19

Gli addormentati

«Vieni!» mi sta dicendo la voce del padre celestino, da qualche parte.

Mi sta guardando e mi sta sorridendo, con la sua testa pettinata e lucente che spunta dal collare bianco e dalla veste celeste.

Non suona più, eppure io sto sentendo ancora la musica e il canto dentro le orecchie e la testa, perché la musica non si interrompe da un momento all’altro, non si dissolve all’istante. Perché si continua a sentire anche nell’improvviso silenzio il clangore delle molecole che continuano a tormentare e a far tracimare lo spazio.

Stacco le mani dalla borsa del mantice. Anche il padre celestino ha staccato le mani dalle tastiere.

Anche gli evidenziati hanno smesso di cantare e di piangere, contro la barriera delle canne sfuocate, nella voragine della piccola chiesa.

Il padre celestino sta già chiudendo l’organo, sta coprendo le file delle tastiere con delle strisce di panno rosso, distendendole bene con le dita prima di calare il coperchio di legno, guardato da tutte le parti dagli evidenziati che palpitano nella poca luce del lumino che sta per finire, dalla fiamma allungata che galleggia qua e là su uno strato di cera sciolta.

«Vieni!» mi dice ancora, sorridendo alla sommità della sua veste sfuocata.

Anche gli evidenziati si sono staccati dalla barriera delle canne, si sente già il rumore dei loro passi sul pavimento di legno di quest’uovo sprofondato di colpo nel silenzio, della piccola chiesa che c’è sotto.

Imbocchiamo la scaletta, uno dietro l’altro, senza parlare. Si sente il rumore dei nostri passi nel silenzio e nel buio.

Scendiamo nella chiesa, dove gli altri evidenziati si sono già alzati dagli inginocchiatoi, stanno accalcandosi attorno alla veste del padre celestino che si indovina appena nella penombra rischiarata da due lumini posti agli angoli dell’altare.

«Adesso che cosa faremo? Dove andremo?» gli domandano ansiosamente le loro voci.

«Adesso vi addormenterete» risponde il padre celestino, guardandoli con dolcezza. «Adesso scenderete di nuovo nella cripta e vi addormenterete.»

«E poi? E poi?»

«E poi, mentre dormirete, voi sognerete, e mentre sognerete voi vi sposterete dentro il sonno dei vivi prima e dentro i loro sogni e sarete voi i loro sogni. Nessuno vi vedrà, nessuno vi scoprirà, passerete come sogni sognati prima dentro la loro vita sognata dopo.»

«E lei, padre?»

«Io non mi addormenterò, io non sognerò, perché dovrò accogliere nella mia chiesa le nuove ondate di evidenziati e dovrò nasconderle nella cripta, perché dovrò suonare per loro l’organo e loro dovranno cantare e piangere in mezzo a tutte quelle molecole tormentate che si percepiscono come musica e come tracimazione musicale del mondo, dovranno salire dal buio della cripta, verso la chiesa e poi ancora verso quell’uovo musicale pieno di tastiere, e io dovrò sollevare il braccio verso di loro nel gesto dell’assoluzione, staccando la mano da una delle tastiere, anche se nessuno di loro avrà detto nulla, confessato nulla, proprio perché non avranno confessato nulla, anche se si limiteranno a cantare e a piangere, nella vita che viene prima e che viene dopo. Perché io sono il sacerdote dei tracimati, sono stato, sarò.»

Il padre celestino fa un cenno di saluto con tutte e due le mani, sorride un’ultima volta prima di allontanarsi, perché sta venendo il rumore di una campanella suonata con forza, dalla parte della porticina esterna che dà sulla strada.

Si vede nella penombra la sua figura celeste che si allontana, il bagliore della sua larga fascia bianca annodata ai fianchi.

C’è già una piccola ressa di evidenziati che si sta accalcando attorno all’imbocco della scaletta di pietra che conduce nelle viscere della chiesa.

Mi avvicino anch’io. Aspetto che molti degli evidenziati siano scesi e poi imbocco anch’io la scaletta, muovendo i piedi alla cieca sugli stretti gradini.

Arrivo in fondo. Mi guardo attorno, nella cripta rischiarata appena da un unico cero acceso.

Molti si sono già coricati. Ma non per terra, perché mi pare di scorgere le forme di materassini gonfiabili che coprono quasi completamente il pavimento di pietra della cripta.

“Ce li avrà messi il padre celestino...” mi passa per la mente, mentre mi avvicino anch’io a uno degli ultimi materassini ancora liberi e mi ci lascio cadere sopra per l’enorme stanchezza. “Li avrà comperati in qualche negozio e poi li avrà gonfiati a uno a uno, soffiandoci dentro mentre il suo corpo si sarà svuotato e riempito d’aria a ogni soffio, come un mantice, in fondo alla cripta, oppure con una di quelle piccole pompe che si premono con il piede. Li avrà messi qui per le sempre nuove ondate di braccati dai rastrellamenti dei vivi prima e di evidenziati e per dargli un ricovero un po’ più accogliente, perché possano dormire e sognare, e passare nel sonno e nel sogno dentro il sonno e dentro i sogni dei vivi prima con i loro sogni di vivi dopo.”

Mi distendo sul materassino di gomma, sento il suo gonfiore contro la schiena.

«Ecco, adesso ci addormentiamo, sogniamo...» sta dicendo o sta sussurrando una voce, da qualche parte, in fondo alla cripta.

Un secondo dopo qualcun altro, oppure lo stesso, spegne la fiamma del cero con un soffio.

Non si vede più niente. Faccio in tempo a scorgere solo, mentre la fiamma del cero resiste per un istante sullo stoppino alla forza del soffio, a poca distanza da me, una figura femminile perfettamente distesa sulla schiena, con la nuca posata sul cuscino gonfio, che ha già chiuso gli occhi e sta già dormendo o si prepara a dormire.

Chiudo gli occhi anch’io, in questa cripta buia, sul mio materassino di gomma.

E non lo so se sono ancora sveglio o se mi sono già addormentato di schianto per la stanchezza e sto già sognando, ma mi sembra di sentire una voce che mi sta bisbigliando qualcosa da molto vicino o che mi sta addirittura chiamando facendo uscire musicalmente l’aria in mezzo alle labbra socchiuse, come si chiamano tra di loro i bambini, nel buio.

«Pss... psss...»

«Tu chi sei?» le domando.

«Sono Ilaria Del Carretto» mi risponde sottovoce, in un soffio.

Rimango immobile, muto, nel dormiveglia, oppure nel sonno, o nel sogno, non so dire.

«E cosa ci fai qui?» le domando, girando istintivamente la testa verso di lei sulla bombatura del cuscino di gomma.

«Sono tracimata qui» mi risponde, con la sua voce così bassa e leggera che quasi non si sente «da quel letto e da quel cuscino di marmo su cui mi ha posto quello scultore di nome Jacopo della Quercia su incarico di mio marito Paolo Giunigi, signore di Lucca, a questo letto e a questo cuscino di gomma pieno d’aria...»

«Ma quando sei stata scolpita? E come ha fatto quello scultore a scolpirti, se eri già tracimata? Io non capisco, non riesco a capire... Come ha fatto a scolpirti, se lui era vivo e tu eri tracimata? Ti ha scolpita prima oppure ti ha scolpita dopo?»

«Era tracimato anche lui» mi risponde la voce di Ilaria Del Carretto, nella cripta buia da cui si stanno levando i rumori di molti corpi sprofondati nel sonno. «Ma lui era tracimato nella vita che viene prima, io in quella che viene dopo, verrà.»

«E allora come ha fatto a scolpirti?» provo a chiederle ancora, nel silenzio, nel buio, forse addirittura nel sonno, nel sogno.

«Lui colpiva la pietra con lo scalpello da una parte e io tremavo a ogni colpo dall’altra, anche se io non sapevo dov’era lui, e lui non sapeva dov’ero io, dove sarò. Eppure mi cercava, mi cercava, armato di martello, di maglio, conficcando la punta dello scalpello nella pietra che tracimava, mi cercava, mi evidenziava. “Dove sei? Dove sei?” mi diceva, mi gridava, con la punta dello scalpello contro il mio volto, i miei occhi. “Sono qui!” gli dicevo. Ma lui non mi sentiva, perché continuava a chiederlo ancora, a gridarlo ancora. Mi evidenziava sempre di più, a ogni colpo, nella vita che viene dopo e che adesso viene prima, verrà, evidenziava me, proprio me, mentre la mia figura tracimava, venivo a far parte anch’io dell’esercito di tracimati e di evidenziati che si divincolano come sogni nelle masse di marmo cavato dalle montagne sottoposte al sisma di morte e vita e di vita e morte, su quelle pareti e su quelle volte dove molecole di pigmento continuano a tracimare dentro la calce e vengono a fare un tutt’uno col mondo, su quelle piccole superfici di mondo dipinto che riempiono le sale dei musei dove sono state imprigionate in attesa delle nuove armi genetiche e che stanno visitando i sogni dei vivi nella vita che viene prima e che viene dopo con la loro vita che viene dopo e che viene prima, e che fra un po’ balzeranno fuori da se stesse e dalla loro evidenziazione, e si sposteranno come tracimazioni e come sogni in questa tracimazione universale e in questa Terza e ultima guerra mondiale tra morte e vita e tra vita e morte, adesso che abbiamo trovato la cruna di tracimazione, il passaggio, adesso che anch’io ho trovato il mio comandante e il mio sposo, quello che mi ha sollevato dal mio letto di marmo e che mi solleverà da questo letto di gomma, il mio nuovo sposo, che ho già trovato, che troverò.»

«Ma chi è il tuo comandante e il tuo sposo?» provo a chiederle ancora, anche se non so niente, anche se non so neppure se sono ancora sveglio o se invece sogno.

«È Ernesto Guevara de la Serna» mi sussurra la sua voce, nel buio.

Deve avere girato la testa verso di me, sul suo cuscino di gomma, perché adesso sento la sua voce da più vicino ancora. Ha pronunciato quel nome a voce infinitamente bassa, come si parla nei sogni, in un soffio. Ma prima, non so perché, ha emesso quel sibilo lieve che sta a indicare la segretezza e il silenzio, come fanno i bambini quando non vogliono farsi sentire, quando sono raggomitolati al buio e continuano a parlare con gli occhi chiusi e non sanno neppure se sono svegli o se stanno dormendo, nella vita o nella morte, nel mondo.

«Adesso lui è qui, vicino a me...» mi sussurra ancora la voce. «È coricato sul materassino di gomma che c’è a fianco del mio, mi sta tenendo la mano con la sua forte mano abituata a stringere le impugnature delle armi dei vivi prima, abbiamo avuto una giornata dura, di scontri a fuoco, di inseguimenti, non so neppure se in questo momento ci sta ascoltando o se sta dormendo.»

«Ma allora vi siete già incontrati! Non vi siete incontrati per la prima volta adesso!»

«Sì, ci siamo incontrati prima, ci incontreremo.»

«Ma quando è successo? In quale vita, in quale morte?»

«Ci siamo cercati, ci siamo incontrati. Ci siamo cercati nella morte che viene prima e nella vita che viene dopo, ci siamo cercati nella morte che viene dopo e nella vita che viene prima. Ci siamo cercati mentre lui era da una parte e io dall’altra. Mentre io ero tracimata nella carne e mentre ero tracimata nel marmo, nella carne che è dentro il marmo e nel marmo che è dentro la carne. Ci siamo cercati, ci siamo trovati. Io gli scrivevo da una stanza del mio castello, di fronte al grande camino acceso nei freddi pomeriggi d’inverno, lui dalla selva, con la schiena appoggiata allo zaino dopo una giornata di combattimenti. Ma le nostre lettere non ci raggiungevano, perché lui era da una parte e io ero dall’altra, perché le lettere vagano da un continente all’altro senza poter essere recapitate, si ammucchiano nei magazzini postali dove i morti piangono frugando con le mani in quelle montagne di parole tracimate e di sogni, dove i vivi piangono, quelli nella vita e nella morte che viene prima e che viene dopo, perché siamo sempre uno da una parte e l’altra dall’altra, saremo. Le affidavo a dei messaggeri che partivano a cavallo dal mio castello, e io li guardavo da una delle finestre di pietra che davano sulla valle, li guardavo per molto mentre si allontanavano al galoppo verso chissà dove con le mie lettere nella bisaccia, li guarderò, con le mie parole tracimate su un foglio di pergamena sciolte qua e là dalle lacrime, nascoste dentro una busta chiusa con il mio rosso sigillo di cera impresso a fuoco, e intanto la terra tremava sotto gli zoccoli dei cavalli lanciati al galoppo, anche sotto il mio castello, per il sisma provocato da questa continua tracimazione di vita e morte e da questo sfondamento universale di faglia.»

«Intanto anch’io ti cercavo...» comincia a dire un’altra voce, al suo fianco, nel buio, quella di Ernesto Guevara de la Serna, mi pare, mentre tutti gli altri dormono e sognano e forse anch’io, forse anche noi stiamo dormendo e sognando. «Ti cercavo e non ti trovavo, perché tu intanto eri tracimata dentro la vita e dentro la morte che vengono prima e che vengono dopo, dentro il marmo che viene prima e che viene dopo, verrà. Ti scrivevo anch’io, nella selva, nei momenti di sosta mentre cercavamo di sfuggire a un accerchiamento dei corpi speciali che ci stavano dando la caccia, mezzo soffocato da un attacco d’asma, che poi non era davvero asma, era la tremenda pressione di questa tracimazione in cui a volte venivano stritolati il mio torace e il mio corpo come in una morsa di vita e morte, e gli altri guerriglieri dormivano brevi sonni bocconi sopra gli zaini oppure per terra, stremati, con le barbe incolte, i capelli lunghi induriti dal fango. Ti scrivevo e poi affidavo le mie lettere scritte su un foglio di quaderno strappato a qualcuno dei guerriglieri che teneva i collegamenti con quelli che dovevano ricevere i miei messaggi segreti e i miei dispacci attraverso tutta una serie di intermediari ma che forse non li ricevevano perché noi eravamo da una parte e loro dall’altra, perché forse noi eravamo tracimati prima e loro dopo, oppure loro prima e noi dopo. Lo vedevo scomparire in mezzo alla selva, diretto verso una piccola base d’appoggio mimetizzata da capanna di poveri contadini, e intanto pensavo: “Ma che rivoluzione si può portare nel mondo, se non si sa più dov’è il mondo, se è prima o se è dopo, se non si sa neppure se siamo tracimati prima o se siamo tracimati dopo? Ma che amore si può trovare nel mondo, se l’amore viene prima e noi veniamo dopo, se l’amore viene dopo e noi veniamo prima?”.»

«Però io continuavo a cercarti, a pensarti, a sognarti...» gli bisbiglia la voce di lei, in questo buio tutto pieno di evidenziati che stanno dormendo e sognando sui loro materassini di gomma, in questa cripta sprofondata sotto la linea dell’orizzonte del mondo. «Quando ero nella vita che viene dopo e che viene prima, quando ero nel marmo che viene prima e che viene dopo. Ti cercavo e intanto tracimavo, per quel sisma che continua a far tracimare la vita e la morte, continuerà. Ma non sono tracimata solo una volta, ho continuato a tracimare verso di te attraverso quelle parvenze che i vivi dentro la morte hanno chiamato il tempo e lo spazio, ma che non sono tempo, non sono spazio, non saranno. Percepivo solo che ero forse dentro qualcosa come un fiume seminale che scendeva e precipitava, dentro qualcuno di quei gameti nebulizzati che tutti quegli uccelli neri andavano arditamente a carpire col becco nelle nuvole di vapore che salivano dal fronte delle cascate, che ero forse dentro le condutture seminali e le circonvoluzioni e i chiasmi di qualche sterminata città seminale sprofondata nelle viscere del continente dei morti o di quello dei vivi. E che intanto ti cercavo, ti continuavo a cercare, a chiamare, ti cercherò, ti chiamerò.»

«Ti cercavo anch’io, ti chiamavo, ti chiamerò» gli sussurra l’altra voce, da vicino, in un soffio, «quando ero nella selva, mentre combattevo in Congo con gli altri cubani, mentre preparavo la spedizione in Bolivia e ormai sapevo di essere solo, completamente solo, mi spostavo clandestinamente attraverso il mondo dei vivi prima con la mia vita che veniva dopo, verrà, col mio volto rasato reso irriconoscibile da un paio di grossi occhiali, i capelli tagliati corti e lucidi di brillantina, nascosto dietro un’identità diversa, con documenti falsi per depistare i servizi segreti. Mi muovevo anch’io come un gamete in mezzo a un fiume turbinoso di altri gameti che rovinavano nelle cascate seminali divincolando i loro minuscoli corpi muniti di flagelli per arrivare a spaccare prima degli altri la membrana dell’ovulo e tracimare dentro la vita che viene dopo e che viene prima, verrà. Emissari che non sapevo di chi, incontri segreti con persone che non sapevo se erano tracimate dentro la morte o dentro la vita, in quella che veniva dopo o in quella che veniva prima. Guardavo fuori dalla finestra di una casa di periferia che non avevo mai visto e dove abitavo sotto falso nome, in una città dove non ero mai stato, in quei pomeriggi freddi e bui in cui anche tu guardavi fuori da una finestra del tuo castello, guarderai, oppure aprivi i tuoi occhi di marmo e guardavi il soffitto tracimato del mondo, e intanto qualcuno, in qualche ufficio dei servizi segreti, sapeva che c’era quel gamete che si muoveva da solo in quel fiume seminale, che c’erano quei due gameti che si cercavano, che si chiamavano, attraverso le parvenze di tempo e spazio, da qualche parte, nel mondo, in quello che veniva prima e veniva dopo, verrà... Allora ero a Praga, in incognito, passavo le mie giornate da solo, mangiavo da solo, andavo a buttare da solo il sacchetto dell’immondizia nello scarico che c’era nel mio pianerottolo, in fretta, per non essere scorto da occhi indiscreti, da qualche vicino che magari usciva proprio in quello stesso istante dalla sua porta con una scusa o con l’altra, oppure che mi poteva sempre guardare dallo spioncino, che magari sembrava un inoffensivo vecchietto in pensione ma che poteva sempre essere una spia, anche lei sotto falsa identità e falso nome, che avrebbe segnalato per prima, con qualche apparecchio ricetrasmittente coperto, che il guerrigliero imprendibile che tutti stavano inutilmente cercando in ogni parte del mondo si trovava in realtà in un anonimo condominio alla periferia di Praga e buttava il sacchetto delle immondizie da solo nello scarico del pianerottolo. Incontravo ogni tanto degli emissari, perché era in atto un gioco grande nel mondo, un gioco piccolo che però sembrava grande, sembrerà. E ognuno dei giocatori sembrava una cosa e invece era un’altra. Unione Sovietica, Cuba, Stati Uniti, i partiti comunisti di obbedienza sovietica, i colpi di Stato, i gruppi di guerriglia pieni di infiltrati, la Tricontinentale, la rivoluzione, la tracimazione... E io non sapevo più in che mondo ero, se in quello che viene prima o in quello che viene dopo, chi ero. Avevo già scritto la mia lettera di addio a Cuba e alla rivoluzione cubana, indirizzata a Fidel Castro Ruz, con il quale avevo condiviso gli anni di guerriglia sulla sierra e l’entrata all’Avana alla testa delle colonne dei ragazzi ribelli che avevano conquistato l’isola, ma che adesso non sapevo più dov’era, chi era...»

«Oh, sì...» lo interrompo io all’improvviso, parlando a bassa voce, senza sapere se sono ancora sveglio o se sto dormendo o sognando. «E io ascoltavo le parole di quella tua lettera pronunciate dalla voce di Castro dopo la tua partenza da Cuba, sopra un mare di cappelli di paglia, come è capitato di vedere anche a me, con i miei occhi, solo un anno dopo, in un pomeriggio tropicale, nella città di Las Villas, sotto il sole, in un’immensa piazza sormontata da un tuo ritratto col basco di guerrigliero che copriva da cima a fondo un intero grattacielo. Ascoltavo e riascoltavo le parole della tua lettera pronunciate da Castro, incise su un disco che facevo girare continuamente nella mia piccola stanza in cima a una di quelle torri, mentre tutt’intorno diventava buio, nella mia vita, nel mondo, vedevo solo le ombre proiettate dalle candele contro l’armadio di latta, contro le pareti. Ascoltavo e riascoltavo le tue parole, le ripetevo a memoria e intanto piangevo, perché non sapevo in che mondo ero, chi ero, non lo so neanche adesso, non so nemmeno quando è successo quello che sto raccontando, quando succederà, e intanto capivo che anche tu non sapevi in che mondo eri, chi eri, da dove stavi mandando quella lettera, dov’ero io che la stavo ascoltando nel mio monolocale in cima a una torre in una periferia lontana, attraverso la voce di un altro incisa su un disco...»

Mi interrompo, resto per un istante in silenzio.

Si sente solo il rumore dei respiri degli evidenziati sprofondati nel sonno.

«Sono tracimata anch’io a Praga...» sento sussurrare la voce di lei, all’improvviso.

Sta venendo un leggero boato, da quella parte, nel silenzio di questa cripta piena di corpi addormentati sotto la linea dell’orizzonte, segno che loro due si sono girati contemporaneamente uno verso l’altro sui materassini di gomma molto gonfi, per guardarsi, anche se qui c’è buio, non si vede niente.

«Neanch’io sapevo chi ero, dov’ero» continua a dire la voce di lei. «Ero arrivata lì, di tracimazione in tracimazione, dentro un mondo che non sapevo dov’era. Mi avevano contattato i servizi segreti sovietici, per mettermi alle tue calcagna, perché quell’uomo che non sapeva chi era non voleva abbandonare il suo sogno di portare la rivoluzione e la tracimazione nella vita che viene prima e che viene dopo. Mi avevano dato una falsa identità, un falso nome, Tania. Mi avevano affidato l’incarico di infiltrarmi nella tua vita e nella tua morte, di starti vicino, di controllarti, e poi di riferire a loro, attraverso intermediari che avrei incontrato per caso nei caffè gremiti di tracimati, mentre camminavo attraverso una grande piazza e qualche altro passante mi avrebbe urtato come per caso, nel passare. Credevano di servirsi di me e invece ero io a servirmi di loro per cercare te, per incontrare te. Tu intanto guardavi fuori dalla finestra e aspettavi, senza sapere che ormai ti ero vicina, che ero già nella stessa città d’Europa dove stavi nascosto anche tu, in attesa che tra quei piccoli giochi si aprisse per te uno spiraglio, per prendere altre identità e altri aerei, per raggiungere travestito da uomo d’affari calvo e munito di occhiali quel povero Paese sperduto dove volevi tracimare con tutta la tua vita e con la tua morte nel mondo che non sapevi neppure se era prima o se era dopo. Ci siamo visti una prima volta, per qualche istante, in un caffè della città vecchia dove un agente dei servizi sovietici infiltrato nei servizi cecoslovacchi ci ha messo in contatto. Eravamo seduti a qualche tavolino di distanza, nessun altro avrebbe potuto accorgersi di questo incontro. L’agente mi ha indicato con gli occhi. Tu mi hai guardata per un istante, per ricordarti la mia figura e il mio volto. O meglio, avresti dovuto guardarmi per un istante e poi distogliere lo sguardo facendo finta di niente, invece, quando i tuoi occhi hanno incrociato i miei, ti sei immobilizzato. Anch’io sono rimasta immobile, perché ti vedevo per la prima volta dopo averti così a lungo chiamato e cercato. Il mio respiro si è arrestato, non riuscivo neanche più a far finta di girare il cucchiaino nella tazzina del caffè che avevo davanti. Eravamo tutti e due immobili, saremo, con gli occhi fissi l’uno nell’altra, nelle nostre vite e nelle nostre morti. È impossibile riuscire a dire cosa può succedere a due tracimati che si sono cercati e chiamati attraverso la morte e la vita quando si trovano una di fronte all’altro in una città mai vista prima, in qualche punto del continente dei vivi, tutti e due sotto falsa identità e falso nome. Ci continuavamo a guardare dietro la vetrina di quel caffè che dava su una piazza su cui passavano fiumi di gameti che andavano chissà dove, le nostre immagini, le nostre figure, i nostri volti, le nostre vite e le nostre morti stavano passando gli uni dentro gli altri, dentro le nostre vite e le nostre morti. Impossibile riuscire a dire che cosa succede quando ci si guarda e ci si vede così. “Eccola, quella è Tania!” ho percepito che ti stava bisbigliando l’agente, mentre tu non riuscivi ancora a staccare gli occhi da me. “Sarà lei adesso a mettersi in contatto con te, terrà lei d’ora in poi i collegamenti con i servizi cecoslovacchi, cubani, sovietici, della Germania orientale, con il partito comunista boliviano e il primo nucleo di guerriglieri.”»

«Sì, perché in quei giorni era in atto un conflitto...» sento che adesso sta bisbigliando la voce di lui «tutta una rete di complicità e di inganni tra questi servizi e il partito comunista cubano e il partito comunista boliviano che non mi voleva nel suo territorio a portare la rivoluzione e la tracimazione dentro la vita e dentro la morte, perché era in corso una trattativa e loro non volevano farmi andare nella zona della Bolivia dove io avrei voluto portare il fuoco della guerriglia, perché sono riusciti alla fine a farmi andare nella regione più sfavorevole, nella trappola dove mi hanno accerchiato e poi catturato. E io ci sono andato lo stesso, anche se immaginavo cosa sarebbe successo, perché non sapevo dov’ero, chi ero, perché volevo portare la rivoluzione e la tracimazione nel mondo, perché senza tracimazione non c’era rivoluzione, perché senza rivoluzione non c’era tracimazione, non ci sarà.»

Chiudo gli occhi, se non li avevo già chiusi, in questa cripta piena di evidenziati sprofondati nel sonno, continuo ad ascoltare le due voci che stanno raccontando la loro storia di tracimazione e d’amore.

«Sono venuta da te in veste di Tania, di quella che nel mondo hanno creduto essere Tania e che invece ero io, tracimata... Era pomeriggio tardi, verso sera. Stava venendo buio. Sono scesa alla fermata della corriera e ho camminato per un po’ in quella strada di periferia semideserta, solo qualche donna che stava rincasando con la bottiglia del latte stretta contro il cappotto, qualche operaio che rientrava alla fine del turno con la borsa di cuoio in una mano. Sono arrivata fino al casamento dove tu vivevi nascosto. Ho cercato il campanello del tuo appartamento in mezzo a molti altri, con due iniziali soltanto, nel punto che mi era stato indicato. Ho suonato come convenuto: quattro colpi brevi, due lunghi. Ho aspettato, col cuore in gola. Mi hai aperto. Sono salita lungo quella stretta scala, senza vedere bene i gradini perché un velo di lacrime mi era salito improvvisamente agli occhi. La tua porta era aperta, non proprio aperta, socchiusa, per ragioni di vigilanza. L’ho sfiorata, ho bussato piano, ma non con le nocche, con la punta delle dita, coi polpastrelli. La porta si è aperta di più, per la semplice pressione delle mie dita leggere. Tu eri a pochi passi di distanza, nel piccolo corridoio, con un mitra in mano, puntato contro di me, perché ancora non sapevi bene chi ero, chi sarò, non potevi essere ancora sicuro che ero quella che tu avevi cercato e chiamato. Io ho sollevato tutte e due le braccia in segno di resa, e intanto la mia bocca ti sorrideva. Hai abbassato la canna del mitra. Mi guardavi con gli occhi sbarrati. Non staccavamo gli occhi l’una dall’altro, nel corridoio di quel piccolo appartamento nella periferia industriale di una città della vecchia Europa del Novecento, come se dopo esserci così a lungo cercati non riuscissimo a riconoscerci al primo istante, non potessimo veramente vederci. “Tu chi sei?” mi hai chiesto continuando a guardarmi. “Sei un’agente dei sovietici, dei tedeschi orientali oppure dei cubani?” “No” ti ho risposto, sottovoce, in un soffio. “Io sono Ilaria Del Carretto, sarò, io sono quella che è tracimata per te e che ti sta chiamando e ti sta cercando attraverso la morte e attraverso la vita, io sono quella che anche tu stai cercando e chiamando attraverso la vita e attraverso la morte che vengono dopo e che vengono prima, verranno.” Il corridoio era corto e stretto, ma a me è parso di vederti correre per molto verso di me, con le braccia spalancate per avvolgermi nel tuo abbraccio con tutta la tua vita e con tutta la tua morte, e anche a te deve essere parso di vedermi correre per molto verso di te, come se fossi infinitamente lontana, mentre ero così vicina, come se quel corridoio si allungasse e si srotolasse man mano che noi ci volavamo e ci tracimavamo incontro. Sono arrivata alla fine tra le tue braccia, e tu nelle mie. Siamo tracimati l’uno nell’altra. Ci siamo avvolti e ci siamo stretti nelle nostre vite e nelle nostre morti. Poi... è impossibile raccontare quello che è veramente successo in quella casa sconosciuta, in quella nostra prima notte nuziale di tracimati. Siamo rimasti stretti per tutta la notte, tracimati l’uno dentro il corpo dell’altra, incernierati, saldati, per non venire separati e strappati in questa tracimazione universale e in questo sisma di vita e morte. Ti ho accarezzato e ti ho baciato e ti ho amato come sanno accarezzare e baciare e amare le antiche donne italiane del Trecento tracimate e nascoste sotto le spoglie di agenti dei servizi segreti di nuove nazioni in guerra del Novecento, che si sciolgono i loro lunghi capelli tra le braccia dei loro sposi cercati attraverso la morte e la vita del mondo, e tu mi hai accarezzata e mi hai baciata e mi hai amata come un giovane uomo argentino ancora dentro i suoi gameti nebulizzati sul fronte della cascata, perché tu eri solo, eri completante solo, sarai, e anch’io ero sola, sarò, ero tracimata per te e adesso ci eravamo finalmente incontrati nella vita che viene prima e che viene dopo, ci incontreremo.»

La voce si interrompe un istante, o forse sono io che mi addormento per un istante e sogno che quella voce si è interrotta per un istante. Ma come faccio ad addormentarmi, se stavo già dormendo, come faccio a sognare che quella voce sta ricominciando a parlare, se stavo già sognando?

«Sono passati alcuni giorni e alcune notti così, non saprei dire quanti. Poi è arrivato il momento della tua partenza. Hai lasciato la nostra casa all’alba e io ti ho guardato dalla finestra mentre ti allontanavi lungo la strada lucida di pioggia e deserta, e poi salivi su una macchina buia che stava ferma e con una portiera aperta a filo col marciapiede, stringendomi l’accappatoio al petto con una delle mie mani che era stata appena incernierata alla tua. Sono passati altri giorni. Ci sono stati altri spostamenti, sulla terra, nel cielo. Aerei in volo di notte, con le lucine sotto le ali che palpitavano in tutto quel buio che avvolge la Terra. Io semiaddormentata sopra il sedile, con la coperta attorno al mio corpo di tracimata, dopo essere passata indenne attraverso i controlli delle dogane del continente dei vivi prima, con i miei documenti falsi chiusi nella valigia, i miei capelli tinti nascosti da un berretto di lana tirato giù fino al naso freddo, al posto del copricapo medievale e del velo che avevo prima sopra la massa di marmo dei miei capelli raccolti. Altre notti in volo tra un continente e l’altro del mondo, altre notti in piccole stanze di alberghi miseri in città sudamericane piene di tracimati fino a scoppiare, con il ventilatore che girava piano sulla mia testa distesa sopra un cuscino fradicio di sudore. Altri giorni lungo strade e piste appena distinguibili dal resto della terra secca del mondo, su vecchie macchine comperate e poi abbandonate, lungo quelle enormi strade seminali diritte che attraversavano le grandi città lesionate dei vivi prima, piene di gameti e di teste che si divincolavano con i loro occhi in mezzo agli altri gameti tracimati nel mondo, per fare perdere le mie tracce agli uomini dei servizi segreti che mi avevano messo alle tue calcagna credendo di infiltrarmi nella guerriglia, a quelli che facevano il doppio gioco mentre anch’io facevo il doppio gioco, non quello piccolo tra le parvenze degli Stati dei vivi prima, ma tra la vita e la morte, tra la vita e la morte che venivano prima e venivano dopo, verranno. Sono riuscita a raggiungerti per un’altra via, nella selva, mi sono unita al tuo gruppo di guerriglieri laceri, abbandonati da tutti, che si spostavano sulle montagne per far perdere le loro tracce ai corpi speciali che vi stavano dando la caccia, ai ranger venuti dagli Stati Uniti che scrutavano la selva dalla terra, dal cielo, con i loro visori notturni. Ho diviso con te le notti sulla nuda terra, i turni di guardia, le operazioni di sganciamento, gli agguati, le ritirate lungo i fianchi delle montagne fortemente inclinati, cambiando i caricatori senza smettere di correre e di ansimare, girandoci a sparare ogni tanto raffiche lunghe di mitra per rallentare l’avanzata degli inseguitori... Io non ero con te quando sei tracimato, perché tu mi avevi mandato via per una disperata missione nel mondo, anche se sapevi che non c’era più niente da fare, anche se sapevi che eravate stati abbandonati da tutti e sacrificati, che i piccoli giochi erano ormai chiusi, che nessuno vi voleva salvare. Quando sei tracimato in quella piccola casupola a La Higuera adibita a scuola per i figli dei poveri contadini indios che vivevano nella selva, sotto raffiche di mitra mentre eri seduto per terra e guardavi tranquillamente negli occhi chi ti stava sparando, quando ti hanno trasportato a La Paz legato su una barella fissata ai pattini dell’elicottero che sorvolava le montagne e le selve, e il tuo corpo nudo dalla cintola in su non sentiva più il freddo, non sentirà, e i tuoi capelli induriti dal sudore e dal fango sventolavano come stracci attorno al tuo volto e alla tua bocca tormentata dal vento che sorrideva, mentre anche tu volavi come una statua fredda sopra la linea d’orizzonte della vita e del mondo, io ero da un’altra parte, piangevo in una stanza che non avevo mai visto prima, in un altro continente, in un altro mondo, di fronte a un piccolo televisore in bianco e nero che trasmetteva l’immagine del tuo corpo crivellato di colpi e della tua bocca di tracimato che mi guardava e mi sorrideva. Ho ricominciato a cercarti, a chiamarti, dentro la morte che viene dopo, come ti avevo cercato dentro la vita che viene prima mentre ero dentro quella che viene dopo, verrà. E anche tu mi cercavi, mi chiamavi, mentre eravamo ancora uno da una parte e l’altro dall’altra, ma adesso all’incontrario, dentro la vita e dentro la morte del mondo. Ci siamo cercati, ci siamo trovati, ci siamo trovati ancora per la prima volta, nella vita che viene prima, in questa tracimazione universale e in questo sisma di vita e morte. Ci siamo abbracciati ancora, ci siamo incernierati per la prima volta ancora. Abbiamo combattuto ancora, combatteremo, uno a fianco dell’altra, nelle notti fredde, nelle città di questo continente sottoposto alla tracimazione e alla guerra e rastrellate dai vivi dentro la morte con le loro armi mai viste prima, ci siamo nascosti nelle case lesionate e deserte respingendo in armi gli assalti, nei bivacchi dei tracimati seduti in cerchio, immobili e con gli occhi fissi nel fuoco. Siamo stati braccati, siamo stati evidenziati, abbiamo continuato a combattere da evidenziati, rompendo continuamente gli accerchiamenti, nascondendoci sotto la linea dell’orizzonte, nelle cantine mezze franate su cui fischiavano i colpi di cannone a lunga gittata, nelle viscere dei grattacieli, lungo quei corridoi su cui correvano le successioni dei tubi del riscaldamento, mentre rimbombavano gli spari di chi ci stava inseguendo fin sotto terra e venivano da qualche parte, da fuori, i fragori delle bombe che piombavano giù dal cielo, in questa cripta dove siamo stati investiti da tutto quel tormento di particelle che ci sono dentro lo spazio e da quella tracimazione musicale del mondo che è dentro la morte e che è dentro la vita che vengono prima e che vengono dopo, verranno...»

Sento che la voce di lui sta cominciando a ridere piano, nel buio.

«Guapa! Ragazza di marmo!» dice d’un tratto. «Siamo stati fermi qui dentro anche troppo! Ci stiamo arrugginendo! Corriamo fuori con i nostri corpi evidenziati, con le nostre armi, nel buio, continuiamo a combattere come sogni dentro i loro sogni!»

Sento che si sta alzando improvvisamente, mi pare, se non lo sogno, perché si stanno levando quei leggeri boati della gomma gonfiata che si comprime sotto il peso del suo corpo che si puntella con i gomiti e con le mani prima di sollevarsi.

Adesso è in piedi, scorgo i contorni della sua figura evidenziati nel buio.

Si sta chinando sopra di lei, che è ancora coricata sul suo materassino di gomma, le sta passando le mani e le braccia sotto le spalle e le reni, la sta sollevando.

E lei viene su piano, in orizzontale, nel buio, tra le sue braccia che la sollevano sempre più e che poi la pongono in posizione eretta nel mondo.

Adesso è in piedi anche lei, verticale.

«Forza!» mi sta dicendo la sua bella voce medievale, dall’alto, nel buio. «Alzati anche tu! Unisciti a noi! Corriamo fuori a combattere, nella vita e nella morte del mondo, insieme agli altri tracimati e agli evidenziati.»

E allora mi alzo anch’io, mi alzerò, perché sento, oppure sogno, che anche la gomma piena d’aria del mio materassino si sta torcendo e sta gemendo forte sotto il mio corpo.

E che lui sta sollevando qualcosa da terra, con fragore, forse uno zaino pieno di armi. E che lei si sta già muovendo verticalmente nel mondo, al suo fianco, stanno andando tutti e due verso l’imbocco della scaletta di pietra che sale nella chiesa e verso la linea dell’orizzonte.

Comincio a correre da quella parte anch’io, cercando di non calpestare i corpi e i volti degli evidenziati che dormono e sognano sul pavimento della cripta, buttati sopra i materassini di gomma.

Adesso stiamo salendo tutti e tre in fila lungo la stretta scaletta di pietra. Vedo nel buio, appena sopra di me, le piccole scarpe ricamate di lei che oltrepassano uno dopo l’altro i gradini.

Si sentono sferragliare le armi dentro lo zaino.

Siamo già balzati fuori dal cunicolo di pietra della scaletta.

Intorno a noi c’è lo spazio della chiesa, freddo, buio, deserto, rischiarato appena dalla leggera luce che filtra attraverso le vetrate piene di figure di vetro evidenziate.

«Fuori! Fuori!» sta gridando lui, con esultanza, nel buio.

E intanto corre verso la porticina interna della chiesa, e poi attraverso uno spigolo del chiostro, con i suoi scarponi militari che rimbombano forte, rasentando le colonne con il suo zaino pieno di caricatori e di armi che sferragliano nel silenzio e nel buio, e poi verso la porticina esterna del convento che dà sulla piccola strada, sul mondo.

La spalanca con un calcio.

Corro avanti alla cieca, dietro il mio comandante che continua a correre e a tracimare.

La notte è buia.

Adesso siamo tutti e tre fuori.

Tutt’intorno silenzio, notte nera, nel mondo, nel sogno.