È già mattina.
Apro gli occhi.
Rimango per un po’ coricato sulla schiena, a guardare il soffitto.
Poi mi giro sul fianco, verso l’ultimo letto della camerata, dove si sta svegliando anche quell’uomo con gli occhiali che è tracimato qui all’improvviso.
Apre anche lui gli occhi. Sbadiglia. Cerca con la mano, a tentoni, gli occhiali che aveva messo ieri sera sul comodino di alluminio, prima di addormentarsi.
Li trova. Se li mette di traverso sul volto.
Si gira anche lui su un fianco. Mi guarda, mentre anch’io lo sto guardando, in questa luce che filtra tra i listelli delle tapparelle abbassate.
Non fa che guardarmi, da quando è arrivato qui, da quando è entrato insieme al Gatto nella chiesina dove stavamo pregando in silenzio, e poi mentre eravamo nel refettorio, sul fondo della piscina, durante la messa... Perché mi continua a guardare così? Perché anch’io continuo a guardarlo? Perché ha cercato addirittura di parlare con me dentro la piscina, durante la regola del silenzio? Perché non ha voluto ricevere la comunione? Perché mi guardava così fisso quando non mi sono alzato dal mio inginocchiatoio e non mi sono comunicato anch’io come gli altri? Perché anch’io non mi sono comunicato? Perché ho fatto questo? Perché ho capito all’improvviso che non potevo ricevere la comunione? Forse perché ho peccato? Forse perché ho commesso un peccato mortale? Eppure a me non pare di avere peccato! Non mi pare di avere commesso un peccato mortale! E poi, che peccato mortale potrei mai commettere, se sono vivo? Che peccato avrò mai commesso, che neppure io conosco, ricordo? E quando l’avrò mai commesso? E dove? Non mi sono comunicato perché non ero in stato di grazia? Eppure a me sembra di essere in stato di grazia. E allora perché? Perché ho fatto esattamente la stessa cosa che ha fatto quell’uomo con gli occhiali, come se non potessi fare altro, anche se non ho coscienza del perché l’ho fatto? Sì, lo so, io non capisco bene le cose, io sono sempre un po’ intontito, è come se non sapessi mai che ci sono...
La camerata si sta svegliando, si sentono qua e là rumori di sbadigli a denti stretti. Qualcuno sta gemendo, si sta stirando le gambe e le braccia dopo il sonno in questo dormitorio freddo dove tengono le tapparelle sempre abbassate. Ma perché le terranno così? Perché anche il resto del dormitorio è sempre chiuso, sigillato?
Oggi è la vigilia di Natale. Questa notte, a mezzanotte, ci sarà la messa solenne, anche se siamo in pochi, perché ieri sera ho visto, durante le preghiere del Noctem quietam, che l’altare è già tutto addobbato con tovaglie nuove che non avevo mai notato prima, a strati sovrapposti, inamidate da quelle due novizie che ci passano il mangiare nel portavivande, con quelle loro mani piccole, soffici, che intravedo ogni tanto nella fessura tra la parete e la giostra quando vado a prendere i piatti. E ci sono anche dei candelieri che non avevo mai visto prima, su quei gradoni sopra l’altare. Devono averli appena lustrati con quelle loro quattro manine, perché brillano un po’ nella chiesina buia. E ci sono anche molte candele nuove, con il loro stoppino ancora bianco di cera, intatto.
Comincio a sfilarmi i calzoni e la giacca del pigiama sotto le coperte, e intanto vedo con la coda dell’occhio che quell’uomo con gli occhiali mi continua a guardare, a guardare. Ma cos’avrà poi da guardarmi? Io sono solo un povero seminarista intontito, che non capisce niente, che non sa chi è, che non sa se c’è.
Tasto con la mano sulla seggiola di alluminio vicino al letto, dove ho ammucchiato ieri notte i vestiti. Li prendo. Comincio a infilarmi le mutande sotto le coperte, sollevando molto in alto le reni per farci passare sotto l’elastico. Mi infilo i calzoni, la maglia. Anche l’uomo con gli occhiali che c’è nel letto vicino al mio, contro il muro, ha cominciato a svestirsi e a vestirsi sotto le coperte. Però, persino mentre si allunga e si accorcia e si torce per infilarsi i vestiti in questi spazi così ristretti, non smette mai di guardarmi, con la faccia verso di me, in questa prima luce.
Dal basso, dalla chiesina, l’armonio comincia improvvisamente a suonare, anche se stamattina eravamo già tutti svegli, forse perché è la vigilia di Natale, forse per la frenesia che c’è in tutti noi nell’attesa della messa di mezzanotte.
Sposto coperte e lenzuola, metto i piedi giù dal letto, infilo le calze e le scarpe, senza allacciarle.
Mi alzo in piedi, apro il comodino, tiro fuori la saponetta, che si è ormai assottigliata e balla un po’ nella sua scatolina di plastica, mi butto l’asciugamano di traverso sopra la spalla, vado a lavarmi nello stanzone dei lavandini e dei gabinetti, che sono già tutti occupati, perché qui fa freddo e cerchiamo di tenerla più che si può, per non doverci svegliare del tutto e alzarci in piena notte nella camerata gelida e buia per raggiungere gli stanzini.
Aspetto che se ne liberi uno. Entro. Mi svuoto di tutto quello che si era accumulato dentro il mio corpo e che chiedeva di uscire, mentre nella chiesina l’armonio continua a suonare, e il rimbombo della musica è così forte che fa tremare e vibrare ogni cosa, anche le pareti di questo stanzino dove mi sto pulendo in fretta, perché ce n’è già un altro, là fuori, che sta bussando alla porta chiedendo con insistenza di entrare, se non sono quelle scosse che ogni tanto investono il seminario e fanno vibrare, sussultare e sfuocare ogni cosa, che non so da dove vengono, che cosa sono, da che cosa sono causate, forse da un terremoto che sale dal profondo e continua a scuotere la terra e il cielo.
Esco dallo stanzino. C’è l’uomo con gli occhiali dietro la porta, che stava aspettando con impazienza il suo turno. Ha già i calzoni mezzi slacciati per fare prima. Deve avere la cacarella.
Mi vado a lavare, scantonando un po’ quando mi arriva contro le mani e la faccia il filo dell’acqua fredda. Me la passo anche sopra gli spuntoni dei capelli rasati. Mi asciugo. Tengo per un po’ l’asciugamano premuto contro il volto e la testa, per scaldarmi.
Torno nella camerata. Mi metto il collare, mi infilo la veste, allaccio la fila di bottoni. Mi siedo sul letto, mi tolgo le scarpe, le lucido una dopo l’altra con la spazzola, tenendoci dentro una mano. Guardo la pasta nera che si espande sempre di più fino a scomparire, finché rimane solo la luce.
Anche l’uomo con gli occhiali intanto è tornato nella camerata. Si è infilato il maglione, si sta sfregando le mani per il freddo. Io non so perché non si vedono le nuvole dei nostri respiri, in questo dormitorio così freddo. Forse è solo perché c’è la regola del silenzio e nessuno parla, e allora il fiato non esce forte dalle nostre bocche e dai nostri corpi.
Mi infilo di nuovo le scarpe appena lucidate, le allaccio. Anche l’uomo con gli occhiali si sta allacciando le sue scarpe e intanto mi guarda, con la testa capovolta, quasi a filo col pavimento.
Quelli dei letti più vicini alla porta stanno già cominciando a uscire in fila.
L’armonio continua a suonare, la camerata a tremare.
Imbocchiamo le scale, scendiamo verso la chiesina.
Ci sono dei mazzi di fiori freschi sopra l’altare, molte altre candele nuove che ieri sera non c’erano, anche quelle con gli stoppini ancora ricoperti dal velo bianco di cera.
Il Gatto ha smesso improvvisamente di suonare, sta camminando a capo chino verso l’altare. Si ferma. Si gira verso di noi, che siamo già ai nostri posti sugli inginocchiatoi.
Tutti i nostri occhi sono fissi su di lui.
C’è un grande silenzio.
«Questa notte Lui tracimerà nella vita, Lui nascerà!» dice il Gatto, il nostro nuovo padre priore, all’improvviso, con emozione.
Il mio cuore sta battendo forte.
Siamo tutti a capo chino, in silenzio.
D’un tratto, da uno dei banchi in fondo, si leva improvvisamente una voce: «No, Lui non tracimerà! Lui non nascerà!».
Giro la testa, verso il fondo della chiesina, verso l’uomo con gli occhiali che ha appena pronunciato queste parole.
Tutte le altre teste sono adesso girate verso di lui.
«Stiamo camminando sopra l’abisso!» gli risponde il Gatto.
«Sì! E non c’è nemmeno la fune!»
«Sì! E per camminare sopra l’abisso dobbiamo inventarci persino la fune!»
«Eppure noi stiamo già camminando sopra l’abisso, cammineremo!» gli risponde un’ultima volta l’uomo con gli occhiali.
Che cosa stanno dicendo? Io non capisco neppure di che cosa stanno parlando, perché sono un po’ stupido, un po’ tonto, ve l’ho già detto, io non so niente, non capisco niente.
Siamo tutti immobili sugli inginocchiatoi, impietriti.
Il Gatto sta tremando, mi pare, davanti all’altare.
L’uomo con gli occhiali è ancora in piedi. Si era alzato per rispondere al Gatto e adesso è ancora in piedi. Sta cercando di inginocchiarsi ma non ci riesce, come se le sue giunture non potessero più piegarsi.
L’aria è ancora più fredda, quando usciamo infine dalla chiesa. Sta cadendo persino un po’ di neve, ma è una neve piccola, sottile, che si muove intorno a noi mulinando e che si ferma cristallizzata contro le nostre teste rasate e le vesti.
“Che neve è questa?” mi dico “che non si vede quasi nel cielo bianco tanto è sottile, sta stendendo un velo di cristalli che crepita sotto i nostri piedi mentre scendiamo verso il refettorio... Dove si starà formando? In quale punto dello spazio, del mondo?”
È così sottile che si scioglie immediatamente, quando siamo nel refettorio, con le teste abbassate contro le scodelle fumanti, sparisce in un istante dai nostri capelli rasati, dalle vesti, dalle lenti dell’uomo con gli occhiali che sta mangiando di fronte a me a capo chino.
Si sentono venire da lontano dei rumori sordi, dei boati, quando usciamo dal refettorio e guardiamo giù tutti in fila contro la ringhiera di marmo, verso la città investita da questo turbine di cristalli di neve.
“Che rumori saranno questi?” mi domando “che sembrano venire da una guerra che da qui non si vede. E perché il nostro padre priore e quell’uomo con gli occhiali stanno tutti e due con la testa e il collo protesi verso la voragine della città da cui stanno salendo questi lontani fragori?”
La terra trema un po’ sotto i nostri piedi. Continua a tremare per tutto il giorno. E poi anche quando viene buio. Sta ancora tremando quando entriamo di nuovo nella chiesina per la messa di mezzanotte, e anche l’altare trema, anche i fiori, anche le candele accese, anche le loro piccole fiamme.
Imbocchiamo il corridoio tra le due file di banchi. Vedo con la coda dell’occhio, passando, che nella chiesa ci sono due nuove presenze.
“Sono le due novizie!” mi dico. “Sono venute anche loro per la messa di mezzanotte.”
Si sono andate a inginocchiare nell’angolo in fondo, hanno il volto quasi interamente coperto dal velo, tengono le mani giunte, le manine, bisognerebbe dire, perché sono così piccole e così bianche e anche così paffute che sembrano mani di bambine.
Non so perché, ma mi tremano un po’ le gambe, mentre vado a inginocchiarmi al mio posto.
Stanotte è messa solenne, anche se siamo in pochi, anche se non so che Natale è questo, anche se siamo tutti nascosti in questo seminario coperto dalle impalcature e con le tapparelle sempre chiuse, mentre dal fondo della città stanno salendo quei boati improvvisi che sembrano cannonate.
Il Gatto sta passando tra le due file di inginocchiatoi. Velocemente, perché si sente il vento della sua veste.
Arriva fino all’altare. Ci guarda.
Poi, all’improvviso, solleva un braccio.
Lo muove per tre volte, nell’aria.
Sta indicando col dito i tre chierici che gli serviranno questa messa solenne di mezzanotte.
Siamo io, l’uomo con gli occhiali e quel seminarista dalla faccia larga e buona.
Usciamo dai nostri banchi, ci dirigiamo in silenzio verso la sagrestia.
Gli altri seminaristi stanno cominciando a cantare, anche le due novizie, perché si sentono le loro voci, le loro vocine tremare in mezzo alle altre, più alte.
È difficile per me andare avanti. Ma cercherò di raccontare cosa sta avvenendo stanotte, anche se mi sembra di non capire mai cosa sta succedendo davvero, forse perché non so mai se ci sono.
Il Gatto è già nella sagrestia, che è poi solo una specie di strettoia dietro l’altare, ricavata da un tendaggio. Sta baciando uno dopo l’altro i paramenti prima di indossarli aiutato dall’uomo con gli occhiali, che fa fatica a stringere i nodi perché ha le mani rosse per il freddo e un po’ irrigidite.
Non si infila la pianeta, stanotte, ma un pesante piviale bianco tessuto con fili d’oro che gli arriva fino alla chierica e che gli immobilizza quasi le braccia.
Io servirò alla sua destra, ci sta dicendo sottovoce, il seminarista con la faccia buona alla sua sinistra, l’uomo con gli occhiali sarà al turibolo.
Siccome è messa solenne, indossiamo tutti e tre una veste rossa, e sopra ci infiliamo una cotta bianca, traforata, perché il rosso che c’è sotto traspaia dai pizzi, anche se siamo in pochi, anche se la chiesina sembra quasi vuota, stanotte.
L’uomo con gli occhiali controlla che le tre carbonelle siano bene accese dentro il vaso del turibolo, ci fa cadere sopra grani d’incenso, prendendoli con il cucchiaio dalla navicella.
Usciamo. Io col messale rosso spalancato sopra la cotta bianca, il seminarista dalla faccia buona con le mani giunte, l’uomo con gli occhiali con il turibolo da cui escono dense nubi di fumo a ogni sua oscillazione, il nostro padre priore irrigidito nel suo piviale.
Il canto cresce all’improvviso, le voci delle due novizie si staccano ancora di più dalle altre, sembrano non riuscire a controllare del tutto la loro emozione durante il canto.
Inizia la messa.
Ma che messa è questa?
Perché, non appena il celebrante comincia a pronunciare, in latino, le parole dell’Introito: «Il Signore disse a me: “Tu sei mio Figlio. Io oggi ti ho generato...”»
«Quale Signore? Quale Figlio?» domanda ad alta voce l’uomo con gli occhiali, continuando a far oscillare il turibolo da cui scaturiscono nubi di fumo così dense che quasi stordiscono per il loro intenso profumo.
«Quello che viene prima o quello che viene dopo?» continua a domandare a capo chino, senza smettere di far oscillare forte il turibolo e quasi gridando.
Adesso nella chiesina è cessato il canto.
«Perché, se il Figlio è la stessa cosa del Padre e il Padre è increato» continua a dire, «allora come può il Padre avere generato ciò che è increato? Di che Signore state parlando? Di che Dio?»
«Del Dio dei vivi!» gli risponde il Gatto, immobilizzato nel suo piviale.
«Ma chi è il Dio dei vivi? Chi può essere, adesso che anche Dio è spaccato in due? Perché il Dio dei morti è vivo e il Dio dei vivi è morto, sarà?»
«Perché viene prima!» gli risponde il Gatto.
«Prima di cosa: della morte o della vita?»
«Prima della morte che è dentro la vita.»
«Ma adesso non viene prima la vita che è dentro la morte?»
«Viene prima la vita che è dentro la morte che è dentro la vita.»
«Ma se viene prima la vita e se Dio è increato, allora come può avere generato quello che c’era già? Come può il Dio dei vivi venire prima di se stesso nella vita che lui stesso ha creato? Allora che Dio dei vivi è? Ha creato la vita oppure l’ha increata? Ma, se l’ha creata, come fa a essere il Dio dei vivi nella vita che è dentro la morte che viene prima? E, se l’ha increata, come fa a essere il Dio dei vivi nella vita che è dentro la morte che viene dopo?»
«È il Dio dei vivi perché è il Dio dei morti. È il Dio dei morti perché è il Dio dei vivi» risponde il celebrante senza girare la testa, tremando.
«Io mi ricordo...» continua a dire l’uomo con gli occhiali, facendo oscillare ancora più forte il turibolo, a capo chino «che anche allora, nella notte di Natale, Lui gridava, gridava, griderà, quando ero nella vita che veniva dopo e non in quella che viene prima, mentre scendeva dall’alto come da un immenso frantoio il fragore di tutto quel finimondo di stelle e di galassie, e piani di spazio andavano alla deriva, smottavano gli uni sugli altri macinando interi firmamenti e interi mondi. E Lui gridava che prima imperversava nell’increato intatto, e che poi era successo qualcosa alla sua mente, succederà. Come poteva un pensiero mai pensato essere deflagrato? Continuava a imperversare e a gridare. Chi aveva inviato sulla terra, la prima volta, quando il limite era stato sfondato, rovesciato? E adesso chi era il Padre? Chi era il Figlio, sarà? E, se il figlio non aveva voluto risorgere dalla morte che viene prima, se non era tornato al Padre, che cos’è il Padre che è la stessa cosa col Figlio, che cosa sarà? E, se anche Dio, il Dio dei vivi, è tracimato nella vita che è dentro la morte che viene prima...»
«Veniva!» lo interrompe il Gatto.
«... allora perché ha venduto ai morti il pianeta dei vivi? Perché sta vendendo ai vivi il pianeta tracimato dei morti, che hanno già comperato quello dei vivi dentro la morte che viene prima?» continua a dire l’uomo con gli occhiali che sembra non avere neanche sentito l’interruzione del celebrante.
«La vita, la morte...» gli risponde il Gatto, salmodiando «nascere, morire... comperare, vendere... comperare e vendere la stessa merce che si è già venduta, si venderà... creazione, distruzione...»
«Ma creazione di cosa? Distruzione di cosa? Se Lui è increato, cosa può avere creato? Cosa può avere distrutto?»
Io non lo so di che cosa stanno parlando, non riesco a capire che messa è questa.
L’uomo con gli occhiali sta muovendo ancora più forte la mano destra, il turibolo oscilla a tal punto che compie quasi un cerchio.
«In quel tempo...» comincia a leggere il celebrante, allungando la testa e il collo un po’ immobilizzati dal piviale, verso il messale spalancato sopra il leggio «uscì un editto di Cesare Augusto che ordinava di fare il censimento di tutto l’impero. Questo primo censimento fu fatto mentre Quirino era preside della Siria. E recandosi ognuno a dare il nome della propria città, anche Giuseppe, appartenente al casato e alla famiglia di Davide, andò da Nazaret di Galilea alla città di Davide chiamata Betlemme, in Giudea, per farsi iscrivere con Maria sua sposa, che era incinta. E avvenne che, mentre si trovavano lì, si compì per lei il tempo del parto, e partorì il figlio suo primogenito, lo fasciò e lo pose in una mangiatoia, perché non avevano trovato posto nell’albergo, non troveranno...»
«Ma quando lo ha partorito?» interrompe di nuovo l’uomo con gli occhiali, scagliando da una parte all’altra il turibolo come se le sue catenelle fossero fatte di elastico. «Lo ha partorito prima o lo ha partorito dopo? In quale continente? Quello dei vivi o quello dei morti che vengono prima e che vengono dopo? E perché proprio in quel punto, in quella frattura di faglia? Chi l’ha detto?»
La chiesina è piccola, perché ci sono poche vocazioni, perché siamo in pochi, però adesso sono entrate dalla porta delle altre persone, mi pare, anche se non le vedo da dove sono, però sento i loro passi sul pavimento, e scorgo anche, con la coda dell’occhio, che alcuni dei seminaristi stanno girando la testa da quella parte, dai loro inginocchiatoi.
«Sono stato io a dirlo!» risponde inaspettatamente la voce di uno di quelli che sono appena entrati in silenzio, a messa iniziata.
Ci giriamo tutti verso di lui. Anche noi chierici, anche il celebrante.
«E tu chi sei?» gli domanda il Gatto.
«Io sono il profeta Michea» gli risponde l’uomo, staccandosi dagli altri e cominciando a camminare verso l’altare. «Io sono quello che ha profetato che sarebbe nato a Betlemme.»
«Ma quando l’hai profetato?» gli domanda l’uomo con gli occhiali, fissandolo sbalordito, mentre il turibolo continua a oscillare forte attorno al perno della sua mano e del suo polso. «L’hai profetato prima o l’hai profetato dopo?»
«Non lo so» gli risponde Michea, che adesso si è fermato di fianco all’altare, girato verso di noi e verso gli altri seminaristi inginocchiati.
E intanto scuote due o tre volte la testa, arrossisce persino, mi pare.
Io credevo che i profeti fossero tutti vecchi, decrepiti, con la barba bianca, invece questo qui è un uomo giovane, è poco più che un ragazzo.
Anche il celebrante lo guarda, girando la testa contro la lama del piviale.
«Non lo sai?» gli domanda dopo un po’, sbalordito.
Il ragazzo arrossisce ancora di più.
«Come si fa a saperlo, in questa tracimazione universale di vita e morte?» risponde allargando le braccia.
«Quando sei tracimato?» gli domanda l’uomo con gli occhiali. «Sei tracimato prima di aver profetato o sei tracimato dopo?»
«Non lo so» risponde ancora il ragazzo.
«Perché, se sei tracimato dopo, allora quello che hai profetato è già avvenuto, avverrà...» gli dice il Gatto, con la testa girata, fissandolo anche lui sbalordito. «Se sei tracimato prima, se non l’hai ancora profetato, allora non può ancora essere avvenuto ciò che non è stato ancora profetato.»
«Ma adesso tutto è spaccato in due!» gli risponde l’uomo che manovra il turibolo. «Adesso il dopo è prima e il prima è dopo, in questa tracimazione universale di morte e vita e di prima e dopo. Adesso proprio perché non è stato ancora profetato è già avvenuto, avverrà, proprio perché è stato già profetato non potrà avvenire, non avverrà.»
«La notte era nera, sarà...» comincia a dire Michea, senza alzare gli occhi, arrossendo. «Non si vedeva niente. C’erano dei pastori che facevano la guardia alle loro greggi, ma non si vedevano, non si vedevano le loro teste nere, neanche le groppe delle pecore ricoperte di lana ricciuta che continuavano a brucare la poca erba anche in piena notte, tanto era buio, tanto la notte era nera, sarà. Poi, all’improvviso, una luce ha cominciato a sfolgorare nel buio. I pastori si sono coperti gli occhi per non venire accecati. “Tu chi sei?” hanno gridato verso quella luce...»
Sento venire dei passi, dalle mie spalle, segno che un’altra delle persone entrate in chiesa a messa iniziata sta camminando verso l’altare.
Si va a mettere di fianco a Michea, girata verso di noi.
Non si vede quasi, non si riesce quasi a guardare tanto la sua figura riluce in questa chiesina buia illuminata solo dalle luci delle candele quando comincia a parlare.
«“Io sono l’angelo!” ho risposto ai pastori, che si continuavano a coprire gli occhi con le mani per non venire accecati» comincia a dire, «perché io emano questa luce che non so da dove viene, verrà, e che mangia i miei contorni e le linee di contenimento del mondo, anche se io vorrei essere visto dagli occhi degli uomini e da quelli degli animali, degli uccelli che sfrecciano inebriati nel cielo, di quegli insetti quasi invisibili che spuntano dalla terra e alzano le loro minuscole antenne verso lo spazio, vorrei che i loro occhi potessero superare il bagliore che io promano e vedere che cosa c’è dentro questo scrigno di luce, che si possa stampare nelle loro menti, in modo che possa vederlo anch’io attraverso i loro occhi, che si possa stampare almeno per un istante anche nella mia mente stampandosi nelle loro. Ma io non posso essere visto, nessuno mi può vedere, e allora neanch’io vedo niente, vedrò. “Raccogliete le vostre pecore, i cani, scendete fino a Betlemme!” sento che la mia voce sta dicendo ai pastori, la mia voce oppure la mia luce, perché non saprei dire che differenza c’è in me tra la luce e la voce. E i pastori scendono fino a Betlemme, con le loro greggi, arrivano fino a quella stalla. E allora io chiedo ai pastori: “Chi avete visto?”. Perché io, in questo carapace di luce, non vedo, non riesco a vedere, e se non me lo dicono loro non so che cosa ho annunciato, cosa annuncerò. “Chi avete visto, pastori?” chiedo ancora, con questa mia voce di luce che io non sento, non posso sentire. “Annunciatelo anche a me che ve l’ho già annunciato, che ve lo annuncerò. Chi è comparso sulla terra? Chi è tracimato?” E i pastori annunciano cos’hanno visto: che c’è un bambino appena tracimato, disteso in una mangiatoia di animali, avvolto in fasce e pezze appena lacerate coi denti, i pochi capelli ancora rossi di sangue, appiccicati alla piccola testa, dentro una stalla fredda, e che un bue e un asino con le teste pelose protese verso di lui lo stanno scaldando con il loro fiato, e che ci sono lì vicino anche un uomo e la donna che l’ha appena partorito, è molto pallida, esausta, la sua veste è imbrattata di sangue, la sua placenta è finita in un angolo della stalla, i cani dei pastori la stanno già lacerando a morsi, se la stanno contendendo tirandola con i loro denti da una parte e dall’altra...»
“Sì, sì...” mi dico, mentre me ne sto anch’io immobile, inginocchiato ai piedi dell’altare, senza alzare gli occhi verso quel bagliore da cui sta uscendo una voce. “Anch’io l’ho visto con i miei occhi quello che l’angelo sta raccontando, in quel quadro che c’era sul letto di mio padre e mia madre, a Mantova, nella città dove sono nato, in una cornice scura, a forma di ellisse orizzontale, che poi non era veramente un quadro, era un semplice foglio di calendario ritagliato e poi incorniciato. Ma in quell’illustrazione era tutto chiaro e lindo, i colori erano luminosi, a pastello, il padre e la madre avevano le guance rosate, guardavano sorridendo il loro bambino appena nato, che sgambettava in una mangiatoia che sembrava una bomboniera, con una pezzolina bianca distesa sopra la paglia, e anche i loro volti erano luminosi, e la madre non era insanguinata, non aveva addosso tutto quel sangue...”
«E poi la voce si sparge...» sta dicendo l’angelo, la sua voce dentro la sua luce. «Arrivano altri pastori, e poi addirittura un corteo di Re Magi, sacerdoti e sapienti dell’antica religione iranica e depositari della rivelazione di Zarathustra, venuti dall’Oriente fino a Betlemme, perché proprio lì doveva tracimare il Messia, come aveva profetato Michea, come profeterà. Hanno viaggiato in carovana, sui cammelli, nel cuore della notte, guidati da una stella che ardeva più luminosa delle altre nel cielo...»
«Sì, l’ho vista anch’io quella stella!» lo interrompe all’improvviso, irresistibilmente, il seminarista dalla faccia larga e buona, inginocchiato alla sinistra del celebrante, con la sua voce lenta e dolce, dall’accento russo. «Io l’ho vista mentre orbitavo intorno alla Terra nella mia capsula spaziale lanciata dalla base di Tjuratam, primo uomo ad avere raggiunto la velocità cosmica, e non ero ancora atterrato nella regione di Saratov appeso al paracadute come un salame. Io l’ho vista splendere più forte delle altre in tutto quello spazio nero dove ero stato lanciato, da un oblò della Vostok 1. E allora mi sono chiesto: “Ma che cosa sarà quella luce? Sarà una stella? Ma che stella sarà, che non è segnata sulle mappe spaziali che ho guardato prima del lancio? E perché arderà così forte? Che sia una qualche stella che sta nascendo? Una qualche nube di polveri e gas che sta esplodendo proprio in questo momento e che sta tracimando? Che sia una macchina che viaggia oltre la velocità della luce, un’astronave con sopra esseri tracimati da altre dimensioni e da altri mondi di cui non sospettiamo l’esistenza e che non riusciamo neppure a immaginare?”. Ho pensato questo perché sembrava muoversi addirittura nel cielo, proprio come per indicare la strada a qualcuno, mi sembrava la luce della torcia che mio padre, quando ero piccolo, agitava da una delle finestrelle per indicarmi la strada, dopo che ero sceso di sera a dare da mangiare ai maiali nella porcilaia, e intanto gridava, come se io non lo sapessi, per il solo piacere di pronunciare il mio nome: “Sono qui, Jura!”. Ho fatto persino il gesto di muovermi dal sedile dove ero tutto legato con le cinghie, per spostarmi in avanti col busto e guardare giù, sulla Terra, per vedere cosa stava succedendo, come se si potesse vedere qualcosa di quanto stava avvenendo là in basso dall’altezza in cui mi trovavo, come se quello non fosse l’oblò di una capsula spaziale ma la finestrella di un’isbà che si era messa a girare improvvisamente nello spazio. Ho continuato a guardare ancora per un po’ quella torcia che si muoveva nel cielo, e intanto pensavo: “Jura, chissà cosa starà succedendo là in basso, che cosa succederà?”. Lo pensavo e intanto sorridevo. Lo so che sorridevo, non me lo sto mica inventando, lo so perché potevo vedermi riflesso in uno specchio che c’era quasi davanti a me tenuto fermo e insalamato da quelle cinghie, ma un po’ più in alto. Che poi non era proprio uno specchio, era una cromatura della console che rimandava la mia immagine come se fosse uno specchio. E io mi vedevo là dentro mentre sorridevo, con la faccia che spuntava da quella calottina da astronauta. E allora mi veniva da sorridere ancora di più, e la mia faccia mi sembrava come quella di una famosa donna dipinta che hanno esposto in un museo di Parigi e che avevo visto in un libro di scuola: si chiama la Gioconda, mi pare... E allora mi veniva da sorridere e da ridere ancora di più, dentro la mia calottina, e mentre sorridevo e ridevo pensavo: “Sulla Terra sta tracimando qualcosa di grosso e loro mandano in orbita la Gioconda!”.»
Lo so che non si dovrebbe fare durante una messa, tanto meno durante la messa di Natale, ma, anche se non capisco niente di quello che stanno dicendo e che sta succedendo, viene da ridere anche a me, e anche al profeta Michea, mi sembra, perché lo vedo da vicino, sta intrecciando e facendo scricchiolare le dita per trattenersi, a testa bassa di fianco all’altare, con le scarpe da ginnastica ai piedi, forse anche all’angelo, però con lui non si può mai sapere, non si può capire se la luce ride, perché la luce non si può vedere.
«E quando i Re Magi arrivano fino a quella piccola stalla, col loro seguito di sapienti...» riprende a raccontare la voce dell’angelo, oppure la sua luce, chi può dire «e vedono quel bambino tracimato dentro una greppia, adagiato sulla paglia e sul fieno, allora si prostrano tutti, con le loro vesti intessute d’oro, sulla terra battuta e lo sterco, coi loro grandi turbanti che occupano quasi da soli tutto lo spazio di quella piccola stalla, si prostrano a terra e lo adorano.»
Io non lo so che messa è questa, non lo so quando devo rispondere e che cosa devo rispondere, perché stanotte è tutto saltato. Però vedo che il Gatto sta benedicendo l’incenso, e che sta recitando in ginocchio il Munda cor meum, e che dopo un po’ l’uomo con gli occhiali si avvicina a lui e comincia a incensarlo, facendo oscillare forte il turibolo di fronte alla sua testa, che si tira indietro di scatto ogni volta per non venire colpita.
«I Re Magi depongono di fronte alla mangiatoia i loro ricchi doni portati dall’Oriente...» sta continuando a raccontare l’angelo, nella sua luce «poi si rimettono in viaggio per ritornare nelle loro lontane regge, però senza passare da Gerusalemme, per non rivelare a Erode dove è tracimato il bambino. Si spostano senza fare rumore nella notte nera, evitando di passare per i piccoli paesi sprofondati nel sonno, con il loro seguito di cammelli, di turbanti e di vesti. Allora Erode si infuria e ordina di uccidere tutti i bambini appena nati e con meno di due anni, sperando così di liberarsi del tracimato. Quante grida! Di donne che si gettavano sui loro bambini appena nati per impedire che venissero sgozzati! Di neonati fatti a pezzi da lunghe spade e pugnali. E io intanto mi chiedevo, mi chiederò: “Che angelo sono, se non sono l’angelo della salvezza? Che luce irradio, se serve solo a illuminare questo mattatoio?”. E poi tutti quei corpicini smembrati, ricomposti nelle case da mani femminili piene di sangue. Anche le donne uccise, quelle che si erano avvinghiate ai corpicini dei loro neonati per non farli squartare. Quante lacrime! Quante grida! E i bambini squartati che pregavano le loro madri di farli risorgere, di risorgere insieme a loro. “Mamma, mammina, fammi risorgere!” gridavano con le loro vocine, grideranno. “Perché non vuoi risorgere insieme a me? Perché non vuoi farmi risorgere?”»
Si sente piangere forte, da qualche parte della chiesina, alle mie spalle, là in fondo. Sono voci femminili, mi pare. Devono essere le due novizie che stanno singhiozzando, col volto affondato nelle mani, nelle manine.
«No, non è andata così!» dice all’improvviso una voce, quasi gridando.
È il ragazzo profeta.
Fa un passo in avanti, coi suoi grandi piedi ricoperti da un paio di scarpe da ginnastica scalcagnate.
Il Gatto lo guarda, girando la testa da una parte, un po’ sfuocata per le nuvole dell’incenso.
Anche l’angelo lo sta guardando, almeno così mi pare, perché non si capisce mai dove guarda, se guarda, con tutta quella luce che non si vede.
«Non è andata affatto così!» ripete Michea, tremando per l’emozione.
La sua testa è arrossita così forte che sembra in fiamme. Ha gli occhi spalancati, ricoperti da un velo d’acqua, sembra che stia piangendo.
«Sì, è vero, io avevo profetato che era tracimato a Betlemme, che tracimerà!» comincia a dire guardandoci con i suoi occhi spalancati. «È tracimato a Betlemme, in questa tracimazione universale di vita e morte e di morte e vita. È tracimato a Betlemme e lì tracimerà. Io l’ho profetato e adesso lo profeterò. E allora Maria e Giuseppe si mettono in cammino verso Betlemme, perché è venuto per lei il momento del parto. La notte è nera, bussano alle porte delle case, dell’unico albergo, ma nessuno vuole darle un letto perché possa distendersi e partorire quel bambino che si è già capovolto dentro il suo corpo e che sta già scalciando per l’impazienza di tracimare. Adesso non ci sono più case, non si vede niente, solo quel cielo nero e quelle stelle così gelide, così lontane. A Maria sono cominciate le doglie. È seduta di traverso su un asinello e si tiene con tutte e due le mani la sfera della pancia sotto quel cielo nero tutto pieno di stelle. C’è qualcosa, là in fondo, nel buio. Forse una piccola casa fuori dall’abitato. Filtra anche una piccola luce dalla sua finestrella, che trema. Dev’essere una lanterna a olio. Si avvicinano ancora di più. È una stalla. Gli intervalli tra le doglie sono sempre più brevi. Devono fermarsi, tanto più che era stato profetato che il bambino sarebbe tracimato proprio in una stalla, a Betlemme, tracimerà. Giuseppe aiuta Maria a scendere dall’asinello. Lei stringe i denti per il dolore, geme, le sfuggono anche delle piccole grida. Fa qualche passo verso la porticina socchiusa della stalla. E poi... Ma volete veramente sapere cosa succede a questo punto, cosa succederà?»
«Che cosa succede?» gli chiede qualcuno, forse il celebrante, in un soffio.
Ma Michea non riprende a parlare, si sta sforzando di farlo, mi pare, perché la sua bocca trema, ma sembra che non gli escano di bocca le parole.
Allora, non so perché, io mi metto a suonare il campanello, come per disincagliarlo, anche se non so se sono nel punto della messa dove bisognerebbe suonarlo.
Lo suono forte, tre volte, due scampanellate brevi e la terza lunga.
«È successo...» riprende a profetare Michea, con il volto in fiamme «che, prima ancora di entrare nella stalla, Maria si accascia per terra, perché l’ora è venuta, perché il bambino ha già un pezzo di testa fuori e sta cominciando a tracimare. Viene fuori del tutto. Giuseppe taglia il cordone ombelicale col suo coltello da falegname. Maria avvolge il bambino in un lembo della sua veste insanguinata. Si sforza di alzarsi in piedi, aiutata da Giuseppe, per arrivare almeno dentro la stalla e deporre nella mangiatoia il bambino che ha già cominciato a respirare e a gridare, con le sue stesse mani, come io avevo profetato prima, anche se sta perdendo molto sangue, anche se non ha ancora espulso la placenta. Fa ancora qualche passo, a gambe larghe, gemendo per il dolore, sorretta da Giuseppe che avvolge lei e il bambino in un unico abbraccio. Ma, quando sono proprio di fronte alla porta socchiusa, si fermano all’improvviso. Si guardano in faccia, perché stanno sentendo venire da dentro la stalla un piccolo verso, proprio un versolino, ma che non sembra di un animale, di un vitellino appena nato, di un agnellino, che hanno quelle voci che tremano per la prima volta nel mondo, che non si sa da dove vengono, dov’erano prima di venire inventate. Sembra un vagito. Fanno ancora un passo in avanti. Giuseppe apre un po’ di più la porta. Rimangono tutti e due immobili, con gli occhi spalancati, Maria con le guance ancora rigate di pianto per il dolore della tracimazione... C’è già un bambino appena tracimato, dentro la mangiatoia, tra due musi pelosi che lo stanno riscaldando con le nuvole del loro fiato. E vicino al bambino, una da una parte e l’altro dall’altra, ci sono Maria e Giuseppe che lo stanno contemplando e lo stanno adorando. E ci sono anche altre persone in silenzio, in quella piccola stalla, alcuni pastori, addirittura degli uomini con abiti sfarzosi di foggia orientale e grandi turbanti che adesso sono prostrati sul pavimento di terra della piccola stalla e che lo stanno anche loro adorando. “Com’è possibile?” prova a dire Maria, con un filo di voce. “Noi dovevamo arrivare qui, in questa stalla, e poi dovevamo deporre in quella mangiatoia il nostro bambino appena tracimato... E invece adesso la mangiatoia è già occupata da un altro bambino appena tracimato.” “Non è un altro, è lo stesso!” gli risponde la donna vicino alla mangiatoia, girandosi verso di lei, con dolcezza. “Ma allora perché è stato profetato che avrei partorito a Betlemme, e che poi avrei deposto il bambino appena tracimato in quella mangiatoia, non solo da Michea, ma anche da Isaia e da Abacuc...” “È stato profetato anche per me, che avrei deposto il bambino appena tracimato in quella mangiatoia.” “Ma perché?” chiede la prima Maria, con le lacrime agli occhi. “Perché adesso è tutto spaccato in due” le risponde l’altra Maria. “Perché in questa tracimazione universale di vita e morte e di morte e vita il prima è dopo e il dopo è prima, sarà. Perché anche la profezia è prima ed è dopo, sarà.” “Ma allora adesso noi dove andremo? Questo bambino dove andrà, dove tracimerà?” domanda ancora Maria, con la veste imbrattata di sangue, il viso tutto rigato di lacrime. Si guardano in faccia, in silenzio, con gli occhi sbarrati, Maria e Maria, Giuseppe e Giuseppe, mentre la terra comincia a tremare forte sotto di loro, sotto la mangiatoia col suo piccolo tracimato, sotto i pastori inginocchiati, sotto quei re sapienti prostrati con le loro grandi vesti dorate e i loro turbanti che traballano sulle loro teste per l’intensità del sisma...»
«E io allora che cosa ho annunciato ai pastori?» lo interrompe l’angelo, all’improvviso, gridando con la sua luce. «E poi cosa ho domandato ai pastori? “Chi avete visto, pastori?” ho chiesto a quegli uomini che vegliavano attorno a Betlemme con le loro greggi. “Chi è tracimato sulla terra? Annunciatelo!” E i pastori sono andati e poi hanno annunciato: “Abbiamo visto un neonato appena tracimato, e abbiamo sentito i canti degli angeli che lodavano il Signore dei tracimati”. Ma allora che neonato hanno visto, quello profetato prima o quello profetato dopo? Quello nella mangiatoia o quello che non hanno potuto mettere nella mangiatoia perché era già occupata? E quello che non ha trovato posto nella mangiatoia che fine ha fatto? E io che angelo sono? Quello del bambino nella mangiatoia o di quell’altro? E gli altri angeli quale Signore hanno lodato coi loro canti? Quello dei morti nella vita che viene dopo o quello dei vivi nella morte che viene prima oppure quello dei tracimati nella vita che viene dopo e che viene prima?»
«E io quale stella ho visto nel cielo?» domanda Jura dall’altra parte dell’altare. «Se ci sono state due stelle, io quale stella ho visto? Quella che veniva prima o quella che veniva dopo, verrà? E io dov’ero, su quale Vostok 1 ero? Su quella che veniva prima o su quella che veniva dopo, verrà?»
Nella chiesina è piombato il silenzio. Si sentono solo le due vocine delle novizie che piangono, piangono, piangeranno.
L’uomo con gli occhiali sta scagliando il turibolo da una parte e dall’altra, è a testa bassa, sembra sconvolto.
Il Gatto è immobile al centro dell’altare, immobilizzato nel suo piviale.
Solo la sua testa vibra, attraversata da quella rasoiata.
Un istante dopo comincia a recitare il Credo in unum Deum, a voce alta, calcando e ripetendo le parole, con forza:
«Io credo in un solo Dio. In un solo Dio, in un solo Dio! Padre onnipotente, creatore del Cielo e della Terra, di tutte le cose visibili e di quelle invisibili. E di quelle invisibili! E io credo in un solo Signore, in un solo Signore, Gesù Cristo, Figlio unigenito di Dio, del Dio dei vivi! Tracimato dal padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, lume da lume, vero Dio dal vero Dio, che fu generato e non fatto, ed è consustanziale al padre. Consustanziale! Per mezzo del quale tutte le cose furono fatte. Il quale per noi uomini e per la nostra salvezza tracimò dai Cieli. E si incarnò da Maria Vergine per opera dello Spirito Santo e si fece uomo. Fu crocefisso, patì sotto Ponzio Pilato e fu sepolto. E resuscitò il terzo giorno. E salì al Cielo, dove siede alla destra del Padre. E tornerà di nuovo, e tracimerà di nuovo, con gloria, a giudicare i vivi e i morti. I vivi e i morti!»
Si leva un canto, all’improvviso, alle nostre spalle, nella chiesina che ha ricominciato a tremare. Si sentono le voci dei seminaristi che cantano, cantano, anche quelle delle due novizie che si devono essere asciugate le lacrime, soffiate il naso, e che adesso stanno cantando insieme agli altri, con quelle loro voci più alte, con quelle vocine scatenate che fanno venire i brividi a chi le ascolta.
Anche il Gatto trema, trema forte, così forte che si sente il pesante involucro del suo piviale scricchiolare.
Io non vedo niente, non capisco cosa sta succedendo, sento solo questo canto che sale sempre più nella chiesina che trema. Capisco solo che mi sto unendo anch’io al canto, con la mia piccola voce che non si sente.
Poi il canto si spegne.
C’è un enorme silenzio. C’è molto buio. Si vede solo la luce dell’angelo che sta ardendo in silenzio, si vedono solo le barriere delle fiammelle che stanno ardendo sopra l’altare, nel buio.
«Non è andata così!» esclama all’improvviso un’altra voce, alle nostre spalle.
Che poi non è proprio una voce, è come una vibrazione che sembra venire da infinitamente lontano, che addormenta.
Mi giro anch’io, con la testa, con tutto il busto, perché non ho mai sentito una simile voce.
«Non è andata affatto così!» ripete un’altra volta quella strana voce, afona.
Deve essere di un altro di quelli che sono entrati a messa iniziata.
Anche il celebrante si è girato verso il fondo della chiesa, quasi di scatto, nel suo scricchiolante piviale, anche l’uomo con gli occhiali, anche Jura.
Stiamo tutti fissando qualcuno che viene avanti verso l’altare, in silenzio, nel buio rischiarato dal bagliore dell’angelo e da queste barriere di fiammelle che si torcono e tremano come se volessero sradicarsi dai loro stoppini neri.
Continua a venire avanti in silenzio, ma non lo si riesce a vedere in faccia, si scorge solo una chiazza bianca, che luccica un po’ nel punto dove dovrebbero esserci la testa e il volto.
Adesso l’uomo è arrivato fino all’altare, si è fermato vicino all’angelo e al profeta Michea, si è girato verso di noi.
Lo guardo con gli occhi sbarrati, in ginocchio, attraverso le nuvole dell’incenso che scaturiscono dal turibolo lanciato nell’aria, nello spazio.
Per forza che il suo volto non si vede! È perché è coperto da una maschera bianca, di porcellana.
Adesso tremo anch’io, nella chiesina che trema.
«Che cosa ci fai qui?» gli chiede il Gatto, girandosi verso di lui, all’improvviso.
«Sono tracimato» gli risponde la voce, afona.
«Sei il Dio dei morti?» gli chiede ancora il Gatto.
«No, sono il Dio dei vivi.»
«Perché?»
«Perché tutto è spaccato in due, perché il Dio dei vivi è morto! Perché il Dio dei morti è vivo.»
Nessuno parla più, per un po’.
«Perché sei tracimato qui, proprio qui?» gli domanda ancora il Gatto, scricchiolando forte nel suo piviale. «E perché proprio adesso? Proprio durante la messa di Natale!»
Anche il profeta Michea trema, anche l’angelo trema, mi pare, la sua luce palpita intensamente vicino all’altare, arde ancora di più, come se qualcuno stesse tormentando con un attizzatoio la radice di un grande fuoco nel cuore rovente di una fornace.
Il Dio dei vivi non risponde subito, si vede il luccicare della sua testa che si gira un po’, forse per guardarci tutti attraverso i fori per gli occhi della sua maschera.
Una delle due novizie, non so perché, ha ripreso a singhiozzare forte.
«Adesso vi racconto com’è andata davvero...» dice all’improvviso la sua voce afona.