Il furgone si ferma.
Salto giù.
L’uomo è tutto inclinato sopra i sedili, mi sta guardando e intanto non so perché sta ripetutamente premendo il pedale dell’acceleratore, anche se il furgone è fermo, anche se il mondo è fermo.
«Ma come fai ad arrivarci?» mi grida.
«A piedi, coi treni...»
«Siamo vicini alla linea del fronte!» mi grida ancora, nel fumo che si sta levando dallo scappamento. «Ci sono continue incursioni, i treni sono presi d’assalto, dalle truppe, dai civili, sono mitragliati dall’alto dagli aerei degli immortali.»
«Ci arriverò!»
C’è molta luce, c’è molto vento.
«E adesso io dove andrò?» sento che l’uomo sta mormorando, da qui dove sono, da dopo, da prima.
La mia veste sventola, in questo mondo dove sto muovendo i primi passi, mi pare, muoverò.
Sento che alle mie spalle il furgone ha ripreso a muoversi, che ha ripreso a correre all’incontrario nella vita e nella morte del mondo.
L’orizzonte è basso, si sta abbassando sempre di più, come se stessi camminando su un piano inclinato.
C’è un paese, là in fondo, sprofondato dietro una grande curva che sale.
“Ma io li conosco già questi luoghi!” mi rendo conto improvvisamente. “Io ci sono già stato.”
Vedo delle persone che fuggono, lungo la linea dell’orizzonte bombardata.
Sento un fragore che si avvicina, alle mie spalle.
Mi volto.
Sta arrivando un camion militare, da cui si levano selve di braccia e di mani che stringono le nuove armi lucenti.
«Dove vai?» mi sta gridando una voce, tra quella ressa di corpi e di teste vive e morte che ridono e cantano.
«A Ducale!» gli rispondo, gridando.
Il camion rallenta un po’.
«Ducale è stata espugnata dagli immortali!» mi grida un’altra testa, sporgendosi verso di me. «Adesso non c’è più, non c’è mai stata!»
«Ci sarà» gli rispondo, col cuore in gola.
I soldati sparano in alto con le loro nuove armi, in segno di esultanza, si sente il sibilo dei proiettili genetici penetrare all’incontrario nel cielo.
«Noi andiamo a combattere per la vita e per la morte!» mi grida ancora la prima voce. «Vieni con noi! Salta su!»
Non rispondo più, non riesco a rispondere.
Continuo a camminare da solo, nella nuvola di polvere sollevata dal camion che si allontana.
Ci sono dei cani che abbaiano, da qualche parte.
“Sì, sì, io li conosco questi luoghi!” mi continuo a dire. “Però non li avevo mai visti così, in piena luce. Devo averli attraversati di notte, quando erano tutti bui e spenti, le case e le cascine sprofondate nel sonno, di uomini, di bestie calde, nella loro nuvola di vapore, le ragazze addormentate nelle loro stanze buie, nei loro letti, coi loro occhi chiusi, profumati, le loro lunghe ciglia sigillate... Ma questo quando è successo, se la vita è prima, se la vita è dopo? Dove è successo, succederà?”
Sotto di me la terra ha ripreso improvvisamente a tremare.
“Che sisma sarà?” mi domando continuando ad avanzare da solo in questo mondo che devo avere già visto ma che non conosco. “Sarà il sisma di vita e morte che non si ferma mai, anche adesso che il mondo dei vivi è pieno di sempre nuove ondate di tracimati dalla morte che viene, veniva prima, oppure sarà il sisma dell’immortalità?”
Ci sono grandi bestie che vagano sul filo dell’orizzonte che fuma, controluce, mucche che brucano questa poca erba carbonizzata dalle esplosioni, cavalli senza sella su cui corrono cavalieri che innalzano inebriati le loro nuove armi mangiate da questa luce che cancella il mondo.
“E poi, quel giorno...” mi viene in mente all’improvviso, continuando a spostarmi in questo finimondo inclinato, con la mia veste che sventola forte attorno alle mie gambe e alle mie scarpe ricoperte da un velo di polvere “mentre ero sul tetto di quella grotta ricoperto da una cupola di foglie, con il mio pene fasciato che penzolava fuori da un varco dei bottoni slacciati, perché le ferite della circoncisione ancora fresche non sfregassero contro i tessuti duri delle mutande e neppure contro quelli più leggeri della veste, e mi guardavo attorno senza vedere niente, in quel mondo che non sapevo se c’era, se ci sarà, dove non sapevo neppure se c’ero, se ci sarò, ho visto all’improvviso qualcosa galleggiare nell’aria di fronte ai miei occhi che non sapevano neppure se stavano vedendo qualcosa oppure no. Ci ho messo alcuni istanti a capire cos’era, tanto era inaspettata quell’apparizione, in quel momento, in quel mondo. Poi ho improvvisamente capito: era una bolla, una minuscola bolla di sapone che galleggiava, con le sue pareti iridescenti che si deformavano un po’ per l’attrito dell’aria, dello spazio. ‘Da dove verrà questa bolla?’ mi sono chiesto continuando a seguirla con gli occhi mentre saliva e scendeva e poi risaliva di nuovo trasportata da qualche alito di vento che solo lei percepiva. ‘E come avrà fatto a penetrare fin qui, attraverso questa cupola di foglie, per quali varchi, per quali strade?’ Sono rimasto a guardarla per alcuni istanti, senza respirare per l’emozione. Poi, all’improvviso, senza neppure toccare il pavimento, mentre era ancora sospesa di fronte ai miei occhi, è scoppiata. Adesso non c’era più, la sua esplosione non si era sentita, ma a me sembrava che l’intero parco e l’intero mondo fossero deflagrati quando la bolla, dopo avere sostenuto per molto la pressione di tutto lo spazio circostante contro il velo delle sue trasparenti pareti, si era improvvisamente squarciata... Chissà che giorno era, che giorno sarà? Era uno di quei pomeriggi in cui la villa era vuota, il parco era vuoto, mi pare, come se tutti si fossero allontanati perché rimanesse solo quella minuscola bolla che volava iridescente al centro del parco e del mondo, verso di me che stavo invisibile sul tetto della grotta, sotto la cupola delle foglie. Mi sono alzato in piedi, irresistibilmente, ho cominciato a guardare l’aria che avevo intorno, come non l’avevo mai guardata prima, da vicino, da dentro. D’un tratto, mentre continuavo a muovere la testa in quell’aria, e stavo facendo anche alcuni passi verso la scaletta di finta roccia che portava ai piedi della grotta, ho visto un’altra bolla, un po’ più grande, che volava verso di me e che un istante dopo è venuta a sfracellarsi contro il mio volto. Mi sono toccato la guancia, dove palpitava ancora la vibrazione liquida di quell’esplosione. Ho imboccato la scaletta che scendeva curvata, toccando con le dita le pareti della grotta, continuando a guardarmi attorno con la mia testa appena baciata da quell’esplosione. Sono arrivato giù. Mi sono guardato attorno, a filo con il parco vuoto e deserto dal cui muro di cinta entrava una lama inclinata di luce. Non lo so se era per quella luce, ma mi è parso di scorgere delle altre piccole sfere che si spostavano e che pullulavano trasparenti e invisibili nel bagliore, come se stessi vedendo la luce da dentro le molecole della luce. Continuavo a spostarmi lungo il viale che rasentava il muro di cinta, verso la villa, e intanto sentivo che altre bolle stavano silenziosamente esplodendo contro la mia veste e la mia testa e i miei occhi. Guardavo verso il resto del parco, solcato da quegli sciami di bolle iridescenti che galleggiavano sospese nell’aria, nello spazio, esplodendo di tanto in tanto quando attraversavano quella lama di fotoni di luce. ‘Ma da dove verranno?’ mi chiedevo continuando a camminare su quel tappeto di bolle fracassate. ‘Da dove scaturiranno?’ Ho oltrepassato quella figurina femminile di terracotta, e lo zampillo d’acqua che dopo avere attraversato da parte a parte il suo corpo sgorgava dalla sua piccola bocca aperta, sono arrivato contro uno dei muri della villa, l’ho rasentato. Mi sono arrestato per lo stupore: tutto il cortile era pieno di bolle che galleggiavano iridescenti al di sopra della ghiaia che riverberava. Ho ripreso a spostarmi, contro quella corrente aerea di bolle che volavano sempre più fitte in una stessa direzione, come se mi stessi avvicinando sempre più alla loro origine. Si fracassavano contro la mia veste e il mio volto bagnato, mi sfioravano e si deformavano un po’ continuando a volare, e l’intero parco si rifletteva sugli specchi delle loro pareti trasparenti e convesse un istante prima che si dissolvessero nell’aria, nella luce. Tutto il mondo era pieno di esplosioni che nessuno, oltre a me, vedeva e sentiva. ‘Da dove scaturiranno tutte queste bolle?’ mi dicevo continuando a camminare verso l’altro spigolo della villa e verso la casa del custode. ‘Staranno lavando la Pesca e i suoi fratelli con la canna per innaffiare i fiori... ci sarà la Dirce che starà colpendo i loro corpi insaponati con lo spruzzo potente della canna, starà disegnando i loro contorni manovrando la rosa per allargare e per concentrare il getto, e mandare via il sapone fin nelle loro pieghe più profonde e segrete, e allora ci sono certe volte quei batuffoli di schiuma che si staccano dai loro corpi ammassati in un unico blocco e cominciano a volare nell’aria, nello spazio, e quelle bolle che si staccano iridescenti dai loro corpi...’ Ma non c’era nessuno neanche dietro l’altro spigolo della villa, eppure le bolle continuavano a scaturire da quella parte. Venivano dalla porticina della casa del custode, mi sono accorto improvvisamente arrestandomi per lo stupore. Si concentravano per passare attraverso quella strettoia e poi si allargavano e si disperdevano nelle estensioni più vaste del cortile, del parco e del mondo. Mi sono avvicinato alla casa del custode, risalendo all’incontrario quel fiume di bolle appena nato. Ho messo un piede sul primo gradino della scaletta esterna. Ho cominciato a salire, verso la porticina spalancata, tra quelle cannonate di bolle, col volto tutto bombardato e bagnato. Sono arrivato in cima. Ho guardato dentro: c’era la Pesca che stava facendo il bagno in un mastello, al centro della stanza dal pavimento bagnato. Mi sono arrestato per l’enorme emozione. Il corpo della Pesca sporgeva dalla vita in su dall’acqua insaponata su cui galleggiavano blocchi bianchi di schiuma. ‘Che cosa stai facendo?’ le ho chiesto, stupidamente. ‘Mi sto lavando e mi sto profumando per te!’ mi ha risposto sorridendo, dall’acqua. Sono rimasto immobile, muto, sulle gambe che quasi non riuscivano a sostenermi. ‘Mi sto preparando per quando arriverai!’ ha continuato a dire passandosi una spugna insaponata sotto le ascelle e sui seni. ‘E allora io uscirò dall’acqua e allora tu mi abbraccerai e mi coprirai e mi sverginerai.’ ‘Ma io sono già arrivato!’ sono riuscito a dirle, con la voce bassa per l’emozione, in un soffio. Lei mi ha guardato con gli occhi socchiusi, mi ha sorriso. Si è alzata in piedi, improvvisamente, di fronte a me, emergendo dal mastello con tutto il suo giovane corpo insaponato e bagnato. Ha ripreso a lavarsi in piedi, e io scorgevo solo le sue dita che si insaponavano il corpo sessuato con la spugna e poi ci facevano colare sopra l’acqua raccolta con le mani a conchiglia per risciacquarsi, la sua bella testa cotonata e inclinata, le nuvole di bolle che si levavano dalla sua pelle che fumava per il vapore. ‘Ma come fai a far nascere tutte queste bolle?’ le ho chiesto ancora. ‘Così!’ mi ha risposto. Ha messo due dita, il pollice e l’indice, ad anello, le ha strette un po’ di più, fino a formare una sottile fessura, una cruna, le ha immerse nell’acqua insaponata, nella schiuma, ha cominciato a soffiarci dentro, contro quella membrana d’acqua che vibrava, palpitava e si deformava sotto l’urto leggero del suo soffio... Ecco, io vi sto raccontando una cosa che non ho mai raccontato a nessuno. Chissà perché non l’ho mai raccontata a nessuno, non la racconterò? Chissà perché mi è venuta in mente solo adesso, così, all’improvviso, mentre cammino in questo mondo sconvolto dalla guerra tra la vita e la morte e l’immortalità, chissà perché non mi era mai venuta in mente prima, non mi verrà?”
Continuo a camminare, da solo, attraverso queste distese evidenziate e inclinate, verso un punto dello spazio e del tempo e della vita e della morte del mondo dove mi pare ci fosse Ducale, ci sarà.
Sento un fischio, da qualche parte, da lontano.
Sembra il fischio di un treno.
“Non è possibile!” mi passa per la mente. “Adesso i treni non fischiano più. Non sono più come i treni che fischiavano allora, che fischieranno, quando partivano dalle stazioni dalle tettoie nere, ansimando, oppure passavano sotto la mia casa, contro lo specchio del lago che la luce quasi cancellava, e si levavano dalle loro masse lanciate quelle grosse nubi di fumo nero, mentre all’interno della locomotiva c’era un uomo che sbadilava carbone dentro la bocca della sua fornace, e ad affacciarsi ai finestrini ti arrivavano in faccia frammenti neri oppure infuocati che venivano a spegnersi contro il tuo volto e i tuoi occhi...”
Ci deve essere una stazione, da queste parti, perché si sente ancora fischiare forte.
Accelero un po’ il passo, anche se ho già camminato per molto e sono stremato.
Ci sono delle file di tracimati che stanno convergendo da tutte le parti verso un unico punto, sulla linea d’orizzonte della vita e della morte del mondo. Uomini, donne, bambini, a piedi, che trascinano sacchi e valigie nella polvere oppure su veicoli a tre sole ruote, piccoli camion dal muso slittato e dalle ruote fuori asse che ondeggiano a ogni giro, carrette scentrate trascinate da vecchi trattori.
Oltrepasso l’ultima curva.
Sì, c’è proprio una stazione, là in fondo. Si vedono anche da qui molti tracimati in attesa sotto una pensilina nera, con la testa tra le mani, che piangono, forse perché non sono riusciti a salire sul treno appena partito che ho sentito fischiare poco fa, tanto era gremito di grappoli di sfollati che debordavano dalle porte spalancate e assalite e dai finestrini.
Mi sto avvicinando sempre di più a questa stazione isolata, lontana dal paese che si vede fumare sul fondo.
“Ma che stazione è questa” mi dico “che ha ancora quelle pensiline di metallo nere e un po’ arrugginite e quelle sottili colonnine di ferro che la sorreggono, e dove ci passano ancora quei grossi treni neri, a vapore?”
E arriva anche quello scampanellio martellante che si cominciava a sentire nelle piccole stazioni quando stava arrivando un treno, e dovevano abbassare la sbarra del passaggio a livello che c’era poco distante.
Un uomo si sta sbracciando, con la testa spenzolata fuori da una finestra che c’è al primo piano della stazione, sta gridando alla massa dei tracimati in attesa di stare sul marciapiede, di non invadere i binari dove stanno passando i treni, le tradotte.
“Sarà il capostazione...” mi dico “e quella che c’è al primo piano sarà la piccola casa dove ci vive con la sua famiglia, ci vivrà, linda, con le mattonelle dei pavimenti lucide di cera e le lenzuola che pendono dai davanzali per prendere aria, dove mangiano e dormono mentre vicino a loro continuano a passare e a fischiare i treni, di giorno e di notte, nella vita e nella morte, nel buio.”
Il marciapiede è gremito di tracimati, qualcuno si sta spostando di malavoglia dai binari, con le sue valigie, i fagotti. I bambini piangono.
La terra trema, si sente il rumore di un treno che si avvicina.
Si alzano tutti in piedi, gridando.
Il treno irrompe, passa fulmineamente, in una scia di vento, senza fermarsi.
Non era uno di quei treni neri, a vapore, era uno di quei treni aerodinamici e sigillati che ti passano di fronte agli occhi e che non si vedono tanto sfrecciano forte nella vita e nella morte del mondo.
Molti gridano, piangono.
C’è una ragazza con i capelli rossi e uno zaino in spalla, sola, in disparte, che non si guarda attorno, che non grida, non piange.
Sta venendo ancora, da qualche parte, quello scampanellio che annuncia il passaggio di un altro treno.
La folla dei tracimati si lancia ancora verso i binari, gridando.
Il treno arriva.
È un treno a vapore, stavolta. Avanza piano, in una nuvola di fumo, ansimando.
Viene preso d’assalto. Molte mani tirano verso di sé le maniglie delle porte che altre mani stanno cercando di tenere chiuse con tutte le loro forze, da dentro.
Le prime porte si spalancano, molti si stanno già issando sui gradini di legno.
Ci sono grappoli di corpi che si contendono i pochi spazi liberi dei corridoi, che stanno cercando di irrompere dentro i vagoni o che si aggrappano alle maniglie che ci sono all’esterno.
Cerco anch’io di salire, attraverso il muro di corpi, mentre il treno sta già fischiando e le sue ruote e i suoi pistoni si stanno già muovendo.
«Vieni!» grida una voce, alle mie spalle.
Mi volto.
È la ragazza che se ne stava sola, in disparte.
Si sta già infilando nello spazio tra due vagoni, si sta già inerpicando su una scaletta a pioli di ferro che arriva sul tetto.
Comincio a salire anch’io, tenendomi il bordo della veste con una mano perché non si impigli nei pioli dei gradini.
Arriva in cima, si tira su a forza di braccia, e intanto tasta il piano del tetto con una gamba stretta in un paio di jeans sfilacciati, col bordo delle sue scarpe da ginnastica scalcagnate, di diversi numeri più grandi.
Adesso sono anch’io in cima, ci stiamo muovendo tutti e due a quattro zampe sul piano convesso del tetto che comincia a muoversi sotto di noi.
Il treno è partito, si levano dense nuvole scure dal suo fumaiolo.
Abbassiamo la testa, chiudiamo gli occhi, quando ci passano sopra, nere, roventi.
Ci sediamo sul tetto, per riuscire a stare meglio ancorati mentre il treno comincia a correre scuotendosi sempre più forte.
Adesso siamo uno di fronte all’altra, i suoi lunghi capelli rossi sventolano forte attorno alla sua testa e al suo volto, nella corsa, devo stringere un lembo della mia veste, con la mano, perché non faccia vela e non mi trascini.
«Teniamoci stretti!» mi dice la sua voce, mi grida, nel fragore del treno che si scuote sempre di più nella corsa. «Così aumentiamo il nostro peso e non voliamo via!»
Mi mette le braccia attorno alle spalle, anch’io la cingo con le mani e le braccia, sento il profumo dei suoi lunghi capelli che mi frustano il volto, la testa.
«Dove stai andando?» le chiedo, gridando per farmi sentire.
«Da lui» mi risponde.
Si sente un fragore venire dal suo zaino spostato sulle sue spalle dal vento della corsa.
«Che cos’hai in quello zaino?» le grido ancora.
«La mia arma, i caricatori.»
Rimaniamo per un po’ così, stretti, muti, con le teste accostate, incernierati, abbracciati.
Il treno corre sempre più forte, smettiamo di respirare quando ci passano sopra la testa le sue nuvole di fumo, nere, roventi.
«E tu dove vai?» mi chiede anche lei, dopo un po’.
«Dalla mia sposa» le rispondo. «Anche se non so se c’è ancora, se c’è stata, se ci sarà, in qualche punto della vita e della morte del mondo.»
Sento che le sue braccia mi stanno stringendo forte.
«Neanch’io so se lui c’è ancora, se ci sarà» mi risponde, accostando di più la bocca al mio orecchio per farsi sentire senza dover gridare.
Si vedono, di tanto in tanto, delle scintille scaturite dalla fornace e dal fumaiolo e poi trasportate dalle nuvole nere di fumo che ci passano sopra le teste o vengono a spegnersi sui suoi capelli e sulla mia veste.
«Sono dovuta scappare» mi dice, con la bocca contro il mio orecchio. «Sono dovuta scivolare fuori dal letto, al buio, senza farmi sentire...»
«Perché?» le domando, avvicinando la mia bocca al suo orecchio.
«Per raggiungere le linee dei morti e dei vivi e procurarmi anch’io un’arma prima di tornare da lui!»
«Ma perché?» le domando ancora, con la bocca contro il suo piccolo orecchio tenero.
Sento che la sua bocca calda si sta muovendo contro la mia tempia.
«Perché lui è diventato immortale!» sussurra.
La stringo più forte, nel fragore del treno che sta correndo attraverso le macerie di questo mondo cancellato dalla luce e inclinato.
«Ci eravamo abbracciati per tutta la notte, ci eravamo amati...» sta continuando a sussurrare la sua bocca tenera contro la mia tempia e il mio orecchio. «Ma io capivo che qualcosa era cambiato tra noi, che i nostri corpi che si continuavano a cercare e a esplorare non erano più gli stessi, non lo saranno. “Che cosa sta succedendo?” gli ho chiesto mentre gli baciavo tutto il corpo che mi continuava ad amare, e cercavo la sua bocca con la mia bocca. “Che cos’è successo?” Ma lui non mi rispondeva, mi continuava a cercare e a frugare e a baciare in quella stanza buia dalle finestre sbarrate, in quella casa abbandonata dove ci eravamo rifugiati, mentre continuavano a venire da fuori i rumori di questa guerra che sta sconvolgendo la vita e la morte del mondo. Lo accarezzavo, al buio, in questo mondo mai visto prima, e anche lui mi accarezzava, ma mi sembrava che anche le sue carezze non fossero più le stesse. “Che cosa stanno diventando le tue mani?” gli chiedevo, con la bocca contro la sua bocca, nel buio. Ma lui non mi rispondeva. Entrava ancora e ancora dentro il mio corpo, ma non come si entra dentro il buio di un altro corpo nella vita e nella morte del mondo. Mi stringeva forte, mi veniva dentro, più in fondo, sempre più in fondo, ma io non lo sentivo morire dentro di me, non lo sentivo morire dentro la mia vita, non lo sentivo vivere dentro la mia morte. Mi sono fermata, sotto di lui. “Che cosa succede?” gli ho chiesto ancora, col cuore in gola. “Sono immortale” mi ha sussurrato all’improvviso, nel buio.»
La sua voce si ferma, la sua bocca si ferma, contro il mio orecchio.
«Ahi!» si lascia sfuggire un istante dopo, perché una scintilla più grande delle altre è venuta a spegnersi contro il suo volto.
Poi, per un po’, solo il fragore del treno che rotola sulle traversine e sulle rotaie, lontani colpi di cannone che fanno rimbombare il mondo.
Ci abbracciamo più forte, per non venire sbalzati via dal tetto convesso del treno che continua a correre e a traballare, passando senza fermarsi attraverso piccole stazioni abbattute.
«Ho cominciato a piangere, a piangere...» ha ripreso a sussurrare la sua bocca calda contro il mio orecchio. «Tutto il mio volto e il suo volto erano bagnati dalle mie lacrime che sgorgavano da qualche punto profondo del mio corpo e della sua vita e della sua morte. Non riuscivo a fermarmi. Singhiozzavo e piangevo, e intanto sentivo la radice del mio corpo femminile pulsare attorno alla radice del suo corpo maschile che continuava a penetrare e a sprofondare dentro di me per riempirmi, per consolarmi. “Perché piangi?” mi sussurrava, con la bocca contro i miei occhi. “Piango perché non potremo più inventare l’amore” gli ho risposto continuando a piangere e a singhiozzare. “Perché?” mi ha domandato la sua voce, contro la mia bocca bagnata. “Perché non può esserci amore nell’immortalità.” “Perché?” mi ha chiesto ancora, continuando a muovere il suo corpo nel buio, dentro di me. “Perché se c’è l’immortalità non c’è la vita e non c’è la morte, quelle che vengono prima e vengono dopo, e non c’è neanche l’amore, che deve venire prima per venire dopo, che deve venire dopo per venire prima.” “Ma allora che cos’è l’amore?” mi ha chiesto ancora, continuando a spingersi dentro di me. Io piangevo, piangevo, in quella stanza buia, su quel letto caldo e bagnato degli umori dei nostri corpi. Si è fermato per un istante dentro di me, mi ha stretta ancora più forte tra le sue braccia, siamo rimasti ancora per molto così, incernierati. “La vita e la morte sono senza speranza, se non c’è l’immortalità” mi ha sussurrato d’un tratto, con la bocca contro la mia fronte, tra i miei capelli. “La vita e la morte sono senza speranza, se c’è l’immortalità” gli ho risposto sussurrando nel buio, con la testa e la bocca nell’incavo del suo collo e della sua spalla. Poi, per un po’, ci siamo soltanto incernierati, accarezzati, baciati, per l’ultima volta, io nella vita e nella morte e lui nell’immortalità. “Com’è successo?” gli ho domandato alla fine, mentre eravamo coricati una a fianco dell’altro, separati ma ancora abbracciati, stremati. “Sono stato colpito!” mi ha risposto, con la bocca contro la mia tempia. “Quando è successo?” gli ho domandato ancora, e intanto gli accarezzavo il torace e le anche e il suo vello un po’ sollevato sopra il suo osso pubico, e il suo sesso d’uomo ancora bagnato del mio corpo, immortale. “È successo ieri” mi ha risposto dopo un po’, continuando anche lui ad accarezzare con una mano il mio vello di donna ancora fradicio degli umori secreti dal mio corpo e dalla mia vita e dalla mia morte, le mie tette morbide che si cominciavano a espandere al buio dopo essere rimaste a lungo compresse contro il suo torace, sotto il peso del suo corpo immortale, “quando sono uscito di nascosto per cercare qualcosa da mangiare. Un immortale è sbucato da dietro un angolo, all’improvviso, mi ha puntato contro una di quelle nuove armi genetiche, ha sparato... Però non piangere, non piangere, per noi non è cambiato niente!” “E invece è cambiato tutto!” gli ho detto continuando a piangere sconsolatamente, tra le sue braccia. “Possiamo continuare ad amarci così, tu dentro la vita e dentro la morte e io dentro l’immortalità” cercava di consolarmi. “No, non si può!” gli ho detto girandomi verso di lui, per abbracciarlo più stretto, anche con le gambe, nel buio, in quel letto dove stavamo insieme per l’ultima volta, avvinghiati. “E allora, se non si può” mi ha sussurrato dopo un breve silenzio, con la bocca tra i miei capelli, sorridendo come un bambino, nel buio, “sai che cosa facciamo? Io mi faccio dare un’arma dagli immortali e poi ti sparo, così faccio diventare immortale anche te.” “No, no...” gli ho risposto “così potremo amarci meno ancora di adesso!” “Perché?” “Perché adesso non stiamo più dentro lo stesso amore ma almeno possiamo amarci uno da una parte e l’altra dall’altra, mentre da immortali saremo sì dentro lo stesso amore ma non potremo amarci.” Siamo rimasti per un po’ in silenzio, abbracciati. “Oppure, oppure...” mi sono lasciata andare a dire anch’io, all’improvviso, in quel buio dove stavamo rannicchiati insieme per l’ultima volta. “Possiamo fare un’altra cosa: mi faccio dare io una di quelle nuove armi genetiche dei vivi e dei morti e poi sparo io a te, così sarai anche tu come me dentro la vita e dentro la morte e dentro l’amore che viene prima e che viene dopo.” “No, non si può!” mi ha risposto. “Perché?” gli ho chiesto io, questa volta. “Perché sono diventato immortale.” “Sì che si può!” ho insistito. “Basta trovare un’arma!” Ma lui continuava a dire di no, scuotendo tutto il suo corpo nel letto caldo, perché non voleva rinunciare all’immortalità. “E poi si può diventare immortali?” gli ho domandato, nel buio. “Si può solo diventarlo, immortali!” mi ha risposto, mentre mi avvinghiavo per l’ultima volta a lui. “Ma allora che cos’è l’immortalità?” gli ho domandato ancora, con la bocca contro i suoi occhi. “Ma allora che immortalità è, se comincia, se comincerà?”»
Il treno si sta inclinando sempre di più, in una curva, sembra che stia deragliando.
Ci espandiamo un po’, con le gambe, per non scivolare sul tetto convesso, mentre nugoli di scintille incendiate scaturite dal fumaiolo e trasportate dal fumo nero continuano a passare roventi sopra di noi.
«Sono dovuta scappare di nascosto...» ricomincia a dire la sua bocca calda contro il mio orecchio. «Sono dovuta uscire dal letto senza fare rumore, districando il mio corpo nudo dal nostro abbraccio, scivolando piano dalle spire dei nostri corpi, per non svegliarlo, mentre continuava a dormire così profondamente che un filo di saliva gli usciva da un angolo della bocca e bagnava il cuscino. Ho raccolto dal pavimento le sue scarpe, la sua maglietta, i suoi jeans, perché per prendere i miei vestiti avrei dovuto andare nel gabinetto, aprire la porta e fare rumore. Me li sono infilati al buio, ho ficcato i miei piedi nudi nelle sue grandi scarpe, senza allacciarle. Mi sono girata a guardarlo per l’ultima volta, mentre dormiva abbandonato come un bambino immortale, esausto. Sono uscita dalla stanza, ho attraversato senza fare rumore il corridoio buio, mi sono accucciata per allacciarmi le scarpe, molto strette, perché erano di diverse misure più grandi, ho stretto molto anche la cintura dei jeans, per non perderli, ho fatto il risvolto sul fondo, per non calpestarli. Ho aperto la porta, molto piano, sono scivolata fuori, al buio, lungo le scale dalla ringhiera che vibrava un po’. Sono arrivata a pianterreno. Ho aperto piano la porta. Ho messo la testa fuori, per vedere se stavano pattugliando le strade. Ma era tutto deserto, era ancora buio, quel buio che c’è nelle ultime ore della notte e prima della luce dentro il buio dell’alba. Ho cominciato a correre lungo quelle strade vuote, e intanto sentivo che il suo seme stava colando fuori dal mio corpo e mi bagnava il cavallo dei calzoni. “E adesso che cosa succederà?” mi chiedevo continuando a correre per allontanarmi da quelle zone controllate dagli immortali. “Che cosa starà succedendo dentro di me, se lui ha già eiaculato dentro il mio corpo con la sua arma genetica i geni dell’immortalità?” Ho vissuto nascosta per giorni e giorni, ho mangiato gli avanzi ammuffiti che ho trovato qua e là nelle case abbandonate e dalle porte sfondate, ho bevuto l’acqua delle pozzanghere. Finché sono riuscita a sganciarmi dalle zone presidiate dagli immortali. Ho raggiunto i primi avamposti dei vivi e dei morti e dei tracimati, sono corsa verso di loro, mi sono fatta consegnare un’arma, l’ho ficcata dentro lo zaino, e adesso sto andando a cercarlo, per sparargli. E anche lui mi starà cercando, si sarà svegliato di mattina nel letto sconvolto, di soprassalto, e non mi avrà trovata al suo fianco. Sarà balzato in piedi, avrà cercato i suoi vestiti e non li avrà trovati, sarà corso a vedere nelle altre stanze di quella casa deserta, nel gabinetto, avrà spalancato la porta, avrà guardato lungo la tromba delle scale dalla ringhiera un po’ deragliata e dalle lastre dei gradini divelti dalle esplosioni. Avrà raspato negli armadi della casa, nelle cassettiere, in cerca di qualcosa da infilare sul suo corpo nudo prima di correre in strada, e di raggiungere i posti di blocco degli immortali, per farsi consegnare anche lui la sua arma e potermi cercare, potermi sparare. Chissà se ci troveremo, in mezzo a tutti questi fronti che si spostano continuamente e a queste folle di combattenti e di sfollati, tra questi fiumi seminali di vivi e morti e immortali, chissà se ci incontreremo, chissà chi dei due vedrà per primo l’altro e sparerà per primo dentro il corpo dell’altro i geni della vita e della morte o quelli dell’immortalità?»
Il treno corre, lei sta piangendo, perché sento che la mia guancia è tutta bagnata delle sue lacrime, mentre continua a parlare con la bocca calda contro il mio orecchio, con la sua testa contro la mia testa e il mio volto frustati dalla massa morbida e profumata dei suoi capelli.
La mia veste sventola, devo continuamente cercarla con la mano, perché non faccia vela e trascini via i nostri due corpi saldati in un unico blocco.
Poi, all’improvviso, si sente gridare, da qualche parte.
Solleviamo le teste, verso il cielo.
Sotto di noi, dai finestrini spalancati del treno che sta correndo e che sta oscillando come sempre sul punto di deragliare, stanno venendo dei versi concitati, delle grida.
Un istante dopo si sente un rombo venire da lontano, dall’alto.
Ci sono degli aerei luccicanti, nel cielo, che si stanno abbassando sempre più verso la piccola linea serpeggiante del treno che sta correndo all’impazzata in una nuvola di scintille e di fumo.
«Gli immortali!» sta sussurrando lei, con la testa vicino alla mia testa, inorridita e ammaliata.
Adesso sono quasi sopra di noi, stanno volando contro di noi, in direzione opposta, sempre più vicini, più bassi.
Cominciano a mitragliare.
Si sente il fragore dei proiettili che stanno trapanando il tetto del treno.
«Buttati giù!» grido a lei, che non sembra sentirmi.
Si guarda attorno come senza vedere, con la sua testa profumata, i capelli espansi.
Allora la butto giù io, la faccio coricare a faccia in giù sul tetto traballante del treno perforato da una linea di proiettili, mentre gli aerei ci hanno già oltrepassato ma stanno virando per ritornare.
La faccio distendere, e poi mi corico sopra di lei, la copro completamente con il mio corpo.
Gli aerei stanno tornando, sono sempre più vicini, più bassi.
Riprendono a mitragliare.
Si sentono dei fragori venire da dentro il treno, da sotto, di finestrini frantumati, di gente che piange, che grida.
Il tetto del treno si sta accartocciando vicino a noi, sento il suo corpo palpitare sotto di me, che la sto coprendo con il mio corpo e con la mia veste.
Si sente un colpo, un boato.
Tutto il treno si sta inclinando da una parte, come se la massicciata su cui corrono le rotaie fosse stata colpita da una bomba e stesse franando.
Stiamo scivolando giù piano, insieme a tutta la massa nera del treno, verso la linea dell’orizzonte.
Sento che stiamo volando fuori, da qualche parte, che stiamo rovinando su un terreno fortemente inclinato, e che prima sono abbracciato a lei, poi sono solo, come se nei nostri corpi che stavano rotolando abbracciati si fosse prodotto un movimento centrifugo che ci ha scagliati uno da una parte e l’altra dall’altra.
Ci sono degli altri corpi che stanno volando fuori dai finestrini.
Mi guardo attorno, alla base della massicciata dove sono stato scagliato.
Tutto il treno è franato, le rotaie sono state divelte, si vede la locomotiva quasi capovolta, la bocca della sua fornace ancora piena di carbone rosso fosforescente.
La mia testa sanguina, ho le ossa rotte, la veste stracciata.
Lei non c’è più, non la vedo.
Mi allontano di corsa, prima che il treno si capovolga completamente e che rotoli giù dalla massicciata e mi schiacci.
Ci sono molti altri che fuggono da tutte le parti, fuggono e gridano.
Ma lei non c’è.
Mi fermo, la cerco con gli occhi, in mezzo a questa ressa di corpi che fuggono e che mi travolgono.
“Starà correndo con il suo zaino sferragliante...” mi dico fendendo all’incontrario il fiume dei corpi che corre all’impazzata e che grida “lo starà continuando a cercare attraverso la vita e la morte e l’immortalità.”
Gli aerei si stanno abbassando ancora, ricominciano a mitragliare.
Di nuovo grida, di nuovo pianti.
Riprendo a correre anch’io. Mi riparo dietro una pianta. Sento, un istante dopo, lo schianto del legno attraversato dai proiettili genetici che gli immortali stanno sparando dal cielo.
Sono ancora immobile, con la schiena incollata alla pianta crivellata e piena di schegge di legno acuminate, vedo con gli occhi sbarrati le file dei proiettili che stanno sollevando spruzzi di terra lungo la linea dell’orizzonte inclinato.
Stacco la schiena dalla pianta, ricomincio a correre, adesso che gli aerei si stanno allontanando, non so se per andarsene verso altri fronti o se per virare e poi ritornare.
Molti corpi si stanno levando da terra, dove si erano buttati coprendosi istintivamente la testa con le braccia, ricominciano a correre all’impazzata, trascinando valigie sbudellate, bambini, non si capisce se si sono salvati o se invece sono stati colpiti, perché i proiettili genetici degli immortali non ti fanno tracimare dentro la morte che viene prima e che viene dopo ma dentro l’immortalità.
“E io?” mi domando riprendendo a correre verso una linea di terra soprelevata che da lontano mi sembra un argine. “Mi sono salvato o sono stato colpito? Che sia stato colpito anch’io, mentre stavo con la schiena incollata a quella pianta e sentivo il fragore di quei proiettili che perforavano in un istante tutta la massa del legno alle mie spalle? Ma, se sono stato colpito, adesso che cosa sono? Che sia diventato immortale? Si riesce a capire quando si viene colpiti da uno di quei proiettili che innestano nel tuo patrimonio genetico la mutazione dell’immortalità? Si riesce a capire subito se si è diventati immortali o non lo si avverte? Non c’è soluzione di continuità o c’è invece un inconcepibile strappo tra la morte e la vita e l’immortalità?”
Il rombo degli aerei si sta allontanando, mi pare, non si vedono più le loro sagome luccicanti nel cielo.
La mia veste sventola forte, mentre corro su questo piano di terra che si sta sollevando sempre di più, e non so dove sono, chi sono, non so neppure se sono dentro la vita e la morte o se sono invece dentro l’immortalità.
C’è uno strano odore, come di gomma bruciata, nell’aria, nello spazio.
“Saranno state quelle esplosioni...” mi dico continuando a correre su questo piano di terra che sale “saranno le imbottiture dei sedili del treno che si stanno accartocciando e che stanno bruciando...”
Eppure è un odore che mi sembra di avere già sentito, che sentirò.
“Sì, sì, c’era quella fabbrica dove rigeneravano vecchi copertoni di macchine, camion, trattori...” mi viene in mente all’improvviso “e c’era sempre quell’inconfondibile odore di bruciato che stagnava nell’aria e che si sentiva anche da lontano, dall’altra parte del fiume, persino dalla villa, dal parco...”
Il cuore mi sta battendo più forte.
“Ma allora dove sono, dove sarò?”
Mi inerpico ancora per qualche passo, afferrandomi con le mani al terreno.
Adesso sono in cima.
Mi arresto all’istante, per non precipitare.
Sotto di me, la massa plumbea e turbinosa di un fiume, piena di mulinelli neri, di gorghi.
“Ma io l’ho già visto questo fiume!” mi dico senza fiatare.