra portavivande vuota e ferma, la chiesina, la sala giochi sotto terra, la sala studio, i dormitori, la casa delle monache, la cucina, la vecchia costruzione dove dormivano il padre priore e il vicario e dove confessava faccia a faccia quel prete con gli occhiali da sole e con la faccia da gangster... Non ci sarà più nessuno, le stanze lesionate dal sisma, le porte scentrate e fuori dai cardini, i dormitori dai comodini e dai letti color alluminio senza più materassi, l’altare spoglio, senza tovaglie, i vasi senza fiori, i candelieri vuoti, la sagrestia senza più paramenti, non ci sarà più il Gatto, il seminarista sordomuto, la Suora Nera, non ci sarà più nessuno, più niente...”

Mi sto avvicinando sempre di più, riconosco piccole case messe di sbieco agli angoli dei tornanti, panchine di pietra a fianco di porte inclinate e fuori dai cardini.

Svolto a un nuovo tornante. Vado avanti ancora per un po’ così, in questa luce che mangia il mondo.

Passo davanti a una piccola chiesa che c’è sul ciglio della strada, che poi non è neanche una chiesa, è solo una cappella messa qui, chissà perché, chissà quando, in questo punto della vita e della morte del mondo.

Non riesco più a muovere un passo.

Mi fermo di colpo.

Non c’è niente dentro, non c’è l’altare, però c’è una porticina a due ante, che adesso è aperta.

Faccio qualche passo all’interno.

C’è un piccolo affresco su una delle pareti...

Adesso ci sono davanti.

Il cuore mi sta cominciando a battere forte.

Si vede un uomo da cui stanno estraendo i visceri con una carrucola.

Non so chi sia, non c’è il nome, sarà un santo, sarà un suppliziato.

L’uomo sembra tranquillo, anche se un lungo filo sta uscendo dal suo corpo e c’è un altro uomo, anche lui tranquillo, che glielo tira fuori servendosi di una carrucola che fa girare con una manovella, attorno alla quale si arrotola sempre più il viscere.

«Sei ancora qui» gli dico, col cuore in gola.

«Sì, sono tracimato qui» mi risponde. «Ti stavo aspettando, ti aspetterò.»

Non ha neanche bisogno di girare la testa, perché è già girata verso di me, mi sta guardando da questo muro dipinto e mi sta sorridendo, anche se il suo intestino sta continuando a traslocare dal suo corpo al cilindro di legno della carrucola azionata dalla manovella.

«Io ti vedevo anche allora... quando passavo qui davanti venivo sempre a trovarti» gli dico ancora. «Mi staccavo da quella fila di vesti e di puntini neri che si spostavano sul filo dell’orizzonte e correvo qui dentro anche solo per pochi istanti, per guardarti mentre anche tu mi guardavi e mi sorridevi, incurante di quel filo che continuava a uscire dal tuo corpo... Ma quando sei tracimato? Sei tracimato prima o sei tracimato dopo? Sei tracimato dalla morte che viene prima o da quella che viene dopo?»

«Io sto continuando a tracimare dalla morte che viene prima e da quella che viene dopo, tracimerò.»

Restiamo tutti e due in silenzio. Si sente solo il cigolare della carrucola che continua a girare e a girare e a girare nella solitudine di questo mondo tracimato e inventato, in questo naufragio di fotoni di luce.

«Ma tu chi sei?» gli domando. «Che santo sei?»

«Non lo so» mi risponde.

«Io non ho mai saputo il tuo nome, qui non c’è scritto. Io anche allora lo chiedevo agli altri seminaristi che continuavano a camminare, quando li raggiungevo di corsa dopo averti lasciato, ma nessuno lo sapeva, lo saprà.»

«Non lo so neanch’io.»

«Sarai un martire, ti staranno eviscerando perché non avrai voluto abiurare alla fede in quel tracimato!»

«Non lo so. Io sono stato immobilizzato nel momento della tracimazione e dell’eviscerazione, io sento solo il suono di questo filo che continua a uscire dal mio corpo, continuerà.»

«Ma com’è lungo quel filo, se io lo vedevo prima, nella vita che viene dopo, e se ancora lo sto vedendo adesso, nella vita che viene prima dove sono tracimato e inventato!»

«Sì, è vero, non la finisce mai di uscire.»

Lo guardo, mentre anche lui mi guarda e sorride, e intanto l’uomo continua ad azionare la carrucola con il suo braccio, che è molto muscoloso, perché ci vuole molta forza per continuare a tirare fuori i visceri con una carrucola nella vita che viene dopo e in quella che viene prima.

«Neanch’io so chi sono!» gli dico irresistibilmente un istante dopo. «Anche a me qualcuno sta continuando a estrarre il filo del viscere dal mio corpo, non so neanche di chi è la mano che sta continuando a estrarlo con la carrucola da me stesso. Forse neanche lui sa chi è. Io ho vissuto tutta la mia vita che viene dopo senza sapere chi sono, io sto vivendo questa vita che viene prima senza saperlo. So solo che non so chi sono, che non lo saprò.»

L’eviscerato sorride, ha la testa un po’ arrovesciata e mi continua a sorridere in questo mondo dove tutti e due non sappiamo chi siamo, perché si tracima sempre dopo, perché si tracima sempre prima di sapere chi siamo.

Non diciamo più niente, ci guardiamo.

La carrucola continua a girare, il filo continua a uscire, continuerà.

Mi giro, perché non riesco più a guardare.

Esco dalla cappella, riprendo a camminare lungo la piccola strada di sassi, verso il seminario che dovrebbe essere ormai vicino, anche se c’è sempre qualche nuovo tornante che non ricordavo, non ricorderò.

Rallento, perché mi sembra di vedere, dopo una leggera discesa, una biforcazione della strada.

La parte più larga scende sempre di più, ma c’è un’altra strada più piccola che comincia a salire.

Mi fermo di colpo.

Adesso c’è persino una freccia, all’inizio di questa breve salita, e su questa freccia c’è scritto il nome del seminario.

Mi fermo all’inizio della salita, immobile, immobilizzato.

Non si vede l’ingresso, non si vede neppure il cancello, forse perché la curvatura della salita lo copre, forse perché la ruggine l’ha mangiato, forse perché lo sta mangiando questa tracimazione di fotoni di luce.

Provo a fare qualche passo in avanti.

“Sì, sì...” mi dico salendo senza fiatare “e alla fine c’era quel cancello da cui si vedeva una piccola aiuola davanti alla vecchia costruzione... ma adesso sarà tutto coperto di ponteggi abbandonati là da chissà quanto tempo, perché saranno finiti i soldi, quelli spesi prima dai morti che adesso saranno tracimati chissà dove, perché non ci sono più vocazioni, perché il padre priore e il vicario sono tracimati dentro la morte che viene prima, qualcuno mi ha detto, mi dirà... e anche il Gatto è tracimato dentro la morte, però qualcun altro mi ha detto che poi è risorto, proprio lui, è risorto lui, non Gesù, non il tracimato, che non ha voluto risorgere per tenere la vita in bilico sulla sua morte... Ma chi me l’ha detto, me lo dirà? Ah, sì, è stata la Musa!”

Sono a metà di questa salita, si comincia a vedere il cancello, e poi anche quell’aiuola, che però adesso è tutta pelata, anche uno spigolo della vecchia costruzione, del tetto. E ci sono davvero dei ponteggi, e anche dei fogli di cellophane che scendono un po’ strappati dall’alto e che si muovono per il vento, in questo tormento di gameti di luce che divora i contorni e le linee di contenimento delle cose e del mondo.

Salgo ancora, mi sto avvicinando sempre di più al seminario. Sto già vedendo quella stradina di sassi che svoltava a destra appena prima del cancello, e che poi costeggiava la valle dove c’erano quei campi di ravizzone intensamente gialli e, dall’altra parte, il tiro al piattello da cui echeggiavano spari che laceravano la pellicina che ricopriva il cielo come quella del fegato...

Sono davanti al cancello.

Mi fermo, perché non si può più andare avanti, perché non riesco più a camminare.

Guardo dentro: è tutto vuoto, deserto. Solo quelle impalcature e quei fogli che sventolano un po’ attorno ai tubi delle impalcature e ai morsetti.

Anche qui è tutto più piccolo, più misero di come me lo ricordavo, me lo ricorderò.

Non c’è nessuno davanti alla vecchia costruzione, non si vedono vesti lungo la ringhiera di marmo o sotto i tigli, e neppure dalla parte del refettorio, non si vede nessuno fermo in meditazione con il piccolo breviario tra le mani, non si sente il rumore di qualcuno che corre con gli schettini ai piedi sul fondo prosciugato della piscina, non si sentono le grida dei seminaristi che stanno giocando al pallone, né i fischi del padre priore o del vicario che stanno arbitrando, non si sente il suono delle preghiere recitate ad alta voce nella chiesina della nuova costruzione che da qui non si vede...

“Non c’è più nessuno!” mi dico, col cuore in gola. “È tutto vuoto, abbandonato, deserto, il refettorio, le camerate, la sala studio, la chiesa... Nessuno è tracimato qui, non c’è più nessuno.”

Sono contro le sbarre del cancello, continuo a guardare il seminario silenzioso e deserto.

“O forse...” mi passa per un istante nella mente “saranno nello stanzone della rasatura, se ne staranno tutti a testa bassa, in silenzio mentre una mano starà passando con la macchinetta sulle loro nuche, quella dell’altro prefetto, ci sarà sopra il pavimento quel tappeto di capelli che continuavano a staccarsi dalle nuche sempre più nude... O forse sono in quella sala giochi che c’era sotto terra, saranno tutti inginocchiati attorno al tavolo di ping-pong, con le vesti a corolla, staranno soffiando in silenzio e da tutte le parti contro la pallina, come facevamo allora, faremo, e alla fine restavamo sempre solo io e il Gatto, uno di fronte all’altro, e intanto il tempo passava, le stagioni passavano, i paramenti liturgici cambiavano di colore, e io e il Gatto continuavamo a soffiare contro quella pallina di ping-pong per non farla uscire ognuno dalla propria parte e perdere la partita, tutti e due inginocchiati e con la testa e la bocca a filo con il piano del tavolo, la veste allargata sul pavimento per non farla diventare lisa schiacciandola per così tanto tempo con le ossa delle ginocchia, mentre ogni cosa si dissolveva intorno a me per tutto quell’espirare aria e per la scarsità di ossigeno che arrivava al cervello, e anche la testa del Gatto si dissolveva, si precisava a tal punto che non si riusciva quasi più a vederla, si cancellava di fronte ai miei occhi insieme al resto dello stanzone e del mondo, e io intanto pensavo: ‘A quale nuova specie stiamo dando vita, daremo?’.”

Continuo a guardare dentro, sperando che non sia davvero tutto vuoto e deserto, che ci sia qualche seminarista tracimato.

“Magari sono dentro, magari ci sono...” mi continuo a dire “magari a un certo punto qualcuno esce da dietro lo spigolo della vecchia costruzione nascosta dalle impalcature e mi vede all’improvviso mentre me ne sto immobile, aggrappato con le mani a due sbarre del cancello, in silenzio, perché non riesco a chiamare, non riesco a gridare per cercare di farmi sentire, di farmi aprire.”

C’è una campanella, a uno dei lati del cancello.

“Quando ce l’avranno messa?” mi dico. “Prima non c’era, mi pare, o almeno non l’avevo mai vista. Che l’abbiano messa adesso? Che l’abbiano messa per me, proprio per me, per quando sarei arrivato per la prima volta che viene dopo e che viene prima in questo seminario, nel mondo?“

Allungo la mano verso la catenella, provo a suonare, una volta, due volte.

Si sente il rumore improvviso e acuto della campanella in questo spazio deserto, in questo mondo così deserto che qui non arrivano neppure i rumori lontani di questa Terza guerra mondiale tra i vivi e i morti.

Rimango in attesa, ma non si vede nessuno, non si sente niente, non un rumore di passi, un suono lontano, una voce.

Provo a spingere un po’ il cancello, ma non si muove.

Suono un’ultima volta, più a lungo, più forte, prima di decidermi a girare su me stesso, per andarmene non so verso dove.

Rimango ancora per un po’ in attesa.

Adesso sono immobile, non riesco più a respirare per l’emozione, perché da qualche istante mi sembra di sentire un rumore lieve, molto lieve, lontano, come di passi che si stanno muovendo da qualche parte e che si stanno avvicinando sempre più in questo infinito silenzio e in questo infinito buio e in questa infinita luce.

Sono di nuovo aggrappato a due sbarre del cancello, immobilizzato.

Sì, sono veramente dei passi! Qualcuno sta camminando nel cortile che c’è dietro lo spigolo della vecchia costruzione, sulla ghiaia.

Il rumore è sempre più vicino.

Stringo forte le due sbarre arrugginite del cancello, per non cadere.

Un secondo dopo, da dietro lo spigolo della vecchia costruzione coperta dalle impalcature, appare improvvisamente un giovane prete.

Cammina a capo chino, concentrato, assente. La sua veste nera sventola a ogni passo attorno alle sue gambe e ai suoi piedi in questa giornata limpida e fredda, ventosa.

«Ma tu sei il Gatto!» provo a dire, con la testa e la bocca tra le due sbarre.

Non mi risponde. Continua a camminare a testa bassa verso di me, stringendo i pugni per l’enorme concentrazione, si sente il suono della sua veste tormentata dal vento, che si allarga e si immobilizza per un istante nel punto della sua massima espansione, a ogni passo.

Sta venendo avanti senza guardarmi, o se mi guarda non sembra vedermi. Tiene gli occhi stretti per il sole che gli batte contro, in questa luce che smangia i contorni della sua veste e del mondo.

Adesso è dall’altra parte del cancello, contro di me.

«Che cosa fai qui?» mi domanda all’improvviso, senza guardarmi.

«Sono tracimato» gli rispondo piano, in un soffio.

«Cosa sei venuto a fare qui, se sei già qui?» mi domanda ancora.

Non capisco che cosa mi sta dicendo, non gli rispondo.

Sono ancora immobile, aggrappato alle sbarre.

Lui è in piedi dall’altra parte, anche lui immobile, adesso, con la veste tormentata dal vento.

«Io sono stato qui...» provo a dire «ci sarò.»

«No, tu sei già qui!» mi risponde con furore. «In questo momento sei insieme agli altri, nella chiesina nuova!»

Lo guardo senza fiatare.

«Perché, ci sono anche degli altri?»

«Sì, eravamo in chiesa, stavamo meditando in silenzio, perché in questi giorni ci sono gli esercizi spirituali.»

«Ma com’è possibile che io sia là, se sono qui?»

«Perché tutto è spaccato in due. Perché anche tu sei spaccato in due.»

«Ma allora chi c’è là?»

«Là c’è un seminarista giovane, nella chiesina, qui c’è la stessa persona più adulta, come allora davanti a questo stesso cancello.»

«Come allora quando?»

«Tu sei già venuto qui mentre eri già qui! E anche allora eri un uomo adulto, con gli occhiali, stavi di fronte al cancello per farti aprire mentre eri già dentro, per entrare dove già eri, perché anche allora eri spaccato in due, lo sarai. E io venivo fin contro le sbarre del cancello, verrò, e parlavamo fitto e con le teste vicine anche allora, e ci dicevamo quello che ci stiamo dicendo adesso, anche se allora le parole non c’erano ancora, non ci saranno, non sono state dette, non sono state raccontate, non sono state scritte, anche se allora come adesso non c’era nessun altro che sentiva quello che ci stavamo dicendo, che ci diremo...»

«Ma com’è possibile che fossi spaccato in due allora, se lo sono adesso?»

«Perché la vita è tracimata dentro la morte. Perché la morte è tracimata dentro la vita.»

«Ma allora quando viene la morte? Quando viene la vita? Cosa viene prima? Se anche allora ero spaccato in due, ero spaccato in due dopo o ero spaccato in due prima, sarò?»

Il Gatto mi guarda, dall’altra parte delle sbarre e del mondo.

«Ma allora, se la vita non viene più dopo e non viene più prima, quando viene, verrà?» gli domando ancora.

Non mi risponde. I contorni della sua testa sono tormentati e smangiati da queste onde di gameti che qui chiamano luce.

Spinge la testa verso di me.

«Che cosa vuoi adesso?» mi chiede improvvisamente.

«Entrare, come sempre!»

La sua bocca si allunga. Le sue labbra si separano per un istante, come staccate da un colpo di frusta.

«Cosa ci fai qui? Perché sei tornato? Che cosa cerchi? Che cosa vuoi?» mi domanda ancora, corrugando la fronte.

«E tu, allora? Perché sei tornato? Perché sei ancora dietro questo cancello, sarai? Che cosa cerchi, che cosa vuoi? Mi hanno detto che sei risorto!»

Fa un passo all’indietro, mi guarda fisso, atterrito.

«Perché sei risorto?» gli chiedo. «Perché proprio tu sei risorto?»

Trema un po’, adesso, mi pare, in questa fornace di luce.

«Sei venuto a tormentarmi?» mi chiede.

«Ma se sei tu che hai sempre tormentato me, che tormenterai.» gli dico andandogli vicino con la testa in mezzo alle sbarre.

«No, in realtà eri tu che tormentavi me, che tormenterai» mi risponde continuando a fissarmi.

Le nostre teste sono adesso molto vicine, in questa massa cieca e abrasiva di luce.

«Fammi entrare!» gli chiedo ancora. «Aprimi questo cancello! Io non ho un altro posto dove andare, adesso che sono nato, che sono tracimato. Io adesso devo entrare qui perché ci sono già entrato, ci entrerò.»

Chiude gli occhi. Sospira, sta sospirando, mi pare.

Un istante dopo le sue mani cominciano a girare una chiave nel lucchetto, a togliere una catena, a far scorrere un catenaccio, tirando forte, perché era tutto inglobato dalla ruggine. Poi un altro catenaccio più corto, più in basso, a filo con l’orizzonte.

Si sente il cigolare del cancello che si sta aprendo, che si aprirà.

Ecco, adesso è aperto.

Il Gatto mi sta fissando mentre lo varco, e intanto trema un po’, se non è la luce che smangia i contorni della sua veste e della sua testa e del mondo.

«Io non vedevo arrivare nessuno...» provo a dire, mentre muovo i primi passi all’interno. «Credevo che non ci fosse più nessuno, che non fosse tracimato nessuno...»

«Eravamo in chiesa, in silenzio...» mi dice ancora, cominciando a camminare verso la vecchia costruzione. «Pochi seminaristi tracimati e un risorto...»

«Ma perché eravate in silenzio?»

«Perché sono in corso gli esercizi spirituali, te l’ho detto, ma anche perché nessuno ci possa sentire, perché non sappiano che siamo qui e ci evidenzino. Ce ne stiamo in silenzio, in questo seminario che tutti credono abbandonato e deserto...»

«Sì, lo avevo sentito dire anch’io che non c’era più nessuno, perché non c’erano più vocazioni, perché i preti erano tracimati dentro la morte... Ma chi c’è adesso? Sono gli stessi che c’erano allora, che ci saranno?»

«No, non sono gli stessi, sono quelli che sono tracimati qui, perché non si sa mai dove si tracima. Hanno sentito la vocazione e sono tracimati qui.»

«Ma quando hanno sentito la vocazione? L’hanno sentita prima o l’hanno sentita dopo? L’hanno sentita quando erano dentro la morte o quando erano dentro la vita? E se adesso la morte è dentro la vita e la vita è dentro la morte che viene, che veniva prima e che veniva dopo, verrà, quando sono stati chiamati? E da dove? E da chi? Dal Dio dei morti o da quello dei vivi? Che cos’è la vocazione dei tracimati?»

Il Gatto si gira a guardarmi.

Mi prende il braccio, improvvisamente. Continuiamo a camminare così, incernierati, davanti alla vecchia costruzione coperta dalle impalcature, nel mondo.

«Ma allora non ci sono più quel seminarista sordomuto, l’altro prefetto, la Suora Nera, il vicario, il padre priore...»

«Adesso sono io il padre priore!» mi dice stringendomi più forte il braccio, mentre continuiamo a spostarci verso la nuova costruzione e la chiesina che c’è a pianterreno.

“Allora è per questo che la sua testa era già allora spaccata in due, che sarà!” mi passa per la mente. “È per questo che sembrava che avesse già allora due teste, una che veniva prima e l’altra che veniva dopo, verrà. Mentre io a un certo punto ho pensato che quello smottamento di una metà della sua testa c’entrasse qualcosa con quel tirapugni che avevo trovato una volta sotto il piano di un inginocchiatoio... Di chi era quell’inginocchiatoio? Ah, sì, era di quell’uomo adulto, con gli occhiali! Era di quell’uomo che era ritornato chiedendo di entrare di nuovo nel seminario dove era già stato e che una sera avevo sorpreso mentre parlava con il padre priore contro la ringhiera di marmo, sullo sfondo della città illuminata in fondo alla pianura, e si tormentava, e si disperava, e diceva che avrebbe voluto imboccare di nuovo la stessa strada e arrivare di nuovo esattamente allo stesso punto, per vedere se da lì in poi il percorso sarebbe stato sempre lo stesso, se tutto era ormai compiuto e ci poteva essere solo l’orribile ripetizione... E io credevo che stesse parlando della sua vocazione nella vita che veniva dopo e invece stava già parlando di quella nella vita che viene prima e che viene dopo, verrà, stava parlando della vita e della morte che vengono dopo e che vengono prima e di questa universale tracimazione di morte e vita, perché era già tracimato allora, sarà... E all’inizio non volevano farlo entrare, si metteva dietro il cancello ma non gli aprivano, e allora lui ritornava. E poi alla fine il Gatto gli aveva aperto il cancello che gli ha appena aperto, che gli aprirà...”

Mi fermo per un istante, perché adesso faccio fatica a camminare.

Il Gatto mi stringe più forte il braccio, mi sospinge in avanti.

Siamo ormai vicini alla porta a vetri della nuova costruzione, a quella della chiesina che c’è appena dentro.

Non si sente niente. Non un suono, una voce.

La chiesina è sigillata. Le finestre sono tutte chiuse, le tapparelle abbassate, anche se siamo in pieno giorno e c’è questo finimondo di luce buia che sta mangiando il mondo.

Stiamo varcando la porta della nuova costruzione, si vede già quella della chiesina.

Il Gatto allunga una mano.

Sta aprendo piano la porta.

Faccio ancora qualche passo in avanti, senza quasi vedere per l’emozione.

La chiesina è buia, però ci si vede, perché ci sono delle striscioline accecanti di luce che filtrano qua e là dai listelli delle tapparelle abbassate.

Scorgo, in questa luce segreta di fornace, le forme nere di alcuni seminaristi immobili, inginocchiati.

«C’è un nuovo tracimato!» sussurra il Gatto.

Tutte le teste si girano di colpo a guardarmi.

Il Gatto mi indica un posto, il mio posto, con la mano.

Mi inginocchio anch’io.

Le teste dei seminaristi sono ancora tutte girate verso di me, dagli altri inginocchiatoi.

Tutte meno una, mi pare.

C’è un unico seminarista che non si è voltato, nel primo inginocchiatoio, quello più vicino all’altare.

Continua a rimanere girato di schiena, immobile, con le mani giunte.

Il mio cuore sta martellando forte.

Vedo da dietro la sua testa rasata che spunta dal collare di celluloide, le sue orecchie molto staccate dalla testa, come quelle di un giovane animale...