14

Gli eviscerati

Un istante dopo il Gatto comincia a cantare piano, a fior di labbra.

A cantare e a tremare.

Anche gli altri cominciano a cantare piano, a fior di labbra, perché nessuno ci senta.

Anche il seminarista che non si è voltato sta cominciando a cantare, si vedono i contorni della sua veste e della sua testa vibrare un po’ in queste lame di luce.

Comincio a cantare anch’io, anche se non distinguo le parole, però le conosco, le conoscerò.

Continuiamo a cantare per un po’, a fior di labbra per non farci sentire, in questo seminario nascosto dalle impalcature, in questa chiesina buia.

Non lo so che ore sono, a che punto siamo del giorno, perché ho camminato per molto a piedi, lungo quelle stradine deserte dove non arrivavano neppure i lontani rumori di questa guerra tra i vivi e i morti, e prima ancora ho corso per molto su quella macchina truccata del Sempio, inseguiti da quella pattuglia di cacciatori di tracimati che si è poi schiantata contro quel muro apparso all’improvviso. Però mi sembra che queste lame di luce che filtrano tra i listelli si stiano spegnendo sempre più man mano che continuiamo a cantare.

Io sono inginocchiato in fondo, vedo di fronte a me le schiene dei seminaristi che continuano a cantare e a tremare, col messalino aperto tra le mani. Sono poco più di una decina, mi pare, sparpagliati qua e là sugli inginocchiatoi vuoti.

Il Gatto è rimasto in piedi, canta e trema con la testa abbassata, la schiena verso l’altare, risorto.

Continuo a guardare la testa del seminarista inginocchiato sul primo banco, che trema un po’ nella tensione del canto, i tendini del suo collo e della sua nuca che escono dal collare, le sue orecchie molto staccate dalle tempie appena rasate.

“Quando sarà tracimato?” mi chiedo continuando a tremare e a cantare. “Sarà tracimato allora o sarà tracimato adesso? E io quando sarò tracimato? Se adesso sono tracimato dove anche lui è tracimato, ma se anche allora ero tracimato dove lui era tracimato, dove eravamo allora? Dove siamo adesso?”

La chiesina sta diventando sempre più buia, dalle fessure tra i listelli sta entrando sempre meno luce, non ci sono candele accese sull’altare.

Poi il canto, all’improvviso, si spegne.

Alcuni seminaristi stanno già chiudendo il messalino dai bordi dorati che tenevano aperto di fronte agli occhi mentre cantavano, dopo avere rimesso tra le pagine infinitamente sottili e trasparenti i segnalibri colorati che prima pendevano all’esterno, con le loro piccole frange sfilacciate.

Restiamo immobili, ancora inginocchiati, in silenzio, per alcuni istanti.

Anche il Gatto è immobile di fronte a noi, con l’altare alle spalle.

Si sente il suono di altre mani che stanno richiudendo gli ultimi messalini, che li stanno rimettendo sotto il piano ribaltabile dell’inginocchiatoio, e che poi abbassano il coperchio di legno.

Adesso il Gatto ha alzato la testa, ci sta guardando.

Fa un gesto con la mano, per indicare di uscire.

I seminaristi si sollevano dagli inginocchiatoi, si passano una mano sopra la veste, all’altezza delle ginocchia, cominciano a muoversi verso il piccolo corridoio tra le due file di banchi.

Io resto fermo, continuo a guardare il seminarista del primo inginocchiatoio, che si è sollevato e che si sta girando per uscire.

Non respiro più, ma anche lui non respira, mi pare, mentre imbocca a testa bassa il piccolo corridoio e passa vicinissimo a me, che sto ancora immobile, immobilizzato, sul mio inginocchiatoio.

Sono già usciti tutti, anche il Gatto.

Mi alzo anch’io, nella chiesina buia, deserta.

Cammino verso la porta, l’attraverso.

Sono nel cortile. Non lo so quanto tempo siamo rimasti nella chiesina, a tracimare e a cantare, perché adesso il sole è già sotto la linea dell’orizzonte, la luce non c’è quasi più, quella che qui fa il buio, si scorgono appena gli spigoli della vecchia costruzione coperti dalla massa buia delle impalcature e degli spessi fogli di cellophane tormentati dal vento.

I seminaristi si stanno muovendo verso la ringhiera di marmo.

Il Gatto è rimasto a poca distanza dalla porta, ad aspettarmi.

Mi prende di nuovo il braccio, quando gli passo vicino.

Cominciamo a camminare anche noi verso la ringhiera di marmo.

Non si vedono quasi più le impalcature, non si vedranno.

“Ma quando ce le avranno messe?” mi passa per la mente spostandomi incernierato al Gatto che se ne sta a capo chino, in silenzio. “Saranno le stesse che avevano messo prima o saranno altre che avranno messo dopo? Perché quelle che avevano messo prima i muratori poi le hanno tolte, mi pare, le toglieranno! E, se sono ancora quelle che hanno messo prima e se io sono ancora prima che le abbiano tolte, dove ero io allora, dove sono adesso, sarò?”

Siamo arrivati contro la ringhiera di marmo.

Il Gatto si arresta.

Sotto di noi la città sta già cominciando a scintillare in fondo alla pianura.

«Che luci saranno?» provo a domandare. «Saranno quelle dei vivi o saranno quelle dei tracimati?»

Il Gatto guarda fisso da quella parte, non mi risponde.

«E saranno quelle che guardavo prima o saranno quelle che guardavo dopo, che guarderò?» domando ancora.

Cè un enorme silenzio, però ogni tanto si sente qualche rumore sordo, che viene da lontano, da molto lontano, come di remote esplosioni provenienti dal fronte di questa guerra mondiale tra vita e morte che si sta avvicinando sempre di più anche alla città di Bindra.

«Perché sei risorto?» gli chiedo improvvisamente.

Il Gatto trema, non mi risponde.

Gli altri seminaristi si stanno muovendo lungo la ringhiera di marmo, verso la costruzione bassa e affondata del refettorio che si indovina sul fondo.

Ci muoviamo anche noi, staccandoci dalla visione di questo mare di luci che palpita in fondo alla pianura come su un braciere.

Arriviamo alla fine della ringhiera. Svoltiamo. Gli altri seminaristi sono già più avanti, stanno già imboccando i pochi gradini che scendono al refettorio. Si sente il leggero fragore delle loro vesti tormentate da questo vento tracimato, nel buio.

La notte sta calando fulmineamente, non si distinguono neanche più i contorni neri delle vesti, neanche quel leggero biancore dei collari di celluloide che spuntano dai colletti.

“Com’è buia la luce! Com’è luminoso il buio!” mi dico continuando a camminare e a tracimare incernierato al Gatto.

Siamo arrivati anche noi ai gradini. Scendiamo. Arriviamo in fondo, contro lo spigolo della casa delle monache dalle finestre tutte chiuse e spente. Muoviamo gli ultimi passi verso la porta spalancata del refettorio.

Anche le sue finestre sono chiuse, ma dentro un’unica luce è accesa, perché non si può mangiare al buio, perché non si possono muovere le posate alla cieca nei piatti, e poi portarsele tutti insieme alle labbra nell’infinito buio.

I seminaristi sono già dentro, sono già tutti ai loro posti, qua e là attorno alla stessa tavolata a U che c’era anche prima, che ci sarà.

La giostra è girata da questa parte, la sua bocca è aperta, piena di piatti fumanti.

«Ma chi è che fa da mangiare?» domando al Gatto con infinito stupore. «Se non ci sono più quelle suore, se non ci sono ancora, se non c’è più quella Suora Nera che metteva i piatti dentro la giostra, che metterà...»

Il Gatto si gira verso di me.

«Ci sono di là due novizie tracimate...» mi risponde, mentre ci muoviamo già all’interno del refettorio.

Mi indica con la mano un posto. Si va a sedere dietro il segmento più corto della tavolata, anche se adesso è solo, non ci sono più gli altri sacerdoti, non c’è più il padre priore, il vicario.

Mi siedo al mio posto. Alzo gli occhi.

Il cuore mi sta battendo forte.

C’è quel seminarista che stava sul primo inginocchiatoio, proprio di fronte a me, l’unico che non ha girato la sua testa rasata quando sono tracimato nella chiesina.

Qualcuno sta bussando con la mano contro la giostra, dall’altra parte, per dire di andare a prendere i piatti.

Il seminarista seduto di fronte a me si alza dal suo posto, cammina verso la giostra. Si china verso la sua bocca, comincia a prendere i piatti, e poi a portarli verso la tavolata cercando di tenerli ben fermi con le mani, per non far traboccare la minestra.

Io lo guardo, lo guardo, mentre porta i piatti in tavola e poi ritorna verso la giostra per prenderne altri, concentrato, a capo chino, senza staccare gli occhi dalla superficie ondeggiante della minestra.

“È di verdure...” mi accorgo. “È una di quelle minestre che le monache facevano anche allora con le verdure dell’orto, faranno...”

Quasi tutti i seminaristi hanno già il piatto davanti, ci stanno già affondando i cucchiai. Il Gatto sta aspettando la sua minestra per cominciare a mangiare.

Il seminarista che serve in tavola porta il piatto anche a lui, tenendolo con tutte e due le mani. Va a prendere alla giostra gli ultimi due piatti, li viene a posare di fronte ai nostri due posti, uno davanti all’altro.

La giostra gira un’ultima volta, si sente il rumore della sua portella che si richiude, dall’altra parte.

Il seminarista torna a sedersi di fronte a me, comincia a mangiare a capo chino, in silenzio, assorto, senza mai alzare la testa, senza guardarmi.

Io invece lo guardo, lo guardo. Mi porto il cucchiaio alla bocca e continuo a guardare lui che sta inghiottendo la minestra in silenzio, quasi senza masticarla, di fronte a me. Guardo senza fiatare, attraverso le lenti dei miei occhiali appannate dal fumo della minestra, i suoi polsi magri che spuntano dalla veste, le sue mani dalle unghie rosicchiate, la sua testa rasata, le sue orecchie molto staccate, il suo naso dall’osso prominente e curvato, i suoi occhi rotondi che guardano solo nel piatto.

Nel refettorio nessuno parla, perché sono in corso gli esercizi spirituali, perché c’è la regola del silenzio. Si sente solo il rumore delle bocche che stanno sorbendo la minestra col cucchiaio, e poi direttamente dal piatto, alla fine, tenendolo sollevato con due mani, per riuscire a bere anche le ultime gocce rimaste sul fondo.

Giro la testa verso il Gatto.

Se ne sta immobile, col cucchiaio sollevato nell’aria. Sta fissando noi due, che continuiamo a mangiare in silenzio uno di fronte all’altro, con espressione impenetrabile, assorta.

La sua testa sta tremando un po’, forse per l’enorme tensione, forse per queste impercettibili scosse del sisma di vita e morte che stanno ricominciando a far vibrare la terra, e il pavimento sotto di noi, le posate, i bottiglioni dell’acqua, i bicchieri.

Poi, all’improvviso, la giostra riprende a girare. Il seminarista di fronte a me chiude gli occhi per un istante, come per allentare questa enorme tensione. Si alza, comincia a ritirare i piatti vuoti, li impigna uno sull’altro, va a portarli dentro la giostra.

Una mano dall’altra parte fa girare il cilindro di legno. Lo fa ruotare di nuovo con altri piatti su cui c’è solo un po’ di insalata e un dado di marmellata.

“Chi saranno quelle due novizie che stanno caricando la giostra dall’altra parte?” mi domando, e intanto cerco, da questa angolazione, di scorgere anche solo per un istante qualcosa delle mani che stanno mettendo dentro i piatti, nella fessura che corre in verticale tra la parete e la giostra, come l’altra volta avevo scorto le mani della Suora Nera che staccavano con due dita i frammenti del formaggio dalla lama filiforme del coltello e se li portavano alle labbra, scorgerò. “E che noviziato sarà il loro? Sarà quello che viene prima o quello che viene dopo? E che voti prenderanno quelle due novizie? Di che castità, di che povertà, di che obbedienza? Di quelle che vengono dopo o di quelle che vengono prima, verranno?”

Mi guardo attorno, guardo i volti degli altri seminaristi che stanno ricominciando a mangiare l’insalata, a capo chino, in silenzio, che stanno staccando la pellicina di plastica che sigilla il dado di marmellata, che stanno carpendo con le dita il francobollo da collezione racchiuso in una minuscola busta incollata sopra.

Li guardo a uno a uno, ma non li ho mai visti prima, mi pare, non li ho mai visti dopo. Non conosco nessuno. Chissà da dove sono tracimati?

Ce n’è solo uno, che mi sembra di avere visto da qualche parte, non so quando, non so dove, non so se prima, non so se dopo.

“Chi sarà quel seminarista dalla faccia larga e buona?” mi domando continuando a guardarlo mentre spalma con il coltello il suo dado di marmellata dentro un piccolo pane aperto con le mani, e poi lo mastica sorridendo un po’ per la contentezza.

Qualcun altro sta guardando il suo francobollo, per vedere se ce l’aveva già, se ce l’avrà, sta distendendo col dito uno dei suoi dentini, che era rimasto piegato.

Finiamo di mangiare. Il seminarista di fronte a me porta i piatti vuoti dentro la giostra, che gira un’ultima volta su se stessa. La portella si richiude di nuovo, dall’altra parte.

Ci alziamo in silenzio dalle sedie. Ci incolonniamo verso l’uscita.

L’altro seminarista sta camminando davanti a me. Vedo da infinitamente vicino la sua nuca rasata, le sue piccole cicatrici allo scoperto, sotto gli spuntoni dei capelli.

Il Gatto è alle nostre spalle, starà guardando la mia nuca da dietro, come io sto guardando quella dell’altro seminarista, che deve essere arrossito di colpo, violentemente, perché la pelle del suo collo e la parte scoperta della sua nuca e le sue orecchie si sono riempite all’improvviso di sangue, sono diventate colore della brace.

Usciamo dal refettorio.

Adesso è buio, adesso è notte, perché qui ci sono il giorno e la notte, in questo continente, ci sono ancora, ci saranno, anche se il giorno è il giorno della notte che viene prima, e la notte la notte del giorno che viene dopo.

Stiamo camminando già lungo la ringhiera di marmo, contro la città in fondo alla pianura e la sua galassia tracimata di luci. Qualcuno si sta dirigendo verso la macchia scura dei tigli e la piscina prosciugata, per andare a meditare in silenzio sul suo fondo.

Anche l’altro seminarista sta andando da quella parte.

Il Gatto non c’è più, non lo vedo più, sarà andato verso la vecchia costruzione, sarà dietro la ringhiera di marmo, starà guardando la città disseminata di luci in fondo alla pianura.

Faccio qualche passo verso la piscina, scendo anch’io sul suo fondo.

Ci sono due livelli: uno più basso, per quelli che non sapevano nuotare, l’altro più profondo.

Passo da un livello all’altro, muovendo i piedi sulla ripida discesa, alla cieca, nel buio.

“Sì, sì...” mi dico oltrepassando il dislivello. “C’era questo salto improvviso tra una parte e l’altra della piscina, ci sarà, e dei seminaristi che scendevano con gli schettini ai piedi sul suo fondo. Prendevano la rincorsa e poi saltavano, rimanevano per qualche istante sollevati nell’aria...”

Adesso sono nella parte più profonda e più buia della piscina.

Alzo gli occhi.

C’è l’altro seminarista, mi pare, dall’altra parte, nel buio, di fronte a me.

Lo guardo, scorgo la sua veste nera che si distingue appena nel buio, la sottile striscia quasi fosforescente del suo collare.

Resto per un po’ immobile, senza quasi respirare per l’enorme emozione, di fronte a me stesso tracimato prima e tracimato dopo nel prima che viene dopo e nel dopo che viene prima, che sto meditando a capo chino sul fondo di questa piscina tracimata, in questo infinito buio.

«Perché siamo spaccati in due?» sento che la mia voce gli sta bisbigliando incontrollabilmente, da infinitamente vicino, nel buio. «Siamo spaccati in due prima o siamo spaccati in due dopo, saremo? Ma, se siamo spaccati in due prima, perché ci stiamo vedendo dopo? E, se siamo spaccati in due dopo, perché ci siamo già visti prima, ci vedremo?»

Rimane a capo chino, in silenzio, non mi risponde.

«E perché non possiamo parlare tra di noi? Perché non abbiamo potuto anche allora, non stiamo potendo adesso?»

Si porta il dito indice contro le labbra, nel buio, per dire che sono in corso gli esercizi spirituali, che c’è la regola del silenzio, che non si può parlare, che non mi può rispondere, che non mi risponderà.

Poi, all’improvviso, da lontano, qualcuno comincia a battere lentamente le mani, dalla parte della vecchia costruzione ricoperta dalle impalcature nere, del cortile buio, della porta che conduce ai dormitori, alla chiesa.

“Chi starà battendo le mani, stavolta? Chi le batterà?” mi domando, nel buio. “Allora era il padre priore che batteva quelle sue grandi mani soffici spostandosi con le sue due teste nel buio, per dare il segnale che era venuta l’ora di andare in chiesa a recitare il Noctem quietam, e poi di salire in silenzio nei dormitori per la notte...”

L’altro seminarista alza gli occhi verso di me, per un solo istante, nel buio, prima di fare qualche passo per uscire dalla piscina.

Usciamo tutti e due dalla sua zona più profonda, uno dietro l’altro, sollevando molto il piede per superare il dislivello tra le sue due parti e aiutandoci con una mano, e poi camminando sull’altro livello, nel buio.

Adesso siamo fuori, sotto i tigli neri, stiamo andando verso il cortile, e ci sono anche altri seminaristi che si stanno dirigendo da quella parte, anche quello con la faccia larga e buona che ho visto prima nel refettorio, vedrò.

Si continua a sentire questo battere lento di mani nel buio.

Arriviamo in silenzio fino al cortile.

Il Gatto sta battendo le mani di fronte alla vecchia costruzione ricoperta di impalcature nere, lentamente, nel buio, con un lungo intervallo tra un battito e l’altro, come faceva il padre priore con le sue grandi e morbide mani.

Siamo arrivati tutti, sbucati dagli angoli bui, da sotto i tigli neri, dalla piscina, dallo stretto camminamento che corre lungo la ringhiera di marmo, da dietro una gabbiola di lamiera lasciata dai muratori vicino alle impalcature, dal piccolo strapiombo che dà sulla valle nera che c’è dall’altra parte, forse anche dai primi gradini della scaletta che scende lungo il fianco della collina, con la vigna buia e gli alberi di cachi che ci sono in questo continente, che sembrano fatti di filo di ferro arrugginito, immobili in questo infinito buio, carichi di frutti dalla carne gelida che mi si spaccava sulle mani e sulle dita irrigidite dal freddo, quando il Gatto me li tirava a ripetizione dall’alto senza darmi il tempo di metterli dentro il secchio, mi si spaccavano anche sulle braccia, sulle spalle, sul collo, sul volto, sentivo la loro carne fredda scendermi lungo il filo della schiena, sentirò.

Il Gatto ha smesso all’improvviso di battere le mani. Ci guarda.

Ci guarda e trema.

Quando è sicuro che ci siamo tutti, si volta, comincia a camminare verso la nuova costruzione, la chiesa.

Comincio a camminare anch’io, alle sue spalle.

Faccio fatica a muovermi, adesso, a fare i passi, perché anche se c’è buio, c’è molto buio, gli sono così vicino che riesco a vedere di fronte a me, all’improvviso, la sua chierica nuda attraversata da parte a parte da quella rasoiata.

Siamo arrivati davanti alla porta della chiesina.

Entriamo, uno dopo l’altro, nel buio.

Qualcuno sta correndo avanti, non so chi, si sentono i suoi passi in corsa verso l’altare.

Qualche istante dopo si sente lo sfrigolio di un fiammifero.

Una piccola luce si accende, nel buio.

È quel candelino filiforme che c’è in cima allo spegnitoio nero, mi pare, ci sarà.

La lucina sta salendo sempre più verso l’alto, sta incendiando lo stoppino di una delle candele che ci sono sopra l’altare.

Nel suo piccolo alone di luce si distinguono appena le mani che stanno manovrando lo spegnitoio nel buio, la faccia larga e buona del seminarista che lo tengono sollevato ancora un po’, per essere sicuro che lo stoppino della candela si sia acceso bene.

I seminaristi hanno già preso posto sugli inginocchiatoi, per recitare la preghiera di compieta prima del sonno.

Prendo posto anch’io, dietro agli altri, nel buio rischiarato appena dalla fiammella di questa sola candela che si sta cominciando ad allungare.

Il Gatto è in piedi, davanti all’altare, girato verso di noi. Si scorge appena il suo volto investito dalla leggera luce della candela che sta ardendo in alto, nel buio.

«Noctem quietam et finem perfectum concedat nobis Dominus omnipotens» comincia a recitare la sua voce nel buio.

«Amen» stanno rispondendo tutte insieme le nostre voci, nel buio.

Io tremo un po’. Anche lui sta tremando, mi sembra, in piedi contro l’altare, per contenere dentro di sé l’enorme tensione, o forse perché il pavimento della chiesa e l’intero mondo stanno riprendendo a tremare, investiti dalle scosse che salgono dal profondo.

Anche il seminarista inginocchiato nel primo banco sta tremando, mi pare.

«Fratres: sobrii estote» sta continuando a recitare la voce del Gatto, nel buio «et vigilate, quia adversarius vester diabolus, tamquam leo rugiens, circuit, quaerens quem devoret: cui resistite fortes in fide. Tu autem Domine miserere nobis

Adesso sta tremando più forte, sto tremando più forte anch’io, anche il seminarista sul primo inginocchiatoio sta tremando forte, nel buio.

“Ma che preghiera è questa?” mi dico continuando a tremare. “Che preghiera sarà? ‘Perché il diavolo, vostro avversario, come leone ruggente, va attorno cercando di divorare...’ E la sta recitando lui, proprio lui! Ma se il diavolo è lui! Per forza che trema! Che tremerà! ‘Resistetegli forte nella fede...’ E lo sta dicendo lui, proprio lui! Che bisogna resistere a lui! Ma com’è possibile che proprio lui stia recitando questa esortazione, anche se è spaccato in due, lo sarà? Che sia perché è risorto? Ma allora da che cosa è risorto, risorgerà? Dalla morte che viene prima o anche da qualcos’altro? E quando la sta recitando, la reciterà? La sta recitando prima o la sta recitando dopo? E chi dei due la starà recitando: quello che è risorto dopo o quello che è risorto prima?”

Le nostre voci continuano a recitare tutte insieme la preghiera di compieta, nel buio.

«In pace in idipsum dormiam et requiescam. Quoniam tu, Domine, singulariter in spe constituisti me

«Gloria Patri

“Tranquillo mi corico e mi addormento” mi ripeto mentre continuo a recitare la preghiera in latino a fior di labbra, nel buio. “Perché tu, o Signore, mi fai abitare tranquillo e sicuro, anche se solitario...”

«Super aspidem et basiliscum ambulabis et conculcabis leonem et draconem

“Camminerai sull’aspide e sul basilisco, calpesterai il leone e il dragone.”

Il Gatto continua a tremare forte, girato verso di noi ai piedi dell’altare.

«Quoniam in me speravit, liberabo eum: protegam eum, quoniam cognovit nomen meum. Clamabit ad me, et ego exaudiam eum: cum ipso sum in tribulatione. Eripiam eum et glorificabo eum. Longitudine dierum replebo eum, et ostendam illi salutare meum

«Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto» gli rispondono tutte insieme le nostre voci, nel buio.

«Te lucis ante terminum» continua a recitare il Gatto. «Rerum Creator poscimus, ut pro tua clementia sis praesul et custodia. Procul recedant somnia et noctium phantasmata. Hostemque nostrum comprime, ne polluantur corpora...»

“Stiano lontano i sogni e i fantasmi della notte. Frena il nostro nemico...” Ma non è proprio il nemico che sta elevando questa invocazione, che eleverà? Sarà spaccato in due anche il nemico? Ma allora che nemico è? Che nemico sarà?”

«Domine, exaudi orationem meam

«Et clamor meus ad te veniat

“E il mio grido arrivi fino a te... Ma quando si leva questo grido? Si sta levando prima o si sta levando dopo? Quando si leverà? E dove arriverà, se quello a cui doveva arrivare non è risorto, non risorgerà? Se chi doveva risorgere non è risorto e chi non doveva risorgere è invece risorto, risorgerà?”

La preghiera è finita. Rimaniamo in silenzio, nel buio. Il Gatto trema. Anche la chiesa trema un po’, per il sisma di vita e morte. Si sentono i suoni degli oggetti che si stanno scontrando per le vibrazioni che salgono dal profondo, i vasi dei fiori vuoti, i candelieri, le ampolline dell’acqua e del vino che ci sono nella sagrestia dietro la quinta dell’altare, le due parti del turibolo, le sue catenelle, la navicella dell’incenso, le pissidi che ci sono dentro il tabernacolo dalla porticina dorata chiusa a chiave. Il seminarista del primo inginocchiatoio è ancora a capo chino, con le mani giunte, contro la fronte.

Il seminarista dalla faccia larga e buona si è alzato già dal suo posto, sta andando a spegnere l’unica candela accesa sopra l’altare, sta già manovrando l’asta dello spegnitoio per soffocare la fiamma dentro il suo piccolo imbuto nero.

Qualcun altro si è già alzato dal suo inginocchiatoio, nel buio. Ci stiamo già muovendo verso la porta della chiesina.

Adesso siamo fuori, siamo di fronte alla prima rampa delle scale che portano nei dormitori, ma non ci muoviamo, non ci stiamo muovendo. Siamo tutti fermi, immobili, al buio, aspettando qualcosa.

Il Gatto non c’è.

Qualche istante dopo esce dalla chiesa tenendo in mano un lumino acceso.

Comincia a salire le scale, tenendo il lumino sollevato, perché la sua lucina rossa ci permetta di indovinare i gradini su cui adesso anche noi stiamo posando i piedi, nel seminario buio ricoperto dalle impalcature, con le luci spente per non far capire da fuori che all’interno ci sono dei tracimati.

Arriviamo in cima. Passiamo di fronte alla porta aperta di uno dei dormitori, che si indovina appena nel piccolo alone di luce rossa del lumino, con le sue due file di letti bianchi dalle testiere di alluminio.

Continuiamo a seguire il Gatto, che si sta dirigendo verso la porta dell’altro dormitorio, nel buio.

Entriamo nella camerata, alle sue spalle, ci raccogliamo tutti in un dormitorio solo, perché siamo in pochi, perché siamo tracimati in pochi.

Il Gatto tiene sollevato il lumino, lo va a posare sulla mensola che c’è sotto un’immagine sacra, perché rischiari un po’ la camerata buia con l’alone rosso della sua lucina.

Mi guardo attorno, guardo nella penombra le due file di letti, i comodini di lamiera color alluminio che si indovinano appena nel buio.

I seminaristi si stanno dirigendo già verso i loro letti, stanno già cercando nella penombra le saponette dentro i cassetti dei comodini, gli asciugamani ripiegati sulle testiere di alluminio, se li stanno già mettendo in spalla, sopra le vesti.

Il Gatto mi sta mostrando il mio posto nella camerata, indicando con la mano una rete ricoperta dal solo materasso.

Ci sono sopra due lenzuola ripiegate, una coperta, un asciugamano, un pigiama.

Mi faccio il letto, nel buio, mentre gli altri seminaristi si stanno già dirigendo in silenzio verso la porta della camerata, per andare a lavarsi nello stanzone dei lavandini, lunghi come abbeveratoi.

Mi metto anch’io l’asciugamano di traverso sopra la spalla, apro il cassetto del comodino di lamiera, tirandolo un po’ da una parte e dall’altra per farlo uscire, tasto con la mano in cerca del portasaponetta, dello spazzolino, del dentifricio.

Ci sono ancora, sono ancora lì. È proprio il mio letto, sarà, perché sopra il comodino c’è anche la madonnina bianca di plastica trasparente piena di acqua benedetta, che la riempie quasi del tutto e le arriva adesso a filo con la piccola e bella bocca stampata, le arriverà, che si può aprire sollevando un tappo sopra la testa, dall’aspetto di una coroncina posata sui solchi dei suoi capelli trasparenti e freddi.

“Che acqua benedetta sarà?” mi domando sfiorandola con emozione, nel buio. “E quando sarà stata benedetta? Sarà stata benedetta prima o sarà stata benedetta dopo? E da chi? E che benedizione è stata, sarà? Perché, se la benedizione non viene prima, che cosa benedirà? E, se non viene dopo, che cosa avrà benedetto prima che benedirà?”

Faccio qualche passo verso la porta della camerata. Svolto all’angolo, entro nello stanzone degli abbeveratoi, dove alcuni seminaristi si stanno già lavando rumorosamente, nel silenzio, nel buio, si stanno buttando ripetutamente l’acqua fredda sulla faccia, con tutte e due le mani, soffiando forte col naso e tremando.

C’è anche l’altro seminarista. È in piedi davanti a uno dei lunghi lavandini, si sta premendo l’asciugamano con tutte e due le mani contro il volto.

Oltre i vetri dei finestroni si vede il cielo nero crivellato di luci tracimate e di bagliori gelati.

Mi lavo anch’io le mani, la faccia. Mi asciugo. Mi rimetto l’asciugamano sopra la spalla. Ritorno nella camerata.

Le sagome di alcuni letti sono in movimento, si indovina nel buio rischiarato appena da quel lumino il contorcimento dei corpi che si stanno togliendo i vestiti sotto le coperte, che si mettono il pigiama inarcando le schiene e muovendo le mani negli spazi ristretti.

Mi tolgo le scarpe, le calze. Sollevo lenzuola e coperte, entro nel letto vestito. Comincio anch’io a muovere mani e braccia qui sotto, per togliermi i vestiti, inarco anch’io la schiena per fare ponte con la spina dorsale e riuscire a infilare i calzoni del pigiama.

Ecco, adesso ho finito. Ho già messo i vestiti sulla seggiola di alluminio che c’è vicino al letto. Sono coricato sulla schiena, ansimo un po’ per lo sforzo appena compiuto, sto guardando il soffitto, che palpita di tanto in tanto nella penombra per quel leggero bagliore che viene dal lumino.

Il mio è l’ultimo letto della camerata. Da una parte c’è il muro, dall’altra le due file di letti da cui spuntano qua e là le macchie delle teste, nel buio, se mi giro appena da quella parte.

Non vedo il Gatto, non mi sembra di scorgere la sua testa in mezzo alle altre che spuntano dalle coperte.

“Ma certo!” mi dico. “Lui adesso non è più il prefetto di questa camerata, lui adesso è un sacerdote! Dormirà nella vecchia costruzione buia ricoperta dalle impalcature, dove dormivano prima il padre priore e il vicario, dormiranno.”

Il pavimento della camerata trema un po’, si sentono dei piccoli, impercettibili tintinnii venire da sopra i comodini e da dentro i cassetti di lamiera, di minuscoli oggetti che si stanno scontrando nel buio, per questa tracimazione universale e per questo sisma.

Socchiudo gli occhi, mi giro completamente sul fianco.

Non capisco chi sto vedendo, all’inizio, in questo seminario oscurato, in questo continente, nel mondo, avverto solo che un improvviso sonno mi sta avvolgendo e mi sta ghermendo.

Nel letto a fianco, proprio di fronte al mio volto e ai miei occhi, c’è l’altro seminarista che mi sta osservando con i suoi occhi spalancati, rotondi.

Mi guarda, mi continua a guardare, da infinitamente vicino, da chissà quanto tempo, anche lui con la guancia sopra il cuscino, nel silenzio, in questa fornace buia.

Mi addormento di schianto.