27

Ducale

“E c’è ancora il vecchio ponte di ferro della ferrovia che lo attraversava...” mi continuo a dire, a precipizio su questa impenetrabile massa liquida che rovina “sospeso su quest’ansa dove l’acqua correva più forte per il dislivello e formava quasi una piccola cascata... e c’erano tutti quei mulinelli che ti ghermivano i piedi e le gambe e che ti trascinavano giù, verso il fondo, quei gorghi neri dove non si vedeva niente e si poteva solo scendere al buio verso chissà dove, ci sono ancora, che io ho già visto, ma li ho già visti da più vicino, mi pare, da dentro, li vedrò... Ma allora sono a Ducale!”

Tiro indietro la testa, mi stacco dal ciglio del fiume che continua a precipitare sotto di me.

Faccio qualche passo lungo la linea dell’argine, un po’ piegato per il vento, verso l’imbocco del ponte di ferro che porta dall’altra parte.

Metto un piede sulla prima traversina, chiudo per un istante gli occhi.

Li riapro: di fronte a me c’è solo questo cunicolo nero sospeso sopra l’abisso.

Faccio il primo passo, poso l’altro piede sulla traversina che viene dopo, oscillando.

Comincio a camminare piano dentro questa gabbia nera, cercando di non guardare in giù, nei varchi tra una traversina e l’altra.

“Sì, sì...” mi viene in mente all’improvviso, mentre continuo ad avanzare oscillando su questo abisso “io l’ho già visto questo fiume, ci sono già stato dentro, ho già nuotato nelle sue vorticose acque seminali... Sì, sì, ma quando è stato, quando sarà?”

Com’è lunga questa strada sospesa di fronte a me, dove devo stare attento a non mettere un piede tra una traversina e l’altra per non precipitare, dove devo guardare e non devo nello stesso tempo guardare!

“Sì, io ho nuotato nelle sue acque seminali, io sono stato trascinato dai suoi flutti e dai suoi gorghi improvvisi... Ma quando è stato? È stato prima o è stato dopo, sarà? È stato da morto o è stato da vivo, da vivo prima o da vivo dopo?”

Mi arresto, con la gamba ancora sollevata, col cuore in gola, perché ho capito che stavo mettendo un piede nel vuoto.

Rimango in bilico per un istante così, prima di centrare di nuovo la traversina successiva con il piede che trema, da lontano.

“Quando è successo la prima volta?” mi continuo a dire. “È successo quando ero morto o quando ero vivo? È successo quando ero morto prima o quando ero vivo dopo? Quando è successo, quando succederà? È successo quando nuotavo prima dentro quel fiume di gameti o quando nuotavo dopo dentro queste acque che adesso scorgo appena dall’alto come sul fondo di un abisso? Allora ero piccolo, sarò, avrò avuto dieci o undici anni, forse anche meno. Era un pomeriggio d’estate, mi pare. Ero uscito dalla villa con i fratelli della Pesca. Volevamo attraversare il fiume a nuoto, nel punto dov’era più turbinoso e profondo, sotto il ponte della ferrovia. La Pesca, anche lei bambina, ci aveva guardati uscire dal portone a volta, ferma di fronte alla legnaia dove c’era un coniglio appena scuoiato crocefisso contro la porta, con il suo corpicino spellato e i suoi stivaletti di pelliccia, aveva guardato soprattutto me, con i suoi occhi che non si capiva mai dove stavano guardando, con disperazione infantile, mi era parso, come se mi stesse vedendo per l’ultima volta. Eravamo usciti anche dal secondo cortile, e poi avevamo percorso la strada del paese, deserta a quell’ora per il caldo. Eravamo arrivati al fiume. Avevamo scavalcato il muretto, e poi cercato un punto dove poter scendere. Quando siamo arrivati giù, ho visto di fronte a me l’acqua gonfia e convessa del fiume che rovinava. Sembrava nera. Ci avete mai fatto caso? Più la luce è forte e più l’acqua è nera. Era così compatta che sembrava non si potesse penetrare dentro quel bolide che si spostava come un unico blocco liquido dentro la sua curvatura. Eppure ho chiuso gli occhi e, non so come, ci sono entrato, mi ci sono buttato dentro, con le gambe, le braccia, tuffandomi dalla riva col mio corpo di bambino, dopo essermi tolto i vestiti, con le mie mutande di due misure più grandi, dall’elastico allentato. Un secondo dopo ho sentito che l’acqua mi trascinava come un fuscello verso il centro turbinoso del fiume. I fratelli della Pesca non c’erano più, non li vedevo. Non capivo neanche se si erano gettati nel fiume o se erano ancora a riva. Cercavo di opporre resistenza, di nuotare, con le mie braccia magre e le gambe, per arrivare dall’altra parte della riva che slittava sempre più di fronte ai miei occhi, si allontanava. Invece la corrente mi trascinava e il mio corpo non riusciva a spostare neanche di poco la mia rotta. Passavo sopra vortici duri, mulinelli che mi ghermivano all’improvviso le gambe, dovevo sbattere e inarcare tutto il corpo per uscirne fuori con la testa, le braccia... Come sono neri, quei gorghi, a vederli da dentro! Chissà perché si formano, chissà dove portano?”

Mi blocco ancora, tastando con il piede alla cieca in cerca dell’altra traversina, per non guardare giù e per non vedermi là sotto mentre sto annegando in fondo all’abisso, annegherò.

“Poi il mio ricordo si interrompe, o meglio c’è un punto in cui non so che cos’è successo, so solo che riprendo a ricordare da quando sono uscito dall’altra parte, in una zona del fiume molto lontana da quella dove mi ero gettato. Ma come ho fatto a uscire dall’altra parte, mi domando adesso, se ricordo che per ritornare alla villa abbiamo invece ripercorso la stessa identica strada da cui eravamo venuti, dalla stessa parte del fiume, io e i fratelli della Pesca, loro non so se nudi o vestiti, io con le sole mutande gocciolanti, di due misure più grandi? Perché il mio ricordo si interrompe? È perché riprendo a ricordare da prima o perché riprendo a ricordare da dopo, da dopo che fosse prima o da prima che fosse dopo? Riprendo a ricordare – se poi è un ricordo – che camminavo attraverso la strada del paese, con i piedi nudi sopra l’asfalto, in mutande, tremando per il freddo anche se c’era caldo, dopo essere stato in quella turbinosa acqua gelida e nera che correva così forte che quasi mi stritolava, e che poi ero arrivato di fronte al portone esterno, e che avevo attraversato il primo cortile posando i piedi nudi sopra la ghiaia, e che poi ero passato sotto il portone a volta e che ero entrato nel cortile della villa rasentando il muro delle scuderie, con il mio corpo nudo, con le mie mutande fradice che gocciolavano, e che poi avevo attraversato in diagonale il cortile, sotto gli occhi della Pesca che mi guardava, mi guardava... Perché mi guardava così? E da dove mi guardava, mi poteva guardare? Perché non riesco a ricordare da dove mi poteva guardare, mi guarderà? Dalla bifora della piccionaia? Ma allora mi avrebbe guardato da dietro, mentre io invece mi ricordo che vedevo di fronte a me il suo volto che mi guardava! Da una delle finestre della villa? Ma lei di solito non entrava dentro la villa! Da dietro i vetri della serra, oppure da una delle finestre della sua casa, quella del custode, oppure da qualche punto del cortile, dalla casetta dei fagiani, dalla voliera? Non me lo ricordo, ricordo solo che mi guardava in silenzio, assorta, con gli occhi socchiusi come se piangesse cercando di non farlo vedere, mentre io continuavo a camminare con il mio corpo magro e le mie mutande fradice, tremando un po’ a ogni passo. Perché mi guardava così? Perché piangeva, se piangeva?”

Il mio corpo vacilla, perché ho messo male un piede sopra una traversina.

Allargo istintivamente le braccia, per mantenere l’equilibrio.

Resto immobile così, per un po’, come paralizzato, al centro di questo ponte di ferro che non sembra finire.

Respiro forte, perché mi è parso per un istante di essere stato sul punto di precipitare.

Cerco di muovere un altro passo, disincagliando la gamba da questa morsa che mi tiene inchiodato, perché può sempre apparire un treno che corre all’impazzata verso di me, e che poi mi passa sopra e che poi mi oltrepassa continuando a correre fino al punto in cui le rotaie sono divelte e la massicciata è franata.

“Perché la Pesca mi guardava così?” mi continuo a dire, riprendendo a camminare un po’ irrigidito per il terrore. “Forse perché ero morto? Che sia morto allora, nel fiume? Che sia successo proprio allora, in quel punto dove non ricordo niente? Che io sia morto lì? E quando poi riprendo a ricordare ricordo quello che è successo dopo che sono morto? Che sia questo il ricordo? È così che si ricorda? Ci si ricorda quello che è successo prima o quello che è successo dopo, quello che succederà? È per questo che io, fino a poco fa, non ricordavo niente e adesso invece comincio a poco a poco a ricordare quello che sono, che sono stato, sarò? Ma poi chi sono, chi sono stato, sarò? E che cosa ricordo, che cosa ricorderò? Chi sono io che mi ricordo prima quello che è successo dopo, succederà? Chi ero io, che in seminario mi guardavo da un altro corpo come se stessi guardando me stesso? Chi era lui, che mi guardava da un altro corpo come se stesse guardando se stesso? Ero io che mi guardavo o era lui che si guardava, si guarderà? Forse io sono morto allora, in quel fiume, e non investito da una macchina mentre succhiavo un tronchetto di liquirizia e fantasticavo, e non su quel sentiero di montagna dove mi è scoppiato improvvisamente il cuore, non mentre scendevo quella interminabile scala nel quartier generale dei morti, non quando diventava tutto buio di fronte ai miei occhi, non spiaccicato contro quel muro che c’era dietro quella curva, non buttato giù da quel precipizio buio da quei finanzieri, non quando sono arrivato in quel luogo che percepivo come una grande sede deserta... Forse sono morto dentro quei gorghi duri e neri che portano chissà dove e poi sono ritornato, da morto, da tracimato dentro la morte che viene prima, nella villa, e la Pesca mi guardava e piangeva. Ma perché piangeva, perché piangerà?”

Adesso sono più vicino alla fine del ponte, mi pare, continuo a camminare e a tremare su queste traversine che stanno tremando anche loro un po’, forse perché sto tremando io, così forte che sto comunicando il mio tremito a tutta questa enorme gabbia di ferro sospesa sopra l’abisso, o forse perché sta arrivando un treno, dall’altra parte, forse per questo sisma di vita e morte e di immortalità della vita dentro la morte e della morte dentro la vita che ogni tanto riprende a far tremare ogni cosa, ed è forse per questo che si formano quei mulinelli improvvisi e quei gorghi neri, nei fiumi seminali che scorrono nei continenti dei vivi e in quelli dei morti, per le voragini telluriche che si aprono di colpo sotto i loro letti e che trascinano le loro dense acque in certi punti infinitamente profondi dentro la vita e dentro la morte del mondo.

“E allora è forse per questo, perché sono tracimato dentro la morte allora, dentro questo fiume che adesso sta scorrendo là in fondo mentre ci annego dentro, ci annegherò, che non riesco a cancellarmi dalla mente l’immagine della Pesca china sopra di me, durante una notte in cui mi pareva di essere privo di conoscenza e tra la vita e la morte, ma forse ero invece tutto dentro la morte, quella che veniva prima e veniva dopo, e scorgevo da là dentro, sopra di me, il volto infantile della Pesca che mi vegliava dopo avere lavato e composto il mio corpo, che mi passava una pezzolina bianca e bagnata sulla fronte e che mi accarezzava e piangeva, come se avessi la febbre alta e stessi delirando, anche se nessun altro, oltre a me, se ne ricorda, anche se tutti quelli a cui ho provato a chiederlo mi hanno risposto che non è mai successo, tutti quelli che si sono trovati vicino a me nella vita che viene dopo e che viene prima, anche la mia povera madre folle. ‘Che cosa è successo, quella notte?’ le chiedevo, le chiederò. ‘Quale notte?’ ‘Ma quando sono stato tra la vita e la morte o forse ero tutto dentro la morte, e mi ricordo che ero disteso nella penombra su un piccolo letto bagnato, nella serra, e che qualcuno aveva mandato a chiamare un medico che era arrivato dall’altro cortile con la sua borsa degli attrezzi e mi aveva visitato sollevando da una parte e dall’altra il mio corpo nudo e morto, per auscultarmi... Ma che cosa auscultava, se ero morto? Che cosa mi era successo? Avevo preso il tetano tagliandomi con una latta arrugginita, nel parco? Mi ero annegato nel fiume che attraversa Ducale?‘ ‘Ma no, no! Quando, quando?’ mi diceva lei, ma intanto girava la testa e arrossiva, come se mi stesse nascondendo qualcosa di enorme. ‘Non è mai successo, non succederà!’ E io invece lo so che è successo, che succederà. Io invece vedo ancora, io invece continuo a vedere il volto infantile della Pesca sopra di me, nella serra in penombra, i suoi occhi socchiusi che mi guardano attraverso le sue lunghe ciglia infantili tutte bagnate di lacrime. E io invece continuo a sentire le sue lacrime che cadono sulla mia fronte morta e sui miei occhi chiusi che continuano a vederla sopra di sé... Ma perché nella serra? Non c’erano letti, nella serra! C’era solo qualche sdraia, quella teca di vetro con dentro il fagiano dorato, l’airone cinerino e il tucano imbalsamati, con i loro occhi di vetro sbarrati. Perché non mi avevano composto in una delle stanze del primo piano della villa, nella mia camera, nel mio letto? Come avevano fatto a portare un letto nella serra? Lo avranno portato giù attraverso quella ripida scala, sollevato da una parte e dall’altra, inclinato, da dove avevano portato giù lo Ziò aggrappato all’incontrario alla sua poltroncina di vimini. Ma chi lo avrà portato giù? E perché lo avranno portato giù, nella serra? Eppure io ero proprio là, nella serra, perché scorgevo vicino a me il bagliore dei suoi vetri su cui si rifletteva una piccola luce, nel buio, e c’era il volto della Pesca chino sopra la mia testa tracimata dentro la morte, e io, anche se ero morto, lo vedevo, lo vedrò, mentre mi vegliava e mi accarezzava e piangeva, e intanto, anche se ero morto, mi domandavo: ‘E adesso che cosa non succederà?’.”

Continuo ad avanzare sulle traversine, oscillando.

Ancora qualche passo e sono dall’altra parte del ponte, del fiume, del mondo.

Ecco, adesso ho messo il primo piede sull’ultima traversina sospesa, sulla prima poggiata sopra la terraferma.

Avanzo ancora, continuando a camminare sopra le traversine anche se ormai potrei scendere, e camminare a fianco delle rotaie, rasentando la sbarra del passaggio a livello che c’è subito dopo, fino alla piccola stazione di Ducale che si indovina là in fondo.

Faccio gli ultimi passi.

Adesso sono di fronte alla stazione.

La sto guardando, immobile, con gli occhi sbarrati.

Ma non c’è più quella ringhierina di cemento, non c’è più quella piccola sala d’aspetto con le panche di legno, non c’è più quella piccola costruzione un po’ staccata, con i gabinetti, non c’è più quello spiazzo dove accatastavano le gabbie dei colombi viaggiatori prima di caricarli sul treno, non c’è più quella fontanella da cui sgorgava uno spruzzo d’acqua che finiva a parabola dentro il tuo corpo, se ti ci accostavi spalancando la bocca e chiudendo gli occhi, e quella gabbiola piena di lucine che si accendevano e si spegnevano, dove entrava solo il capostazione con il suo cappello rosso, e quel cancelletto di ferro che cigolava un po’ quando si chiudeva e si apriva...

Adesso non c’è più niente, solo vetri rotti, mattoni spezzati, calcinacci, macerie, travi spezzate che sporgono dal tetto franato, il piccolo edificio della stazione sbriciolato.

«Hanno bombardato!» mi dico.

Scavalco il cumulo di macerie che ostruisce il cancello, imbocco la piccola strada che da una parte porta alla strada più grande che costeggia il fiume, dall’altra ai lontani frutteti che certi pomeriggi raggiungevo in bicicletta, da solo, uscendo senza farmi vedere dalla villa.

Arrivo alla strada più grande. L’asfalto è smosso, la spalletta del fiume è sfondata.

Non c’è nessuno, sto camminando in un mondo bombardato e vuoto, e da una parte c’è il fiume con le sue acque seminali compatte e dense sagomate come una muscolatura nera, dall’altra tutto un fronte di case crivellate, dai tetti franati, dalle finestre esplose.

Anche il ponte è spezzato, si vede il suo moncherino penzolare nel vuoto, sui piloni semiaffondati.

“E non ci sono più quei due o tre negozietti che c’erano di fronte al ponte...” mi dico continuando a camminare in questa devastazione “il tabaccaio dove andavo a prendere di nascosto due o tre sigarette sfuse, quando ero ancora un bambino, che lui tirava fuori da un pacchetto di Alfa aperto con l’unghia e metteva in una bustina di carta che scricchiolava... quelle due vecchie caramellaie gemelle che spuntavano da dietro un banco di vetro pieno di caramelline divise per colori, con le loro due teste sorridenti, bianche e ben pettinate, le labbra avvizzite intensamente colorate con il rossetto...”

Svolto all’angolo. Mi affaccio alla piccola piazza.

Non c’è più niente, le case sono sprofondate e slittate. Solo cumuli di macerie dentate, pezzi di muri scagliati.

Mi arresto, impietrito.

Mi guardo attorno, in questo varco di mondo bombardato dagli immortali.

Il mio cuore sta martellando forte, non respiro.

“La giostrina!” mi dico improvvisamente, perché ho appena scorto, inclinata e schiacciata sotto un muro crollato, quella piccola giostra che arrivava certe volte da chissà dove, di domenica, e si fermava in mezzo alla piazza, e tutte le ragazze e i ragazzi di Ducale in preda alla giovinezza si stringevano attorno aspettando il loro turno per salire, e intanto si guardavano e si sorridevano da una parte e dall’altra di quello stesso cerchio che ruotava, i ragazzi con i vestiti della festa e freschi di barbiere, le ragazze con i capelli appena cotonati e con quei loro golfini che si impennavano in certi punti dei loro morbidi corpi, nella musica a tutto volume che inebriava, anche se era una giostrina per bambini, ma lì arrivava solo quella, solo una volta all’anno ne arrivava anche un’altra più grande, un calcinculo, e allora si vedevano quelle corolle di gambe nude e di braccia che ruotavano nell’aria lanciando grida... E mi fermavo anch’io certe volte, attorno a questa giostrina, e guardavo con emozione le ragazze di Ducale che ridevano aspettando il loro turno per salire, e io le guardavo e le contemplavo da dentro la mia infinita solitudine di tracimato nella vita che viene, che veniva dopo, mentre ridevano con le loro bocche umide di saliva lucente e i loro denti bianchi che scintillavano, e poi le vedevo continuare a ridere mentre cercavano di infilare i loro sederi appena sviluppati nei piccoli varchi delle macchinine, sui camion dei pompieri, sui cavalli a dondolo, sulle astronavi, e c’era anche quella ragazza che lavorava in una fabbrica di lampadine e che si era tagliata quattro dita sotto una trancia, c’era anche lei, ben vestita, truccata come una donna, con gli orecchini, che rideva con la sua bella bocca e col suo bel volto appena plasmato, e che poi continuava a ridere mentre faceva il gesto di girare da una parte e dall’altra il piccolo volante di una macchinina con quanto restava della sua bella mano dalle dita tagliate... E certe volte c’era anche la Pesca attorno a questa giostrina, mi sembra di ricordare, e io ero da una parte e lei era dall’altra parte di quella stessa circonferenza musicale che vorticava, e lei non alzava gli occhi verso di me che la guardavo in mezzo a tutti quegli altri volti trasfigurati, come se non sapesse che c’ero anch’io anche se lo sapeva, come se non mi vedesse anche se mi vedeva mentre la guardavo e mentre contemplavo il suo volto trasfigurato sotto la nuvola dei capelli appena cotonati vicino alla casetta dei fagiani, e non faceva un gesto, non si muoveva, stava immobile e con gli occhi abbassati in mezzo alle altre ragazze che ridevano a piena bocca e lanciavano piccole grida per farsi notare tra le altre in mezzo a quella palpitante corolla di giovani corpi e di vite, aspettava che io andassi verso di lei camminando lungo quella circonferenza che vorticava, e che la scegliessi in mezzo a tutte le altre e che la invitassi e che la eleggessi, e che le prendessi una mano per farla salire su una di quelle macchinine a due posti, e allora io sentivo le ossa delle sue anche ricoperte di morbida carne premere contro le mie in quello stretto abitacolo che ruotava attorno al proprio asse, nel mondo... Non mi ricordo se c’era anche quella notte, questa giostrina, se c’era o se non c’era, ma forse non c’era, quando sono uscito dalla villa con la Pesca, uscirò, e siamo arrivati fino alla spalletta del fiume, e siamo rimasti per un po’ così, immobili, muti, sopra la massa impenetrabile e buia dell’acqua che rovinava, con i suoi mulinelli improvvisi e i suoi gorghi neri dove ero forse annegato, annegherò, nella vita o nella morte che vengono prima e che vengono dopo, e arrivavano da qualche parte, da dietro una delle anse lontane del fiume, i suoni di qualche orchestrina che stava suonando chissà dove nella notte estiva, mentre molti giovani corpi stavano ruotando nella vita e nella morte del mondo, abbracciati, e poi, mentre tornavamo verso la villa, le avevo preso irresistibilmente la mano, all’improvviso, continuavamo a camminare sulla ghiaia fremente del cortile, contro le ombre triangolari proiettate da uno spigolo della villa, e io intanto mi domandavo, mi domanderò: ‘Che sia questa la giovinezza, che sia questo l’amore? Che sia questa vicinanza a qualcosa di buio che non si vede?’.“

Faccio ancora qualche passo attraverso la piazza demolita.

Anche la chiesa è franata. Il campanile non c’è più, penzola verso il basso, spezzato. Le campane sono rotolate giù, nella piazza.

Esito un istante, prima di imboccare la via che portava alla villa, per paura di vedere di fronte a me solo cumuli di macerie e case bombardate e sfondate.

Poi mi muovo.

Faccio qualche passo in avanti, alzo finalmente gli occhi.

L’asfalto è sollevato in più punti e sbriciolato, segno che ci sono passati sopra con i carri armati.

Non riconosco niente.

Ci sono continui varchi tra ciò che resta delle case colpite.

“Chissà se ci sarà ancora il parco, la villa?” mi domando continuando ad avanzare in questo mondo profanato e inventato. “Chissà se ci sarà ancora la Pesca? Chissà se sarà rimasta almeno lei ad aspettarmi?”

Come sono diverse le strade, quando non ci sono più! Come sono diverse le case, quando non ci sono più, non ci sono ancora, non ci saranno!

Ci sono spigoli di tetti ancora in piedi, sospesi su edifici per metà crollati, interni di case messi allo scoperto, finestre e porte scagliate.

Non dovrei essere molto lontano dal portone esterno, se questa strada fosse ancora una strada, se questo mondo fosse ancora il mondo.

Cammino, continuo a camminare su questi resti di case che si frantumano sotto i miei passi, e c’è tutt’intorno così tanta luce che non si vede niente.

“Dove sei? Dove sei?” mi comincio a dire mentre mi avvicino sempre più a dove dovrebbe esserci la villa. “Ci sei ancora? Ci sarai? Sarai ancora là ad aspettarmi, da sola, in ciò che resta della villa bombardata dagli immortali, o ci saranno invece solo stanze sventrate, soffitti collassati, finestre e bifore frantumate, scuderie franate, cunicoli stritolati e risagomati, gabbie e voliere sfondate da cui gli uccelli sono volati via attraverso questo cielo sconvolto dalle bombe genetiche degli immortali?”

Adesso sono fermo di fronte a un cunicolo.

Ma non è un cunicolo, deve essere l’ingresso esterno, che è rimasto in piedi mentre tutto il resto della casa che dava sulla strada è crollato.

Lo imbocco, con gli occhi sbarrati, senza respirare, faccio qualche passo verso quello che era il cortile esterno.

Deve esserci caduta sopra una bomba, perché sto camminando ai bordi di un cratere pieno di detriti che mi sembra stia ancora fumando, a meno che non sia la luce che riverbera sul cono della ghiaia inghiottita.

Alzo gli occhi, nella luce, nel buio.

L’ingresso della villa è ancora in piedi, mentre tutte le case che si affacciavano sul cortile esterno non ci sono più, sono state polverizzate.

Ho di fronte a me il suo portone a volta, lo stemma con quella fiera rampante che continua a digrignare i denti nel sonno.

Lo varco.

I miei passi rimbombano sotto la volta.

Vedo in un solo istante tutta l’estensione muta della villa e del parco bombardati.

La ghiaia è fosforescente, la villa è per metà in piedi e per metà crollata, i vetri della serra sono frantumati.

Anche la casa del custode è sfondata, le finestre del primo piano sono volate via trascinando con sé pezzi di muro, non c’è quasi più il tetto, la scaletta esterna è slittata su se stessa, non va più a finire esattamente contro il varco della porta esplosa.

Il piccolo cortile col tavolino di cemento, che c’era tra la casa del custode e la villa, è un cratere.

Una parte della legnaia è in piedi, l’altra non c’è più. Le scuderie ci sono ancora, mi pare, ma la piccionaia si è accartocciata, la colonnina della bifora è volata giù, si è conficcata in un punto lontano del cortile.

La casetta dei fagiani è stata sollevata da terra ed è ricaduta giù capovolta. La voliera è vuota, squarciata, anche le altre gabbie dei fagiani lungo il viale che porta all’altro portone sono divelte e vuote.

Mi guardo attorno, senza riuscire a muovere un passo.

“Non c’è più niente...” mi dico ruotando gli occhi su questa devastazione.

Anche il parco è stato bombardato, ci sono alberi spezzati da cui si levano lunghe schegge, oppure spaccati in due, in verticale.

Provo a fare qualche passo verso la villa. Mi affaccio alla serra, camminando sui vetri rotti.

Un istante dopo mi fermo, impietrito.

È tutta piena di corone di fiori, di bare.

Alcune sono ancora intatte, altre sono rotolate giù dai loro cavalletti e sono senza coperchi, con le imbottiture sbudellate.

Giro istintivamente gli occhi verso un altro punto della serra.

La teca c’è ancora, però è sfondata, e ci sono ancora, con le loro testoline piumate ricoperte di frammenti di vetro, il fagiano dorato, l’airone cinerino e il tucano imbalsamati che si stanno guardando attorno senza battere ciglio, con i loro occhi vitrei.

Li guardo per un po’, sbalordito, impietrito.

“Ma che cosa ci fanno qui tutte queste corone, queste bare?” mi chiedo quando riesco di nuovo a muovere qualche passo nella serra, e poi nella saletta che c’è subito dopo, ancora intatta, con quei divanetti e quelle poltroncine rigide e quel tavolo rotondo di marmo nel mezzo, e poi nella cucina del pianterreno, sventrata, da cui si vedono la casa del custode e cumuli di macerie, e poi nella piccola camera da pranzo che c’è dall’altra parte, dalle pareti gonfie e piene di crepe, dove abbiamo mangiato quel giorno con lo Ziò e il padre priore, quando è venuto a Ducale, verrà, e con il Nervo in tuta da motociclista che continuava a riempirgli il bicchierino di acquavite, fino all’orlo...

Mi affaccio alla scala che porta al primo piano.

È ancora intatta, però non si capisce cosa c’è alla fine, se c’è ancora la porta della mia stanza, se ci sono ancora le altre stanze, quella dello Ziò, quella di Turchina, la camera da pranzo con quel tavolo a cui spuntavano le ali quando arrivavano nuovi invitati, le altre stanze che c’erano al primo piano, piene di ospiti che venivano da chissà dove e si fermavano anche per molto nella villa, che giravano con un bicchiere d’acqua in mano prima di coricarsi per la notte, che guardavano seduti dietro le finestre la Dirce che lavava i figli nudi con la canna sulla ghiaia accecante del cortile, come affacciati ai piccoli palchi di un teatro, le signore con i ventagli, che si fermavano attorno alla massa in fiamme con quei loro leggeri abiti estivi crivellati dalle scintille...

Mi giro di nuovo, sbalordito, verso la serra piena di vetri rotti, di corone di fiori e di bare.

Esco di nuovo nel cortile, faccio ancora qualche passo sulla ghiaia fosforescente, trascinata e ammucchiata qua e là dopo essere stata sollevata nell’aria dalle esplosioni.

Attraverso il cortile, passo di fianco a ciò che resta del muretto dove correvano tutti quegli insetti neri e rossi che chiamavano carabinieri.

Attraverso l’orto, sbudellato e pieno di radici fuori di terra e rovesciate.

La massa delle immondizie c’è ancora, ma è vuota, il suo fondo concavo è carbonizzato.

Anche le bestie sono scappate, non c’è più nessuno di tutti quegli animali che vivevano nel parco, i colombi viaggiatori, le galline, le faraone, i conigli, gli anatroccoli che camminavano in fila, dinoccolati, gli uccelli nelle gabbie e nelle voliere, i gatti che si gettavano con i loro musi digrignanti nella massa delle immondizie incendiate, per estrarre dal fuoco quelle viscere di pollo già per metà bruciate, e che poi fuggivano trascinandole srotolate attraverso il parco, e poi le mangiavano ancora in fiamme nel folto dell’albero delle budelle, e si vedevano muoversi nell’intrico dei suoi rami anche quegli altri rami molli che risalivano sempre più fino a scomparire e a spegnersi dentro le loro bocche e le loro gole fumanti...

Imbocco il vialetto che costeggia il muro di cinta, rasento la ghiacciaia merlata, che è ancora in piedi, pericolante e scentrata.

Continuo a camminare lungo il muro di cinta. Si distingue ancora, anche se molto scolorito, il cielo che ci è stato affrescato sopra, su cui si staglia una cancellata dipinta. Anche il muro di cinta è stato colpito in più punti, è franato, si vede ciò che resta delle case che ci sono dall’altra parte della strada che fiancheggia il parco, e poi, girato l’angolo, anche le case matte con i loro tetti ricoperti di boschi devastati dai bombardamenti e spezzati.

Ci sono qua e là porzioni di muro di cinta scagliate, si scorgono ancora sui loro intonaci frammenti di cielo affrescato, sparpagliati qua e là attraverso il parco.

La montagnola c’è ancora, ma la vasca al centro, tutta piena di acqua nera e pezzi di legno marcio e di rane, è coperta di terra piovuta dall’alto per le esplosioni, e anche il ponticello di ferro non è più al suo posto, è stato scagliato sulla cima di una pianta dai grandi rami spezzati.

“E qui c’era stata una festa, quel giorno...” mi passa per la mente mentre continuo a camminare attraverso ciò che resta del parco “e io ero appena arrivato a Ducale a cavallo della motocicletta del Nervo, con la mia veste, e c’erano tutte quelle valigette giradischi qua e là, collegate alla presa della luce che c’era nella serra da tutti quei fili e quelle prolunghe che Bortolana srotolava attraverso il parco, e c’erano tutti quei ballerini che cambiavano passo di danza entrando in zone musicali differenti, e a un certo punto la Pesca era apparsa all’improvviso di fronte a me, davanti all’imboccatura buia della grotta, e mi aveva invitato a ballare, mi inviterà, aveva intrecciato le sue piccole dita alle mie, e il suo corpo aveva cominciato a muoversi vicino al mio corpo, e ruotavamo insieme dentro la grotta, io con la mia veste che svolazzava e mandava un rumore forte come un panno fradicio d’acqua fatto sventolare, lei col suo vestito così leggero, che sembrava pelle d’uovo, e io lo sfioravo di tanto in tanto con le dita, col palmo della mano... ‘È di organza!’ mi aveva detto sorridendo, mi dirà, mentre, dopo averlo attraversato da parte a parte, uscivamo dal cunicolo della grotta, e sul giradischi il disco si era fermato, con uno scatto, e la musica si era improvvisamente fermata, e molte altre coppie si erano arrestate di colpo, come pupazzi a molla. E anche la Pesca stava immobile e come inanimata di fronte a me, e io avevo già staccato le mani dal suo corpo, e vedevo sulle sue braccia i segni lasciati dalla pressione delle mie dita, anche se non mi sembrava di avergliele strette così forte mentre ruotavamo dentro la grotta...”

La grotta non c’è più, è franata, si vedono tutt’intorno i pezzi di finta roccia delle panchine divelte che c’erano sul suo tetto, dei suoi gradini.

L’albero borchiato è stato colpito da una bomba e adesso è precipitato attraverso il viale che costeggia il muro di cinta abbattuto. Si vedono sporgere dalla sua corteccia un gran numero di bossoli di rame, scuri, quasi neri, ossidati.

Passo di fianco alla statuina di terracotta, che è ancora in piedi sul suo piedistallo, però la testa della donnina non c’è più, e l’acqua sgorga ancora, ma non più dalla sua piccola bocca aperta ma direttamente dal suo collo spezzato.

Continuo a camminare verso ciò che resta della villa, verso la finestra della mia stanza al primo piano, dai vetri esplosi, spostando con i piedi macerie di muro di cinta abbattuto e frammenti di cielo precipitati.

Poi, all’improvviso, in questa immensa desolazione, mi sembra di percepire la presenza invisibile di qualcosa che si sta impalpabilmente muovendo vicino a me attraverso l’aria, lo spazio.

“Che cosa sarà?” mi chiedo, col cuore in gola.

Chiudo gli occhi, smetto di respirare.

Qualcosa deve avermi sfiorato le palpebre abbassate, le ciglia.

Riapro gli occhi.

Il mondo c’è ancora, il parco c’è ancora, però c’è anche qualcosa che prima non c’era.

È una bolla di sapone che sta galleggiando nell’aria, di fronte ai miei occhi spalancati.

Però è rossa, questa volta, sarà.

La guardo, la guardo, mentre si allontana in questo assoluto silenzio.

Un secondo dopo non c’è più, è esplosa senza fare rumore nell’aria, nello spazio.

Mi giro di nuovo verso lo spigolo della villa. Riprendo a camminare, oscillando un po’ per l’enorme emozione.

Stanno venendo avanti nell’aria altre due bolle, mi pare, una grande, che vola un po’ deformata nell’attrito, l’altra piccola, una perfetta piccola sfera.

“Ma sono rosse anche queste!”

Vedo per un istante, sulla curvatura di quella più grande che passa di fronte ai miei occhi e subito dopo esplode, l’immagine rossa e concava dell’intero parco bombardato.

Il viale da un certo punto in poi non c’è più, i torciglioni d’erba che delimitavano i suoi bordi sono stati sradicati e capovolti dalle esplosioni.

Ci sono altre bolle che stanno volando nell’aria, sempre più numerose man mano che mi avvicino allo spigolo della villa, al cortile.

Ci cammino in mezzo, senza fiatare.

Adesso sto camminando dentro uno sciame di bolle, la mia testa si sta spostando attraverso queste superfici trasparenti che esplodono senza fare rumore nell’aria o che si fracassano in silenzio contro il mio volto.

“Ma perché sono tutte rosse?” mi continuo a domandare, girando all’angolo tutto inclinato della villa. “Che bolle sono queste? Da dove verranno?”

Sono nel cortile, sto camminando davanti alla serra dai vetri sfondati, che scricchiolano e si frantumano sotto i miei passi. Tutta l’aria è solcata da queste sfere trasparenti e rosse sempre più numerose e più fitte, così fitte che ce ne sono a volte anche due che si attaccano l’una all’altra nella ressa, e che continuano a spostarsi incollate come un’unica bolla che palpita su due sfere.

Vengono dalla casa del custode, mi pare.

Ma come si fa ad arrivarci, visto che la scaletta esterna è slittata, non va più a combaciare con il varco della porta sfondata?

Il mio corpo trema un po’, mentre continua a camminare verso la casa, fendendo all’incontrario questo fiume di bolle piccole e grandi che si dissolvono fracassandosi contro il mio volto.

Metto il piede sul primo gradino, comincio a salire piano, sulla scaletta disancorata.

Sta oscillando sotto i miei passi, si sposta, come una scala gettata sopra un abisso.

Sono in cima. Dal varco della porta sfondata stanno uscendo cannonate di bolle liquide e rosse.

Faccio un piccolo salto in avanti, per raggiungere il varco della porta non più combaciante, sperando che la spinta del mio piede non faccia precipitare la scaletta all’indietro, alle mie spalle.

La cucina è mezza franata, il tavolo ha le gambe spezzate sotto il peso di calcinacci e mattoni.

Mi guardo attorno, sul piano della porta che si muove sotto di me, sbalordito, perché c’è una ragazza che si sta lavando in un mastello di legno pieno d’acqua rossa fumante e di schiuma, in mezzo a tutta questa devastazione.

«E tu chi sei?» provo a dire, con la gola chiusa per l’emozione.

«Non mi riconosci più? Sono la Pesca, sarò!» mi risponde la ragazza, con la testa e le spalle che escono dalla superficie rossa dell’acqua.

Ha le mani insaponate e piene di schiuma, sta facendo scaturire un nugolo di bolle dalla cruna di due dita accostate.

Si alza improvvisamente in piedi, per farsi vedere e riconoscere, con un rumore di risucchio d’acqua che si riversa verso il centro per riempire il vuoto lasciato dal suo corpo, tenendosi con le mani bagnate ai bordi del mastello per non scivolare sul suo fondo.

Ho di fronte a me il suo giovane corpo nudo emerso dall’acqua rossa.

«Perché l’acqua è così rossa?» provo a chiederle ancora, con la gola chiusa, in un soffio.

Non mi risponde, sorride, con la sua bella testa dalla nuvola dei capelli allentati dal vapore e bagnati.

“Chissà come avrà fatto a scaldare l’acqua?” mi chiedo confusamente, mi pare. “L’avrà fatta scaldare in quel pentolone che vedo luccicare là in fondo, su quel fornello da cui uscirà ancora un filo di gas, dal tubicino schiacciato in qualche punto del muro crollato ma che non sarà stato del tutto tranciato...”

La guardo, adesso la vedo, immobile, in piedi, di fronte a me, con i miei occhi velati.

Le sue cosce e le sue gambe lucide sono rigate di sangue, che sta sgorgando dall’interno del suo corpo e che ha riempito e colorato di rosso tutta l’acqua insaponata che c’è nel mastello e anche le bolle che si continuano a levare dalla sua schiuma.

«Sei stata violentata dagli immortali?» riesco a chiederle ancora, col cuore in gola.

Mi guarda, mi continua a guardare, con i suoi occhi dalle lunghe ciglia abbassate e bagnate.

«No, sono stata sverginata da te» mi risponde sorridendo.

«Com’è possibile? Io sono arrivato adesso!»

«Ma come! Non ti ricordi?»